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30/09/2018

Guerrevisioni - Tendenze iconoclastiche, visioni aumentate, combat video, cinema e videogiochi

di Gioacchino Toni

«Le immagini sono parte integrante del modo di conduzione dei conflitti e non possono essere semplicemente liquidate come vaghe apparenze o come simulacri del reale» (Maurizio Guerri)

Nel volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018), diversi studiosi si confrontano con alcuni importanti interrogativi a proposito del rapporto tra immagini e conflitti bellici. «Qual è il nostro sguardo sulle guerre nell’epoca della manipolazione domestica delle immagini, della produzione e della condivisione “democratica” dei video via YouTube, della diffusione “virale” delle notizie (o delle fake-news) sui social network? In che modo la modificazione quantitativa e qualitativa dei media ha mutato il nostro modo di guardare gli eventi bellici, rispetto anche solo ad alcuni decenni fa? Che cosa vediamo e che cosa non siamo più in grado di vedere delle guerre contemporanee?» (p. 9).

Il libro analizza il rapporto immagine/guerra nella contemporaneità tenendo ben presente che se quest’epoca da un lato offre inedite modalità comunicative e di produzione diffusa e decentrata delle immagini, dall’altro si caratterizza per una concentrazione monopolistica senza precedenti dei flussi di informazione sia nel web che nelle modalità più tradizionali.

Il corposo volume risulta suddiviso in tre parti: nella prima si ragiona sull’utilità delle immagini dei conflitti mondiali nella comprensione delle attuali guerre; nella seconda si indagano le modalità con cui le arti possono oggi testimoniare gli eventi bellici; nell’ultima parte si analizzano i conflitti contemporanei che si danno grazie alle immagini. Facendo riferimento proprio a quest’ultima sezione del libro intitolata Pensare le guerre con gli occhi (e con le loro protesi), in questo scritto ci soffermeremo sui contributi di Mauro Carbone e Ruggero Eugeni che si occupano rispettivamente della paradossale piega iconoclasta che sembra attraversare una contemporaneità che si vuole votata al visivo come non mai, il primo, e delle relazioni tra usi bellici e usi mediali dei dispositivi di visione notturna, il secondo.

Mauro Carbone, nel suo “L’uomo che cade. L’inizio di una controtendenza iconoclastica nella svolta iconica?”, torna, dopo essersene occupato nel libro Essere morti insieme. L’evento dell’11 settembre 2001 (Bollati Boringhieri, 2007), a riflettere su come le immagini televisive dell’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001, in particolare quelle relative alle persone lanciatesi nel vuoto per sfuggire alle fiamme, dopo essersi impresse nella memoria collettiva a livello planetario grazie ai media, siano immediatamente divenute oggetto di una vera e propria strategia di rimozione. Ad essere in gioco, sostiene lo studioso, sono la memoria e l’oblio collettivi di un evento che ha aperto il nuovo millennio nonché inaugurato quella che W.J.T. Mitchell (Cloning Terror. La guerra delle immagini dall’11 settembre a oggi, La casa Usher, 2012) ha definito l’attuale “guerra delle immagini”.

Alle immagini è spettato un ruolo fondamentale nella percezione collettiva della tragedia dell’11 settembre: non fosse stato per esse, quella delle Twin Towers sarebbe stata una tragedia simile a tante altre e ciò, sostiene Carbone, dovrebbe «aiutarci a considerare sino in fondo l’intrinseca portata politica del nostro rapporto estetico-sensibile col mondo, con cui quello con le immagini fa evidentemente tutt’uno» (p. 305). Secondo l’autore il sistema mediatico si è preoccupato di an-estetizzare il trauma dell’11 settembre 2001 attraverso l’incessante ripetizione dello stesso, ricorrendo alla riproduzione della medesima sequenza televisiva che mostra un aereo che attraversa lo schermo fino a schiantarsi contro una delle due torri provocando un’esplosione spettacolare. Lo studioso riprende a tal proposito ciò che ha scritto Allen Feldman nel suo “Ground Zero Point One: on the Cinematics of History” (2002): “Era come se al pubblico fosse stata data una terapia temporale facendolo testimone, più e più volte, di una sequenza meccanica di eventi che restaurava la linearità del tempo sospesa con gli attentati”. Carbone individua in tale an-estetizzante ripetizione ossessiva della medesima sequenza una certa convergenza e complementarietà con la strategia di rimozione delle immagini degli individui lanciatisi nel vuoto ed è proprio proprio sul rilievo assunto da tali immagini «nel progetto di costruzione di una certa memoria collettiva dell’11 settembre» (p. 306) che riflette in questo scritto.

La strategia di rimozione delle immagini dei cosiddetti jumpers lanciati nel vuoto prende il via sin dal giorno successivo ai fatti, quando un’ondata di proteste, in particolare negli Stati Uniti, colpisce i quotidiani accusati di sciacallaggio per aver pubblicato soprattutto la fotografia che mostra un uomo, divenuto noto come Falling Man, in una caduta verticale incredibilmente composta con la testa in giù, le braccia lungo i fianchi e una gamba piegata in linea con le geometrie del palazzo. Da allora questa fotografia, ben riuscita dal punto di vista formale, non è più stata pubblicata negli Stati Uniti nonostante possieda una carica attrattiva che l’accomuna all’immagine dell’aereo che impatta con una delle due torri. La straniante perfezione dell’immagine del Falling Man «riesce tanto a sospendere il tempo – proprio come abbiamo sentito Feldman dire che gli attentati hanno fatto – quanto a capovolgere lo spazio. Al punto da spingere a chiedersi se la foto sia stata bandita malgrado le sue qualità formali oppure proprio per queste. Dubbio legittimo, che rivela come la bellezza, anziché mitigare, possa acuire l’atrocità di un’immagine. Dubbio che comunque non deve far dimenticare una ben più generale verità: la documentazione visiva sui cosiddetti jumpers, nel suo complesso, ha avuto una sorte analoga a quella della foto di Falling Man, specie negli Stati Uniti» (p. 307).

Secondo Carbone anche se la strategia di rimozione sembrerebbe derivare da una questione di privacy da rispettare, in realtà già nel corso del primo anniversario della strage sono state soggette ad aspre critiche, dunque rimosse, alcune opere d’arte evocanti i tragici eventi pur senza fare alcun riferimento a individui specifici violandone la privacy. Il risultato è che negli Stati Uniti si è smesso di mostrare e di parlare di quegli individui gettatisi nel vuoto. «Ecco allora che la memoria del “giorno più fotografato e più videoregistrato della storia mondiale” si confessa abitata da una paradossale volontà iconoclastica, che segnerà ambiguamente anche molti altri combattimenti della “guerra delle immagini” esplosa quel giorno» (pp. 308-310).

Volontà iconoclastica che, secondo lo studioso, ritroviamo anche nell’attentato del 2015 alla sede del giornale satirico francese «Charlie Hebdo», definito da «Le Monde» “L’11 settembre francese”. Nel presentarsi come una rappresaglia per la pubblicazione di alcune caricature di Maometto, il gesto palesa la volontà iconoclastica degli attentatori. «Né questa volontà risulta di per sé contraddetta dall’enorme impatto, non solo emotivo ma anche politico, esercitato nel settembre dello stesso anno dalla fotografia del corpo annegato del piccolo migrante siriano Aylan Kurdi sulla spiaggia turca di Bodrum: un impatto che, proprio per la valenza politica assunta, da più parti si cercò di contrastare bollando quella foto come manipolata. E gli esempi di tale volontà iconoclastica – rintracciabile, pur con ovvie e significative differenze, in schieramenti culturali, ideologici e mediatici dichiaratamente opposti – potrebbero continuare» (p. 310).

Nella parte finale dell’intervento, l’autore prende in considerazione la conclusione del romanzo di Jonathan Safran Foer Molto forte, incredibilmente vicino (Guanda, 2005) in cui un bambino decide di invertire la sequenza delle immagini di un altro falling man e con essa degli eventi, immaginando il padre che dal suolo, salendo con l’ascensore, finisce col raggiungerlo nell’appartamento. «In questo testo e nella sequenza rovesciata d’immagini che l’accompagna sembra agire appunto una precessione reciproca del tragico reale e dell’immaginario infantile, i quali non cessano di rinviare l’uno all’altro pur rimanendo disperatamente divergenti come solo possono esserlo il trauma e l’inconsolabile desiderio di cancellarlo. Emozione contrastata. Emozione dalla cui violenza è impossibile difendersi. Diversamente dal sublime kantiano, lo spettatore non riesce più a distinguersi dal naufrago. Così, se Kant può immaginare il sublime come “l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta”, un testimone dell’11 settembre non ha potuto fare a meno di modificare implicitamente quell’immagine scrivendo: “il dolore che avvolge queste colonne è inimmaginabile e continuiamo a fissarlo come travolti da un mare in tempesta”. Non c’è possibile “distanza di sicurezza” dal naufragio. E tanto peggio per noi se speriamo di poterla creare alzando muri. Perché tale naufragio non si limita a essere “incredibilmente vicino”, come annunciava il titolo del romanzo di Foer, ma è piuttosto il nostro stesso naufragio. Per questo si rivela abitato da quella che prima chiamavo “strategia di rimozione”. Anche per questo una guerra alle immagini percorre l’attuale guerra delle immagini» (p. 317).

Ruggero Eugeni, nello scritto “Le negoziazioni del visibile. Visioni aumentate tra guerra, media e tecnologia”, prende in esame alcune tecnologie di assistenza-potenziamento della visione umana in condizioni di scarsa visibilità, riflettendo soprattutto sulle relazioni tra usi bellici e usi mediali dei dispositivi di visione notturna. Dopo aver tratteggiato lo sviluppo di alcune tecnologie visive – image intensification, active illumination, thermal imaging – dapprima in ambito militare e, successivamente, civile, lo studioso analizza alcuni combat video sottolineando come le modalità con cui sono stati montati e la diffusione in internet tendano a trasformarli da materiale di documentazione in propaganda. In molti di questi video esiste un «legame metonimico fortemente esibito tra appropriazione visiva e appropriazione fisica del territorio» (p. 326). Non a caso, continua Eugeni, la conquista dei differenti spazi, nel corso delle operazioni belliche riprese, viene da un lato esaltata dalla natura “embedded” della videocamera (al contempo testimone impersonale e parte integrante del movimento di conquista) e dall’altro resa possibile e visibile dal ricorso a dispositivi di visione notturna, «atto di vittoria preventiva sulle “tenebre” del male che circondano i corpi dei soldati e minaccerebbero altrimenti di inghiottirli» (p. 326). I combat video sono spesso girati in prima persona secondo modalità stilistiche molto simili a quelle che si ritrovano nei videogiochi del genere first person shooters di guerra; è evidente come videogiochi e combat video si rimandino a vicenda.

Nei videogiochi di ambientazione bellica più avanzati si ha una «sovrapposizione metonimica tra superiorità visiva garantita dalle tecnologie di visione notturna, e superiorità tattica espressa in atti di conquista e di “bonifica” del territorio mediante un sistematico sterminio dei nemici impossibilitati ad agire nel buio» (p. 328). Vi sono però altri due elementi importanti messi in luce dall’autore: «la struttura del videogioco in prima persona non solo esprime la conquista visuale, sensomotoria e militare di un territorio, ma permette al giocatore di viverlo direttamente grazie a una esperienza di simulazione incorporata. In secondo luogo, nei paratesti che hanno accompagnato il lancio del gioco la superiorità tecnologica e militare della visione notturna viene fatta rimare metaforicamente con la superiorità tecnologica del videogioco stesso (e quindi, ancora metonimicamente, con la fluidità dell’esperienza di gioco e il relativo piacere), la cui costruzione assume tutti i connotati di una delle operazioni belliche che vengono epicamente narrate» (p. 328).

In questi casi di combattimento al buio registrati attraverso sensori notturni (gli stessi videogiochi simulano tale modalità), lo spettatore viene calato nella medesima situazione di “vantaggio scopico” di cui si avvalgono i combattenti “armati di visori”. «La rilevanza di questo fatto per quanto concerne l’esperienza spettatoriale emerge chiaramente se analizziamo al contrario casi in cui allo spettatore viene negata, almeno a tratti, questa condizione» (p. 329). A tal proposito il saggio porta come esempio la sequenza finale del film Zero Dark Thirty (2012) di Kathryn Bigelow in cui si mostra l’assalto notturno al rifugio in cui è nascosto Osama Bin Laden realizzata montando in alternanza immagini a luce naturale scarsamente visibili e immagini realizzate con visori notturni. Tale alternanza risponderebbe «a una precisa strategia espressiva ed emotiva: nel momento di massima tensione, lo spettatore viene calato in una situazione alternativamente di sollecitazione e deprivazione visuale e sensomotoria. Per un verso la presenza intermittente delle immagini girate coi sensori stimolano il suo coinvolgimento nell’azione secondo un modello di simulazione incorporata [...] per altro verso l’irrompere e il prorompere dell’oscurità lo risospingono in una condizione di spaesamento e deprivazione: essi innescano dunque un disperato bisogno di informazione percettiva indispensabile per portare a temine i processi di simulazione incorporata dell’azione precedentemente innescati» (pp. 332-333).

Un effetto visivo analogo lo si ritrova in Flames of War. Fighting Just Begun (settembre 2014), un video di propaganda realizzato e diffuso dall’Isis. «Anche qui le immagini, girate da una helmet cam, sono spesso quasi indistinguibili o completamente buie. Di tanto in tanto tuttavia alcune riprese con sensori notturni mostrano immagini di soldati siriani morti, abbattimento di porte, scene di combattimento, ecc. con assolvenze e dissolvenze al nero a far sì che la piena visibilità della scena sia costantemente compromessa» (p. 333). Non è difficile, continua Eugeni, cogliere la volontà da parte dell’Isis di fare il verso alle sequenze finali del film della Bigelow: «la conquista della base di Raqqa diviene nella retorica del video l'eroica “risposta” dei mujahidin di Daesh alla uccisione del leader di Al Quaeda – o per meglio dire: il racconto visuale dell’una diviene la risposta al racconto visuale dell’altra» (p 334).

Nella parte finale del saggio vengono ricostruite le analisi relative alle relazioni tra guerra, media e tecnologie del visibile prodotte da autori come Paul Virilio, Friedrich Kittler e Jean Baudrillard, mettendo però in luce come tale dibattito necessiti di essere aggiornato alla luce dell’uso e degli effetti della visione aumentata dai dispositivi visivi contemporanei.

Se Paul Virilio tende, sin dalla metà degli anni Ottanta, a porre l’accento sull’assorbimento di tecnologie mediali da parte dell’industria militare, indicando in particolare il ricorso nelle guerre novecentesche a tecniche cinematografiche, lo studioso tedesco Friedrich Kittler sostituisce alla “logistica della percezione” di cui parla il francese, una “logistica dell’informazione” e sostiene invece che sono le esigenze belliche a determinare lo sviluppo e la logica dei media.

La questione posta da Virilio circa la progressiva “smaterializzazione” della guerra, la si ritrova per certi versi anche in Jean Baudrillard che da parte sua «sviluppa una teoria dei media basata sull’idea di una loro autoreferenzialità e della cancellazione del loro referente “reale”. Il motto mcluhaniano “il medium è il messaggio” va reinterpretato secondo Baudrillard: i media hanno prodotto una implosione del sistema di distinzione tra la realtà e la sua rappresentazione mediata, e hanno dato luogo a un sistema di simulazione e di iperrealtà diffuse» (pp. 337-338). Mettendo a confronto i due studiosi Eugeni nota che se Virilio «prende in esame tecnologie di svolgimento del combattimento e sottolinea l’importanza crescente del momento scopico di sorveglianza rispetto a quello pratico del combattimento, Baudrillard dal suo canto si focalizza sulle strategie di rappresentazione mediale (soprattutto televisiva) della guerra e sottolinea la sua derealizzazione» (p. 338). Entrambi insistono comunque sul processo di smaterializzazione subito dalla guerra nel momento che questa ha iniziato la sua «interazione con tecnologie visuali sia panottiche che rappresentative: le tecnologie visuali per i due studiosi sottraggono il soggetto da un confronto diretto e pratico con il mondo isolandolo in una dimensione di sguardo distante, simulacrale o impersonale che sia» (pp. 338-339).

Secondo Eugeni, se a proposito delle modalità di relazione tra i media e gli apparati bellici, Virilio e Kittler hanno il merito di aver posto in evidenza una presenza “extramediale” dei media stessi, «il limite del dibattito su media e guerra risiede [nel fatto] di opporre semplicemente tecnologie del visibile mediali e belliche per studiare le forme di scambio e di influenza delle une sulle altre e/o viceversa» mentre, continua lo studioso, in una condizione postmediale pienamente intesa occorrerebbe «radicalizzare questo modello e pensare piuttosto i differenti dispositivi di visual data setting come capaci di lavorare contemporaneamente all’interno di differenti e numerose cornici e pratiche sociali: non solo l’ambito dei media in senso stretto e non solo la ricerca e le applicazioni belliche, dunque, ma anche la sorveglianza, l’astronomia, i trasporti, la produzione industriale, la meteorologia e così via» (p. 340).

Per quanto riguarda invece la questione della smaterializzazione e della virtualizzazione della guerra derivate dall’utilizzo di tecnologie visuali, nonostante il merito di aver sottolineato il ruolo dei media «in una condizione postmediale all’interno dei fenomeni geopolitici contemporanei», le analisi di Virilio e Baudrillard, sostiene Eugeni, non possono essere condivise in quanto «il caso dei sistemi di visione notturna e aumentata dimostrano chiaramente che le tecnologie visuali si pongono al servizio di una relazione situata e incarnata del soggetto con il mondo: esse sono finalizzate ad accrescere la sua “consapevolezza situazionale” al fine di una gestione ottimale del suo agire. Non si assiste dunque ad una assolutizzazione autoreferenziale del visibile, quanto piuttosto a una negoziazione dei suoi limiti rispetto all’invisibile» (p. 341).

Fonte

Alternanza scuola-lavoro e cultura d’impresa

Il problema non è che gli studenti del Classico vadano a fare i gommisti e quelli del Tecnico si ritrovino a fare fotocopie. L’alternanza scuola-lavoro, resa obbligatoria per tutti gli istituti Superiori dalla legge 107, meglio nota come Buona Scuola, è il dispositivo centrale di un’operazione propagandistica: la disoccupazione giovanile nascerebbe da un disallineamento tra le competenze dei diplomati e le richieste del mondo del lavoro. Spariti d’incanto decenni di ristrutturazione selvaggia dei processi produttivi e dell’organizzazione del lavoro su scala internazionale, la responsabilità delle difficoltà occupazionali delle giovani generazioni viene attribuita ad una presunta inadeguatezza della scuola. Agli studenti e alle loro famiglie si fornisce da un lato l’illusione che qualche settimana in azienda faciliterà, poi, l’inserimento lavorativo, dall’altro la percezione che le materie oggetto di studio sono lontane dalla realtà e non sono realmente importanti per la vita. Intanto, la scuola pubblica, divenuta fornitrice di mano d’opera a costo zero, è sottoposta ad una vera invasione di campo da ditte, terzo settore, banche, assicurazioni, studi professionistici, che propongono agli studenti “pacchetti formativi”, talora persino a pagamento. Sfatiamo un luogo comune: non esiste una buona alternanza, perché non è emendabile un dispositivo strategico di adattamento sociale e di stravolgimento delle finalità educative. E’ necessario chiedere alle forze politiche una moratoria nell’applicazione dell’alternanza, dispositivo che compromette gravemente la dignità e lo spessore culturale del percorso educativo, la libertà di insegnamento, la necessaria indipendenza della scuola dalle pressioni del mercato.

Nell’ambito del processo di aziendalizzazione che, da almeno due decenni, investe il sistema della pubblica istruzione l’alternanza scuola-lavoro, resa obbligatoria per tutti gli istituti Superiori dalla legge 107, meglio nota come buona scuola, rappresenta uno snodo cruciale, sia per le sue implicazioni -pratiche e teoriche- sia per il suo carattere strategico.

L’alternanza è esemplare di come la quantità possa trasformarsi in qualità, fino a caratterizzare una nuova impostazione scolastica. La riforma renziana, infatti, non ha inventato gli stages in azienda, già da tempo praticati in totale autonomia da molti istituti tecnici e professionali, ma ne ha sancito l’obbligatorietà, li ha estesi ad ogni tipo di scuola di secondo grado ed ha aumentato massicciamente il numero di ore (200 per il triennio dei Licei, 400 per quello dei Tecnici).

Già il nome attribuito al progetto è significativo: istituendo una relazione dicotomica tra i due ambiti, si nega che lo studio sia un lavoro che, come tale, necessita di un tirocinio psico-fisico, oltre che intellettuale e si esprime una concezione piuttosto primitiva, per la quale il lavoro è solo quello manuale o, comunque, quello espletato in azienda. Dietro tanta approssimazione e semplificazione si cela, in realtà, una profonda svalorizzazione dei contenuti culturali ed etici che dovrebbero trovare nella scuola il loro terreno privilegiato.

L’alternanza è paradigmatica di una scuola progettata per il mercato: da un lato tende a spostare il baricentro della formazione dalla scuola - ritenuta obsoleta, perché nel nostro Paese è ancora legata alla trasmissione e rielaborazione di un patrimonio culturale - all’impresa, dall’altro svolge un ruolo di adattamento sociale non trascurabile, considerate le dinamiche lavorative del nuovo millennio.

Il suo presupposto si basa su una colossale mistificazione che una martellante campagna mediatica ha cercato di trasformare in evidenza: la disoccupazione giovanile nascerebbe da un disallineamento tra le competenze dei diplomati e le richieste del mondo del lavoro. Spariti d’incanto decenni di ristrutturazione selvaggia dei processi produttivi e dell’organizzazione del lavoro su scala internazionale, taciuta vergognosamente la complicità di una classe politica attenta solo a recepire le richieste dei mercati ed incapace di progettare politiche economiche di ampio respiro, la responsabilità delle difficoltà occupazionali delle giovani generazioni viene attribuita ad una presunta inadeguatezza della scuola, chiamata, quindi, a colmare questo ritardo attraverso la didattica delle competenze e la collaborazione con le imprese. Dovendo dare, naturalmente, a questo assioma una parvenza di scientifica oggettività, il testo della “buona scuola“ porta a sostegno i dati emersi da un’inchiesta McKynsey 2014, secondo cui il 40% della disoccupazione giovanile avrebbe carattere non congiunturale, ma strutturale e nascerebbe dallo scarto”  tra la domanda di competenze che il mondo esterno chiede alla scuola di sviluppare e ciò che la nostra scuola effettivamente offre”. (http://labuonascuola.gov.it/documenti,p.106) Tutta la costruzione regge, insomma, su una sola fonte e sul metodo della decontestualizzazione dei dati rilevati, assunti come significativi in sé ed inappellabili e non ricondotti ad uno scenario economico ed occupazionale di ben diversa complessità e rispondente ad una ben precisa ratio.

Riduzionismo informativo e demagogia si mescolano per mettere a segno due obiettivi: assolvere le classi dirigenti dalle gravissime responsabilità nel campo delle politiche del lavoro e sociali e, contemporaneamente, attaccare la scuola pubblica e portarne avanti la progressiva destrutturazione.

L’alternanza diventa il dispositivo centrale di un’operazione demagogica e propagandistica indirizzata agli studenti e alle loro famiglie, ai quali si fornisce da un lato l’illusione che qualche settimana in azienda faciliterà, poi, l’inserimento lavorativo, dall’altro la percezione che le materie oggetto di studio sono lontane dalla realtà e non sono realmente importanti per la vita. Non solo: si dà corpo ad una concezione della scuola come luogo di formazione della futura manodopera che contrasta radicalmente con il portato di una lunga ed elaborata tradizione pedagogica per la quale la scuola è, innanzitutto, luogo di formazione della personalità umana, della coscienza civile, dell’educazione della ragione e dei sentimenti, attraverso la trasmissione (che è anche rielaborazione) delle conoscenze.

Operazione demagogica, perché gli ideatori della buona scuola sono i primi a sbandierare con compiacimento la rapidità dei mutamenti dell’assetto produttivo e lavorativo della cosiddetta “società della conoscenza” e, quindi, sono perfettamente consapevoli dell’inutilità pratica dell’alternanza ai fini dello sviluppo di competenze immediatamente spendibili sul mercato del lavoro e che, nel giro di poco tempo, rischiano di divenire obsolete. La finalità perseguita è un’altra: l’elaborazione di uno strumento efficace per aprire la scuola pubblica ad una vera invasione di campo da parte di enti esterni: ditte, terzo settore, banche, assicurazioni, studi professionistici, compagnie navali che propongono agli studenti “pacchetti formativi”, talora persino a pagamento. La scuola è stata trasformata in un mercato appetibile che fornisce mano d’opera a costo zero e consente l’attivazione di convenzioni di tipo privatistico.

L’alternanza diventa, pertanto, il fulcro del processo di aziendalizzazione che sta snaturando in profondità la scuola, così come ogni ambito della vita pubblica, a partire dalla politica. Ben lontano dall’essere un parto naturale dei riformatori nostrani, trova il suo humus nelle “raccomandazioni” espresse in sede europea sul finire del secolo precedente. In particolare, il Libro bianco del 1995 del Commissario europeo con delega alla formazione e cultura Edith Cresson invita a stabilire nuovi ponti tra scuola e impresa, cui si conferiscono le credenziali di luogo formativo con correlate agevolazioni fiscali. Non solo: questo documento prospetta la possibilità di sostituire in futuro il titolo di studio, troppo rigido, con “una tessera personale delle competenze” sulla quale verrebbero registrate di volta in volta le acquisizioni del titolare, in modo da consentire al datore di lavoro una rapida valutazione delle qualifiche dell’aspirante lavoratore in ogni momento della sua vita. (www.mydf.it/DOC_IRASE/librobianco_Cresson.pdf, pp.10,11).

La certificazione delle competenze sarebbe demandata in buona parte alle imprese; in questo contesto la scuola sembra avviarsi a divenire un’agenzia formativa tra le altre, conformemente al nuovo scenario dell’apprendimento permanente funzionale alla mobilità dei lavoratori in base alle esigenze dell’economia. Non è possibile, salvo fraintenderne funzione e fini, estrapolare l’alternanza dal quadro più vasto delle politiche del lavoro programmate dai centri economico-politici decisionali sul breve-medio termine: il suo perfetto equivalente in ambito lavorativo è il jobs act, al quale essa prepara disinvoltamente i giovani, sin dall’età scolare. Non solo: fornisce alibi a mobilità, flessibilità, sottoccupazione, facilità di licenziamento, mettendo a disposizione delle imprese lavoratori non pagati da usarsi in sostituzione di quelli ancora abituati a percepire un salario, per quanto irrisorio. Ciò, naturalmente, è reso possibile da un quadro occupazionale caratterizzato ormai da contratti a tempo determinato o “atipici”.

Che, poi, la scuola sia chiamata ad attuare queste stesse politiche, così estranee al suo ambito d’intervento e alle sue finalità, prelude ad un capovolgimento radicale della sua struttura e del suo ruolo, di cui stiamo vedendo solo le prime avvisaglie. L’alternanza, insomma, funziona da efficace cavallo di Troia di una destrutturazione del sistema dell’istruzione, già delineata nelle sue linee essenziali attorno agli anni ’90 del Novecento, a cominciare dalla presenza di esperti esterni che garantiscono flessibilità quanto a reclutamento e fedeltà ideologica ai valori dell’impresa e del mercato, rispetto ai quali si sottolinea il persistere di una certa tiepidezza da parte dei docenti italiani. (La rimostranza viene espressa nei quaderni dell’Associazione TreeLLLe, think tank di ambito confindustriale che si propone di studiare le proposte per migliorare la qualità dell education e alla quale si sono largamente ispirati gli autori della buona scuola; cfr., in particolare, http//wwwtreellle.org/files/III/quaderno-8,p.21.)

L’alternanza come primo passo verso una progressiva esternalizzazione della docenza, con significativo cambiamento del profilo giuridico (libero da vincoli contrattuali ritenuti troppo rigidi) e professionale (da insegnanti alle prese con un sapere disciplinare a formatori chiamati ad addestrare a specifiche competenze richieste dal mondo esterno) va di pari passo con la sua funzione di dispositivo ideologico rivolto ai ragazzi per indirizzarli alla “cultura d’impresa” e all’autoimprenditorialità.

Se, infatti, con Harry Braverman, riteniamo che nella scuola non ha capitale importanza solo ciò che si impara, ma anche ciò a cui ci si abitua (cfr. Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel xx secolo,Einaudi, Torino,1978,p.287), non è di poco conto considerare che l’alternanza scuola-lavoro abitua gli studenti a lavorare gratuitamente dietro il presunto apprendimento di qualche abilità utile dopo il diploma. Se a ciò si aggiunge l’insistenza sulla necessità di una formazione permanente per rimanere sempre aggiornati rispetto alle esigenze del mercato del lavoro, si profila uno scenario futuro molto allettante per i profitti delle imprese, estremamente preoccupante per quanto riguarda la dignità del lavoro, già ampiamente devastata dalla deregolamentazione introdotta dalle “riforme” neoliberiste. L’alternanza proietta direttamente l’adolescente nella condizione lavorativa già predisposta per la gran maggioranza dei diplomati di lavoratore flessibile, sottopagato, docile, disposto ad accettare come normali demansionamenti, mobilità e precariato, incline a sentirsi personalmente responsabile in caso di disoccupazione o sottoccupazione, poiché privo di adeguate competenze o di soddisfacenti capacità imprenditoriali.

E’ doveroso sfatare un luogo comune che, criticando l’applicazione concreta dell’alternanza quale si è registrata in questi tre anni, non ne mette per nulla in discussione la sostanza che, peraltro, gli sfugge. Non esiste una buona alternanza, perché non è emendabile un dispositivo strategico di adattamento sociale e di stravolgimento delle finalità educative, rimosse a vantaggio di un economicismo che svilisce la scuola a luogo di formazione e addirittura di diretto collocamento di forza lavoro in possesso di qualche abilità settoriale di tipo tecnico. Il problema di fondo non consiste nello scarto tra la mancata corrispondenza fra le attività svolte dagli studenti durante lo stage in azienda e il loro piano di studio. Che gli studenti del Classico vadano a fare i gommisti e quelli del Tecnico si ritrovino a fare fotocopie in qualche ufficio, rappresenta solo un lato marginale e folkloristico del problema. E il problema è l’ingresso massiccio dell’impresa e della logica del mercato nella scuola, sia come concreta invadenza in termini di tempi, di spazi e di contenuti, sia come modello organizzativo, nonché culturale. Avrebbe dovuto sollevare l’indignazione del mondo intellettuale la perdita di un numero consistente di ore di lezione, di tempo sottratto alla trasmissione e rielaborazione delle conoscenze, alla riflessione critica, all’approfondimento disciplinare, tempo prezioso per la crescita umana e culturale che, per la maggior parte dei ragazzi, qualunque sia l’indirizzo frequentato, solo la scuola può offrire. L’alternanza comporta, inevitabilmente, un impoverimento dei contenuti, una compressione dei programmi e, in questo senso, è perfettamente organica alla “didattica delle competenze”. Che tale levata di scudi non ci sia stata, salvo qualche lodevole eccezione, rappresenta un’ulteriore riprova di un declino culturale complessivo, di un’attenzione alle sirene mercantilistiche che autorizza previsioni poco rosee relativamente alla tenuta di un pensiero critico e della stessa democrazia.

L’alternanza, in quanto meccanismo predisposto per un connubio contro natura scuola-impresa che sottrae specificità culturale ed educativa alla prima, nonché spazi istituzionali, costringendola sul terreno socialmente vincente della seconda, ipoteca gravemente il futuro della pubblica istruzione. Essa non ha nulla a che vedere con il riconoscimento della dimensione del lavoro e dell’esperienza pratica nella vita dei ragazzi, come viene suggerito da chi cerca di correggerne le storture più evidenti, con il fine di legittimarne la presenza, seppur in forme riviste. Le scuole, già da tempo, possono organizzare progetti estivi con gli enti locali per l’inserimento lavorativo, peraltro pagato, dei ragazzi che desiderino dedicare una parte delle loro vacanze allo svolgimento di un’attività professionale. L’ alternanza non promuove il lavoro che, anzi, svilisce in una nuova forma di apprendistato non riconosciuto socialmente ed economicamente, ma l’ideologia aziendalistica, non a caso, si avvale dell’educazione “all’autoimprenditorialità” consigliata già dalla scuola materna, mentre, nella concretezza della prassi scolastica, disputa il terreno ai saperi disciplinari, avvertiti come estranei alla ragione calcolante e strumentale.

E’ necessario chiedere alle forze politiche una moratoria nell’applicazione dell’alternanza, sulla scia di un appello, forte di migliaia di adesioni, lanciato nel dicembre 2017 da alcuni docenti. (cfr. Appello per la scuola pubblica. Un documento sulla scuola e sull’Istruzione: da leggere,pensare e sottoscrivere) L’obbligatorietà, il consistente monte-ore, la presenza di consulenti esterni, il suo essere requisito vincolante per l’ammissione alla Maturità compromettono gravemente la dignità e lo spessore culturale del percorso educativo, la libertà di insegnamento, la necessaria indipendenza della scuola dalle pressioni del mercato.

Fernanda Mazzoli

Fonte

La lezione del QE (che non sarà ascoltata)

Il quantitative easing, l’acquisto di titoli sul mercato da parte della Bce, volge al termine e se ne può fare un bilancio. Ha certamente evitato il peggio, ma non si può dire che abbia ottenuto i risultati che si era proposto. Soprattutto, è stato una grande prova empirica degli errori delle teorie economiche dominanti

di Carlo Clericetti

Il quantitative easing (QE), ossia l’acquisto straordinario di titoli di Stato e obbligazioni societarie da parte della Bce, sta per finire. Che bilancio se ne può fare?

Dei suoi effetti sull’economia si è già molto discusso, e se ne può fare un breve ricapitolo. Poco si è parlato, invece – almeno fuori dalle accademie – di un’altra conseguenza, di importanza anche maggiore, perché da essa dovrebbe derivare un rovesciamento delle politiche economiche europee. Che non sta avvenendo e non avverrà, cosa per cui ci sono motivi che si possono individuare.

Lo scopo dichiarato del QE era quello di ripristinare una corretta trasmissione della politica monetaria, evitare i pericoli di deflazione stimolando l’economia e riportare l’inflazione “sotto, ma vicina, al 2%”: quest’ultimo era forse quello considerato più importante, vista la missione affidata alla Bce dal suo statuto. Oggi, dopo tre anni e mezzo (il QE è iniziato nel marzo 2015), l’inflazione è intorno a quel livello in vari paesi dell’eurozona e nella media era proprio al 2% secondo gli ultimi dati (luglio), anche se quella cosiddetta “core”, cioè depurata dalle componenti più volatili (energia, cibi freschi, alcool e tabacchi) segnava solo + 0,9%.

Difficile collegare il QE con i prezzi al consumo. Quello che certamente ha ottenuto è stato di ridurre i rendimenti dei titoli di Stato, con beneficio dei bilanci pubblici, che hanno speso meno per pagare gli interessi sul debito. E di quelli delle banche, che da una parte hanno alleggerito il carico di titoli pubblici in portafoglio, e dall’altra hanno registrato l’aumento di prezzo di quelli che vi rimanevano. E però i tassi azzerati hanno ridotto all’insignificanza i profitti derivanti dalla gestione del denaro. E’ andata benissimo, invece, a chi doveva comprar casa, perché anche i tassi dei mutui sono scesi a livelli mai visti: nonostante questo, non si sono ripetute le “bolle” immobiliari che c’erano in vari paesi prima della crisi. In Italia, anzi, il settore dell’edilizia è stato quello che ha sofferto di più e ancora non si è del tutto ripreso.

La bolla, invece, si è prodotta sui prezzi delle azioni, con le Borse ai massimi storici. Il ribasso dei tassi sui titoli pubblici si è riflesso anche su quelli delle obbligazioni societarie. La grande liquidità in circolazione è andata in cerca di rendimenti migliori di quelli del reddito fisso; per di più le grandi conglomerate (soprattutto quelle americane) hanno usato il risparmio ottenuto sui prestiti per i famosi “buy back”, gli acquisti di azioni proprie, cosa che fa migliorare gli indicatori finanziari, ma, dettaglio forse non secondario, facendo salire le quotazioni manda alle stelle i bonus dei manager, di norma collegati alla performance borsistica. La riforma fiscale di Trump darà un’altra spinta a questo processo, perché probabilmente anche una buona parte dei maggiori profitti derivanti dai risparmi fiscali finirà in buy back.

Un altro effetto positivo è stato l’indebolimento dell’euro, che ha favorito le esportazioni, anche se ci si poteva aspettare un movimento ancora più deciso, dal momento che i tassi Usa hanno ripreso a salire mentre Draghi dichiarava che i nostri sarebbero stati fermi ancora a lungo.

Un aspetto negativo è stato invece l’ampliamento degli sbilanci sul sistema dei pagamenti Target 2, come ha detto lo stesso Draghi e ha poi ripetuto il vice presidente Vitor Constancio. Cosa provocata soprattutto dal fatto che gli acquisti di titoli dall’esterno dell’eurozona sono stati regolati attraverso la Bundesbank, che poi li cedeva alle varie Banche centrali nazionali, accumulando attivo sul saldo tedesco mentre per gli altri aumentava il passivo. È cosa che teoricamente può avere effetti pratici solo in caso di uscita dall’euro, ma segnala anche uno squilibrio che però, per questa parte, non dipende da andamenti economici ma da un fattore puramente tecnico. E però offre l’occasione ad alcuni economisti e opinionisti di diffondere idee allarmistiche, o addirittura, nei casi più estremi, di chiedere di “saldare il conto”.

Ma veniamo ora alla conseguenza più importante del QE: che è stata quella di demolire alcuni pilastri fondamentale delle teorie economiche dominanti, quelle utilizzate da chi detta le politiche economiche. Il primo pilastro raso al suolo è il legame tra quantità di moneta e inflazione. Quando la Federal Reserve Usa iniziò il suo QE (ben prima della Bce) non pochi economisti lanciarono l’allarme-inflazione: entro tre-sei mesi l’aumento dei prezzi si sarebbe scatenato. Ora, dopo un decennio che tutte le banche centrali più importanti (americana, europea, giapponese, inglese) inondano il mondo di liquidità, di impennate dei prezzi non si è vista l’ombra, e anzi abbiamo rischiato la deflazione.

Il secondo pilastro è quello secondo cui la politica fiscale, quella che si fa manovrando il bilancio pubblico, sarebbe inutile e dannosa, non servirebbe a superare le crisi e provocherebbe distorsioni dannose per l’economia. Questa veramente è un’ossessione essenzialmente europea, perché Usa, Giappone e Regno Unito, per citare i paesi più importanti, politiche fiscali espansive ne hanno fatte e come. Noi no: il “verbo” tedesco, imposto a tutta l’unione, afferma che l’equilibrio di bilancio viene prima di tutto. E poi se aumenta il deficit, suggerisce questa brillante teoria, famiglie e imprese si aspetteranno un prossimo aumento delle tasse per finanziarlo, dunque le famiglie risparmieranno per pagare questa tasse future, non alimentando i consumi, e le imprese non investiranno.

C’è chi fa osservare che l’ossessione europea è stata attenuata con l’introduzione dell’”output gap”, ossia la differenza tra il Pil effettivo e il Pil potenziale. Il concetto sarebbe che se cresci meno di quanto dovresti (ossia meno del Pil potenziale) ti concedo più spazio per la politica fiscale. Ma, a parte il modo di calcolare questo potenziale, largamente arbitrario e che a volte ha dato luogo a palesi assurdità, si tratta di spazi omeopatici, del tutto insufficienti ad ottenere risultati quando la crisi è pesante.

E allora come si fa ripartire l’economia? Da una parte con le mitiche “riforme strutturali”, il che significa soprattutto ridurre le protezioni sul lavoro, precarizzare – pardon, “flessibilizzare” – abbassare il più possibile i salari. Dall’altra stimolando il sistema economico. Il QE, acquistando titoli dalle banche, ha fatto aumentare le loro riserve liquide, e in più si è arrivati a stabilire su queste riserve un tasso negativo, cioè le banche pagano se le tengono ferme (a parte la riserva obbligatoria). Questo avrebbe dovuto spingerle a prestare e le imprese avrebbero dovuto usare quei soldi per investire, facendo ripartire il ciclo. Teoricamente perfetto: peccato che non sia successo.

Come mai? Magari perché le imprese investono se pensano che riusciranno a vendere quello che producono. Ma le famiglie, con salari fermi o in calo e alta disoccupazione, il tutto condito con tagli al welfare, hanno poco da spendere. E nessun aiuto viene dal bilancio pubblico, con gli investimenti che in Italia sono calati a un terzo del periodo pre-crisi. Investire e produrre per riempire i magazzini? No, grazie.

Non solo. Anche la regolamentazione bancaria internazionale ci ha messo del suo, considerando rischiosi i prestiti all’economia assai più degli impieghi finanziari. Così, le banche che vogliono farli devono raccogliere più capitale di quelle che i soldi li giocano alla roulette. E bravi regolatori!

Ora il QE volge al termine, proprio mentre la debole crescita europea mostra segni di rallentamento. Ha tamponato i problemi, ma non li ha risolti. Sarà servito almeno a mettere in discussione le linee politiche seguite finora? Si può scommettere di no. Quelle politiche non hanno come obiettivo quello di far star bene il maggior numero possibile di persone, ma di realizzare una società competitiva dove alcuni prosperano, e gli altri peggio per loro: al massimo verranno tenuti buoni con qualche sussidio che li faccia sopravvivere, e dovranno pure ringraziare. È l’“economia sociale di mercato”, bellezza!

Fonte

Trappola di Cristallo (1988) di John McTiernan - Minirece


Germania in crisi

La crisi della politica tedesca è una crisi di egemonia, sia politica che economica. Abituati a pensare Berlino come una roccaforte antipatica ma solida, questa realtà viene sbrigativamente messa nel dimenticatoio quando si ragiona di possibili scenari dei prossimi mesi.

In realtà, a parte singole informazioni su eventi particolari, manca quasi del tutto una visione d’insieme della situazione che sta facendo precipitare questa crisi e, con essa, la tenuta della linea fin qui seguita dall’Unione Europea negli ultimi 30 anni. Attenzione: stiamo parlando dell’austerità ordoliberista, non della “tenuta” della Ue come sistema di trattati vincolanti.

Quella linea aveva il suo baricentro nel modello neomercantilista tedesco, orientato alle esportazioni e dunque fondato sulla compressione dei salari interni, lo smantellamento del welfare e dell’intervento pubblico nell’economia (la famosa “economia mista” che, in Italia come altrove in Europa aveva reso possibile il boom economico fino alla fine degli anni ‘60).

Accecati dai successi dell’economia tedesca in termini di profitti aziendali non ci si è accorti dell’impoverimento crescente dei salariati tedeschi. Se ben 32 milioni di lavoratori, lo scorso anno, hanno dovuto far ricorso all’assistenza sociale, ciò vuol dire che il salario medio di Berlino – comunque superiore, e di molto, a quello italiano! – è sceso sotto il livello della sopravvivenza. Sembrerebbe un paradosso, per il paese più ricco d’Europa; ma è solo la normalità del neoliberismo contemporaneo.

Questo fenomeno è più accentuato nei land dell’ex Germania Est e proprio lì il nazionalismo xenofobo, a tratti apertamente neonazista, cresce senza trovare ostacoli. Il malessere sociale ha giustamente individuato nella grosse koalition tra democristiani e socialdemocratici i responsabili politici dell’impoverimento generale (le “leggi Hartz” sono state varate dal governo Spd di Gerhard Schroeder, all’inizio del millennio), ma l’assenza di una sinistra conflittuale, radicata nel blocco sociale sottoposto alla lenta tortura del working poor, ha lasciato campo libero al revanscismo di destra. Come in Italia, seppure con un po’ di ritardo....

Ma la Germania è anche il pilastro centrale dell’Unione Europea, ossia del tentativo di costruire un polo imperialista competitivo a livello globale. La sua crisi, dunque, non riguarda solo le vicende interne a quel paese, ma investono la costruzione continentale e gli equilibri geopolitici. Tutti argomenti su cui la sempre meno intelligente intellighenzia italiana ha smesso, da tempo, di interrogarsi ed indagare.

Qui di seguito l’utilissima analisi di Guido Salerno Aletta, editorialista di Milano Finanza (no strabuzzate gli occhi... ci sono analisti che sanno fare il loro mestiere senza chiudere gli occhi davanti alla realtà dei fatti).

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Nell’approssimarsi del trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino, la Germania è attonita di fronte all’improvviso voltafaccia del destino.

Per la prima volta, si trova accerchiata sul piano geopolitico: dalla presidenza di Donald Trump alle ambizioni internazionali di Emmanuel Macron, dalla prospettiva di una Brexit senza accordo alcuno alla risorgente Polonia. Teme per la tenuta del modello mercantilista, che riteneva invulnerabile, e chiude gli occhi di fronte all’affanno delle sue due più grandi banche. Non è solo il futuro della Unione europea e dell’euro ad essere minacciato dai sovranismi: covano anche al suo interno, mentre si riacutizzano le mai sopite pulsioni xenofobe.

Troppi fronti aperti, tutti fuori controllo, la costringono ad un ripiegamento improvvisato, ad erigere una cortina fatta di incertezze, rabbia, e silenzio. La gravità delle prospettive viene taciuta agli stessi cittadini tedeschi, che si mostrano stanchi della narrazione di questi anni, fondata sulla competitività vincente e sulla retorica dei Paesi del Meridione europeo da mettere in riga. Del lungo Cancellierato di Angela Merkel, e della politica di sacrifici salariali e sociali che risale al suo predecessore socialdemocratico Gerhard Schröder, rimane un immenso accumulo di ricchezza di cui però i cittadini hanno visto ben poco.

Neppure l’émpito della moralità assoluta l’ha premiata. La politica dell’accoglienza incondizionata ai profughi provenienti dalle aree di guerra in Medioriente, decisa inaspettatamente dalla Cancelliera Angela Merkel senza consultare nessuno nel 2015, e subito dopo da lei stessa rinnegata, ha creato contraccolpi colpevolmente sottovalutati, vista l'eccezionale dimensione del fenomeno e la sua concentrazione temporale. Se, come ha ricordato di recente l’ex-ministro degli esteri Sigmar Gabriel, era impossibile fermare con la forza ai confini tedeschi questa marea umana che aveva attraversato con mezzi di fortuna tutti i Balcani, ancor di più questo evento dimostra la sorpresa con cui la Germania ha subìto i cambiamenti repentini del contesto geopolitico mondiale.

Gli equilibri politici interni si sono fatti sempre più precari. Gli incidenti del 27 agosto scorso nelle strade di Chemnitz, in Sassonia, dove si è scatenato un pogrom per vendicare l’uccisione di un giovane tedesco da parte di un iracheno e di un siriano, hanno portato ad un corto circuito istituzionale.

A Berlino il clima è convulso: il capo dei servizi segreti Hans-Georg Maassen, rimosso dal suo incarico per aver negato che ci fosse stata “una caccia allo straniero” arrivando a mettere in dubbio l’integrità dei video che erano stati diffusi, era stato contestualmente promosso all’incarico di “Segretario di Stato per la Sicurezza” presso il Ministero degli Interni diretto da Horst Seehofer, sacrificando il ruolo assegnato ai socialdemocratici. Questi si sono giustamente adirati, minacciando la crisi di governo.

La coalizione di governo è sfilacciata anche nell’ambito della stessa componente maggioritaria, rappresentata dalla storica aggregazione tra Cdu e Csu. Il ministro dell’Interno Horst Seehofer, leader bavarese della Csu, ha più volte minacciato di dimettersi sulla questione dell’espulsione dei migranti provenienti da altri Paesi di primo ingresso nell’Unione.

La crescita della formazione di destra AfD, che raccoglie le istanze sovraniste e le tendenze xenofobe e che è entrata per la prima volta nel Bundestag dopo le elezioni dello scorso settembre, ha messo sotto pressione l’intero sistema politico tedesco: secondo gli ultimi sondaggi circa le intenzioni di voto, nei Länder dell’ex Germania Est diventerebbe il primo partito con il 27% dei consensi, superando di 4 punti la Cdu-Csu che scenderebbe al 23%. Staccati di molto, la sinistra social-comunista (Die Linke) al 18% ed i socialdemocratici al 15%.

La ragione dello scontento nelle aree orientali è fornita dalla ultima Relazione annuale sullo stato della Unificazione: nel 2017, il tasso di disoccupazione è stato del 7,6% rispetto al 5,3% del resto della Germania. E sono gli uomini a passarsela peggio, con una disoccupazione all’8,1% rispetto al 5,5% del resto della Germania. Le rilevazioni sugli standard di vita effettuate nel 2016 indicavano come i Länder dell’ex Germania Est riportassero il punteggio migliore nei settori della istruzione, delle condizioni abitative e dell’ambiente, ma le peggiori in assoluto per quanto riguarda il lavoro e la salute.

C’è un altro dato che fa masticare ancor più amaro, e che riguarda l’intera Germania: nel 2017, ben 32 milioni e 165 mila lavoratori (in crescita rispetto ai 31 milioni e 441mila dell’anno precedente) hanno ricevuto un contributo a carico della assistenza sociale. Di costoro, ben 6 milioni risultavano residenti nelle regioni orientali, suddivisi tra 4,2 milioni di lavoratori a tempo pieno ed 1,8 milioni a tempo parziale. Il salario non basta, e l'immigrazione crea ulteriore concorrenza al ribasso. E’ questa la realtà con cui la politica tedesca deve fare i conti.

Prima ancora delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, che si terranno nel prossimo maggio, ci sono le scadenze interne. La prima è il 14 ottobre, per il rinnovo del Landtag bavarese: in questo caso, le previsioni convergono nell’accreditare la Csu al 35%, rispetto al 47,7 % del 2013. La prevedibile perdita della maggioranza assoluta dei seggi da parte della Csu, che le ha consentito di governare da sola la Baviera sin dal 1962, non aprirebbe tanto la strada ad una imitazione della Grande coalizione che regge il governo federale, quanto ad uno smottamento dell’intero quadro politico tedesco. Un accordo in Baviera tra Csu e AfD, per evitare nuove perdite di consensi a destra alle europee, aprirebbe un vaso di Pandora.

La leadership della Cancelliera Merkel è logora, ed i contrasti non si limitano a quelli con la Csu di Seehofer. anche il suo gruppo parlamentare al Bundestag ha dato un segno di malessere profondo, non rieleggendo come Presidente, incarico che ricopriva ininterrottamente da 13 anni, Volker Kauder, fedele e stretto collaboratore della Merkel.

Il contesto internazionale è radicalmente cambiato. Ancora nell’inverno del 2016, l’Unione europea non discuteva altro che di nuovi Accordi di liberalizzazione del commercio e dei servizi, ivi compresi quelli bancari ed assicurativi, attraverso il Tisa a livello globale ed il Ttip con gli Usa. Oggi siamo al riequilibrio dei rapporti commerciali su base bilaterale, sostenuto da Donald Trump, ed alle proposte di limitare il più possibile l’accesso della Gran Bretagna al mercato finanziario europeo dopo la Brexit. Trump, per pareggiare i conti, vuole vendere il GNL americano all’Europa, sostituendo queste forniture a quelle che deriverebbero dalla costruzione fra Russia e Germania del North Stream 2. La richiesta americana è divenuta ancora più urgente dopo che la Cina, per ritorsione, ha alzato i dazi nei confronti del gas americano. Come è accaduto per la soia, l’Europa fa da mercato di recupero rispetto al conflitto sino-americano.

Il mercantilismo arricchisce, ma tutto dipende dalla pervietà dei mercati. Nel 2017, l’export tedesco di merci fob (“franco a bordo”, ndr) negli Usa è arrivato a 127 miliardi di dollari, mentre quello verso la Gran Bretagna a 95 miliardi: l’attivo nei confronti di questi due Paesi, rispettivamente pari a 75 e 49 miliardi, ha rappresentato il 43% del totale. Sono dunque mercati di sbocco assolutamente determinanti.

Oltre alla evidente ruvidità delle relazioni tra Trump e Merkel, c’è da considerare che le trattative sulla Brexit sembrano essere state gestite a livello europeo con l’obiettivo di danneggiare quanto più possibile l’economia britannica. Le difficoltà cui Londra andrebbe incontro nel caso di una uscita dal Mercato interno sono continuamente enfatizzate e la stessa stampa tedesca, anche di recente, ha illustrato i disagi che ci sarebbero, nel caso di un no-deal, nei porti di imbarco delle merci in partenza dall’Olanda e le file interminabili di autotreni alla dogana britannica. Mai, però, un accenno alle ricadute sulla Germania: la congiura del silenzio si deve al timore che la sterlina si svaluti di un buon 20%, rendendo automaticamente invendibili nel Regno Unito la gran parte delle merci tedesche ed aumentando automaticamente la competitività di quelle britanniche.

Si tace anche della insostenibile contraddizione tra l’impegno ad abbattere completamente le tariffe sul commercio di auto tra Unione europea ed Usa e la tentazione di alzarle nei confronti di quelle fabbricate in Gran Bretagna. Come se non bastassero i guai per il dieselgate negli Usa, è il posizionamento premium delle auto tedesche che comincia a vacillare: sono auto ormai troppo care.

C’è poi la Francia con cui fare i conti: cerca di farsi sotto, con la scusa di costituire un Esercito europeo, per bilanciare sul piano militare e dell’impegno all’estero la supremazia economica tedesca. Per Berlino è un onere crescente, sin da quando nel 1992 la Bundesbank sostenne solo il franco francese dall’agguato portato dalla speculazione valutaria allo Sme: la mancata svalutazione rispetto al marco, a differenza della lira italiana e della sterlina, costò non poco all’economia francese in termini di competitività. Il disavanzo strutturale nelle relazioni commerciali franco-tedesche, cifrato in 40 miliardi di euro annui, comporta un aumento continuo del finanziamento di portafoglio da parte tedesca: a dicembre scorso, gli impegni a favore di Parigi erano arrivati a 427 miliardi di dollari. E’ una cifra davvero assai ingente, soprattutto se paragonata ai 418 miliardi in titoli emessi negli Usa, ed ai 218 miliardi in titoli emessi in Gran Bretagna.

L’attivismo del Presidente Emmanuel Macron, che ora si intesterebbe la linea europeista di fronte ai partiti sovranisti, rischia di spaccare anche il Partito popolare europeo che invece cerca una mediazione. E’ questo un altro fronte scoperto per Berlino, che subisce l’iniziativa altrui.

Anche da Est si muovono minacce inattese: la Polonia è ormai pronta, per dimensioni territoriali, dinamica economica e competitività, a sostituire la Germania nel suo ruolo di antemurale rispetto alla Russia. La sintonia con Trump, dimostrata dalla disponibilità di pagare 2 miliardi di dollari per ospitare una base militare americana, la dice lunga sulla eclisse tedesca.

Più della prevedibile razionalità tedesca è l’incertezza radicale che torna, ancora una volta, a dominare i processi storici.

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6 punti sulla bozza di manovra del governo: rischi, benefici e obiettivi politici

Facciamo una premessa. La scelta del governo è un rischio più o meno calcolato all’interno del sistema vigente e quindi molto complessa e non riassumibile con un festeggiamento sul terrazzino. Dichiarazioni come quella sull’ “abolizione della povertà”, che ricordano quelle della “Waterloo della precarietà” dopo il decreto Dignità, sono slogan efficaci per l’elettorato ma che poi incidono poco nella realtà, sperando che non la complichino. Le elezioni europee sono vicine ed il governo ha scelto di arrivarci con la realizzazione di parte delle promesse elettorali, costi quel che costi.

Il governo, dunque, ha “trovato” 30 miliardi. Li ha trovati facendo debito e non dentro “gli sprechi” che Di Maio prima delle elezioni aveva quantificato in 70 miliardi tagliando, ad esempio, qualche spesa militare o facendo una patrimoniale o colpendo quei capitali/profitti che si sono arricchiti dalla crisi del 2008 ad oggi oppure congelando alcuni debiti definendoli non esigibili. Si tratta di miliardi quasi tutti a debito che quindi dovranno essere chiesti ai mercati, quelli che Salvini dice “dovranno farsene una ragione” come se poi i soldi avessimo da averli e non da darli. E quindi sono soldi su cui dovremo pagare altri interessi. Niente di rivoluzionario ma in linea con ciò che è sempre stato, con la differenza che quando andremo a chiedere soldi rischiamo di pagare interessi ancora più alti.

Tuttavia in sé, i 30 miliardi non sono certo una notizia brutta per tutte quelle persone che si trovano in difficoltà economica e sociale e quindi il contesto merita una attenta riflessione ed una analisi seria sull’impatto di questa bozza di manovra. Ma guardiamo gli elementi positivi e i possibili risvolti negativi di questa manovra in cui il governo ha deciso di rischiare tutto.

1. Per vedere la reale incidenza della manovra bisognerà attendere i dettagli delle misure. Il Reddito di Cittadinanza (chiamato così anche se non lo è) dovrebbe prendere una platea inferiore a quella annunciata e bisognerà vedere quali misure verranno abolite per fargli posto, oltre che l’importo. In poche parole viene ampliato il REI (reddito di inclusione) di Gentiloni e ci saranno tanti paletti (come la casa di proprietà) per restringere la platea dei percettori. Ingenti risorse invece andranno ad aumentare le pensioni minime fino a 780 euro su cui non c’è niente da eccepire e che sarà la prima misura messa in campo (d’altronde gli anziani votano in massa i giovani molto meno e comunque gli interessi graveranno sulle loro teste in futuro). Caposaldo della manovra è poi la quota 100 per le pensioni. Una misura attesa da quasi mezzo milione di persone. Vedremo anche qui nel dettaglio quali paletti verranno messi e quindi quanti potranno essere i beneficiari della misura in comparazione con quelli andati in pensione con 2-3 anni di anticipo sulla riforma Fornero grazie all’Ape social di Gentiloni.

2. Bene quindi mettere soldi nelle tasche dei cittadini (poi ci sarà da vedere quanto e a quante persone) ma come tutte le SCELTE portano con sé delle conseguenze.

I “mercati” sono nostri nemici, ma contano. Il governo non ha SCELTO di far pagare più tasse a chi ha soldi e risorse, non ha SCELTO di fermare l’aspirazione di soldi dai territori verso mondo finanziario e paradisi fiscali, non ha SCELTO di trovare soldi combattendo chi li ha fatti a palate in questi anni di crisi per darli a chi non li ha. Ha scelto di fare debito e quindi per un Paese che ogni giorno deve andare sui mercati a chiedere soldi in prestito non è un fatto neutro. Quindi i cosiddetti mercati potrebbero portare un conto salato al Paese. A quel punto la scelta di forzare i conti ed il debito potrebbe poi portare con sé la necessità di tagli a spesa pubblica e servizi. Per ora i mercati hanno reagito male e ci sarà da contare i miliardi bruciati. Potenziali problemi? Tassi di interesse alti e mancanza di liquidità (vedi difficoltà dei titoli bancari ieri in borsa)

3. Questa politica di spesa è fatta in contemporanea alla flat tax (che flat tax non è e che riguarderà solo le piccole imprese), e quindi ad un progressivo abbassamento delle tasse ma anche delle entrate. Si capisce bene che si va incontro ad un sistema che se non genera un aumento di produzione, investimenti e PIL nel breve periodo, rischia di fare la botta. Poi c’è il condono fiscale sotto i 100.000 euro da cui si pensa di prendere parecchi miliardi. Al di là dell’incoerenza politica della scelta, le stime paiono parecchio ottimistiche. Infine secondo il governo tutto questo porterà ad un aumento della domanda interna e quindi del PIL facendo scendere (invece di far salire) il rapporto col deficit. È vero in teoria, ma l’economia oggi è più complessa dei tempi di Keynes. E con le politiche BCE di calmierazione dei tassi di interesse che sono finite, i tassi saranno salati.

4. Il vero obiettivo del governo sono le elezioni europee che sono alle porte ed un governo che punta tutto su comunicazione e marketing ha ritenuto che avrebbe dovuto fare ALL IN subito. Vedremo già dalle prossime settimane i dettagli della manovra e le conseguenze. È una situazione fuori dall’ordinario in cui il governo si gioca molto, per sé e per il Paese. Non servono battute o tifosi della politica ma analisi serie.

5. Se dovesse andare male si tornerà a parlare di immigrazione h24.

6. Le reazioni come quella del Pd e dell’opposizione istituzionale che continua a fare politica con la cieca fede nel sistema europeo vigente e nei mercati sono la migliore assicurazione sulla vita di questo governo.

Segnaliamo anche questo interessante post di Potere Al Popolo Livorno che pone l’accento su un paio di aspetti tralasciati da altre analisi.
https://www.facebook.com/PotereAlPopoloLivorno/posts/757649317910463?__tn__=K-R

vedi anche

http://contropiano.org/news/politica-news/2018/09/28/mercati-in-fiamme-di-maio-e-salvini-vincono-come-pirro-0108010

Redazione, 29 settembre 2018

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Qualcosa si muove in Gran Bretagna. Il discorso di Jeremy Corby

Il 26 settembre, al termine del congresso del Labour a Liverpool, Jeremy Corbyn ha tenuto il consueto discorso conclusivo, delineando però un programma politico completamente opposto a quanto fatto da Tony Blair e i suoi scalcagnati successori.

Nulla di rivoluzionario, naturalmente, ma di questi tempi anche un onesto programma socialdemocratico rischia di apparire “sovversivo”. Agli occhi di lavoratori e disoccupati, ma soprattutto a quelli dei “mercati”.

I media italiani – sia quelli neoliberisti “democratici”, sia quelli filo-leghisti e reazionari – si sono ben guardati dal parlarne, perché probabilmente pensano che non sia il caso di distrarre “il popolino” con notizie che potrebbero far pensare a soluzioni diverse da quelle in vigore. Per esempio le nazionalizzazioni dei servizi strategici (in Gran Bretagna sono state privatizzate anche alcuni servizi carcerari!), sicuramente la revoca delle concessioni in ferrovia, nonché della sanità. Sembra l’Italia, vero?

Discorsi simili per quanto riguarda le banche e la finanza, che considerano l’economia reale una sorta di “sottostante” su cui speculare allegramente. Per non dire della feroce critica all’aparthid israeliano e il sostegno alla causa palestinese.

Lungi dall’entusiasmarci, riteniamo sia comunque utile conoscere su quali basi sia nata questa nuova stagione del laburismo britannico e soprattutto le conseguenze che sta avendo nel processo di costruzione di un fronte progressista europeo che non ha davvero nell’Unione Europea la propria stella polare.

Ecco qui di seguito ampi stralci dell’intervento di Corbyn.

“Congratulazioni a tutti, è stato un grande congresso. Il congresso di un Partito Laburista pronto a prendere il comando e avviare il lavoro di ricostruzione del nostro paese diviso. Quest’anno celebriamo il centenario della Legge sulla Rappresentanza Popolare che ha visto otto milioni di donne andare al voto per la prima volta, insieme a cinque milioni e mezzo di uomini della classe operaia.

….

Il Labour torna a vincere in tutto il Paese. Nel sud ovest siamo tornati a vincere a Plymouth, nel nord a Kirklees e a Londra abbiamo avuto i migliori risultati municipali dal 1971. Anche in Scozia il partito laburista è tornato a dare un messaggio di speranza e reale cambiamento.

I nostri iscritti e milioni di lavoratori sindacalizzati sono la voce dei luoghi di lavoro e delle comunità e noi collegheremo tutto ciò che faremo con le esperienze quotidiane del popolo. Questa è la nostra forza e insieme cambieremo la Gran Bretagna.

Come potete notare, non tutti sono contenti di quello che stiamo facendo.

Si scopre che ai miliardari, che possiedono la stragrande maggioranza della stampa britannica, non piacciamo neanche un po’.

Forse perché vogliamo reprimere l’evasione fiscale o forse perché non li aduliamo frequentando le loro cene eleganti.

...

La libertà di stampa va assolutamente protetta. In Turchia, Myanmar, in Colombia, I giornalisti vengono imprigionati e a volte uccisi da governi autoritari e da potentati corporativi. Ma qui, una stampa libera ha troppo spesso significato libertà di diffondere bugie e mezze verità.

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Il prossimo anno saranno 200 anni dal massacro di Peterloo, quando, nelle strade di Manchester, 15 dimostranti pacifici furono uccisi e centinaia feriti dalle truppe inviate dai Tories a sopprimere la lotta per i diritti democratici. Il nostro slogan deriva proprio da un verso della poesia di Percy Shelley sul massacro: “for the many not the few”.

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Il nostro è il partito dell’uguaglianza per tutti. Il partito che ha aperto la strada ad ogni iniziativa tesa a sradicare il razzismo dalla nostra società.

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Le cose peggioreranno per ogni mese in più in cui l’attuale governo resterà in carica.

Giorno dopo giorno si sommano le prove del fallimento di privatizzazioni e esternalizzazioni. Basta vedere quello che è successo negli ultimi mesi. La prigione di Birmingham gestita dall’agenzia G4S è dovuta tornare alla gestione pubblica dopo che l’Ispettore Capo delle Prigioni l’aveva descritta come la peggiore che avesse mai visitato. Il servizio di libertà vigilata privatizzato è sull’orlo del tracollo. Richard Burgon, il prossimo Segretario di Stato per la Giustizia, metterà fine a questo scandalo.

Per quello che riguarda le ferrovie, la concessione della East Coast è collassata per la terza volta in dieci anni, ed è stata nuovamente salvata dai contribuenti. Andy McDonald, nostro Segretario per i Trasporti, porrà fine a questo caos. E il gigante corsaro Carillon è andato in bancarotta, affondato in un mare di spericolata avidità, lasciando ospedali costruiti a metà, lavoratori scaricati al sussidio e pensioni in pericolo, mentre i dirigenti di Carillon continuavano a riempirsi le tasche con bonus e dividendi, riversando le perdite sui piccoli imprenditori della catena di approvvigionamenti.

Otto anni di austerità distruttiva e esternalizzazione ossessiva hanno portato i Comuni sull’orlo del precipizio e questo Governo deve rendere conto del suo vandalismo sociale.

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C’è poi lo scandalo dei Tories con il taglio di 6 miliardi di sterline all’assistenza sociale.

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Per ricostruire i nostri servizi pubblici e le nostre comunità dobbiamo ricostruire e trasformare la nostra economia. Non possiamo più tollerare una situazione in cui l’economia reale sia solo una sorta di baraccone messo in piedi per la City di Londra e per le banche dedite solo ad accumulare profitti in giro per il mondo.

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Qualche parola sulla continua negazione di giustizia e diritti del popolo palestinese. Il nostro partito condanna le forze israeliane che sparano contro manifestanti disarmati a Gaza, condanna inoltre la legge discriminatoria sullo Stato-Nazione.

L’occupazione continua, l’espansione di insediamenti illegali e l’arresto di bambini palestinesi sono un oltraggio. Sosteniamo la soluzione dei due Stati con uno Stato di Israele sicuro e uno Stato Palestinese vero e sicuro.

Ma un quarto di secolo dopo gli Accordi di Oslo non siamo certo più vicini alla giustizia e alla pace, e la tragedia palestinese continua.

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Per aiutare a rendere realtà l’insediamento dei due Stati, non appena entreremo in carica riconosceremo la Stato di Palestina.

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Ma i piani del Labour per ricostruire e trasformare il nostro paese e le sue relazioni con il resto del mondo, devono essere fatti sullo sfondo di grande incertezza sulla Brexit.

Il Labour rispetta la decisione referendaria del popolo britannico, ma nessuno può rispettare la condotta del governo dopo il voto.

Speravamo tutti che alla decisione del popolo sarebbero seguiti negoziati responsabili tesi a proteggere i livelli di vita e il lavoro. Invece, i negoziati principali si sono svolti tra le differenti fazioni dei Conservatori e l’unico lavori per cui si batte questo governo è quello del Primo Ministro.

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Voteremo contro ogni riduzione dei diritti, dei livelli di vita o delle protezioni. Il Labour voterà contro il cosiddetto Chequers plan o qualunque cosa ne sia rimasto e si opporrà a lasciare l’UE senza un accordo.

E’ per questo che se il Parlamento boccerà l’accordo Tory o il governo non riuscirà a raggiungere un accordo, chiederemo di andare alle elezioni.

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Il Labour offre una vera alternativa al popolo britannico. Un piano radicale per ricostruire e trasformare il nostro paese.

Un’alternativa alle politiche di austerità, di divisione sociale e di conflitto internazionale.

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29/09/2018

L’audacia nel pensiero marxista di Samir Amin

Il grande pensatore sociale, Samir Amin, è morto. Le scienze sociali hanno perso tre personalità insostituibili quest’anno. In primo luogo, il brasiliano Theotonio dos Santos, che ha ispirato molti a studiare il sistema mondiale da una prospettiva radicale. È poi stato seguito da Aníbal Quijano, il peruviano, che ha proposto la “rivoluzione culturale” per dare ai popoli della regione latinoamericana la propria identità. Samir Amin era egiziano ma era molto a suo agio con i sociologi dell’America Latina.

Prima della sua morte, Samir Amín è stato intervistato da Rubén Ramboer. Da questa intervista vogliamo salvare tre righe su cui Samir ha sviluppato il suo lavoro.

In primo luogo, il ruolo dell’audacia nel lavoro degli scienziati sociali. In realtà, l’audacia deve essere presente in ogni iniziativa che vuole essere significativa. Inoltre, l’audacia è un ingrediente essenziale per superare le contraddizioni sociali. Samir Amin si è sempre identificato come marxista. Cosa significa essere un marxista considerando che Karl Marx scrisse le sue grandi opere 150 anni fa? Secondo Samir, “essere un marxista si basa su due grandi contributi elaborati da Marx. Innanzitutto, la critica della realtà. Ma la realtà si trova nel suo tempo”. E’ questo il momento. Non possiamo criticare qualcosa che è già accaduto o che si trova in un futuro sconosciuto. Sottolinea inoltre che “sebbene il capitalismo non sia più quello che era, la critica al capitalismo rimane fondamentale“.

In secondo luogo, ”la critica dell’immagine ideologica del capitalismo. Cioè, teoria economica ed economia“. L’ideologia dei capitalisti ha creato una falsa conoscenza della realtà: l’economismo che proclama la “fine della storia” e postula l’esistenza per sempre di relazioni sociali di schiavitù (guadagno salariale).

Su questi due grandi contributi elaborati da Marx c’è quasi un consenso unanime come sull’attuale definizione del marxismo. Samir Amin compie un ulteriore passo che spaventa i non marxisti ed i neo-marxisti. Samir diceva che “essere un marxista significa necessariamente essere comunista. Marx non ha dissociato la teoria della pratica, della partecipazione alla lotta per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli. Significa anche essere un comunista internazionalista. Non è possibile cambiare il mondo dimenticando la maggioranza dei popoli, specialmente quelli dalla periferia“. Se oggi non è chiaro a tanti cosa significhi essere un comunista, Samir Amin ci dice che significa essere disposti a “cambiare il mondo”. Compito immenso.

Samir diceva di non essere un “neo-marxista”, qualcosa che va di moda in alcuni ambienti. Si può essere un nuovo marxista, con nuove idee prese dal pensatore tedesco del XIX secolo? I neomarxisti, dice Samir, “vogliono rompere con il marxismo storico. Vogliono andare oltre Marx. Io non sono neo-marxista, né mi considero un “paleomarxista“, cioè qualcuno che sostiene incondizionatamente il marxismo storico, qualcuno che diventa un sacerdote del marxismo, che conosce solo i testi sacri e i commenti su di essi senza fine. Leggendo tra le righe, Samir cerca di trovare risposte ai problemi attuali che non potevano essere previsti nel momento storico in cui visse Carlo Marx.

Samir Amin si riferisce anche alla Cina e alla sua apparizione sul palcoscenico mondiale come nuova potenza industriale. La presenza esplosiva del vecchio Impero Celeste ha interrotto la correlazione internazionale delle forze. A poco a poco, ha spostato il centro del sistema capitalista mondiale dell’Atlantico settentrionale verso il bacino del Pacifico. Secondo Samir, “siamo in un momento storico in cui la sinistra radicale deve essere audace. Mi riferisco alla sinistra che è convinta che il sistema capitalista debba essere superato nella sua essenza. Nel Nord, ci sono condizioni oggettive per isolare il capitale monopolistico, che esercita il suo potere anche grazie al suo clero politico e mediatico. Ciò potrebbe iniziare con un’alleanza politica – non un’alleanza elettorale – e un’alleanza sociale che include la stragrande maggioranza. Nelle periferie, l’audacia consisterebbe nella formazione di un blocco storico alternativo comunista“ (anti-rentier).

A questo punto, Samir si trova nel mezzo del grande dibattito sulla Cina. Sarà Pechino a contribuire alla costruzione di un nuovo mondo oppure si integrerà alla visione globale dei centri finanziari dell’Occidente. Secondo Samir, “i paesi emergenti, in particolare la Cina, sono in procinto di de-costruire monopoli. Per far fronte a questo, i cinesi hanno scelto di finanziare la lenta morte degli Stati Uniti sostenendo il suo deficit. La morte improvvisa di un animale di questo tipo sarebbe troppo pericolosa”.

*Articolo del 6 agosto 2018 di Marco A. Gandásegui, professore di Sociologia all’Università di Panama e ricercatore associato presso il Centro Justo Arosemena per gli studi sull’America Latina (CELA) http://marcogandasegui2017.blogspot.com/ http://www.salacela.net – Fonte: Alai

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Savona - Bombardier: il rischio concreto è davvero la chiusura

Questa è la notizia di ieri (da IVG):
“Nuova doccia fredda per i lavoratori di Bombardier a Vado Ligure: è stato reso noto dai sindacati che il gruppo industriale ha cambiato il piano industriale e non garantisce il mantenimento del sito oltre la seconda metà del 2019.

“Urge un decisivo intervento del MISE per la governance del settore produzione materiale rotariale in grado di consentire la sopravvivenza ed il rilancio del sito di Vado Ligure – sottolinea il segretario provinciale Fiom Andrea Mandraccia -. All’odierno vertice svoltasi al MISE finalmente il Gruppo Bombardier ha gettato la maschera. Il ritardo nella collaborazione con Hitachi per la produzione dei treni regionali a potenza distribuita è dovuto anche ad una propria volontà con relativo cambio di piano industriale che porta Bombardier a prediligere una ipotetica collaborazione con Hitachi sull’alta velocità” precisa l’esponente sindacale.

“Peccato però che col cambio dei vertici Trenitalia l’opzione di una gara per ulteriori 50 Zefiro 1000 (di cui 15 opzionando il precedente contratto tra Trenitalia, Hitachi e Bombardier) non sia più, almeno per il momento, in campo. Pertanto l’unico carico di lavoro su cui lo stabilimento può contare è quello legato alle locomotive DC3 con termine estate 2019. Se saranno confermati ulteriori 12 mesi di cassa integrazione straordinaria per area di crisi industriale complessa (al netto di positive novità sugli ammortizzatori sociali che potrebbero a breve uscire) la visibilità di sopravvivenza della fabbrica di Vado è fissata fine 2019”.
Pochi giorni fa l’a.d. di Bombardier Italia aveva annunciato con grande enfasi la costruzione di nuove modernissime motrici. L’annuncio era avvenuto in Germania.

Chi scrive questa nota si era permesso di avanzare qualche dubbio sulla correlazione con lo stabilimento di Vado Ligure indirizzando alla testata online, che aveva messo in pagina questa notizia con grande rilievo, questa nota:
“Letto della presentazione delle nuove motrici Bombardier, avvenuta in Germania. Sorge una domanda immediata: lo stabilimento di Vado è tecnologicamente attrezzato per partecipare alla fabbricazione di questo prodotto. Perché questo è il punto nodale del possibile mantenimento di una presenza industriale in Provincia di Savona (oltre a Bombardier, naturalmente): quello del livello di capacità di adeguamento e innovazione tecnologica. Vale per Bombardier, Piaggio, Mondomarine, eccetera ed è stato lo scoglio sul quale si sono infrante Ferrania, Acna, Tirreno Power nel corso del tempo. In assenza di un piano industriale ed essendo arenati su Maersk (che fa logistica e non produzione) e su Invitalia nella vicenda dell’area di crisi complessa, della quale l’ultima notizia utile ha riguardato il rinvio del termine per la presentazione delle domande di interesse per le aree. Un rinvio accolto paradossalmente come una vittoria, come – del resto fanno i sindacati quando si annuncia la proroga della cassa integrazione. Grazie Franco Astengo.”
La domanda che ci si era permessi di avanzare sembra aver già ottenuto oggettivamente una risposta con le notizie arrivate oggi.

Sarebbe necessaria una forte mobilitazione di tutta la Provincia di Savona: difficile da realizzarsi considerate le condizioni estremamente precarie nelle quali versano le altre più importanti unità produttive.

In realtà ,per quel che riguarda Bombardier (in relazione anche alle esperienze accumulate in passato) il rischio vero è quello dello smantellamento.

Il nodo è sempre lo stesso e sul quale ci battiamo da anni: quello del livello di capacità di adeguamento tecnologico. Su questo punto (oltre che in altre situazioni su quello del rapporto produzione/ambiente) si è verificata la deindustrializzazione della provincia di Savona in un quadro di corrività da parte degli industriali in un quadro di logica di scambio e di insufficiente comprensione di ciò che stava accadendo da parte dei sindacati ( a partire, almeno, dagli anni’80 del secolo scorso).

Con il massimo di solidarietà esprimibile verso i lavoratori.

Si attendono sempre notizie dell’area di crisi industriale complessa e delle infrastrutture utili per la piattaforma Maersk (ricordando che la stessa fa logistica e non produzione e che il porto di Vado è in mano ai cinesi).

Il M5S incurante del ridicolo oggi reclama in fondi per il raddoppio della Finale–Andora: situazione che si trascina, credo, almeno dall’800.

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Il piano di Savona per combattere l’Europa: più Europa!

Ve lo ricordavate il Professor Paolo Savona? Il pericoloso sovranista, il pensatore libero e scomodo che, per un paio d’ore, aveva agitato i sonni dell’Europa. Il difensore degli interessi patri, candidato in pectore a fare il Ministro dell’Economia nel ‘Governo del Cambiamento’, fatto fuori, senza troppe cerimonie, da Mattarella in persona e infine riproposto nel ruolo di Ministro per gli affari europei. Ci chiedevamo che fine avesse fatto e finalmente abbiamo avuto una risposta: era impegnato a scrivere di proprio pugno una vibrante lettera all’Europa.

All’apparenza, e ad una lettura superficiale, la missiva di Savona sembra improntata ad un generico buon senso. Il messaggio principale infatti è: per uscire dalla crisi che attanaglia l’Europa ormai da un decennio, c’è bisogno di politiche pubbliche, coordinate a livello europeo, che stimolino la domanda aggregata. In particolare, si fa riferimento alla necessità di investimenti pubblici nelle infrastrutture e di interventi volti a creare una knowledge based economy (un po’ di latinorum non si nega a nessuno). È però interessante provare a scavare un po’ più a fondo nella lettera, andare oltre quella che, nei fatti, è una semplice ed innocua enunciazione di principio e cercare di capire qualche elemento della visione d’insieme e del progetto di Savona.

Per prima cosa, è interessante notare come il Ministro, forse ancora scottato dalla tirata di orecchie ricevuta e desideroso di accreditarsi come persona per bene, senta il bisogno di mettere in chiaro, fin dal secondo paragrafo della prima pagina, che l’Italia “riconosce che il mercato comune, di cui l’euro è parte indispensabile, è componente essenziale del suo modello di sviluppo”. Per poi ribadire che gli interventi che egli propone hanno come scopo quello di “rendere irreversibile l’euro”, “rivitalizzare il consenso necessario per l’Unione Europea e l’euro” e così via. Questo per ricordare ancora una volta come la presunta sfida rappresentata dal Governo giallo-verde all’Europa dell’austerità sia, al massimo, un bluff agitato a scopi propagandistici, al quale non si accompagna alcuna volontà di rottura o semplicemente di cambio radicale. Ma questo, d’altro canto, non ci stupisce, era abbastanza chiaro fin dal principio. Bastava leggere il contratto di Governo.

La cosa che più colpisce è la sparizione totale della politica e la riduzione della questione – la crisi europea, la crisi di legittimità dell’Unione Europea, la disoccupazione che esplode... – ad un semplice problema tecnico.

Apparentemente, governanti ed istituzioni europee stavano semplicemente aspettando che Savona spiegasse loro che per far ripartire la produzione è necessario stimolare la domanda aggregata. E che li convincesse che i vincoli imposti dai Trattati europei non sono un ostacolo insormontabile.

A sentire il Ministro, sarebbe infatti sufficiente “una più attenta interpretazione degli accordi di Maastricht”. In una economia capitalistica, la disoccupazione è uno strumento necessario per imporre moderazione salariale e disciplina ai lavoratori. A leggere la lettera, tuttavia, il problema sembra semplicemente che chi ha preso le decisioni negli ultimi decenni non ha letto gli stessi libri di Savona. La stessa pseudo-ingenuità pervade l’analisi dell’operato della BCE.

Come mai, infatti, l’istituto guidato da Draghi, nei mesi della crisi degli spread sui titoli del debito sovrano, ha agito in maniera così intempestiva, rendendo la situazione di Paesi come l’Italia pressoché insostenibile? Semplicemente la BCE “si trovò impreparata a fronteggiare la situazione e la speculazione”. Nella lettura fornita da Savona e contrariamente a quanto appare evidente, non c’è stata nessuna volontà politica di portare un Paese sull’orlo del baratro per poi salvarlo all’ultimo minuto, al prezzo dell’imposizione delle riforme lacrime e sangue del Governo Monti. Semplicemente, la BCE non sapeva come si fa. Ebbene, per raddrizzare questi piccoli incidenti di percorso, e questa è l’unica proposta concreta che la lettera – e quindi il Governo – avanza, sembra auspicabile l’istituzione di “un Gruppo di lavoro ad alto livello”, che elabori “suggerimenti utili a perseguire il bene comune, la politica che manca al futuro dell’Unione e alla coesione tra gli Stati membri”.

 Altri aspetti della lettera colpiscono:

1) Savona propone di interpretare in maniera più flessibile i parametri che l’Europa impone su conti e deficit, per permettere ai paesi in difficoltà un po’ di spesa pubblica. Poi nota: come si possono tranquillizzare i paesi creditori (le virtuose Germania, Olanda, Austria etc.) sul fatto che non saranno loro, un giorno, a doversi fare carico del debito dei paesi spendaccioni (le pigre Italia, Grecia, Portogallo etc.), qualora questi ultimi non si dimostrassero in grado di ripagarlo? La soluzione è semplice. Il ministro, sovranista tra i sovranisti, suggerisce una “ipoteca sul gettito fiscale futuro o di proprietà pubbliche in caso di mancato rimborso di una o più rate”. In parole povere, il Ministro propone di sequestrare una parte delle tasse pagate dai cittadini del paese debitore, o di espropriare qualche proprietà pubblica, e di destinarle in automatico all’espiazione delle proprie colpe. Il debito pubblico, infatti, rimane un problema. Non uno strumento necessario per stimolare la crescita, ma uno stigma. In un mondo ideale, ci dice Savona, gli eccessi di debito pubblico rispetto al PIL sarebbero stati sistemati prima dell’adozione dei parametri di Maastricht (p. 12).

2) L’unico problema delle privatizzazioni selvagge e della precarizzazione del mercato del lavoro imposte, negli anni, dall’Europa (Savona non le nomina mai espressamente, preferendo un più asettico “riforme”) è che non sono state coordinate adeguatamente con politiche di domanda. Hanno tuttavia “migliorato l’efficienza generale dei sistemi economici nazionali” ed in quanto tali devono rimanere un pilastro su cui costruire l’Europa che Savona sogna. D’altro canto, in tutta la lettera non si parla mai di distribuzione del reddito o di compressione della quota salari, che di fatto è stato l’unico effetto reale delle riforme che il Ministro elogia.

3) Le delocalizzazioni? Di per sé, secondo il pensiero di Savona, non sono un problema. Nella misura in cui hanno “un effetto incentivante rispetto all’intera economia dell’UE” vanno sostenute ed aiutate. Sorprendentemente, non si menziona come un problema la ricerca da parte di padroni e padroncini di retribuzioni salariali da fame e condizioni di lavoro peggiori come variabile in base alla quale decidere dove portare i propri capitali.

4) La moneta unica “svolge un ruolo determinate nello sviluppo delle economie export-led, trainate dalle esportazioni, come la gran parte di quelle europee”. Savona dimentica di esplicitare in cosa consista questo ruolo: obbligare i Paesi a perseguire la competitività sui mercati esteri attraverso la compressione e la svalutazione salariale, poiché la svalutazione della moneta non è più uno strumento disponibile.

Nonostante qualche anima candida, colpita da un’infatuazione verso il Governo giallo-verde, veda nella lettera un importante avanzamento verso la conquista del bene, ancora una volta la realtà presenta il suo conto. Una cosa è fare gli sbruffoni con i disperati in fuga dalla miseria, un’altra è discutere con l’Europa dell’austerità. In questo, l’esecutivo Salvini-Di Maio, chiacchiere a parte, segue un copione già visto ed interpretato da Renzi: quando si è lontani da Bruxelles, fare la voce grossa, ringhiare e promettere rivoluzioni. Quando si interloquisce davvero con le istituzioni europee, responsabilità, calma e ragionevolezza. Non sia mai che cada dal tavolo qualche briciola di flessibilità.

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28/09/2018

Nicolas Maduro all’Onu: “Noi siamo gli eredi di Mandela



Il presidente del Venezuela, Nicolas Maduro, nel suo intervento alla 73 ° dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite (ONU) a New York, ha dichiarato che il suo Paese è vittima di un’aggressione permanente in campo economico, politico e mediatico, guidato dal governo degli Stati Uniti di Donald Trump. Nicolas Maduro ha duramente attaccato Trump, il quale si era “scagliato di nuovo contro il nobile popolo del Venezuela, sollevando la dottrina che fa 200 anni fondò il governo degli Stati Uniti (USA)”.

Il riferimento del Presidente venezuelano alla famigerata Dottrina Monroe è costante nel discorso di Maduro, il quale ha anche ribadito che il suo progetto di governo è autonomo, basato sulla democrazia e le richieste sociali,” ma chiari e precisi interessi stranieri “vogliono fermare il corso di un progetto rivoluzionario”. Sulle dichiarazioni del presidente Trump del giorno prima, il Presidente Maduro ha insistito sul fatto che il Venezuela è un paese molestato e aggredito, sottoposto per due anni a persecuzioni illegali per il diritto internazionale attraverso il blocco economico imposto dagli Stati Uniti. “Il Venezuela non può negoziare alcuna transazione internazionale attraverso il dollaro (...) è soggetto a una serie di sanzioni economiche, illegali e unilaterali”, ha detto.

Nel proseguo del suo intervento, il presidente del Venezuela ha denunciato all’ONU come il tentativo di attacco terroristico contro l’alto comando del governo venezuelano è stato pianificato negli Stati Uniti e ha richiesto il sostegno delle Nazioni Unite per indagare sull’evento.

Nel suo discorso, il leader rivoluzionario ha attaccato poi gli Stati e le organizzazioni internazionali che rendono invisibili problemi internazionali – come la crisi migratoria che si verifica in America Centrale, Africa ed Europa. “Non voglio parlare della situazione reale dell’America Latina e dei Caraibi, al confine con i migranti del Messico. Non voglio sottolineare la gravità della crisi dell’immigrazione causata dalla distruzione della Libia. (E ‘) lo stesso schema delle armi di distruzione di massa in Iraq. ” Inoltre Maduro ha riferito che il tentativo di creare un’emergenza per giustificare “intervento militare internazionale, il controllo del nostro paese (...) far finta che utilizza una crisi umanitaria – concetti delle Nazioni Unite – per giustificare una coalizione di paesi” contro di lui.

E’ poi arrivato l’invito formale a Trump per un incontro. "Uomo del popolo, non sono un magnate. Pensate tutta la differenza. Ma io, Nicolas Maduro, sarei disposto a stringere le mani al Presidente degli Usa per negoziare” perché “il Venezuela promuove e pratica il dialogo politico e la soluzione dei conflitti internazionali attraverso la comprensione, non la forza”. “Io, Nicolas Maduro, sarei disposto a sedermi e parlare con il presidente degli Stati Uniti, se necessario. Come Presidente del Movimento dei Paesi non Allineati, il Venezuela, lo ribadisco, promuove il dialogo e la pace per la soluzione dei conflitti internazionali”.

“La voce del Comandante Hugo Chavez risuona ancora in quest’Aula mentre chiede giustizia. Giustizia per il mondo. Giustizia contro il colonialismo e l’imperialismo. Oggi possiamo decidere: abbiamo passato 20 anni di Rivoluzione. Gli ultimi tre anni sono stati i più duri ma oggi posso dire che, di fronte alla persecuzione politica, mediatica, economica, vi posso dire che il Venezuela è più forte che mai. Abbiamo resistito e abbiamo tratto forza nella costruzione di un modello sociale proprio, autonomo e indipendente. Lo diciamo a tutti: è una rivoluzione di giustizia, indipendenza e dignità.”

Maduro ha anche voluto ricordare Mandela. “Siamo stati testimoni dell’omaggio a Nelson Mandela fatto qui alle Nazioni Unite. Parlare di Mandela è parlare di rivoluzione, ribellione alle ingiustizie. Si è cercato di raccontare un Mandela nuovo, un Mandela che non lottò. Mandela è coraggio. Mandela è ribellione alle ingiustizie e agli oppressori. Noi siamo gli eredi di Nelson Mandela e gli eredi di tutti i leader africani che hanno lottato contro lo schiavismo e il colonialismo. Come è cambiato il mondo? Trent’anni fa Mandela era considerato un terrorista per il Congresso nordamericano ed era nella lista di sanzionati. Vi suona familiare vero? Nelson Mandela, il perseguitato, il terrorista oggi è una bandiera che abbracciamo con amore, coraggio. E’ il simbolo di quello che si può ottenere con il coraggio e la ribellione alle ingiustizie”.

Nel corso del suo intervento Maduro ha espresso sostegno e solidarietà per la lotta palestinese per i loro territori; ha chiesto la cessazione del blocco economico, finanziario e commerciale contro Cuba “che ora intendono applicare anche contro il Venezuela”. Ha fatto riferimento, infine, alla lotta del popolo siriano contro i terroristi e ricordato la criminale invasione della Nato contro la Libia nel 2011.

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