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31/08/2016

Brasile: destituita Dilma, America Latina sempre più a destra

Alla fine il Senato del Brasile ha approvato oggi la mozione di destituzione della presidente Dilma Rousseff, ponendo così termine a 13 anni di governo del Partito dei Lavoratori – alleato con numerose formazioni di centrodestra e centrosinistra, la maggior parte dei quali gli hanno voltato le spalle negli ultimi mesi – nel paese sudamericano. I senatori hanno votato 61 a 20 a favore dell'impeachment in base all'accusa che la presidente avrebbe manipolato il bilancio dello stato per garantirsi la rielezione.

Ora Michel Temer, 75 anni, ex vice presidente di Rousseff della quale ha accelerato la caduta, assumerà pienamente la presidenza. Impopolare come la rivale e coinvolto in numerosi scandali per corruzione, Michel Temer giurerà in Parlamento in giornata nel corso di una breve cerimonia, prima di volare in Cina per partecipare al G20. Temer esercita già la presidenza ad interim dopo la sospensione, il 12 maggio scorso da parte del Senato, della prima donna eletta, nel 2010, alla guida del quinto Paese più popoloso del pianeta. Sprofondato in una crisi economica e politica di storiche dimensioni (anche a causa del rallentamento di tutto i Brics e del crollo del prezzo del petrolio e del gas), sullo sfondo di un mega-scandalo di corruzione, il Brasile torna in mano alle destre e alle oligarchie che guardano a Washington e mirano a cancellare la maggior parte delle riforme sociali varate dai governi guidati dal PT a partire dal 2003, anno dell’elezione di Luiz Inacio Lula da Silva, che hanno permesso a circa 40 milioni di brasiliani di uscire dalla miseria.

Intanto ieri davanti al Senato brasiliano dove era in corso il dibattito sull’impeachment manifestanti di sinistra e polizia si sono scontrati; le forze dell’ordine hanno usato i gas lacrimogeni nel tentativo di disperdere la folla che gridava al golpe in riferimento al complotto delle destre che ha portato alla rimozione di Dilma Rousseff dalla presidenza. Gli strali dei sostenitori delle forze di sinistra – che non risparmiano critiche ad un Pt che negli ultimi anni ha perso ogni spinta al cambiamento sociale e si è limitato a governare insieme a quelle forze politiche di destra che poi gli hanno teso una trappola mortale – puntano il dito in particolare contro Temer, leader del Partito Movimento Democratico Brasiliano (Pmdb), ex alleato della presidente destituita e che ora potrà governare fino al 2018 defraudando più di 50 milioni di elettori brasiliani che alle presidenziali avevano scelto la candidata del Pt. Appena designato alla presidenza, Temer ha formato un governo di destra e liberista, tutto di bianchi e di esponenti dell’oligarchia che come primo provvedimento hanno varato un mega piano di privatizzazioni, in particolare ai danni dell’azienda petrolifera di stato, la Petrobras, saccheggiata negli ultimi anni da quegli stessi esponenti politici reazionari che ora sono riusciti a destituire Dilma Rousseff accusata non di corruzione ma di aver ‘alterato’ il bilancio dello Stato per evitare che la crisi economica che investe il paese apparisse in tutta la sua gravità di fronte all’opinione pubblica. Mentre la magistratura ha chiesto le dimissioni e l’arresto di Renan Calheiros, presidente del Senato accusato di corruzione e il presidente della Camera, Eduardo Cunha, è stato a sua volta destituito, dal 12 maggio numerosi sono stati i nuovi ministri che si sono dovuti dimettere per lo stesso motivo o per evidenti conflitti di interesse.

Ora, dopo l’ennesima sconfitta, probabilmente Dilma Rousseff ricorrerà alla Corte Suprema, come ha già annunciato nei giorni scorsi. Mentre scriviamo i senatori devono ancora votare sulla possibilità che Rousseff sia inabilitata da ogni incarico pubblico per i prossimi otto anni. Secondo la Costituzione brasiliana, un presidente destituito dovrebbe perdere i diritti politici per otto anni e non poter ricoprire alcun incarico governativo, né ruoli di insegnamento in università pubbliche. Il PT ha però chiesto e ottenuto che si tenessero due voti distinti, ottenendo l'assenso del presidente del Supremo tribunale federale, Ricardo Lewandowski.

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Echi di famiglia fascista: il “Piano nazionale della feritilità”

Se c'è un argomento delicato è quello della riproduzione, maternità/paternità e dintorni, con tutto lo strascico giustamente inesauribile di aspettative, paure, imbarazzi, gioie, problemi economici ed educativi, ecc.

Un governo serio, su questo, dovrebbe sostanzialmente tacere.

Naturalmente è sempre esistito un problema “sistemico”, ovvero dimensionato sull'eccesso o la scarsità di nuove nascite in conseguenza di guerre, carestie, migrazioni, o – infine – evoluzioni culturali nella modernità.

Un governo serio, in quanto responsabile dello sviluppo del paese, di fronte alla caduta della natalità può certamente mettere in campo politiche sociali che aiutano la scelta della maternità nelle donne o comunque facilitano la vita delle coppie in età riproduttiva. Cose normali e semplici, come diritti sul lavoro per le donne con figli o in attesa, asili nido pubblici e semigratuiti, sanità universale ed altrettanto semigratuita, scuole ben organizzate che garantiscano un tempo ragionevolmente “pieno”, ecc.

Stiamo vivendo appunto un periodo del genere, con la natalità crollata a livelli inquietanti. E anche un cieco sa dire perché. I giovani (gli iperfertili, no?) sono in genere disoccupati (circa il 40%, dice l'Istat), hanno “lavoretti” ultra precari e sottopagati, spesso sono invitati a prestare lavoro gratuito (“volontariato”, preferiscono chiamarlo), ecc. Una condizione che li obbliga spessissimo a restare in casa con papà e mamma, per non spendere in affitti, bollette, bollo e assicurazione auto molto più quel che guadagnano (quando lo guadagnano). Ottenere un posto in un asilo pubblico è un terno al lotto, visto quanti pochi sono. Avere un appartamento in proprio è una chimera... Diciamo che il “disincentivo” alla figliolanza è piuttosto forte, giusto?

Un governo ridicolo la mette invece sul piano moralistico-terroristico, puntando l'indice accusatorio contro le donne che lasciano passare gli anni più fertili senza “adempiere al loro compito di riproduttrici”. Governi fascisti, insomma, che ritengono di poter usare i corpi dei cittadini – in questo caso delle sole donne – come una (l'ultima, in tempo di privatizzazioni) “risorsa nazionale pubblica”.

Per fortuna, direte voi, non abbiamo più governi simili...

Errore. Il ministero della sanità o come si chiama adesso, guidato dalla neomamma Beatrice Lorenzin, ha messo in campo proprio un'iniziativa del genere, dichiarando il prossimo 22 settembre come fertility day.

Complimenti per lo sprezzo del ridicolo, ma sarà meglio guardare cosa c'è dentro questa iniziativa o “campagna”. E vi proponiamo dunque di prendere visione del testo con cui il ministero “spiega” le sue intenzioni, pomposamente chiamato “Piano nazionale per la fertilità” (l'ultima pianificazione possibile ai tempi della Troika?).
PIANO NAZIONALE PER LA FERTILITÀ

“Difendi la tua fertilità, prepara una culla nel tuo futuro”

Per favorire la natalità, se da un lato è imprescindibile lo sviluppo di politiche intersettoriali e interistituzionali a sostegno della Genitorialità, dall'altro sono indispensabili politiche sanitarie ed educative per la tutela della fertilità che siano in grado di migliorare le conoscenze dei cittadini al fine di promuoverne la consapevolezza e favorire il cambiamento. Lo scopo del presente Piano è collocare la Fertilità al centro delle politiche sanitarie ed educative del nostro Paese. A tal fine il Piano si prefigge di:

1) Informare i cittadini sul ruolo della Fertilità nella loro vita, sulla sua durata e su come proteggerla evitando comportamenti che possono metterla a rischio.

2) Fornire assistenza sanitaria qualificata per difendere la Fertilità, promuovere interventi di prevenzione e diagnosi precoce al fine di curare le malattie dell'apparato riproduttivo e intervenire, ove possibile, per ripristinare la fertilità naturale.

3) Sviluppare nelle persone la conoscenza delle caratteristiche funzionali della loro fertilità per poterla usare scegliendo di avere un figlio consapevolmente ed autonomamente.

4) Operare un capovolgimento della mentalità corrente volto a rileggere la Fertilità come bisogno essenziale non solo della coppia ma dell’intera società, promuovendo un rinnovamento culturale in tema di procreazione.

5) Celebrare questa rivoluzione culturale istituendo il “Fertility Day”, Giornata Nazionale di informazione e formazione sulla Fertilità, dove la parola d’ordine sarà scoprire il “Prestigio della Maternità”.
Lo storytelling è la vera cifra del governo Renzi, ma qui le “palle” sono oscurate dall'intento palesemente “integralista”: “Operare un capovolgimento della mentalità corrente volto a rileggere la Fertilità come bisogno essenziale non solo della coppia ma dell’intera società”, “Celebrare questa rivoluzione culturale“, ecc.

Anche i punti che ogni essere pensante ritiene importantissimi (“informazione”, “assistenza sanitaria”, “conoscenza delle caratteristiche funzionali”, ecc) sono declinati in funzione ideologico-persuasiva. “Donne, fate figli per la Patria prima che l'orologio biologico vi crei problemi!”, si sente urlare dalle stanze di un ministero.

Si potrebbe ironizzare a lungo su un ministro della salute che non ha alcuna nozione di medicina (non sarebbe indispensabile, è vero, ma almeno una laurea qualsiasi non le avrebbe sporcato il curriculum...), che si circonda di collaboratori in evidente trance eugenetica, con qualche venatura stile Adinolfi o Militia Christi... Ma non c'è proprio nulla da ridere.

Tutto il testo è ossessivamente concentrato sulle donne, sulla riproduzione come “dovere biologico”, mentre ai maschi – nella "versione Facebook ben presto oscurata – sono riservate facezie da avanspettacolo pro-Salvini, come quella confusione (intenzionale, ammiccante, subliminale, suggerita da una buccia di banana, sgonfia e a terra…) tra infertilità e impotenza. Insomma, se non fai figli forse è perché “nun gliela fai...”.

Di fronte a una simile offensiva, che pretende di “rispondere” in modo delirante a un problema sistemico reale (il calo della natalità e il suo peso nell'evoluzione del paese), non sembra però sufficiente trincerarsi – come molti/e fanno – dietro la sola, ultra legittima, “libertà di scelta”. Come se davvero ogni essere umano fosse una monade senza rilevanza sociale (ricordate la Thatcher? “non esiste la società, solo gli individui”), un consumatore davanti agli scaffali del supermercato. Un vuoto di relazioni e vincoli sociali che qualcun altro, come sempre, si propone di riempire.

Il "piano" Lorenzin: C_17_pubblicazioni_2367_allegato

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Pegasus, software spia israeliano al servizio degli Emirati Arabi

di Michele Giorgio – Il Manifesto

Ahmad Mansour se l’è vista brutta negli ultimi anni. All’inizio del 2011, dopo aver firmato una petizione che chiedeva riforme democratiche ai ricchi regnanti di Dubai, Abu Dhabi e degli altri Emirati, fu travolto da una campagna diffamatoria online orchestrata dall’apparato di sicurezza. Twitter, Facebook, televisione e radio diffusero informazioni false su di lui. Lo fecero passare per un degenerato nemico dello Stato. Poi ad aprile venne incarcerato per quasi otto mesi per aver “insultato i governanti”. Infine a novembre fu condannato a tre anni per lo stesso “reato”.  Le proteste internazionali lo salvarono dalla prigione. Da allora Mansour prosegue, tra mille ostacoli e minacce, la sua attività a difesa dei diritti umani. Sa che i servizi di sicurezza lo tengono costantemente sotto controllo. Così quando qualche settimana fa ha ricevuto un sms sospetto con l’invito a cliccare su un link, ha deciso di rivolgersi al Citizen Lab (un gruppo di esperti di sicurezza dell’Università di Toronto). Un eccesso di cautela che si è rivelato provvidenziale.

Se avesse  cliccato quel link, gli hanno spiegato, il suo iPhone 6, grazie a uno spyware (un programma di spionaggio), sarebbe diventato uno strumento perfetto per sorvegliarlo in tutto: gli spostamenti, i messaggi inviati e ricevuti, le telefonate. E, sorpresa tra le sorprese, dietro allo spyware utilizzato dalla polizia politica degli Emirati per tenerlo sotto controllo, c’è il Nso Group, una società israeliana specializzata nella vendita di software spia che impiega ex membri dell’unità 8200 dell’intelligence militare incaricata di intercettare le comunicazioni elettroniche: email, social network e telefonate. Lo scopo principale della 8200, ha scritto in passato la stampa israeliana, è quello di «controllare ogni aspetto della vita dei palestinesi». Registra qualsiasi dettaglio «dannoso» alle loro vite – preferenze sessuali, problemi finanziari, malattie e relazioni extraconiugali –  per servirsene, a tempo debito, «per estorcere o ricattare le persone». Tra le telefonate intercettate con più regolarità ci sarebbero proprio quelle a sfondo sessuale. «Nell’intelligence i palestinesi non hanno alcun diritto – spiegò  Nadav, un sergente al quotidiano britannico Guardian, dopo il dissenso espresso due anni fa da 43 membri dell’unità 8200 – Non è come per i cittadini israeliani che, se si vogliono raccogliere informazioni su di loro, è necessario andare in tribunale». I dati raccolti servono in molti casi a far diventare determinate persone spie dell’occupante, minacciando di rivelare fatti personali delicati.

L’attivista degli Emirati Mansour perciò doveva diventare un libro aperto e ricattabile per i suoi controllori e la Nso ha messo a disposizione dei servizi di sicurezza degli Emirati, ufficialmente ancora “nemici” di Israele, il software giusto, Pegasus. Il mondo è rimasto all’oscuro per settimane. I possessori di un iPhone o di un iPad hanno installato su suggerimento della Apple un aggiornamento di emergenza, iOS 9.3.5, senza sapere che risolve tre punti deboli, sfruttati da Pegasus, del sistema operativo del gigante di Cupertino.  

La vicenda di Mansour e la vulnerabilità nel sistema di sicurezza della Apple hanno acceso i riflettori su questo settore dell’economia israeliana che viaggia a gonfie vele. Il Nso Group, con sede a Herzliya – ora di proprietà della società statunitense Francisco Partners Management – opera in completa segretezza. Non ha nemmeno un sito web ed è una delle 27 società di sorveglianza elettronica con sede in Israele, secondo i dati contenuti in un recente rapporto della Ong britannica Privacy International. In Israele la percentuale di tali imprese è dello 0.33 ogni 100.000 persone (negli Stati Uniti è dello 0.04.). Tutte queste società affermano di lavorare contro il crimine e il terrorismo. Parole magiche di questi tempi, specie perché arrivano da Israele indicato come “modello di sicurezza” dall’Europa e dagli Usa mentre gli attivisti dei diritti umani lanciano l’allarme sulla scarsa attenzione nei confronti dell’abuso di tale tecnologia da parte di governi che intendono colpire oppositori e dissidenti. 

Le competenze di Israele derivano in parte dal suo esercito che investe generosamente nella cosiddetta cyberguerra. L’unità 8200 è considerata un laboratorio per le future start-up. Dopo aver lasciato il servizio militare, i suoi membri sfruttano le loro conoscenze per fondare aziende o per farsi assumere da quelle esistenti, più di 300, che per la maggior parte producono programmi per proteggere le istituzioni pubbliche dagli attacchi informatici. «Il 10 per cento di queste aziende invece lavora a tecnologie che consentono l’infiltrazione dei sistemi informatici», spiega Daniel Cohen, esperto israeliano di cyberguerra. Secondo Privacy International, tali imprese hanno fornito la tecnologia per monitorare Internet e la telefonia mobile alla polizia segreta in Uzbekistan e Kazakhstan, così come alle forze di sicurezza colombiane, Trinidad e Tobago, Uganda, Panama e Messico.

Youngstown


Siria, accordo Damasco-Ankara? Aleppo in cambio dei curdi

Il governo di Bashar Al Assad ed il governo turco del sultano Erdogan sarebbero sul punto di concludere un accordo che potrebbe ulteriormente far cambiare le sorti della guerra in favore delle forze lealiste siriane.

Secondo il giornale libanese As Safir i dettagli dell’accordo sarebbero questi: Ankara rinuncerebbe ad Aleppo, lasciando campo libero al governo siriano, ed il regime di Damasco concederebbe alle truppe turche di combattere indisturbate le milizie curde per opporsi al progetto autonomista del Rojava (territorio e regione curda all’interno dei confini siriani). Questa intesa di reciproca non belligeranza, suggerita dai russi e dagli iraniani, sarebbe stata sancita in un incontro giovedì scorso a Baghdad. Al summit, organizzato tra i ministri della difesa iracheno e quello siriano, avrebbe partecipato, per la prima volta, il capo dell’intelligence turca, Haqane Fidane.

Proprio in quell’occasione il governo turco avrebbe avuto l’avallo da parte del governo siriano per l’avvio dell’operazione “scudo dell’Eufrate”: in questi giorni il governo di Al Assad si è limitato a rimostranze poco più che formali di fronte all’invasione del proprio territorio nazionale da parte delle forze turche.

Durante il summit sono stati calendarizzati, a Damasco, Mosca e Istanbul, ulteriori incontri bilaterali per discutere dei diversi argomenti di frizione tra i due governi, fino a pochi mesi fa acerrimi nemici.

Da parte turca c’è la richiesta di informazioni relativa a 7 suoi ufficiali che avevano preso parte al conflitto, probabilmente come consiglieri militari, al fianco dei ribelli siriani nelle zone di Aleppo, Latakia e Idlib. La notizia era sempre stata negata dallo stato maggiore turco che adesso, invece, richiede notizie sulla sorte dei suoi militari dispersi dal febbraio 2015. Secondo il quotidiano libanese le autorità turche avrebbero anche ammesso un loro coinvolgimento attivo nella recente battaglia di Aleppo per rompere l’assedio governativo ai ribelli asserragliati nei quartieri orientali della città. Altri militari turchi avrebbero combattuto a fianco dei miliziani del Partito Islamico del Turkestan, addestrati da Ankara. In cambio di un disimpegno da parte turca da Aleppo, il governo di Damasco avrebbe fornito informazioni utili relative alla prigionia di 4 militari turchi, sui 7 dispersi.

Nei dettagli l’accordo tra siriani e turchi includerebbe un impegno di Damasco per cessare qualsiasi attività di supporto e di collaborazione con le milizie curde. In cambio i turchi avrebbero promesso di sospendere il loro sostegno logistico e militare nei confronti di quei gruppi della galassia jihadista, foraggiata da tempo da Ankara, che combatte nella provincia di Aleppo.

In effetti il governo turco ha intrapreso due azioni congiunte. La prima è l’invasione denominata “scudo sull’Eufrate” avviata con la scusa di contrastare e combattere Daesh – minimamente colpito dalle truppe turche – che ha, invece, come obiettivo principale quello di far arretrare i curdi ad est del fiume Eufrate.

La seconda, meno nota ai media occidentali, è la smobilitazione di migliaia di combattenti jihadisti e fondamentalisti (appartenenti principalmente ad Ahrar Al Sham o ai gruppi salafiti turcomanni) dalla zone di Aleppo e Idlib, ed il loro rientro all’interno del confine turco al fine di lasciare agire indisturbate le truppe lealiste siriane disimpegnandole anche da città come Latakia.

Appare molto provocatorio l’atteggiamento di Erdogan nei confronti dei suoi alleati/nemici statunitensi. Da una parte ha avviato un’operazione militare contro i curdi e le milizie delle FDS (Forze Democratiche Siriane) sostenute militarmente dagli Stati Uniti, alimentando ulteriore confusione in una guerra che sempre più sembra essere un “tutti contro tutti”. Da questo punto di vista, il governo di Washington ha chiesto ad Ankara di sospendere qualsiasi azione militare, ha recentemente negato il proprio sostegno aereo all’operazione ed ha, infine, cominciato a non collaborare più con i turchi in materia di prevenzione e sostegno militare in Siria.

Appare abbastanza difficile che gli statunitensi lascino che il governo turco consolidi la propria inedita alleanza con l’asse formato da russi, iraniani e siriani. In quest’ottica, il segretario di stato Kerry, ha eventualmente previsto di occupare una parte del territorio siriano, sotto il controllo turco, in maniera da istituire una sorta di base operativa nel nord e di prevedere, inoltre, l’istituzione di una no fly-zone, senza un preciso mandato ONU, cosa che ha fatto innervosire il Cremlino allontanando sempre di più un accordo congiunto tra Mosca e Washington.

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Trump: un eroe della classe operaia? Una città di colletti blu ne discute

Un reportage del New York Times da Youngstown, città operaia dell’Ohio impoverita e in costante declino, mostra come è visto Donald Trump dai “colletti blu”. Molti ex sostenitori dei Democratici, sentendosi traditi da chi è stato incapace di proteggerli dalla crisi economica che ha disgregato la città, sono intenzionati a votare per il candidato dei Repubblicani, in un miscuglio di motivazioni lucide, luoghi comuni e illusioni. Come ha notato Maximilian Forte (@ZeroAnthro) nel condividere questo articolo su Twitter, molti autori filodemocratici presentano la working class americana come se fosse un’altra minoranza, e non la maggioranza del paese.

di Richard Fausset, 26 agosto 2016

Youngstown, Ohio – “È questo l’idiota che vota Trump?” chiede Mark Wasko, e la sua voce esplode, risuonando per tutto il parcheggio di un supermercato chiuso per fallimento.

Era la tarda mattinata di una giornata feriale, in una città della Rust Belt sofferente e in declino, stufa di essere conosciuta come una città della Rust Belt sofferente e in declino. L’uomo a cui Mark Wasko stava dando dell’idiota – forse sul serio, forse per scherzo, o entrambe le cose – era il suo amico Vincent Archangelo Strines.

Mark Wasko, di 48 anni, aveva visto Strines, un uomo di 55 anni biondo e muscoloso, seduto dietro a un tavolo pieghevole, con un mazzo di sigarilli nel taschino della camicia, intento a vendere biglietti della lotteria per sostenere la sua organizzazione senza fini di lucro di recupero dalle tossicodipendenze.

Così Wasko aveva parcheggiato il suo grande camion di bibite nel parcheggio ed era saltato giù. Era rimasto sconvolto nello scoprire che il suo amico, da sempre un elettore democratico, ora sosteneva Donald J. Trump.

Wasko guarda Vincent Strines negli occhi. “Sei un idiota”, dichiara.

Così è iniziata una variante particolarmente vivace della grande discussione che sta attualmente divorando Youngstown: Trump, un miliardario di Manhattan, merita davvero di essere la voce della classe operaia americana assediata? Si tratta di una domanda di importanza quasi esistenziale, in una città dove la scomparsa dell’industria dell’acciaio è stata così drammatica che Bruce Springsteen ha scritto un’amara ballata sull’argomento. Per molti, il linguaggio schietto di Trump e il suo stile spavaldo suonano familiari e graditi, e sanno di verità.

Youngstown è la classica roccaforte di colletti blu del Midwest, dove la difficoltosa campagna di Trump deve dare una dimostrazione di forza, in particolare tra gli elettori bianchi, se vuole avere una qualche possibilità di vincere le elezioni presidenziali. Affrontare l’argomento Trump sullo sgabello di un bar o all’angolo di una strada – e così andare a scavare nelle questioni della razza, dell’economia, dell’immigrazione e nell’ancora doloroso argomento della disgregazione della città – può essere un affare rischioso.

“Se vuoi darmi un pugno in faccia, fallo pure,” azzarda come noncuranza Strines, dopo una discussione di un quarto d’ora che si è tenuta sotto l’insegna pubblicitaria del vicino negozio di novità per adulti “Sassy Sensations” e ha toccato tutti questi problemi. Le auto intanto sfrecciavano su e giù per Mahoning Avenue, dietro ad aziende chiuse o in difficoltà e a stanche strade residenziali ormai considerate “deserti alimentari”, dopo la chiusura, circa quattro anni fa, del negozio che vendeva generi alimentari, uno Sparkle Market.

Youngstown, una città di circa 65.000 abitanti, oggi è di circa il 60 per cento più piccola di quanto non fosse nel 1960. Decenni fa, neri, irlandesi, italiani ed europei dell’Est vennero a lavorare tra i grandi altiforni delle vecchie fabbriche. Quando quelle imprese hanno chiuso, tra il 1977 e il 1982, decine di migliaia di persone hanno perso il lavoro.

Youngstown, come canta Bruce Springsteen nella sua canzone omonima del 1995, una volta produceva il ferro e l’acciaio per combattere le guerre americane. Ha anche prodotto il grande pugile Ray “Boom Boom” Mancini, una passione per il football del liceo che rivaleggia con quella del West Texas, una tradizione di corruzione politica – per lo più a carico dei democratici – e una lunga storia, di recente un po’ diminuita, di controllo mafioso. È una di quelle rare piccole città con un passato costellato di autobombe, gang criminali e personaggi con nomi come Moosey, Fats, Big Ernie e Brier Hill Jimmy.

Oggi ci sono ancora un po’ di posti di lavoro nell’industria del metallo e della manifattura. A nord della città c’è un grande impianto della General Motors dove si produce la piccola berlina Chevrolet Cruze. C’è un carcere di massima sicurezza che ha aperto nel 1998. C’è un “incubatore di imprese” (un programma progettato per accelerare lo sviluppo di imprese ndt), incentrato su una nuova visione di Youngstown come centro nodale per il software e la stampa 3-D.

In più, c’è qualche segnale di ripresa dalla Grande Recessione: il tasso di disoccupazione, che nel gennaio 2010 aveva raggiunto quasi il 17 per cento, nel mese di giugno era sceso al 7,6 per cento.

A Youngstown c’è la diffusa convinzione che Trump ha ragione quando dice che gli Stati Uniti devono rinegoziare i termini del loro commercio con il mondo.

Vincent Strines racconta che ha lavorato per anni come sovrintendente al controllo di qualità nel settore dell’alluminio, guadagnando bene, fino a quando problemi di salute legati all’alcol non lo hanno costretto al ritiro. A quei tempi, dice, ha visto molte aziende naufragare perché la Cina era in grado di produrre alluminio a una frazione di quello che costava alle aziende americane. E spera che Trump introdurrà tariffe più protettive.

“Penso che sia in grado di riportarci a casa l’economia”, dice. “È il tipo di persona che si fa carico delle cose.”

Wasko sbuffa. Dubita che Trump manterrà anche solo una delle sue promesse. Che dire del muro di confine? Trump non riuscirà mai a ottenere che il Messico lo paghi. E in ogni caso, l’America non è già grande?

E Strines: “Tu pensi che l’America è grande? Vieni a cercare un lavoro a Youngstown. ”

Un lunedì all’inizio di questo mese Trump ha visitato la Youngstown State University, dove ha pronunciato un discorso di politica estera in cui ha promesso una risposta più forte contro quello che lui chiama “terrorismo islamico radicale”. Tra la folla di invitati c’era Donald J. Skowron, un agente di polizia in pensione, attivista del partito repubblicano locale, che mostrava in giro una serie di foto sul suo telefono: si trovava accanto alla strada, vicino a grandi cartelli che, alludendo al partito democratico, dicevano CAMBIA PARTITO e VOTA TRUMP. Dice che 19 su 20 automobilisti gli hanno risposto alzando il pollice. “L’ultimo”, racconta, alzando il dito medio – “mi ha mostrato questo.”

Wendy Aron, di 58 anni, è emersa dal discorso eccitata. Una volta era una sostenitrice del presidente Obama, ma è stata profondamente delusa dalla debolezza della ripresa post-recessione. La sua impresa di pulizie nel quartiere periferico di Boardman si è ridotta, passando da una dozzina di dipendenti a due persone: lei e sua figlia. I lavoratori, ha detto, non hanno più i soldi per pagarsi le pulizie di casa. Molti dei suoi amici più stretti sono rimasti Democratici. “Semplicemente, si sono messi a denigrarmi”, racconta. “Non voglio neanche più parlarci.”

Gayle Hite, impiegata in un ospedale, e il marito, Joseph, non sono stati invitati al comizio di Trump, ma si sono avvicinati il più possibile, restando ad aspettare davanti a un edificio del campus. Lei aveva una maglietta con lo slogan “Far ritornare grande l’America”. Gayle Hite è una repubblicana di vecchia data, ma il marito, che di solito vota per i Democratici, quest’anno è intenzionato a votare per Trump. Avevano visto Trump faticare nel corso di due settimane difficili, raccogliendo critiche, tra le altre cose, per la polemica contro la famiglia di un soldato musulmano americano ucciso. Ma ciò che alcuni hanno visto come una gaffe era, per Joseph Hite, la prova che Trump può veramente far cambiare le cose.

“Non è comprato o venduto da nessuno”, ha dichiarato Hite, guardia carceraria in pensione. “Può dire quello che vuole.” Oggi Joseph Hite, di 64 anni, riceve l’assegno sociale, ma si dichiara preoccupato per i modi in cui un mondo instabile potrebbe mandare in bancarotta il governo. Quanto costerebbe assorbire i rifugiati siriani? E gli immigrati che arrivano attraverso il confine messicano?

La coppia aveva visto “Conspiracy Theory”, programma della televisione via cavo condotta dall’ex wrestler professionista e governatore del Minnesota, Jesse Ventura. Erano preoccupati per la conferenza Bilderberg , l’annuale riunione a porte chiuse di banchieri e politici.

“Questo dimostra che non stiamo davvero conducendo noi il nostro Paese”, dice la signora Hite. “A volte non credo che il nostro voto conti qualcosa.”

Nella canzone di Springsteen “Youngstown”, il narratore, operaio lasciato a casa, spera in un futuro non in paradiso, ma nelle “fornaci ardenti dell’inferno”. Il personaggio è stato ispirato, in parte, da una operaio metalmeccanico realmente esistente, Joe Marshall Jr., di cui Springsteen aveva letto in un libro.

Oggi Joe Marshall, un uomo piccolo e robusto, che sabato compirà 63 anni, si trova a Columbus, dove vive in un appartamento da 500 dollari al mese, e riceve una pensione statale piena. Dopo che l’industria siderurgica è crollata, ha dedicato il resto della sua vita a far rispettare la legge. È un ardente sostenitore di Trump.

«Dice ciò che la persona media ha paura di dire, perché è politicamente scorretto”, dichiara Marshall a proposito di Trump.

Marshall ha lavorato nell’ufficio dello sceriffo della contea di Mahoning per 23 anni, in carcere e in pattuglia – un posto in prima fila, ha detto, per osservare il drammatico declino della città. Ha potuto vedere lo svuotarsi delle classi medioalte, e come il colore della pelle della città è cambiato: Youngstown, che aveva il 74 per cento di bianchi nel 1970, è ora divisa circa a metà tra neri e bianchi.

È arrivata la droga, racconta. Il tasso di omicidi ha spiccato il volo. I giovani mollavano la scuola a 15 anni, dice Marshall, perché non riuscivano a vedere alcuna possibilità di lavoro dopo il diploma.
“Dove devono andare, da Taco Bell?”, domanda. “Ma quello è un lavoro a salario minimo”.

Sette anni fa se ne è andato, accettando un lavoro da agente di custodia.

Oggi le sue opinioni politiche sono eclettiche. I democratici, ha detto, “hanno deluso Youngstown”. Ai tempi dell’acciaio, erano il partito dei regolamenti autoritari, quelli che hanno detto ai gestori che non potevano aprire un secondo altoforno. “Sono posti di lavoro che hanno portato via”, dice.
Ma Marshall ha anche parole dure per il governatore John R. Kasich , un repubblicano. Durante il mandato di Kasich, dice, “Sono stati solo tagli e tagli e tagli e tagli” ai benefici dei dipendenti statali come lui. “Ha cercato di toglierci il diritto alla contrattazione collettiva”, dice.

Su Facebook, i messaggi di Marshall esaltano la bellezza delle famiglie di razza mista, e il contributo degli afro-americani alla cultura del paese. Ma è diffidente nei confronti della grande moschea nel suo quartiere e sospetta che i musulmani lì stiano pianificando un attacco. I democratici, dice, sembrano indifferenti ai bianchi.

“Mi creda, come Gesù Cristo è il mio Signore e Salvatore, non ho pregiudizi o altro”, dice. “Ma sembra che se appartieni a una minoranza ti aiutano molto di più che se sei un bianco.”

In Trump, Marshall vede il riflesso dell’uomo che lo aveva assunto quando voleva diventare deputato, James A. Traficant Jr. , allora sceriffo. Traficant sarebbe poi diventato un membro del Congresso democratico e il personaggio politico più rappresentativo del Northeast Ohio, fino alla sua espulsione dal Congresso nel 2002 dopo una condanna per corruzione (Traficant è morto schiacciato da un trattore nel 2014).

“Era un bravo ragazzo”, dice Marshall di Traficant, che lo aveva assunto personalmente. “Mi ricordo che mi disse, ‘Se fallisci, Marshall, ti ammazzo'”.

Come Trump, Traficant, noto con il soprannome di Jimbo, ha infastidito e sfidato i parlamentari di entrambe le parti, ha elargito insulti personali graffianti, ha attaccato gli addetti ai lavori di Washington e ha rivendicato di parlare in nome dell’uomo comune. Ha proposto l’invio di truppe per proteggere il confine messicano e ha criticato il libero scambio. Ha perfino sfoggiato una pettinatura fiammeggiante che sfidava la gravità, anche se in seguito si rivelò essere un parrucchino.

A Youngstown, la predilezione per Traficant permane, nonostante le accuse che fosse legato alla mafia.

“Bè, tutta la città era fatta così”, ha detto Kathy Miller, coordinatrice della campagna di Trump a Mahoning County. Ammette che è difficile essere d’accordo con tutto ciò che Traficant ha fatto, esattamente come avviene per Trump. Ma dice che la sua attività nei confronti degli elettori è stata ineguagliabile.

“Jimbo è riuscito a prendersene cura ,” dice.

Fuori nel parcheggio, Strines conferma le lodi. “Semplicemente, diceva le cose come stanno, e credo che Trump sia dello stesso tipo di Traficant”, dice.

Strines afferma perfino che Youngstown era un luogo più sicuro e migliore quando la mafia aveva il controllo. E sarebbe la stessa cosa nell’America di Trump.

Una volta, dice, tutti a Youngstown sapevano che se qualcuno combinava casini e non riusciva a seguire certe regole, “lì la mafia sarebbe intervenuta.”

“Ecco dove Trump interverrebbe”, dice. “Una volta che qualcuno deve avere paura, come dovrà l’Iraq, come dovrà la Cina”, ha detto, il mondo diventerà più calmo. “Tutti questi stranieri illegali faranno meglio a mettere in valigia i loro spazzolini da denti e cominciare a correre.”

Wasko non accetta l’argomento: “Quindi cerchiamo di instillare la paura in tutti in America”, risponde con sarcasmo.

“No”, replica Strines, “solo nei cattivi, amico”.

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Apple, non esistono multinazionali innocenti

Apple ha rubato 13 miliardi di tasse ai cittadini europei secondo la Commissione UE, ma è solo la punta dell'iceberg. Tutte le multinazionali hanno come ragione sociale l'elusione e l'evasione dalle leggi e dal rispetto dei diritti sociali e delle norme ambientali, esistono precisamente per questo scopo. E tutti i governi che praticano il libero mercato sono con esse complici.

Il governo irlandese è sotto accusa perché non faceva pagare tasse SOLO ad Apple. Se avesse esteso a tutte le aziende il trattamento di favore riservato alla Mela, e ricordiamo che le tasse sui profitti in quel paese sono già abbassate ad un ridicolo 12,5%, se tutte le imprese in Irlanda fossero state fisco esenti, la UE non avrebbe potuto dire nulla. Come non dice nulla sul trasferimento della sede FCA in Olanda e su tanti altri casi simili. Ogni paese UE può essere un paradiso fiscale per ricchi e multinazionali, purché non faccia favoritismi, il privilegio deve essere uguale per tutti.

Per questo il Lussemburgo dell'attuale presidente della Commissione, Juncker, è sotto accusa. A Fiat e Starbucks, sono stati fatti favoritismi eccessivi rispetto a tanti altri. Ma la concorrenza fiscale al ribasso tra i paesi della UE come tale è ammessa, anzi è nello spirito del trattato di Maastricht e dei suoi principi ultraliberisti. A questo serve la moneta unica, a mettere in concorrenza tra loro gli stati sulla svalutazione di tasse, salari e diritti. E le multinazionali conducono l'asta. Durante il confronto sulla Brexit l'europeismo irlandese è stato contrapposto allo scetticismo britannico. L'Irlanda è stata presentata come il solo paese, tra quelli "periferici", ad aver gestito virtuosamente crisi ed Euro. Altro che gli altri PIIGS. Ora sappiamo a quale prezzo e con quali risultati, ma niente ipocrisia.

Ad Apple è capitato su questa sponda dell'Atlantico ciò che è toccato a Volkswagen sull'altra. Sono rondini che non fanno primavera e stanno tutte dentro il cielo del TTIP. Oggi questo trattato è in crisi per il rifiuto dei popoli, e dobbiamo dire grazie alla Brexit, ma anche perché le multinazionali tra le due sponde dell'oceano hanno conti da regolare. In ogni caso però la linea di fondo che ispira la UE e tutti i suoi governi rimane sempre la stessa: attirare gli investimenti delle multinazionali con concessioni fiscali e sociali per rimpiazzare così i tagli alla spesa e agli investimenti pubblici.

Il governo italiano, non a caso il più ottusamente servile verso il TTIP, il suo regalo ad Apple lo ha già fatto. L'azienda doveva al fisco 880 milioni per Ires non pagata, e lo stato italiano ha transato accontentandosi di 330. Immaginatevi un cittadino normale che debba 880 semplici euro al fisco e che si rivolga all'Agenzia delle Entrate esigendo il trattamento Apple, verrebbe considerato matto. Invece, con Tim Cook Renzi fa i selfie sperando che porti lavoro. Le multinazionali sono al disopra delle leggi e delle regole di tutti noi e per i governi è un merito riconoscerglielo. Quello turco, anche per coprire la sporca guerra contro i curdi, ha subito offerto i suoi servigi ad Apple.

Non sappiamo se la vicenda Apple si concluderà come è iniziata, o, più probabilmente, con una transazione all'italiana o con altro ancora. Quello che è chiaro è che senza mettere in discussione i meccanismi del libero mercato e della globalizzazione liberista le multinazionali continueranno a ricattare il mondo, con l'aiuto dei governi complici. Ed è altrettanto chiaro che la UE e l'euro, che hanno fatto del libero mercato il principio costituzionale, non sono la soluzione, ma parte del problema

La nostra Costituzione, all'articolo 53, impone un fisco progressivo e sono incompatibili con essa i privilegi sulle tasse per chi ha più potere e ricchezza, a partire dalle multinazionali. Che non a caso, assieme a tutti i poteri UE, sostengono il SI alla controriforma costituzionale del governo e temono un vittoria del NO. Che è invece un passo necessario per restituire al popolo il diritto all'eguaglianza, cancellato oggi dai privilegi del mercato globalizzato. Solo un NO ci può salvare.

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Le “priorità” dei paesi Baltici

Nemmeno al terzo tentativo, ieri pomeriggio, il Riigikogu, il Parlamento estone è riuscito a eleggere il nuovo Presidente della repubblica. Nessuno dei tre candidati ha raccolto i 68 – 2/3 dell'assemblea – voti necessari. Entra dunque in scena il Collegio degli elettori che comprende, oltre ai 101 deputati, anche 234 rappresentanti di enti locali e che dovrà riunirsi nel giro di un mese per decidere tra i due candidati – Siim Kallas e Mailis Reps – che all'ultimo turno parlamentare di ieri hanno raccolto il maggior numero di voti (rispettivamente 42 e 26), più altri candidati che il Collegio stesso può ora proporre. Anche nella votazione del Collegio, se al primo turno nessun candidato avrà raggiunto il 50%+1, per il secondo turno rimarranno in corsa i due candidati col maggior numero di suffragi. Se nemmeno in quel caso ci sarà fumata bianca, entro due settimane l'intera procedura ricomincerà da capo in Parlamento. Dal momento della “indipendenza” (dall'Urss) il presidente estone è stato eletto dal Parlamento nel 1992 e 2011, mentre nel 1996, 2001 e 2006 dal Collegio degli elettori.

Se tanta difficoltà pare incontrare il Riigikogu a concentrare su un nome i 68 voti necessari all'elezione presidenziale, con pari facilità il Tribunale circondariale della capitale estone è riuscito a confermare la sentenza emessa due anni fa dal Tribunale amministrativo sul divieto di usare la lingua russa nei ginnasi russi Haabersti e Tonismae di Tallin, come richiesto dalle relative direzioni didattiche. Tra il 2013 e il 2015 istanze simili erano state presentate da cinque ginnasi di Narva e altri 10 di Tallin. Alle direzioni scolastiche rimane ora l'ultima alternativa per ottenere soddisfazione: rivolgere istanza al Tribunale europeo per i diritti dell'uomo.

La questione della lingua russa pare un'afflizione comune ai paesi Baltici, tanto che il Ministro degli esteri lettone Edgars Rinkēvičs ha addirittura chiesto all'ambasciata USA a Riga di non usare contemporaneamente il lettone e il russo nei social network, perché ciò può dar l'impressione che “nel paese ci siano due lingue ufficiali e questo porta alla legalizzazione informale di ciò contro cui abbiamo votato nel referendum del 2012”. L'ambasciata USA ha promesso di correggere la prassi precedente, forse per timore di incorrere nella stessa multa inflitta dal Centro per la lingua di stato al sindaco di Riga Nils Ušakov, “reo” di aver usato il russo per le comunicazioni del Consiglio municipale su Facebook, Twitter e Instagram.

E per ribadire il proprio credo autarchico, a Limbaži, una novantina di km a nordest di Riga, i nazionalisti lettoni della Apvienība "Tēvzemei un Brīvībai"/LNNK (Unione conservatrice “Per la patria e la libertà”) hanno smontato dal basamento il monumento ai marinai sovietici che perirono nella difesa della città nel luglio 1941. Nella Lettonia della istituzionalizzazione della “Legione volontaria SS lettone”, non è questa una novità. Il fatto “nuovo” è che le autorità locali, pur dando il benestare ufficiale e contribuendo con macchinari e finanziamenti allo smontaggio, quasi vergognandosi del gesto, hanno poi dichiarato che esso si è reso necessario perché il monumento era instabile e costituiva un pericolo per i bambini del vicino asilo. In ogni caso l'ambasciata russa a Riga ha indirizzato una nota al Ministero degli esteri lettone in cui si ricorda che, in base all'accordo del 1994, la Lettonia si è assunta l'onere della conservazione dei monumenti sul proprio territorio.

Per dare anche il contributo lituano alla “indipendenza” baltica, il Ministero degli esteri di Vilnius ha levato la propria voce per la continuazione e il possibile inasprimento delle sanzioni UE contro la Russia. Ciò, dopo che sia il premier slovacco Robert Fico, sia la dirigenza ungherese che il presidente ceco Miloš Zeman si erano espressi per l'eliminazione delle sanzioni. E perché tale “indipendenza” sia meglio garantita, è già stato individuato il sito in cui, a partire dalla prossima primavera, verrà dislocato il battaglione Nato destinato alla Lituania: la cittadina di Rukla, (circa 90 km a nordovest di Vilnius) sede della brigata di fanteria motorizzata Gelezinis vilkas. Il battaglione di 4.000 uomini, a guida tedesca, sarà composto di militari norvegesi, croati, francesi e del Benelux. La formazione degli altri battaglioni Nato da dislocare in Polonia, Estonia e Lettonia, come deciso al vertice Nato del luglio scorso a Varsavia, è curata da Gran Bretagna, Canada e USA.

Del resto, le priorità occidentali erano state ribadite pochi giorni fa dal vice presidente USA Joe Biden, incontratosi a Riga coi presidenti di Lettonia, Estonia e Lituania, Raimonds Vējonis, Toomas Hendrik Ilves e Dalia Grybauskaitė: “Mosca deve tener presente” aveva detto Biden, “che la Nato è pronta alla difesa collettiva. Non ci deve essere alcun dubbio sull'applicazione del quinto paragrafo dello statuto Nato. L'attacco a uno, è l'attacco a tutti. Vogliamo che Mosca sappia che noi abbiamo in mente proprio quello di cui parliamo”. La questione era sorta dopo le dichiarazioni di Donald Trump il quale, a differenza di Hillary Clinton – “la Nato è uno degli investimenti di più successo nel futuro” – aveva messo in discussione addirittura l'esistenza stessa dell'Alleanza atlantica, diventata troppo dispendiosa per gli USA e aveva spaventato gli alleati “morosi” con la minaccia per cui “se non ci rimborseranno adeguatamente le somme enormi che spendiamo nella difesa di altri paesi, sono assolutamente pronto a dire a tali Stati: mi congratulo, d'ora in poi vi difenderete da soli”. Qualcuno nel Baltico, consapevole della propria economia azzoppata, aveva inteso che Trump si riferisse proprio a lui.

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Siria, ucciso il vice Al-Baghdadi

Abu Mohammed Adnani, uomo di fiducia di Al-Baghdadi e stratega dell’attacco all’Occidente attraverso azioni d’assalto e attentati suicidi ha cessato di vivere. Lo annuncia l’agenzia Amaq, fonte attendibile del Daesh, e l’ammette anche il Pentagono. Adnani è stato ucciso con un’operazione aerea ad Al Bab, località sita nell’area di Aleppo, a seguito d’informazioni raccolte con un accurato lavoro d’Intelligence. Nato nel 1977 a Banash, in Siria, era una figura di spicco della gerarchia jihadista, ed era in questa fase impegnato in prima persona alle porte di Aleppo per contrastare il molteplice fronte che cerca d’espugnare quel che resta della città: in terra i ribelli dell’Esercito libero, e l’esercito lealista, più le incursioni dell’aviazione di Asad e quelle russe dal cielo. Fra i suoi molteplici compiti c’era anche quello di comunicatore dell’Isis. Tant’è che la stessa agenzia Amaq invita i supporter dello Stato Islamico a lanciare un’ulteriore campagna di minacce all’Occidente utilizzando i social media. La presenza nei luoghi di ritrovo virtuale del web era stata uno dei piani messi a punto con particolare attenzione da Adnani, aveva fruttato un sempre maggior seguito fra sostenitori della branca jihadista di Al Baghdadi e prodotto un reclutamento di miliziani. Ma soprattutto aveva incrementato l’effetto domino di attentati compiuti dai cosiddetti ‘lupi solitari’ che cercano e praticano la strage nei “territori dei Crociati”, come hanno dimostrato i casi di vari attacchi fra Belgio, Francia, Germania usando le tecniche e gli strumenti più diversi. Le Intelligence che studiano le mosse dell’Isis attribuivano ad Adnani la paternità del progetto del mese di fuoco durante il Ramadan che ha mietuto vittime non solo in Europa, con la strage di Nizza, ma negli Usa con l’attentato al night club di Orlando e le sanguinarie bombe di Baghdad.

Con l’eliminazione nello scorso mese di marzo del più antico fra i teorici del gruppo, Abdul Mustafa al Qaduli, e del comandante militare, Omar Shishani, alla cerchia storica di Al Baghdadi restano altre due figure iper oltranziste: Abu Mohammed Al-Shimali che s’occupa dell’organizzazione logistica, con punte soprattutto sull’ormai non più semplice terreno di città e metropoli occidentali, e Abu Omar Al Tunisi, il reclutatore di attentatori suicidi che continua a fare proseliti non solo in Paesi fortemente disagiati. Come mostrano gli attentati negli aeroporti di Bruxelles e Istanbul per destare minori sospetti i kamikaze devono vivere in loco e sembrare cittadini comuni. Certo rispetto alla fase d’attacco e d’espansione anche territoriale sviluppatasi nell’estate 2014 tramite l’occupazione d’una vasta area siriana, la creazione dello Stato Islamico con capitale a Raqqa, l’introduzione d’un controllo militare e socio-politico, con un rapporto oppressivo e intimativo ma anche interlocutivo verso la popolazione, ovviamente maschile, l’attuale momento del Daesh non è del tutto propositivo. Il sogno del grande Califfato diffuso dalle loro mappe di propaganda che s’estende dal lontano Medioriente (compresa l’India e alcune regioni cinesi) per tutta la penisola arabica, Corno d’Africa, l’intero Maghreb fino ai Paesi subsahariani, con l’aggiunta europea della penisola iberica e dei Balcani, rimane appunto un sogno. Però, oltre a restare tuttora radicati nei due stati in dissoluzione (Siria, Iraq), i seguaci di Al Baghdadi sono stabilmente presenti in Algeria, Libia, Egitto, Nigeria, Arabia Saudita, Yemen, Cecenia, Afghanistan, Pakistan. Direttamente o con miliziani locali con cui hanno stabilito alleanze tattiche più che reclutative, ma come accade in alcune aree fortemente destabilizzate (Libia) o in condizione di conflitto permanente (Afghanistan) l’influsso jihadista non è di poco conto. Egualmente prosegue il terrore diffuso dai lupi solitari. Eliminarne l’attuale esperto reclutatore, non vuol dire stroncarne l’attività. Come probabilmente accadrà per Adnani: l’Isis si darà un nuovo stratega. Chi sorride e chi piange proseguono una guerra nient’affatto scontata.


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Assalto finale alla riproduzione del “pensiero critico”

Se si vuol capire quale “logica di sistema” sia dietro il modello di “buona scuola” impugnato da Giannini e Renzi, bisogna leggere queste analisi che vengono da centri di riflessione completamente diversi dal nostro.

Apparso su IlSole24Ore, questo articolo di Nicola Gardini centra il problema cultura chiave delle “riforme” che si vanno accumulando nello schiacciasassi reazionario del governo della Troika: la distruzione delle scienze umane in favore delle discipline tecniche (solo raramente delle scienze naturali, vista la riduzione costante dei fondi per la ricerca scientifica).

Ed effettivamente una certa retorica da “quelli dell'ultimo banco” vede nella cultura “classica” in senso lato semplicemente una insana passione per l'erudizione, “inutile” ai fini pratici. Una tendenza all'abbassamento della qualità del pensiero che è ottimamente rappresentata dall'attuale classe politica, che appare presa direttamente dal bar dello sport (non certo quello di Benni...).

Nessun rivoluzionario ha mai pensato che il livello di preparazione intellettuale formato sugli studi classici fosse un “limite”. Anzi, hanno sempre coltivato con passione studi filosofici, storici, letterari, filologici, raccomandando ovviamente altrettanta attenzione per le “scienze dure”, quelle che dovevano contribuire alla costruzione di un mondo migliore, riducendo la fatica dell'uomo. Perché imparare a pensare significa misurarsi con altri modi di pensare, a mettere in dubbio quel che si sta studiando, a interrogarsi di continuo su quel che si ha davanti ("perché è così?", "siamo sicuri che le cose stiano in questo modo?", ecc). A sviluppare, insomma una critica costante verso gli stessi risultati che si sono raggiunti o che ci vengono proposti come "lo stato dell'arte".

La barbarie intellettuale del presente è in ogni caso una tendenza globale (“Ci sono università in Inghilterra in cui le humanities sopravvivono solo se chi le vuole insegnare va a cercarsi fondi fuori, con laboriose, kafkiane domande, il successo delle quali porta soldi non solo alla persona che ha fatto la domanda, ma allo stesso ateneo che impiega la persona”), dunque non è distintiva della pesudoclasse dirigente italica.

Ma c'è un qualcosa di specificamente “italiano” – nel senso più deteriore del termine, come potrebbe pronunciarlo un tedesco – in questo assalto alle scienze umane e in primo luogo al liceo classico. Solo qui, infatti, è esistita una linea di pensiero elaborata da un latifondista (espressione della proprietà agraria, la più arretrata) diventato però leader del liberalismo nazionale; solo qui si poteva insignire a torto della qualifica di “filosofo” qualcuno che definiva le conquiste del pensiero scientifico come “pseudo-concetti”. Minutaglia, insomma, fatta a immagine distorta del “vero pensiero”.

Una linea di pensiero – il “crocianesimo”, con la sua separazione valoriale tra scienze umane e scienze “dure” – in larga misura adottata da una sinistra diffidente nei confronti della scienza nonostante moltissimi scienziati di primo livello militassero nella fila dell'antifascismo e del comunismo. Come se la certezza garantita dalla ricerca scientifica fosse d'ostacolo alla “duttilità tattica” necessaria a far politica barcamendosi tra la “prospettiva” della Rivoluzione e la quotidianeità della concertazione subalterna.

Quella subcultura è morta trascinando con sé anche il prestigio e l'utilità delle scienze umane insegnate nelle università della penisola. E ciò che ora emerge è appunto una subcultura ancora inferiore, ma perfettamente funzionale a una ristrutturazione globale degli istituti della formazione, che dovranno produrre soltanto “esecutori di procedure per problemi già risolti” e non più “inventori di soluzioni per problemi irrisolti”.

È con tutta evidenza un salto all'indietro, un ritorno nel baratro dell'ignoranza mal nascosta da una sovrabbondanza di “procedure” mandate a memoria, da applicare in automatico.

È il populismo dall'alto che dice ai sottoposti “non studiate, divertitevi; e se proprio dovete imparare qualcosa, che sia utile a noi e non a voi”. Perché chi impara a pensare la complessità è un potenziale nemico del potere esistente.

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Scuola modello per l’occidente

Nicola Gardini

Il liceo classico è sotto accusa, anzi, sotto assedio. Il problema è squisitamente italiano, e non solo perché una scuola del genere è tutta italiana. Gli attacchi al liceo classico, infatti, non vanno presi – se non come concomitanza storica – per parte della diffusa crisi delle humanities che caratterizza le accademie anglo-americane; e non solo quelle. In India, per citare un grande democrazia, il sapere umanistico è stato smantellato. Lì trionfa la matematica. Ecco una delle ragioni per cui i migliori matematici sono indiani. Non parliamo della Cina. La corsa precipitosa alla monetizzazione del sapere, insomma, sta facendo piazza pulita degli insegnamenti letterari e linguistici un po’ dovunque. Ci sono università in Inghilterra in cui le humanities sopravvivono solo se chi le vuole insegnare va a cercarsi fondi fuori, con laboriose, kafkiane domande, il successo delle quali porta soldi non solo alla persona che ha fatto la domanda, ma allo stesso ateneo che impiega la persona. La cosa si commenta da sola. In poche parole: i soldi diminuiscono (ne sono spariti tanti con gli ultimi disastri finanziari) e i dipartimenti di studi umanistici si contraggono, si sciolgono, spariscono. La carriera umanistica per moltissimi ormai è solo un’illusione distruttiva.

L’Italia tutto questo, in pratica, non lo subisce. L’Italia ha il liceo classico. Avendo una certa familiarità sia con l’istruzione italiana sia con quella di vari paesi stranieri, non esito a dire che il liceo classico è l’esperimento di pedagogia più geniale e più fruttuoso che governo occidentale abbia mai messo in piedi: una scuola che fonda principalmente la formazione dell’individuo sullo studio delle lingue antiche, il greco e il latino. Chi esce dal liceo classico – se circostanze slegate dal tipo di studio non si frappongono – conosce la Grecia e Roma e quello che queste civiltà hanno inventano e tramandato e grazie a tale conoscenza sa parlare, sa scrivere, sa pensare, ma soprattutto sa interpretare, mettere in rapporto, relativizzare, confrontare, distinguere, riconoscere il duraturo e l’effimero, dare un nome a fatti diversi, capire la libertà, la bellezza, la varietà e la concordia.

Ma il liceo classico per alcuni non serve più. Questi alcuni sono persone che del liceo classico non hanno un’idea. E se l’hanno, pretendono che venga negato ai giovani in nome di un falso concetto di modernità, che dovrebbe promuovere esclusivamente le scienze. Una simile visione delle cose è limitata da un grave errore: la convinzione che lo studio del greco e del latino non sia cosa scientifica; e che scienza siano solo la fisica, la matematica e la biologia.

Lo studio delle lingue classiche, invece, è scienza tanto quanto lo studio delle leggi della materia o della gravitazione universale. La stessa fisica è un sapere storico, perché analizza campioni di realtà che viaggiano e si trasformano nel tempo. Scienza, indipendentemente dall’oggetto esaminato, è tutto ciò che richiede osservazione, comparazione, sistematizzazione, speculazione là dove i dati mancano, proiezione in avanti. In termini assiologici o gnoseologici non esiste differenza tra lo studio di un frammento di papiro e quello di un neutrino. E questo è così vero che sul latino e sul greco si sono addestrati e si possono ancora addestrare informatici, fisici, ingegneri, medici ed economisti. Solo una lesiva e grottesca riduzione della realtà e della vita umana può negare importanza ai reperti dell’antichità e all’apprendimento di due miracolosi sistemi cognitivi, arrivati fino a noi grazie a un’amorosa e raffinatissima opera di trasmissione, come il greco e il latino. In particolare, eliminare la traduzione (sulla centralità della quale in questo giornale già si è pronunciata Paola Mastrocola) sarebbe un gesto di irresponsabile, gravissimo immiserimento: come sostituire tutti gli originali degli Uffizi con riproduzioni formato poster.

I sostenitori del liceo classico, per fortuna, non mancano. Sono i giovani stessi, e sono persone dei più vari tipi, compresi gli scienziati. Una petizione di un gruppo di professoresse fiorentine dello storico liceo Michelangiolo ha già raccolto circa cinquemila firme, tra cui riconosciamo un Salvatore Settis, una Eva Cantarella e un Luciano Canfora, per citare solo alcuni celebri rappresentanti del sapere umanistico, ma anche due insigni fisici come Guido Tonelli e Carlo Rovelli.

Basta con proposte di riforma boomerang. Basta con questa cecità. Un paese che vuole vivere ha il dovere di sapere prima di tutto dove già eccelle.

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Turchia e Medioriente: che domande dobbiamo porci?

Siamo oltre il mese dallo “strano” (chiamiamolo così) golpe del 13 luglio e i fatti sono in pieno svolgimento: Erdogan, che sta attuando il vero colpo di stato, ha arrestato migliaia e migliaia di persone, fra cui gran parte della magistratura e molti poliziotti, sta procedendo a marce forzate alla completa islamizzazione del paese, è in procinto di ripristinare la pena di morte ecc.

Gode di un consenso di massa reso evidente dalla manifestazione oceanica del 7 agosto. Il che, però, non vuol dire che l’opposizione (o le opposizioni) non esistano o che abbiano un consenso meno forte: quella del 7 agosto era una manifestazione del regime con tutti gli appoggi che questo comporta, mentre a manifestare contro si rischia molto, per cui non siamo in grado di misurare cosa ci sia sotto la cenere.

Dal punto di vista internazionale, il riavvicinamento della Turchia alla Russia è una realtà in pieno corso. Restano ancora punti di inciampo notevoli come la Siria, o i giochi ambigui di Erdogan con il Califfato, ma la Russia ha bisogno nella Turchia per concentrarsi sulla questione ucraina ed ha non pochi argomenti seduttivi verso la Turchia: il nuovo South Stream, la via della seta, le importazioni di frutta e verdura, l’interscambio turistico. Ed ovviamente, la principale attrazione è la protezione che sgancerebbe la Turchia dagli Usa e dalla Nato.

Difficilmente Erdogan può spingersi troppo su questa strada se non si copre le spalle. Forse ha un senso che la maggior parte dei soldati compromessi nel golpe del 13 luglio erano fucilieri della più importante base Nato della Turchia. Gli americani davvero non ne sapevano nulla? O sono caduti nella provocazione di qualche amico di Erdogan che prometteva un appoggio poi mancato? O forse di un terzo, forse più amico di Putin che di Erdogan? Ci mancano troppe informazioni per essere sicuri, ma la cosa decisamente non sembra come ce l’hanno raccontata.

Di sicuro c’è che la piega che stanno prendendo i rapporti fra Turchia e Usa non potrebbe essere peggiore: Ankara ha tutte le intenzioni di fare del caso Gulen il casus belli con gli americani che, dal canto loro, non possono consegnare Gulen a nessun costo, pena perderci la faccia con l’intero Mondo.

Ancora più paralizzati appaiono gli europei che si limitano a dire che se torna la pena di morte, la Turchia non entra più nella Ue e non capiscono che, ormai, alla Turchia non interessa nemmeno un po’ entrare nella Ue.

Semplicemente, l’Occidente non riesce a dare una risposta credibile perché non sa da dove cominciare. Vengono al pettine i nodi decennali di una politica fintamente realistica, in realtà miopemente opportunistica. Per  più di mezzo secolo, la politica dell’Occidente (Usa in testa) è stata riassunta nella nota frase del Presidente “Se deve essere un figlio di puttana, tanto vale che sia il nostro figlio di puttana”. Ma il guaio, per restare nella delicata metafora, è che i “figli di puttana” non sono mai di nessuno ed alla prima occasione, guarda un po’, fanno i “figli di puttana” anche con i loro protettori.

L’Occidente non sta capendo letteralmente niente su quello che accade in Medio Oriente e lo dimostra il caso turco: l’avvenimento del fallito golpe non è stato assolutamente messo in conto. Ed aver chiuso gli occhi di fronte al massacro dei curdi, non aver appoggiato il movimento di piazza Taksim, aver fatto finta di non vedere l’appoggio all’Isis eccetera, non è servito a niente. Erdogan morde la mano che lo aveva nutrito.

Tutto questo riflette l’inadeguatezza dei gruppi dirigenti occidentali di fronte ai processi della globalizzazione che avevano immaginato come una marcia trionfale e che si sta rivelando una discesa a rotta di collo.

D’altra parte, come si fa a parlare di esportazione della democrazia ed insieme coccolare figuri spregevoli come Erdogan o il re dell’Arabia Saudita?

E allora facciamoci queste domande per capire dove stiamo andando a sbattere:
 
1. Come abbiamo fatto a perderci per strada l’unico paese laico del mondo islamico? Ormai della rivoluzione kemalista resta poco o nulla e l’esercito è tutt’altra cosa rispetto quello che era ancora negli anni novanta.
 
2. Quale è la probabilità di una guerra civile? Noi non sappiamo quali siano le dimensioni dell’opposizione ad Erdogan che vanno dall’Islam moderato ai laici, dai comunisti alle minoranze nazionali minori. Non sappiamo neppure se nell’esercito si annidino settori ostili al regime e non penso tanto a residui kemalisti e gulenisti che, a questo punto, saranno solo piccoli gruppi, quanto a settori militari particolarmente legati alla Nato ed ostili alla svolta filorussa che, alla prima occasione, potrebbero avventarsi alla giugulare di Erdogan. Ed una repressione così irragionevolmente estesa  serve solo a creare altri oppositori, anche se, momentaneamente, intimidisce tutti. Non dico che tutto questo accadrà nel giro di qualche mese, forse potrebbero volerci anni, ma è così irrealistico pensare ad una cruentissima guerra civile o, forse, ad un meno cruento colpo di stato, questa volta riuscito?
 
3. E  i curdi che faranno? I curdi ovviamente continueranno e forse non sarebbe poi così sbagliato armarli adeguatamente e sostenerli con ogni mezzo, dato che, allo stato, sono l’unico avversario serio che Erdogan trovi sulla sua strada. Appoggiarli è l’unica reazione seria che l’Occidente possa avere, almeno per ora (consiglio a tutti di seguire gli articoli ed i tweet di Luigi D’Alife sul tema).
 
4. La Turchia resterà nella Nato? Non è detto che la Turchia uscirà dalla Nato (anche perché una parte dell’esercito potrebbe non gradire), ma è decisamente probabile che sia la Nato a trovare conveniente un allontanamento della Turchia che, in queste condizioni, più che un alleato è una spina nel fianco.
 
 5. Se questo accadesse, che effetti geopolitici avrebbe tutto questo? La Turchia è un paese di quasi 80 milioni di abitanti, gode di un particolare peso nel mondo islamico, ha un esercito fra i più agguerriti dell’area, è uno dei paesi emergenti di seconda schiera, si trova in un posto maledettamente strategico, a cavallo fra Ucraina e Medio Oriente e controlla il principale flusso di migranti e rifugiati.

Se un paese del genere si sposta da una area di influenza all’altra, tutto questo non può non avere conseguenze geopolitiche di primissimo piano. Anzi siamo più precisi: questo è il maggiore terremoto geopolitico dalla caduta del muro di Berlino e promette di diventare un punto di svolta di importanza poco inferiore a quello. In primo luogo si profila la possibilità di un grande blocco asiatico Cino-russo turco riunito intorno alla nuova via della seta e come sviluppo ancora più saldo della comunità di Shanghai. Un grande blocco dell’Asia del Nord e del centro che rappresenterebbe un avversario militare in grado di tenere testa agli Usa, per la prima volta dopo la fine del Bipolarismo.

In secondo luogo, questo assegna un'importanza straordinaria alla Grecia che diventa uno dei principali antemurali del blocco avversario e potrebbe essere molto conveniente “bruciare” il suo debito e sostenere il paese. E questo lo può capire anche uno come Tsipras che non è esattamente un genio.

Poi c’è da chiedersi che effetto avrà tutto questo sull’Egitto. Erdogan è legato ai Fratelli Musulmani, resterà con le mani in mano di fronte alla persecuzione dei suoi amici di fratellanza? Sul punto torneremo, per ora segnaliamo il problema.

Infine: l’Isis sta avviandosi alla distruzione del suo Califfato, troverà conveniente allearsi ad Erdogan. La cosa non è semplicissima anche perché gli uni sono hanbaliti ed gli altri hanafiti, ma, sin qui, Abu Bakr ha dimostrato di avere notevole spregiudicatezza e può essere utile nella guerra con i curdi.

Un quadro complesso di cui non è facile prevedere i processi interdipendenti, ma iniziamo a pensarci, anche perché la Turchia ha ottime probabilità di diventare la nuova Sarajevo e mi riferisco alla Sarajevo del 1914.

Scuola. Caos assoluto nei trasferimenti

La misura del caos creato dalla "riforma" Giannini-Renzi può essere presa da questo avviso pubblicato dall'Usp di Siena
AVVISO AI DOCENTI IN MERITO ALLA PRESA DI SERVIZIO

Ai fini della presa di servizio al 01/09/2016 il personale docente di ogni ordine e grado che risulti, dopo le operazioni di mobilità titolare sul codice Provincia e quindi senza sede (o perché non ha ottenuto un ambito di titolarità entro il 31/08 o perché, nel caso di personale assunto in ruolo entro il 2014/15, già in esubero o per qualsiasi altro titolo) dovrà attenersi alle seguenti indicazioni operative:
1. Il personale docente senza sede che presta servizio fino al 31/08/2016 in scuola di questa Provincia dovrà assumere servizio il 1/9 nella medesima scuola
2. Il personale docente senza sede che presta servizio fino al 31/08/2016 in una scuola di altra Provincia dovrà assumere servizio in una qualsiasi Scuola (coerente con l’ordine di titolarità) ritenuta più facilmente raggiungibile dall’interessato.
3. I docenti che hanno presentato domanda di utilizzazione o assegnazione provvisoria sono tenuti, in mancanza di diversa comunicazione da parte di questo Ufficio, a seguire le indicazioni di cui al punto 1. L’elenco delle scuole della Provincia è consultabile sul sito dell’ufficio.
In pratica, leggendo soprattutto il punto 2, ogni docente che non ha ancora saputo presso quale scuola dovrà prestare servizio nell'anno che si apre domani, dovrà-potrà recarsi nella prima scuola che incontra – a caso – e aspettare una buona novella.

Organizzazione perfetta, con i criteri adottati!

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30/08/2016

Siria: Usa annunciano tregua tra Turchia e curdi

Le forze di invasione turche e le milizie curde in Siria hanno accettato oggi pomeriggio di cessare i combattimenti. L'ha affermato il colonnello John Thomas, portavoce del Comando centrale Usa. "Nelle ultime ore, abbiamo ricevuto assicurazione che tutte le parte coinvolte fermeranno il fuoco reciproco, focalizzandosi sulla minaccia dell'Isis", ha detto Thomas. "E' – ha aggiunto – un accordo valido per almeno un paio di giorni e noi speriamo che si consolidi".

Durante la giornata di oggi le forze armate turche hanno bombardato numerosi obiettivi delle Ypg e delle Forze Democratiche Siriane e anche 21 obiettivi a Jarabulus nell'ambito dell'operazione "Scudo dell'Eufrate" che mira a indebolire tanto Daesh quanto soprattutto le milizie curde che erano ad un passo dal riunire i cantoni da loro controllati ad est e ad ovest del fiume Eufrate.

Obiettivo principale della operazione della Turchia nel Nord della Siria è quello di impedire la creazione di un corridoio da parte delle milizie curde che si estenda dall'Iraq al Mediterraneo ha riconosciuto il vice Primo ministro di Ankara Numan Kurtulmus. L'obiettivo dell'invasione è "di eliminare l'Isis dalla regione e impedire alle Unità per la Protezione del Popolo curdo (Yog) di "completare un corridoio" in Siria", ha detto Kurtulmus.

Dopo giorni di tentennamenti e di ambigue prese di posizione, e quando ormai alcuni degli obiettivi di Erdogan in Siria sembrano essere stati raggiunti grazie all'invasione del nord del paese da parte di varie unità di carri armati di Ankara, Washington ha definito "inaccettabili" gli attacchi della Turchia nei confronti delle milizie popolari curdo-siriane che da anni combattono contro lo Stato islamico con il sostegno degli Usa. Anche il presidente francese Francois Hollande ha messo in guardia dal "rischio di un'escalation generale" in Siria in seguito ai "molteplici interventi, contraddittori" della Turchia e della Russia ovviamente considerando legittimi solo quelli operati dai suoi caccia e da quelli dei propri alleati.

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Londra: anche la ‘Gig Economy’ sciopera

Più che il paradiso per i consumatori finora la cosiddetta “sharing economy” (termine usato per indicare una vasta gamma di fenomeni che pero’ non hanno molto in comune) ha rappresentato un paradiso per i padroni. Contratti ultraprecari, paghe basse, licenziamento facilissimo: questa la realtà per i lavoratori di aziende come Uber, la ditta statunitense che fornisce un servizio alternativo di taxi, il tutto tramite una app per il telefonino.

Condizioni lavorative a cui sembrava difficile ribellarsi, per l'appunto a causa della grande precarietà dei contratti offerti da queste aziende, che rendono molto facile alle imprese licenziare i riottosi. Ad Uber basta “disconnettere” un autista dal suo sistema per liberarsi di lui.

Da alcune settimane però arrivano notizie più incoraggianti dall'Europa, nel caso specifico da Londra.

Prima notizia: uno sciopero selvaggio durato una settimana dei lavoratori di Deliveroo, un’azienda che offre servizi di consegna, è terminato martedì 16 agosto con una vittoria per gli autisti. Il servizio di Deliveroo funziona tramite una app: il cliente va sul sito internet, sceglie un ristorante nei dintorni e invia l'ordine. L'idea, quindi, è molto simile a quella dell’azienda italiana Pizzabo.

La differenza però è che gli autisti non sono impiegati dei ristoranti ma lavorano per l'azienda Deliveroo con un contratto di lavoro autonomo "zero hours" (a zero ore), usano i propri mezzi (bici e moto) pagando di tasca propria ogni riparazione, non hanno la malattia coperta (neanche per un infortunio avvenuto durante il lavoro) e l'azienda non paga contributi.

Allo stesso modo operano Uber e molte altre aziende che costituiscono la cosiddetta "sharing economy", ma che sarebbe molto meglio chiamare "gig economy" (economia basata sul lavoro a cottimo o a "gig"). Deliveroo è nata a Londra nel 2013 e ha aperto successivamente operazioni in molte altre città. Nel 2015 è stata valutata per 600 milioni di dollari. Attualmente ha circa 3.000 autisti a Londra.

Gli autisti della Deliveroo fino a quest'estate venivano pagati 7 sterline l’ora, più una sterlina per ogni consegna. Non molto, considerando che la media per un autista è di due consegne all’ora e che le riparazioni e l'assicurazione venivano pagati dai lavoratori. Il minimo legale in Gran Bretagna è stato recentemente aumentato a 7.20 sterline l’ora (sopra i 25 anni), ma il 'living wage’ per Londra, cioè il minimo orario che serve per vivere una vita dignitosa nella capitale (dove il costo della vita è assai più alto rispetto al resto del paese), è di 9.40 sterline. Il living wage, pero’, è indicativo e non è obbligatorio per legge adeguare ad esso le paghe, nonostante una forte campagna che chiede l'introduzione dell'obbligo di pagarlo.

Quest'estate l'azienda ha annunciato cambiamenti nei contratti degli autisti in alcune zone della città che avrebbero comportato un peggioramento significativo nelle loro condizioni di lavoro, vincolando la paga oraria al numero di consegne eseguite; quindi passando da un contratto a zero ore a una retribuzione a cottimo. L'azienda voleva dare 3.75 sterline a consegna comportando una riduzione significativa nella retribuzione dei facchini, precipitata sotto il minimo legale (che però è consentito in quanto gli autisti lavorano con contratto autonomo). Rivendicando la decisione, l'azienda ha detto che stava cercando di dare ai suoi lavoratori “più flessibilità e la libertà di scegliere.”

Quando gli autisti, in gran parte non sindacalizzati, hanno sentito le proposte hanno cominciato a discuterne fra di loro e da queste discussioni è emersa la volontà di organizzarsi contro il nuovo contratto. Ci sono qui particolari importanti da sottolineare: diversamente da Uber, gli autisti di Deliveroo hanno dei punti di incontro, dove possono chiacchierare con altri colleghi e scambiarsi i numeri di telefono. Potrebbe anche essere significativo il fatto che i lavoratori di Deliveroo si riconoscono facilmente tra loro perché indossano la stessa uniforme e spesso si incontrano per strada tra una consegna e l’altra.

Hanno così cominciato uno sciopero selvaggio che è riuscito ad avere molta visibilità e supporto, raccogliendo anche più di 10.000 sterline di fondi donati da solidali per coprire i pagamenti persi. Dopo una settimana l'azienda ha ceduto. Il nuovo contratto non sarà più obbligatorio per le determinate zone ma volontario e quei contratti peggiorativi che erano stati firmati non hanno più validità. Una sconfitta, quindi, per la logica del 'gig economy'.

Nel frattempo Uber dopo i taxi si è lanciata sulla consegna del cibo, lanciando proprio a Londra UberEats, la sua piattaforma di consegna pensata per rivaleggiare con Deliveroo. Inizialmente la società statunitense aveva lanciato un'offerta contrattuale vantaggiosa per strappare autisti ai concorrenti: 100 sterline alla firma del contratto e 20 sterline di paga oraria. Peccato che nei mesi successivi UberEats abbia ridotto la paga per 4 volte e abbia cambiato anche la modalità di paga, passando dal salario orario a quello a cottimo (3.22 sterline per consegna). Come scrive il sito inglese Novaramedia, un accordo perfino peggiore di quello proposto da Deliveroo, anche perché in questo caso la gran parte dei costi sono a carico dei lavoratori e non gli è garantita nessuna assicurazione.

E così, seguendo l'esempio dei loro colleghi di Deliveroo, anche gli autisti di UberEats hanno scioperato, chiedendo di ricevere un salario almeno pari al “living wage” londinese, insieme al rimborso dei costi. L'azienda ha risposto “deattivando” (ossia licenziando) Imran Siddiqui, il portavoce eletto dai lavoratori, ma questo non ha fermato le proteste degli autisti, che almeno in parte si stanno organizzando tramite il sindacato United Voices of the World (mentre i lavoratori di Deliveroo sono stati supportati dal sindacato Independent Workers of Union). La partita, insomma, è ancora aperta.

In generale, come sottolinea il quotidiano britannico Telegraph, lo sciopero dei lavoratori Deliveroo (così come di quelli di UberEats) ha dimostrato che questo tipo di impresa non può che basarsi sullo sfruttamento estremo dei lavoratori, visto che i margini di profitto potenziali sono estremamente bassi.

Joe Haynis su Novaramedia sottolinea i 3 punti deboli delle imprese della “gig economy” che i lavoratori di UberEats e di Deliveroo hanno evidenziato con le loro lotte.

Primo: la tecnologia degli smartphone, che Uber e Deliveroo usano per il proprio modello di business, permette anche ai lavoratori di organizzarsi, scambiandosi informazioni simultaneamente.

Secondo: il fatto che gli autisti non siano lavoratori dipendenti ma autonomi significa che ad essi non si applica nessuna delle varie leggi anti sindacali varate in Gran Bretagna negli ultimi decenni. Questo significa che possono interrompere il lavoro e scioperare quando vogliono. Il caso del portavoce licenziato dimostra però anche quanto sia facile per un'impresa come Uber licenziare i lavoratori, senza che vi sia nessuna legge che la obblighi a riassumerli.

Terzo e ultimo: i lavoratori sono molto arrabbiati e stanno imparando come far male ai padroni: a causa dello sciopero alcuni ristoranti hanno dovuto chiudere il servizio di consegna tramite UberEats, provocando un danno di migliaia di sterline all'azienda.

Lungi dall'essere la dimostrazione di una presunta radicalità del lavoratore precario, questi episodi di lotta dimostrano però che quando i livelli di sfruttamento diventano troppo alti il capitale si trova davanti ad una resistenza dei lavoratori.

Una lezione da tenere a mente per il futuro, visto che questa economia a cottimo è in continua espansione.

Marion Jones e Panofsky

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Counterpunch: la scacchiera spezzata. Brzezinski rinuncia all’impero americano

Counterpunch commenta un recente articolo di Zbigniew Brzezinski, noto politologo e geostratega americano, consigliere sotto diverse amministrazioni, famoso per aver teorizzato nel 1997 la strategia (successivamente adottata) per consolidare la supremazia “imperiale” degli USA nella prima metà del XXI secolo – strategia di cui la Clinton è una delle principali promotrici. In questo articolo, Brzezinski fa un’inversione a U: gli USA non sono più una superpotenza, sostiene, si sta formando una vasta coalizione anti-americana e perseguire il progetto originale nelle mutate condizioni potrebbe portare caos e guerra in tutto il globo. Meglio collaborare con Russia e Cina e cercare di preservare la leadership americana. Una svolta letteralmente storica nell’indirizzo geostrategico di una parte dell’establishment americano, che prospetticamente lascia Hillary Clinton sola ad inseguire un progetto imperiale sconfessato dal suo stesso ideatore.

di Mike Whitney, 25 agosto 2016

L’architetto principale del piano di Washington per governare il mondo ha abbandonato il progetto e ha richiesto la creazione di legami con la Russia e la Cina. Anche se l’articolo di Zbigniew Brzezinski su The American Interest dal titolo “Towards a Global Realignment” [“Verso un riallineamento globale”, ndT] è stato ampiamente ignorato dai media, esso dimostra che membri potenti dell’establishment decisionale non credono più che Washington prevarrà nel suo tentativo di estendere l’egemonia degli Stati Uniti in tutto il Medio Oriente e in Asia. Brzezinski, che è stato il principale fautore di questa idea e che ha redatto il progetto per l’espansione imperiale statunitense nel suo libro del 1997 “La Grande Scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici“, ha fatto dietro-front e ha richiesto una incredibile revisione strategica. Ecco un estratto dall’articolo del AI:
“Mentre finisce la loro epoca di dominio globale, gli Stati Uniti devono prendere l’iniziativa per riallineare l’architettura del potere globale.

Cinque verità fondamentali per quanto riguarda l’emergente ridistribuzione del potere globale e il violento risveglio politico in Medio Oriente stanno segnalando l’arrivo di un nuovo riallineamento globale.

La prima di queste verità è che gli Stati Uniti sono ancora l’entità politicamente, economicamente e militarmente più potente del mondo, ma, dati i complessi cambiamenti geopolitici negli equilibri regionali, non sono più la potenza imperiale globale.” (Towards a Global Realignment, Zbigniew Brzezinski, The American Interest)
Ripetete: gli Stati Uniti “non sono più la potenza imperiale globale”. Confrontate questo giudizio con quello che Brzezinski ha dato anni prima, ne La Grande Scacchiera, quando affermava che gli Stati Uniti erano “il massimo potere a livello mondiale.”
“… L’ultimo decennio del ventesimo secolo è stato testimone di uno spostamento tettonico nelle relazioni internazionali. Per la prima volta in assoluto, una potenza non eurasiatica è emersa non solo come giudice chiave delle relazioni di potere eurasiatiche, ma anche come il massimo potere a livello mondiale. La sconfitta e il crollo dell’Unione Sovietica sono state il passo finale nella rapida ascesa di una potenza dell’emisfero occidentale, gli Stati Uniti, come l’unica e, in effetti, la prima potenza veramente globale” (“La Grande Scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici”, Zbigniew Brzezinski, Il Saggiatore, 1997, p. xiii)
Qui altro ancora dall’articolo del AI:
“Il fatto è che non c’è mai stata una vera e propria potenza “dominante” globale fino alla comparsa dell’America sulla scena mondiale... La nuova, determinante realtà globale è stata la comparsa sulla scena mondiale dell’America come giocatore allo stesso tempo più ricco e militarmente più potente. Durante l’ultima parte del 20° secolo nessuna altra potenza gli si è nemmeno avvicinata. Quell’epoca sta ormai per finire.” (AI)
Ma perché “quell’epoca sta ormai per finire”? Che cosa è cambiato dal 1997, quando Brzezinski si riferiva agli Stati Uniti come il “massimo potere a livello mondiale”?

Brzezinski indica l’ascesa della Russia e della Cina, la debolezza dell’Europa e il “violento risveglio politico tra i musulmani post-coloniali”, come le cause approssimative di questa improvvisa inversione. I suoi commenti sull’Islam sono particolarmente istruttivi in quanto egli fornisce una spiegazione razionale per il terrorismo, invece dell’aria fritta governativa sull'”odiare le nostre libertà”. A suo merito, Brzezinski vede lo scoppio del terrore come lo “sgorgare di lamentele storiche” (da un “senso di ingiustizia profondamente sentito”), non come la violenza cieca di psicopatici fanatici.

Naturalmente, in un breve articolo di 1.500 parole, Brzezniski non può coprire tutte le sfide (o minacce) che gli Stati Uniti potrebbero affrontare in futuro. Ma è chiaro che quello che più lo preoccupa è il rafforzamento dei legami economici, politici e militari tra la Russia, la Cina, l’Iran, la Turchia e gli altri Stati dell’Asia centrale. Questa è la sua principale area di preoccupazione; infatti, ha anche anticipato questo problema nel 1997, quando scrisse La Grande Scacchiera. Ecco cosa disse:
“D’ora in poi, gli Stati Uniti potrebbero dover stabilire come far fronte a coalizioni regionali che cercano di spingere l’America fuori dall’Eurasia, minacciando in tal modo lo status degli Stati Uniti come potenza mondiale” (P.55)

“… Per dirla in una terminologia che richiama l’età più brutale degli antichi imperi, i tre grandi imperativi della geostrategia imperiale sono di prevenire la collusione e mantenere la dipendenza sulla difesa tra i vassalli, tenere i tributari docili e protetti, e impedire che i barbari si uniscano”(p.40)
“… prevenire la collusione… tra i vassalli”. Questo dice tutto, non è vero?

La politica estera sconsiderata dell’amministrazione Obama, in particolare il rovesciamento dei governi in Libia e in Ucraina, ha notevolmente accelerato la velocità con cui si sono formate queste coalizioni anti-americane. In altre parole, i nemici di Washington sono apparsi in risposta al comportamento di Washington. Obama può biasimare solo se stesso.

Il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin ha risposto alla crescente minaccia di instabilità regionale e al posizionamento delle forze NATO ai confini della Russia, rafforzando le alleanze con i paesi perimetrali della Russia e in tutto il Medio Oriente. Allo stesso tempo, Putin e i suoi colleghi dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) hanno istituito un sistema bancario alternativo (BRICS Bank e AIIB) che finirà per sfidare il sistema dominato dal dollaro, che è la fonte del potere globale degli Stati Uniti. È per questo che Brzezinski ha fatto una rapida svolta a U e ha abbandonato il piano egemonico degli Stati Uniti; perché egli è preoccupato per i pericoli di un sistema non basato sul dollaro che sta nascendo tra i paesi emergenti e i non allineati, che dovrebbe sostituire l’oligopolio della Banca mondiale occidentale. Se ciò accadrà, allora gli Stati Uniti perderanno la loro morsa sull’economia globale e il sistema di estorsione nel quale biglietti verdi buoni per incartare il pesce vengono scambiati per beni e servizi di valore sarà giunto al termine.

Purtroppo, è improbabile che l’approccio più cauto di Brzezinski sarà seguito dal candidato presidenziale favorito Hillary Clinton, che è una convinta sostenitrice dell’espansione imperiale attraverso la forza delle armi. E’ stata la Clinton che per prima ha introdotto la parola “pivot” [perno, ndT] nel lessico strategico in un discorso che ha tenuto nel 2010 dal titolo “America’s Pacific Century” [Il secolo pacifico dell’America, ndT]. Ecco un estratto dal discorso che è apparso sulla rivista Foreign Policy:
“Mentre la guerra in Iraq si esaurisce e l’America comincia a ritirare le sue forze dall’Afghanistan, gli Stati Uniti si trovano ad un punto di svolta. Negli ultimi 10 anni, abbiamo stanziato risorse immense in questi due teatri. Nei prossimi 10 anni, dobbiamo essere intelligenti e sistematici su dove investiremo tempo ed energia, in modo da metterci nella posizione migliore per sostenere la nostra leadership, garantire i nostri interessi, e far avanzare i nostri valori. Uno dei compiti più importanti della politica americana nel prossimo decennio sarà quello di tenere al sicuro gli investimenti – diplomatici, economici, strategici, e di altro tipo – sostanzialmente aumentati nella regione Asia-Pacifico …

Sfruttare la crescita e il dinamismo dell’Asia è centrale per gli interessi economici e strategici americani ed è una delle principali priorità per il presidente Obama. L’apertura dei mercati in Asia fornisce agli Stati Uniti opportunità senza precedenti per gli investimenti, il commercio, e l’accesso alla tecnologia d’avanguardia… le aziende americane (devono) sfruttare la vasta e crescente base di consumatori dell’Asia…

La regione genera già oltre la metà della produzione mondiale e quasi la metà del commercio mondiale. Mentre ci sforziamo di soddisfare l’obiettivo del presidente Obama di raddoppiare le esportazioni entro il 2015, siamo alla ricerca di opportunità per fare ancora più affari in Asia … e delle nostre opportunità di investimento nei dinamici mercati dell’Asia. ”

(“America’s Pacific Century”, il segretario di Stato Hillary Clinton, Foreign Policy Magazine, 2011)
Confrontate il discorso della Clinton coi commenti fatti da Brzezinski ne “La Grande Scacchiera” 14 anni prima:
“Per l’America, il premio geopolitico principale è l’Eurasia … (p.30) … l’Eurasia è il più grande continente del globo ed è l’asse geopolitico. Una potenza che domini l’Eurasia controllerebbe due delle tre regioni più avanzate ed economicamente produttive del mondo. … Circa il 75 per cento della popolazione mondiale vive nell’Eurasia, e la maggior parte della ricchezza fisica del mondo sta lì, sia nelle sue imprese che sotto il suolo. L’Eurasia conta per il 60 per cento del PIL mondiale e circa tre quarti delle risorse energetiche conosciute al mondo”. (p.31)
Gli obiettivi strategici sono identici, l’unica differenza è che Brzezinski ha fatto una correzione di rotta sulla base di circostanze mutevoli e della crescente resistenza al bullismo, al dominio e alle sanzioni statunitensi. Non abbiamo ancora raggiunto il punto di svolta per il primato degli Stati Uniti, ma quel giorno si sta avvicinando velocemente e Brzezinski lo sa.

Al contrario, la Clinton è ancora completamente impegnata ad ampliare l’egemonia degli Stati Uniti in tutta l’Asia. Non capisce i rischi che ciò comporta per il paese o per il mondo. E’ intenzionata a continuare con gli interventi fino a quando il titano combattente Stati Uniti si immobilizzerà di colpo, cosa che, a giudicare dalla sua retorica iperbolica, accadrà probabilmente dopo un po’ di tempo durante il suo primo mandato.

Brzezinski presenta un piano razionale ma opportunista per fare marcia indietro, ridurre al minimo i conflitti futuri, evitare una conflagrazione nucleare e mantenere l’ordine globale (cioè il “sistema del dollaro”). Ma la sanguinaria Hillary seguirà il suo consiglio?

Nemmeno per sogno.

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