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28/10/2016

Nun te reggae più


Iraq - Mosul spacca il fronte anti Isis

La battaglia per Mosul prosegue con la lenta ma continua avanzata del composito fronte anti-Isis verso il capoluogo della provincia di Ninawa. Ad emergere in questi giorni sono due elementi: la fuga dei civili, di chi riesce a superare le linee islamiste, fatte di cecchini e campi minati; e l’uso sempre più frequente di armi chimiche da parte del “califfato”.

Un dato che non va sopravvalutato: al di là del numero di feriti e morti che ha già provocato (centinaia le persone che hanno sofferto per l’inalazione di gas), simili armi mostrano ancora una volta la potenza di fuoco dell’Isis. Non certo casuale: oltre agli equipaggiamenti militari confiscati alle forze irachene nel 2014, per anni lo Stato Islamico ha ingurgitato ingenti armamenti provenienti dal Golfo, via Turchia, di elevato livello tecnologico che apre alla responsabilità diretta di certi soggetti regionali nella destabilizzazione dell’area. Ieri le Unità di Mobilitazione Popolare, le milizie sciite, hanno denunciato il sequestro di munizioni in possesso degli islamisti e di provenienza turca e saudita.

L’esercito iracheno si è portato, intanto, a poco più di 30 km da Mosul, riprendendo i villaggi di Nana e Staff al-Tut e la base militare di Janin, a est della città. A protezione delle comunità liberate, fa sapere il generale al-Jabori, sono state poste le milizie delle tribù locali sunnite. Da Erbil arrivano contraddittori segnali di distensione: il primo ministro del Kurdistan iracheno, Nerchivan Barzani, ha detto che le forze peshmerga non entreranno a Mosul per evitare l’esplosione di ulteriori settarismi.

Allo stesso tempo, però, Barzani ha avvertito Baghdad: l’amministrazione della città dovrà essere discussa dalle diverse anime del fronte anti-Isis. Parole che svelano il timore che assilla molti in queste settimane di controffensiva, il possibile conflitto futuro intorno alla seconda città irachena, rivendicata da più di un attore, con l’incendiaria Turchia in prima fila. Ma ci sono anche le forze vicine all’Iran: ieri le milizie sciite hanno annunciato l’apertura di un nuovo fronte, il lancio di un’offensiva a ovest di Mosul. Da Qayyara, a sud, verso Tal Afar, roccaforte islamista sul lato ovest del capoluogo: una mossa che, se dovesse funzionare, porterebbe all’accerchiamento dell’Isis finora attaccato a nord dai peshmerga e a sud e est dalle truppe governative.

Ad accompagnare screzi e avanzata militare sono le barbarie dello Stato Islamico, messo all’angolo. Mentre i leader militari se la danno a gambe e fuggono nella siriana Raqqa, i miliziani blindano la città e reprimono con inaudita violenza ogni forma di resistenza o rivolta. Dopo l’esecuzione di quasi 300 giovani e uomini, gettati in una fossa comune nell’ex facoltà di Agraria di Mosul, e l’uccisione di una 60ina di miliziani accusati di voler ordire un golpe, l’Isis ha compiuto una nuova strage: ha rastrellato decine di prigionieri nei villaggi vicini, per lo più ex membri dell’esercito iracheno o della polizia, e li ha giustiziati. Contemporaneamente porta via intere famiglie dalle periferie per usarle come scudi al momento della guerriglia urbana con il fronte anti-Isis.

Chi può fugge, a piedi, con poche cose con sé. Circa 16mila persone, dice l’Onu, sono riusciti a lasciare i dintorni della città. Mille di loro sono state evacuate dalle forze di élite, dal contro-terrorismo iracheno, mentre nuovi campi vengono messi in piedi dalle organizzazioni internazionali. Per ora la fuga di massa attesa dalle Nazioni Unite non si è ancora registrata, ma il tempo stringe: il milione e mezzo di persone ancora a Mosul non riesce ad andarsene, se non pagando miliziani-trafficanti che li accompagnano fuori dalla città attraverso campi minati e trincee. Ma sono pochissimi. Gli altri sono sotto il controllo continuo e capillare dei miliziani che sanno che la popolazione civile è la migliore difesa.

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I Pirati islandesi, antisistema ma non troppo

Il Partito Pirata, una nuova formazione politica anti-establishment islandese, si prepara a invadere il parlamento di Reykjavik con il voto anticipato di domani, nel quale gli elettori – stando ai sondaggi – sembrano intenzionati a punire un governo di centrodestra la cui reputazione è stata nettamente offuscata dallo scandalo “Panama Papers”.

L'Islanda ha indetto elezioni anticipate ad agosto dopo lo scandalo di evasione fiscale di livello internazionale che ha coinvolto anche vari politici ed è costato la poltrona al premier. Le rivelazioni sull'evasione fiscale hanno sconvolto l'opinione pubblica e riacceso la rabbia popolare esplosa già durante la crisi finanziaria del 2008 che ha squassato il sistema bancario islandese e condotto a una grave depressione economica.

Nonostante da allora l'Islanda sia tornata a una crescita solida del quattro per cento e la disoccupazione sia diminuita, anche grazie alla pressione popolare che ha disarcionato il governo di allora e frenato nettamente il pagamento del debito contratto nei confronti delle banche britanniche e olandesi, nel paese è in crescita un sentimento di severa critica nei confronti del sistema politico tradizionale, a partire dalle manifestazioni di massa scoppiate dallo scorso aprile dopo le rivelazioni dei Panama Papers.

Le elezioni sono state indette dopo le dimissioni ad aprile del premier Sigmundur David Gunnlaugsson, la prima importante figura pubblica a cadere vittima dei Panama Papers, che hanno rivelato che ben 600 cittadini islandesi, tra cui vari ministri, banchieri e imprenditori hanno accumulato consistenti tesoretti nei paradisi fiscali. Il governo è rimasto in carica, ma il successore di Gunnlaugsson, Sigurdur Ingi Johannsson, resta profondamente impopolare perché legato alla classe imprenditoriale e invischiato nel sistema che ha tollerato l'evasione fiscale. Anche il presidente Olafur Ragnar Grimsson, a giugno, ha rinunciato a candidarsi per un sesto mandato dopo che nelle carte panamensi era emerso il nome della moglie.

Piuttosto che rivolgersi alla destra populista e xenofoba, come avviene in vari Paesi europei, gli elettori islandesi sembrano voler dare una chance ai partiti di sinistra, in particolare al Partito dei Pirati nato solo 4 anni fa. Ma la futura composizione del parlamento è tutt'altro che chiara in un Paese di poco più di 330mila abitanti.

In base all'ultimo sondaggio il Partito Pirata è dato testa a testa con il Partito dell'Indipendenza, di destra, che governa dal 2013 l'Islanda in coalizione con i centristi del partito Progressista.

I Pirati, fondati nel 2012 da alcuni attivisti per lo più di tendenza libertaria e da alcuni “ex hacker”, si preparano a ottenere oltre il 22% dei voti, secondo un sondaggio dell'università di Reykjavik. La percentuale si tradurrebbe in 15 dei 63 seggi dell'Althingi, il parlamento islandese, rispetto ai cinque conquistati alle precedenti elezioni.

Il partito dell'Indipendenza è dato come secondo con il 21%. Un esito del genere, ammesso che venga confermato, non consentirebbe evidentemente ai Pirati di governare da soli ma potrebbe dar loro il potere di formare una coalizione di governo. Il partito ha già escluso di poter governare insieme alle formazioni di destra e centrodestra che osteggia, ma ha auspicato un dialogo con l'attuale opposizione rappresentata dal movimento Sinistra-Verdi, che potrebbe ottenere circa il 18% contro il 9% assegnato dai polls al Partito dei Progressisti.

Il Partito Pirata, guidato dalla fondatrice Birgitta Jonsdottir, spera di capitalizzare la profonda sfiducia nella élite politica soprattutto tra i giovani, che però sono i meno propensi ad andare alle urne. Anche se alcuni media definiscono i Pirati come 'antisistema', il programma della formazione non è affatto radicale: si va dalla lotta contro la corruzione e per una maggiore trasparenza delle istituzioni pubbliche, alla libertà di accesso ad internet, dalla lotta contro il copyright alla depenalizzazione delle droghe, dall'aumento degli istituti di democrazia diretta all'ampliamento dei diritti civili.

Nessuna particolare proposta in campo economico – a parte la proposta di aumentare la tassazione sui cittadini più ricchi – contraddistingue il Partito che non nasconde di essersi ispirato ad una analoga formazione attiva in Svezia e anche all'italiano Movimento Cinque Stelle.

In caso di vittoria, inoltre, i Pirati hanno anche promesso l'indizione di un referendum sulla ripresa dei negoziati di ingresso dell'Islanda nella Unione Europea, bloccati qualche tempo fa dai partiti di centro e destra.

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Yemen - Onu Contro Arabia Saudita: chiesta la cacciata di Hadi

di Chiara Cruciati

Le carte della guerra yemenita si scompigliano: le operazioni militari continuano mentre una nuova road map mette in crisi la strategia saudita. Di dettagli se ne hanno pochi, ma emerge quello principale: il principale alleato dell’Arabia Saudita, il presidente Hadi, va messo da parte. Figura troppo divisiva, secondo le Nazioni Unite. E anche secondo gli Emirati Arabi: il paese, tra i protagonisti della coalizione anti-Houthi a guida saudita, ha accolto la proposta dell’inviato Onu Ismail Ould Cheikh Ahmed.

Il piano è stato sottoposto due giorni fa sia al movimento Houthi che al partito dell’ex presidente Saleh. Prevedrebbe il ritiro dei ribelli dalla capitale Sana’a, l’abbandono delle armi (quanto già stabilito dalla risoluzione Onu 2216 del 2015 e accettata in via di principio dagli Houthi) e la formazione di un nuovo governo di unità senza Hadi. Il presidente e il suo vice-presidente, Ali Muslim al-Ahram (non particolarmente ben visto dal movimento ribelle che lo accusa da tempo di corruzione) dovrebbero cedere i propri poteri, in attesa della scelta di un primo ministro che formi l’esecutivo. Ad Hadi resterebbe solo un ruolo simbolico.

Hadi si dice sorpreso: non abbiamo ricevuto alcuna comunicazione, commenta la sua amministrazione. Parla però uno dei funzionari dell’ufficio del presidente, Abdullah al-Alimi: “Enfatizziamo la nostra convinzione che tutte le proposte sono destinate a fallire se prevedono un golpe, la madre di tutte le calamità”. Riyadh non commenta. Il castello di carte saudita rischia di crollare: la risoluzione Onu 2216, all’epoca, riconosceva Hadi presidente legittimo, dichiarazione che ha fatto molto comodo all’impunità saudita in 19 mesi di campagna militare violentissima.

La risposta, forse, sta nella proposta che Riyadh insieme al Qatar ha mosso all’Algeria perché partecipi ad operazioni di peacekeeping in Yemen. Una formula poco chiara che sarebbe volta a coinvolgere un paese che nel 2015, all’inizio dell’offensiva “Tempesta Decisiva”, rifiutò di inviare le proprie truppe a sostegno della coalizione anti-Houthi. Per ora non ci sono reazioni ufficiali, ma la strategia regionale di Algeri fa pensare ad un rifiuto.

E la guerra continua. Il conflitto che ha già ucciso 10mila persone, sfollato 3 milioni di civili e portato alla fame l’80% della popolazione, si arricchisce ogni giorno di nuovi elementi che indeboliscono alla base ogni accordo di pace. Dopotutto, si tratta di una guerra globale, per procura, che vede il fronte sunnita impegnato nella limitazione di quello sciita. L’Arabia Saudita, assillata da seri problemi economici e da una riduzione del proprio ruolo politico e militare in Medio Oriente a seguito dell’accordo sul nucleare iraniano e della guerra civile siriana che non riesce a vincere, si è tuffata in Yemen sperando di ricavarne nuova influenza.

E mentre un missile balistico lanciato dagli Houthi, dice l’Arabia Saudita, sarebbe stato lanciato verso la Mecca nella notte di ieri, in mezzo finiscono anche gli Stati Uniti che nelle ultime settimane hanno agito direttamente nel conflitto. Dopo aver bombardato dei radar in mano agli Houthi lungo la costa occidentale, navi da guerra statunitensi hanno intercettato mercoledì quattro navi iraniane dirette in Yemen. Secondo il vice ammiraglio Donegan, trasportavano armi (migliaia di fucili da assalto e per cecchini e missili anti-carro) da consegnare ai ribelli, un’accusa che Teheran smentisce da mesi.

A monte sta il ruolo statunitense nel paese, dipinto come modello della guerra a distanza Usa. La guerra con i droni con la potente filiale di al Qaeda nella Penisola Arabica, lanciata dall’allora presidente Bush all’indomani dell’11 settembre, è stata ampliata a dismisura dal suo successore Obama.

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Ceta: la Vallonia ha ceduto. Ma non è detta l’ultima parola...

Dopo parecchi giorni di resistenza alle fortissime pressioni internazionali provenienti dalle istituzioni federali, dall’Unione Europea e naturalmente dal Canada, alla fine la Vallonia ha ceduto. L’assenso della regione francofona del sud del Belgio è fondamentale per consentire al governo federale di dare l’ok al trattato di libero commercio tra Ue e Canada, dopo il via libera di tutti gli altri governi. Ma dopo il voto contrario da parte della stragrande maggioranza dei parlamentari valloni l’iter era stato interrotto. I democristiani, gli ecologisti e i comunisti, ma anche i socialisti al governo si erano espressi contro – solo i liberali a favore – con sommo scandalo dei media e di vari esponenti politici continentali che, facendo sfoggio di "grande senso democratico", avevano denunciato la presunta assurdità di un meccanismo che permette a una piccola regione in cui vivono solo tre milioni e mezzo di persone di tenere in scacco un intero continente e profitti per qualche miliardo di euro.

Ieri però, in tarda mattinata, il governo vallone ha comunicato al premier Charles Michel il suo benestare alla firma del trattato commerciale col Canada, anche se la comunicazione è arrivata troppo tardi, facendo saltare il previsto vertice a Bruxelles tra i rappresentanti dell’Unione Europea e il primo ministro canadese Justin Trudeau, che speravano di poter apporre ieri sera le loro firme in calce al Ceta e di permetterne quindi l’entrata in vigore, seppur provvisoria (il tutto dovrebbe infatti essere confermato dal voto parlamentare di tutti e 28 i paesi membri).

L’ok da parte dei francofoni è arrivato al termine di una lunga riunione tra il primo ministro federale, il liberale Charles Michel, e i rappresentanti dei parlamenti delle varie entità amministrative che compongono il Belgio, quindi anche di quelli della Vallonia e di di Bruxelles Capitale, anch’esso contrario alla ratifica del trattato nella sua forma attuale. Alla riunione ha partecipato anche un rappresentante della Commissione Europea, con l’evidente compito di esercitare le dovute pressioni e di controllare che il testo concordato non fosse eccessivamente in contraddizione con quello del trattato bilaterale.

Il Ceta era stato finora giudicato penalizzante per i diritti dei consumatori, degli allevatori, degli agricoltori e in generale per gli affari e la stessa sopravvivenza delle imprese locali che in molti casi corrono il rischio di essere sopraffatte tanto dalle multinazionali d’oltreoceano quanto da quelle continentali grazie alla rimozione del 98% dei dazi doganali, prevista dal trattato, così come dalla creazione di corti arbitrali ad hoc incaricate di dirimere le controversie tra grandi imprese e stati bypassando così le legislazioni nazionali a difesa dei consumatori, dei lavoratori e dell’ambiente. Esattamente come previsto dal Ttip, l’analogo ma più draconiano trattato in via di negoziazione tra Unione Europea e Stati Uniti.

Alla fine il governo della Vallonia ha però ceduto, tirandosi dietro anche gli altri critici, dopo aver ottenuto dalle autorità federali la rassicurazione che le preoccupazioni espresse delle forze sociali e dalle associazioni di categoria contrarie al trattato verranno adeguatamente difese da Bruxelles in sede comunitaria e internazionale, e il tutto è stato fissato nero su bianco in una risoluzione. Tra le raccomandazioni sulle quali la Vallonia ha insistito, il carattere pienamente indipendente dei giudici che dovranno presiedere gli arbitrati, che quindi non dovranno essere nominati dai governi su pressione delle multinazionali stesse. Teoricamente il Ceta prevede già che a dirimere le controversie tra imprese e stati siano giudici e avvocati dipendenti da una sorta di Tribunale Internazionale ad hoc, e non nominati dalle parti in conflitto. Il Canada, dopo una insistenza iniziale, avrebbe già accettato la modifica chiesta a gran voce anche dall'interno della stessa UE, al contrario degli Stati Uniti che invece, per quanto riguarda il Ttip, si sono impuntati in difesa della Isds, clausole contenute tradizionalmente negli accordi bilaterali d'investimento che consentono agli imprenditori che si sentono penalizzati da qualche decisione dello stato in cui investono di citarlo in giudizio tramite apposite corti arbitrali.

Ma non è detto che il cedimento della regione francofona del Belgio conduca automaticamente ad uno sblocco dell’iter e quindi alla ratifica del Ceta. Infatti ora l’intesa raggiunta nel vertice di ieri dovrà essere inviata di nuovo a tutti e quattro i parlamenti regionali del Belgio, che dovranno approvarla entro venerdì a mezzanotte. In caso di assenso unanime, il testo dovrà essere di nuovo approvato da parte degli altri 27 partner europei e solo in quel caso l’Ue potrà apporre la sua firma all’accordo.

Resta ora da vedere se la maggioranza dei deputati valloni – seguendo le probabili indicazioni del governo locale, e in particolare dei partiti socialista e democristiano – modificherà il proprio voto contrario. I socialdemocratici valloni temono infatti non solo la reazione dei settori economici e del mondo del lavoro che verranno penalizzati dall'eventuale entrata in vigore del trattato, ma anche la possibile crescita del Partito del Lavoro del Belgio e degli ecologisti, che potrebbero capitalizzare a livello elettorale lo scontento popolare in un momento in cui la regione è scossa da una forte crisi economica, dovuta alla chiusura di numerosi grandi stabilimenti e alla repentina crescita della disoccupazione.

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Libia - La Cina fa pendere la bilancia verso Tobruk

di Francesca La Bella

Mentre la situazione in Libia appare sempre più confusa e il governo di Fayez al Sarraj di stanza a Tripoli cerca di riprendere le redini del potere con la formazione di un nuovo governo di unità nazionale, un nuovo attore appare nel teatro libico. La Cina, infatti, avrebbe previsto l’investimento di 36 miliardi di dollari in Cirenaica.

Secondo quanto riportato dai media locali, il Paese asiatico, secondo solo all’Italia come partner commerciale dell’import-export libico, avrebbe scelto di finanziare un grande progetto infrastrutturale nell’area di Tobruk che prevederebbe la costruzione del più grande porto del Paese in acque profonde, un aeroporto commerciale, una ferrovia lungo il confine con l’Egitto in direzione Sudan, 10.000 case, un ospedale con 300 posti letto e un’università. A questo complesso progetto di rilancio infrastrutturale si dovrebbe aggiungere un piano per lo sviluppo dell’esportazione di energia solare verso la Grecia con la costruzione di una centrale energetica a Jaghbub, nel deserto libico orientale.

A tal proposito, il primo ministro del governo di Tobruk, Abdullah Al-Thinni, in un’intervista all’emittente televisiva Al-Hadath riportata dal Libya Herald, ha dichiarato che l’ingente investimento, frutto di una cordata di investitori cinesi, dovrebbe portare al compimento delle opere in un periodo di soli tre anni con un effettivo impatto sull’economia locale già nel breve periodo.
Il progetto, definito dallo stesso Libya Herald come un ringraziamento della Camera dei Rappresentanti (HoR) alla città di Tobruk, potrebbe avere una significativa rilevanza anche per le relazioni commerciali libiche. Dopo la caduta di Muhammar Gheddafi e l’inizio della guerra civile, sia le imprese sia i lavoratori cinesi impegnati in Libia lasciarono il Paese e, negli anni successivi, il capitale cinese non riuscì a trovare canali d’accesso per il Paese nordafricano. Ad oggi, invece, in linea con un programma di penetrazione imponente in tutto il territorio africano, Pechino potrebbe dare nuova linfa alle relazioni commerciali sino-libiche.

Di riflesso, sul piano interno, questo rinnovato slancio economico della Cirenaica, unito al programma di esportazione petrolifera dai porti della mezzaluna petrolifera, renderebbe Tobruk sempre più centro nevralgico dell’economia del Paese con inevitabili ricadute dal punto di vista politico.

Parallelamente all’indebolimento del Gna, provato dal tentativo di colpo di stato del 14 ottobre e dalle difficoltà strutturali che ne frenano la ripresa economica, il fronte favorevole al governo di Tobruk e al generale Khalifa Haftar sembra, dunque, sempre più ampio. E’ notizia di poche ore fa la visita di Haftar negli Emirati Arabi Uniti per discutere degli sviluppi della situazione libica con il Ministro della Difesa Mohammed al Bowardi. L’incontro risulta tanto più significativo in quanto segue di poche ore la visita ad Abu Dhabi di un altro attore centrale nella vita politica libica: Martin Kobler. L’inviato speciale Onu in Libia, prima di muoversi verso il Cairo per nuovi colloqui con i rappresentanti dell’Unione Africana e della Lega Araba sulla questione libica, ha, infatti, avuto un lungo meeting con il ministro degli Esteri emiratino Anwar Mohammed Gargash.

Durante i colloqui il rappresentante Uae, secondo le agenzie di stampa locali, avrebbe ribadito il pieno sostegno degli Emirati Arabi Uniti all’azione di mediazione delle Nazioni Unite e al governo di accordo nazionale libico, sottolineando, però, la necessità di una soluzione che includa le istanze di tutte le parti libiche.

La debolezza del governo Sarraj si contrappone alla solidità ed al radicamento delle forze di Tobruk e i numerosi attori coinvolti nella contesa libica sembrano schierarsi sempre più a favore di una riconciliazione tra Tripoli e Tobruk per garantire la stabilità politica ed economica della Libia. L’intervento esterno, molto spesso al limite dell’ingerenza internazionale, mira altresì a mantenere un canale di dialogo preferenziale con la futura dirigenza del Paese.

In questo senso si legga il prolificare di meeting a partecipazione variabile sulla questione libica come quello di Parigi di inizio mese o quello previsto nelle prossime settimane in Arabia Saudita dove Riyadh ha già dichiarato di non volere la partecipazione di Qatar e Uae. A fronte di una produzione del petrolio in continua ascesa che potrebbe minare alla base la validità dell’accordo OPEC sul taglio della produzione e di uno Stato Islamico in lento arretramento, la possibilità di una ripresa libica sembra essere ora plausibile. La scelta dell’alleato interno diventa, dunque, per le controparti d’area (ed internazionali) sempre più decisiva per cercare di influire sulla collocazione della Libia nello scacchiere internazionale.

Egitto: la crisi morde il regime

Povertà vecchia e nuova – Dal Cairo giungono simili notizie: un ristoratore che finora pagava un suo cuoco attorno alle 1000 lire egiziane mensili (oltre 800 dollari, casi rari ma esistenti) con l’inflazione in corso si troverà a raddoppiare e forse triplicare il salario fino a 2500 dollari attuali. Ma il valore di quel denaro non sarà più tale per la svalutazione monetaria in corso nel Paese e la caduta d’ogni potere d’acquisto. La crescita inflattiva (+14% a settembre) e l’aumento del costo della merce stanno rendendo difficile la vita quotidiana, anche a quei ceti dallo stipendio certo, figurarsi al 28.8% di abitanti annoverati come poveri. Quest’ultima percentuale è ufficiale, dunque contratta per difetto. La stima di poveri e impoveriti è aumentata perché l’economia da oltre cinque anni segna il passo e non migliora affatto. L’ultimo prestito del Fondo Monetario Internazionale all’Egitto ammonta a 12 miliardi di dollari ed è giudicato dal governo sufficiente per sostenere un’economia malaticcia, però in grado di tirare avanti. Per quanto tempo? Anche gli economisti interni s’interrogano sull’incertezza scaturita dalla scarsità di capitali esteri e conseguenti investimenti. Nel corso dell’estate l’incremento dei prezzi è stato generalizzato, dall’olio, farina e zucchero – che in alcuni casi i grossisti hanno problemi a reperire – all’elettricità. Aumenta tutto e gli osservatori affermano che in un Paese importatore per 60 miliardi di dollari ed esportatore per 20 miliardi, qualsiasi carenza monetaria può significare una mancanza delle più svariate forniture.

Ceto medio addio – Qualche mossa, a metà strada fra il demagogico e l’autolesionista, il governo la compie. Scontenta i ceti più indigenti risparmiando sui sussidi e aumentando il prezzo dei pubblici servizi, introduce una nuova tassa (chiamata Vat) che avrà l’effetto di riversarsi sui prezzi dei principali prodotti. Al contempo cerca di convincere la popolazione a sacrificarsi: “Le coraggiose riforme accorceranno la strada” “Possiamo razionare i consumi, ridurre le importazioni” inneggiano con enfasi i cartelloni pubblicitari che svettano negli angoli più in vista della capitale, come il viadotto 6 Ottobre nei dintorni di Tahrir. Nel cerchiobottismo del regime è prevista anche la carotina, così da qualche settimana esecutivo e apparato militare (gestore di molti prodotti e approvvigionamenti agricoli) hanno lanciato una campagna di offerta della merce a prezzi scontati. Secondo alcuni economisti, mentre la rete di sostegno sociale creata dal governo può aiutare casi singoli, nell’insieme essa non può mitigare l’impatto dell’inflazione, soprattutto su un ceto medio reso molto vulnerabile. Studi internazionali (Rapporto sul benessere sociale) stimano che questo strato della popolazione raccoglie attualmente solo il 5% degli egiziani, con una caduta del 48% nell’ultimo quindicennio. Dal canto suo la Banca mondiale ha calcolato una diminuzione della classe media egiziana dal 14% al 9.8% dal 2000 al 2010. Forse la forbice fra i due studi è troppo ampia, sebbene l’ultimo quinquennio rappresenti il buco nero di quell’entrata che rivaleggiava coi dazi doganali del Canale di Suez: gli introiti turistici. Entrambe sono le voci cardine del Pil nazionale.

Diritto allo studio, un lusso – La stampa ufficiale interna (Al-Ahram) ha indagato fra categorie di lavoratori ancora considerate sicure: gli addetti a una società energetica, che nelle ultime stagioni hanno conosciuto addirittura un aumento di stipendio, ma il cui potere d’acquisto risulta pur sempre fortemente diminuito. Costoro, in quella che era la classe media, sono soggetti a rinunce: devono considerare surplus e beni di lusso anche lo studio dei propri figli. Non solo l’iscrizione all’università, ma la stessa scuola superiore sta diventando un miraggio. In queste famiglie un tempo agiate, la merce che fa tendenza e che viene inseguita, ad esempio i cellulari, si possono acquistare solo a scapito di vacanze o qualche viaggio. Ribadiamo: si parla di gente che poteva permettersi simili svaghi e fatica a mantenere lo status oppure l’ha dovuto abbandonare. Per loro oggi è un lusso garantire ai figli lo studio, un’abitazione dignitosa, una mobilità comoda tramite un’auto privata. I grandi progetti statali (raddoppio canale di Suez) hanno esaurito le riserve estere e alcuni economisti affermano che, accanto ai lavori pubblici, l’attenzione nazionale dovrebbe essere rivolta all’incremento di attività produttive. Per ora il refrain dei sacrifici individuali e collettivi viene rilanciato da personaggi pubblici che mettono la propria faccia al servizio della nazione e di chi la dirige.

“Il controllo della gente” – Amr Adib, noto anchorman televisivo s’è gettato a capofitto nell’iniziativa chiamata “Il controllo della gente” che si propone di abbassare i costi delle materie prime e degli stessi profitti commerciali del 20%. E’ un appello trasversale rivolto ai magnati di produzione e commercio, dunque a certi tycoon come Sawiris e Salem mai usciti dal grande giro affaristico, e ai mercanti di grande e piccolo calibro, Forze Armate comprese. Si tratta di un’iniziativa un po’ populista ma concreta che comunque, secondo certi esperti, pur mitigando i contraccolpi sociali non durerà più di qualche mese. Al di là dei proclami le misure del governo si dimostrano impotenti di fronte a un’inflazione crescente che abbatterà il potere d’acquisto di strati sempre più vasti della popolazione su ogni tipo di merce. E poiché la situazione è diventa addirittura più critica dei tempi di Mubarak, c’è chi pronostica l’ennesima esplosione di rivolte di piazza, sebbene la repressione continui a essere durissima. Non da impedire le azioni di nuclei armati. Una settimana fa un commando ha freddato davanti alla sua abitazione il generale Adel Ragaei, fedelissimo di Sisi, che aveva diretto la distruzione dei tunnel del contrabbando sul confine fra la cittadina di Rafah e la Striscia di Gaza e organizzato i trasferimenti forzati degli abitanti di quel territorio. Un agguato probabilmente condotto da gruppi dell’opposizione al regime dislocati nel Sinai, attivi in proprio o in connubio col jihadismo filo Isis. E la mancanza di sicurezza e l’instabilità tengono a distanza qualsiasi investimento estero.

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Tempesta perfetta. Nove interviste per capire la crisi

Si chiama Tempesta Perfetta, è la prima prova editoriale della Campagna Noi Restiamo, pubblicata da Odradek, raccoglie le interviste di dieci economisti – Riccardo Bellofiore, Giorgio Gattei, Joseph Halevi, Simon Mohun, Marco Veronese Passarella, Jan Toporowski, Richard Walker, Luciano Vasapollo, Leonidas Vatikiotis, Giovanna Vertova – sulla crisi.

Lunedi 7 novembre alle ore 21,00 ci sarà la prima presentazione a Torino, presso la Libreria Comunardi – Via Bogino 2.

Nei prossimi giorni verranno pubblicate nuove date di presentazioni del libro. Chiunque fosse interessato alla presentazione può contattarci via mail all'indirizzo: noirestiamo@gmail.com

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A distanza di otto anni dall’inizio dell’attuale crisi economica, sono ancora molte le spiegazioni che si guardano bene dal mettere in luce le contraddizioni insite nelle economie di mercato come quella dei Paesi membri dell’Unione Europea. La maggioranza delle analisi si concentra infatti sul ruolo del presunto interventismo da parte dello Stato in economia – rappresentato dall’elevato debito pubblico – e sulla scarsa competitività dei Paesi mediterranei – misurata in costi del lavoro troppo elevati, imposizione fiscale sui profitti asfissiante, alta rigidità del mercato del lavoro. Le ricette di politica economica scaturite da questo tipo di proposte si sono rivelate fallimentari a tal punto da aggravare la crisi stessa. L’esempio principe è la così detta “austerità espansiva”, dimostratasi fallimentare sul piano teorico ed empirico prima che su quello pratico. [1]

Le nove interviste ad economisti non allineati raccolte in “Tempesta Perfetta”, edito da Odradek e curato dal collettivo Noi Restiamo, hanno come obiettivo quello di sfatare le analisi della vulgata. Il punto di vista così fornito è realmente critico e foriero di nuove prospettive, pur non mancando di una certa eterogeneità di pensiero e proposte. Ne sono un esempio le risposte alla prima domanda, con la quale si vogliono inquadrare le ragioni della crisi in due spiegazioni: quella sottoconsumistica, secondo la quale il deteriorarsi della quota salari ha comportato un calo generali dei consumi, seppur limitato dal credito esteso praticamente senza garanzie; e quella afferente al sotto-investimento, fenomeno che può essere ricondotto alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto elaborata da Karl Marx. La prima spiegazione rispecchia le posizioni di Simon Mohun e di Richard Walker, mentre la seconda è sostenuta da Joseph Halevi, Riccardo Bellofiore, Jan Toporowski, Luciano Vasapollo e Giovanna Vertova. Halevi e Bellofiore chiariscono però che la diminuzione del saggio di profitto è di difficile misurazione e che la diminuzione degli investimenti produttivi è strettamente correlata con il ruolo dei mercati finanziari. Toporowski evidenzia come questi ultimi abbiano favorito la concentrazione delle imprese tramite operazioni di fusione ed acquisizione, finanziate da debito a breve termine che sarebbe poi dovuto essere coperto da emissione azionarie. Giorgio Gattei e Marco Veronese Passarella forniscono invece un’interpretazione che sta a cavallo fra le due visioni, in quanto le due spiegazioni non confliggono necessariamente ed anzi si rafforzano l’una con l’altra.

Quale che sia la spiegazione preferita della crisi, tutti gli autori concordano che l’Unione Europea, ed in particolar modo l’Eurozona, abbiano un’ispirazione squisitamente imperialista e neoliberista. L’imposizione di vincoli fiscali quali il tetto massimo sul deficit di bilancio e sul debito pubblico in rapporto al PIL secondo parametri senza fondamenti economici ma con un chiaro connotato politico[2], l’assegnazione della gestione della politica monetaria alla Banca Centrale Europea (BCE), la liberalizzazione dei movimenti di capitali, merci e servizi sono tutte misure a vantaggio di un capitalismo transnazionale che mira ad un crescente sfruttamento dei lavoratori. Questi ultimi dovrebbero essere infatti disposti ad emigrare nei Paesi che offrono una retribuzione maggiore, o a passare da un impiego all’altro qualora le imprese ritengano opportuno licenziare i dipendenti o spostare la loro sede per godere di vantaggi fiscali. Il tutto in un contesto di un’economia sempre più privatizzata, dove l’attacco allo stato sociale ha non solo impatti di classe, ma anche di genere. Questi ultimi vengono addirittura spacciati come una conquista della donna che riuscirebbe a conciliare lavoro pagato ed impegni familiari. Bellofiore tiene però a precisare che «non è l’euro la causa della spinta all’austerità», in quanto questa è stata percorsa già prima di entrare a far parte del club della moneta unica (in Italia, almeno a partire dal 1992, anno in cui fu abolita la scala mobile a seguito della svalutazione della Lira imposta dall’uscita dal Sistema Monetario Europeo). L’uscita dall’euro, dunque, non comporterebbe necessariamente un miglioramento delle condizioni delle classi sociali più deboli, né del contesto in cui queste si troverebbero a dover fare i conti con il capitale. La prof. Vertova non vede al momento nessuna forza politica in grado di proporre seriamente un’uscita da sinistra, ammesso che ciò sia effettivamente possibile. Inoltre, la svalutazione delle valute dei Paesi ormai specializzati nella produzione di componenti ad alto contenuto tecnologico ma con una bilancia energetica strutturalmente in deficit non risolverebbe gli squilibri commerciali [3] e aggraverebbe le sofferenze bancarie. [4] Toporowski sostiene infatti la necessità di superare la «paura del debito (pubblico, ma che origina da quello privato, ndr)» e rilanciare la domanda aggregata tramite un coordinamento di politiche fiscali espansive. Applicare stimoli keynesiani in un solo Paese, infatti, farebbe sì aumentare il PIL, ma con questo aumenterebbero anche le importazioni e la bilancia commerciale peggiorerebbe invece di migliorare. Le scarse risorse mobilitate per il Piano Juncker, inserito nel programma Europa 2020 elaborato dalla Commissione Europea, dimostrano però la scarsa volontà di intraprendere in modo decisivo questa strada. Vasapollo non usa mezzi termini nel sostenere che «questa non è l’ “Europa dei popoli”, non è l’Europa “riformabile”, non è l’Europa a carattere sociale». Messaggio reso ancora più chiaro dalla vicenda greca dello scorso anno, che ha visto implementare tagli alle pensioni e blocco degli stipendi pubblici da un governo democraticamente eletto sulla base di un programma anti-austerità.

Posto che gli Stati Uniti sembrano essersi ripresi solo dopo un massiccio intervento dello Stato al fine di salvare gli intermediari finanziari, unito all’enorme dose di liquidità immessa nel mercato creditizio dalla Federal Reserve tramite il programma di Quantitative Easing ed alle massicce importazioni da parte della Cina, quali potrebbero essere le alternative ad un modello di produzione ormai decotto? Esistono movimenti o tradizioni in rottura con lo status quo? Lo stesso Vasapollo individua un modello da cui prendere ispirazione nei Paesi dell’America Latina che hanno costituito l’Alleanza Bolivariana per le Americhe (ALBA), un progetto di cooperazione politica, sociale ed economica dal forte stampo socialista-internazionalista. Halevi vede invece nella Cina il Paese con il maggior numero di contraddizioni, derivanti dal «processo di accumulazione e di sviluppo di tipo nippo-americano, spinto al parossismo, che sta sviluppando costi sociali» (ed ambientali) elevatissimi. Giorgio Gattei riscontra invece nella logistica l’anello debole della circolazione del capitale, in quanto «l’elemento di rigidità del post-fordismo non sta più tanto nella fabbrica […] ma nel fatto che le merci (fisiche, ndr) devono comunque […] arrivare ai consumatori e realizzare in moneta il proprio valore […]. Ecco allora che lo scontro di classe si sposta negli ambiti della circolazione che sono: distribuzione, finanza e circolazione».[5] Come rilevato da Vertova e Bellofiore, però, senza una rappresentanza sindacale in grado di analizzare e tutelare le condizioni di lavoro nel settore dei servizi, tali contraddizioni fanno fatica ed emergere. Ben venga guardare ai caratteri del nuovo capitalismo, ma occorre riconoscere che il cosiddetto lavoro cognitivo è strettamente collegato alle condizioni materiali che determinano i luoghi ed i modi di produzione. Di contro, Vatikiotis vede nello sviluppo della stampante 3D la maggiore contraddizione nel modo di produzione capitalistico, visione che richiama quella post-capitalista del libro di Paul Mason “Post-Capitalism: A Guide to Our Future”, al quale David Harvey ha dedicato non poche critiche.[6]

All’interrogativo sulla riformabilità o meno del capitalismo segue quello in merito al ruolo dell’intellettuale di sinistra. Halevi e Gattei sostengono che non bisogna sprecare tempo a dibattere con gli economisti neoclassici, sebbene occorra studiare e conoscere a menadito le loro teorie. Non bisogna nemmeno porsi come «consigliere del principe», atteggiamento ormai condiviso da molti economisti eterodossi che si illudono di poter cambiare i rapporti di forza con il solo peso delle idee. Passarella osserva giustamente che «il mondo là fuori non lo cambiano le idee. Il mondo là fuori lo cambia la lotta di classe organizzata, non lo cambiano gli intellettuali.» Anche Vatikiotis, pur riconoscendo l’importanza degli accademici marxisti, è disilluso riguardo la possibilità che le università possano impegnarsi a favore della classe lavoratrice. Ed infatti, Vasapollo suggerisce di schierarsi a fianco di movimenti sociali e sindacati conflittuali, in modo da fornire loro strumenti interpretativi e mostrare agli studenti che esistono alternative concrete al pensiero unico. Bellofiore avverte che la distinzione tra teoria dominante e teoria eterodossa è fuorviante: la forza dell’economia neoclassica sta proprio nel ricondurre ad imperfezioni quelle che invece sono contraddizioni intrinseche al capitalismo. Ciò dimostra anche quanto sia inutile appellarsi al pluralismo, facilmente concesso ma fortemente circoscritto dal mainstream. Vertova evidenzia che lo stesso dibattito eterodosso, oltre ad essere egemonizzato da economisti maschi, sia di difficile conduzione in quanto ognuno pretende di avere «“la” risposta giusta alla crisi». Toporowski si dimostra invece più aperto, sostenendo che il confronto con gli economisti coinvolti con il potere e la finanza permetta di acquisire conoscenze tecniche difficilmente reperibili nell’ambito accademico.

Tempesta Perfetta nasce con l’intento di mostrare l’urgente bisogno di un dibattito sulle cause della crisi e sulle possibili soluzioni che tengano conto di un punto di vista autonomo, del lavoro. Occorre partire da un’analisi seria e disincantata per permettere alla generazione cresciuta nella crisi di capire che le alternative esistono e che un rovesciamento degli attuali rapporti di forza sia possibile solo dopo aver elaborato un’attenta critica nei confronti del paradigma culturale dominante. Il libro offre molti spunti di riflessione in tal senso, e costituisce un’ottima lettura sia per chi sia a digiuno di nozioni economiche, sia per chi si interessi già di alcune tematiche ma voglia avere un quadro d’insieme più ampio.

Note
[1] Un esempio su tutti è quello del dottorando statunitense Thomas Herndon che, nel replicare i risultati dell’articolo di due tra i più famosi economisti neoclassici, Reinhart e Rogoff, scoprì errori così grossolani da invalidare la conclusione secondo la quale gli Stati con un rapporto debito pubblico su PIL superiore al 90% sarebbero incappati in una crisi finanziaria. http://temi.repubblica.it/
 

[2] Come precisa la prof. Vertova.
 

[3] A tal proposito, si veda l’interessante dibattito avvenuto sul sito dell’Institute for New Economic Thinking (INET) fra gli economisti sostenitori dell’uscita dall’euro e della svalutazione come risoluzione dei problemi di competitività (Flassbeck e Costas Lapavitsas), e gli studiosi più attenti alle politiche industriali necessarie al rilancio delle economie del sud Europa (Servaas Storm e Naastepad). Questi ultimi sostengono che la Germania è riuscita a diventare la maggiore manifattura europea non tanto per le politiche di moderazione salariale, quanto per gli investimenti in ricerca e sviluppo: https://ineteconomics.org/ e https://ineteconomics.org/
 

[4] Sulle quali Brancaccio ha scritto diffusamente.
 

[5] Sulle condizioni di sfruttamento e precariato diffuso dei lavoratori del settore logistico, si veda il reportage di Christian Raimo pubblicato da Internazionale: http://www.internazionale.it/
 

[6] Si veda la discussione “The Power of Ideas: a discussion with David Harvey” tenuta presso la London School of Economics lo scorso 10 dicembre 2015. Registrazione audio-video reperibile sul sito http://www.lse.ac.uk/

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Renzi: tutto e il contrario di tutto per un salvifico “sì”

L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

L’Italia è una Repubblica per definizione democratica, fondata sull’amnesia.
La sovranità è delegata al popolo che la esercita solo nelle forme e nei limiti dall’ultimo di una lunga serie di primi ministri e presidenti della Repubblica.

La sovranità popolare come principio fondativo della democrazia partecipativa più spesso che volentieri è stata criticata, attaccata o abrogata da governi eletti o meno, rigorosamente riformisti e modernizzanti, da regimi autoritari o di deriva autoritaria, da dittature spietate o paternalistiche e bonarie. È una costante ricorrente della storia antica, moderna e contemporanea. È una costante ignorata in quanto pericolo grave per la libertà nelle scuole primarie e secondarie del nostro paese. Perché la repubblica italiana non è fondata sul lavoro, ma sull’amnesia.

Un esempio recente, marginale ma per chi scrive significativo. In “Considerazioni Inattuali N°93” del 22 settembre scorso veniva garbatamente criticato il Presidente della Repubblica per aver giustificato il grossolano intervento dell’Ambasciatore USA a Roma John Phillips a favore del Sì con la pretestuosa “interconnessione globale” che attirava l’attenzione del mondo sulle vicende del nostro paese. Diversi commenti e-mail ci davano del bolscevico e ci invitavano a far ritorno nella “Unione Sovietica”. In quelle nostre note avevamo anche tracciato, “fatte le debite distinzioni”, l’analogia tra l’abrogazione della Camera dei Deputati, sostituita da Mussolini nel 1939 con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni e quel pasticciaccio brutto di un para-senato non elettivo proposto da Renzi. Anche in questo caso, commenti fascistoidi di chi non aveva capito o non voleva capire, del tipo “Ci hai messo 77 anni per accorgerti che il duce aveva ragione.”

Menzioniamo allora altre analogie sempre fatte le debite distinzioni nei diversi contesti storici: dopo il suffragio universale per soli uomini, il Patto Gentiloni del 1913 che expedit et non expedit mobilitò l’elettorato cattolico e soprattutto le parrocchie di tutto il paese – chi vota socialista va all’inferno – con la conseguente sconfitta del P.S.I. che perse 100 seggi alla Camera. Dopo la marcia su Roma Mussolini vara la legge Acerbo, il partito della nazione ed il listone che accoglie le candidature di illustri democratici come Antonio Salandra, Vittorio Emanuele Orlando ed Enrico de Nicola: il listone fascista con le liste alleate ottiene il 42% dei voti che grazie alla legge Acerbo conferisce al PNF la schiacciante maggioranza di 375 deputati (più di due terzi della Camera) – un po’ più, ma non molto più dell’Italicum.

Nel 1939, con un Senato di Accademici di Italia nominati dal fascio, Mussolini abroga una Camera dei Deputati non elettiva, burocratica e costosa e la rimpiazza con la Camera dei Fasci e delle corporazioni i cui membri vengono nominati dalle Federazioni fasciste regionali, con stipendi ridotti e competenze locali. Ogni riferimento alla riforma costituzionale proposta da Matteo Renzi è disdicevole, offensiva, fuori di posto e solo in apparenza calzante. Chiaro? No? Bene lo stesso. Desistiamo da altre analogie con gli interventi del dopoguerra, i tentativi di legge truffa, il passaggio dal proporzionale al maggioritario, gli espedienti e i trucchi vari per incrementare i premi di maggioranza, sempre con il chiodo fisso di limitare il più possibile la sovranità popolare.

Ma veniamo ai giorni nostri, alle ultime settimane ricche di eventi turbinosi, contraddittori e a volte incomprensibili che hanno comunque permesso al Presidente del Consiglio una presenza continua ed ossessiva sulla televisione, sulla stampa, su twitter e via dicendo. È il metodo Trump: sparare a zero, raccontar balle, fare notizia ogni giorno e passar noccioline alle scimmie in gabbia, ai cosiddetti operatori dell’informazione. I sondaggi che davano un cialtron-populista alla pari con una pericolosa ma più esperta guerrafondaia assegnano oggi a quest’ultima una vittoria pressoché certa. I motivi sono diversi, su tutti emerge quello denominato “a surfeit of honey”, un eccesso, un’indigestione di miele propinata quotidianamente sui mass media all’opinione pubblica che ora palesa tutti i sintomi delle crisi di rigetto. È la crisi di rigetto che colpì Craxi prima ancora di Mani Pulite. Forse il parolaio rosa pallido che occupa Palazzo Chigi dovrebbe meditare sui destini del Trump di oggi e del Craxi di ieri e su uno almeno dei perché l’elettorato propende per il No nella consultazione referendaria del 4 dicembre. A dire il vero non sembra che Matteo Renzi mediti molto da un po’ di tempo a questa parte.

È vero, conta su alcuni amici potenti, ad esempio Benjamin Netanyahu che gli fa visita privata a Firenze e si consulta con lui su linee telefoniche dedicate di Israele apparentemente inaccessibili anche alla NSA degli Stati Uniti. Il nostro ha così smentito il suo ministro degli esteri che si era astenuto sulla mozione di condanna dell’Unesco per le violazioni israeliane dell’area delle moschee dedicata alla libertà di culto delle tre religioni. Renzi ha definito “agghiacciante” quella mozione, ma la ha letta? Vada per l’amicizia con il popolo eletto, ma la nazione palestinese e i suoi diritti non vanno neppure menzionati?

Altri in questa maionese impazzita a sostegno del primo Ministro e del Sì: primo tra tutti il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che confida a Eugenio Scalfari di approvare la riforma e poi lo conferma implicitamente comunicando che si trattava di scambi privati. Mica male per l’arbitro e il garante della Costituzione. E mica male per l’interlocutore secondo il quale l’oligarchia è un istituto democratico e non sinonimo di plutocrazia... L’uno e l’altro marciano in buona compagnia, quella di un grande comico, Roberto Benigni.

E poi la visita a Washington e le trionfali accoglienze tributategli da Obama, inclusa la folla plaudente sui verdi prati della Casa Bianca: malgrado i guasti apportati dal passare degli anni abbiamo riconosciuto i volti di cuochi, camerieri, uscieri, impiegati ed impiegate della Bianca Magione. Era una giornata di sole e una pausa di un’ora in un lavoro pesante, era un’occasione da non perdere. Lasciamo da parte le gaffes linguistiche: “our militaries are learning the Iraki troops...” – “nostri militari stanno imparando le truppe irakene...” e via dicendo.

Quali accordi hanno raggiunto un Presidente alla fine del suo mandato ed un Capo di Governo che rischia lo sfratto da palazzo Chigi? Forse nessun accordo, a parte il consenso ufficioso di Obama agli attacchi di Renzi all’Unione Europea, contraria al progetto di trattato commerciale transatlantico con cui il capo dell’esecutivo USA intendeva concludere il suo secondo mandato.

Pubblico ed ufficiale invece, per quello che può contare a poche settimane dalle elezioni dell’otto novembre, l’entusiastico appoggio al Sì nel referendum italiano.

Interrogativo: perché pochi giorni dopo il Matteo a Bruxelles critica aspramente le sanzioni statunitensi ed europee contro la federazione russa di Putin. Per accattivarne le simpatie? E allora perché ha inviato 150 soldati italiani (in realtà più di 300) sulla frontiera della Lettonia con la Russia per respingere un eventuale attacco delle forze ex-sovietiche contro chi? Andorra, San Marino? Sarebbe la terza volta che i nostri alpini si appronterebbero ad invadere la Russia. La prima volta nel 1918 con truppe inglesi ed americane in appoggio della contro-rivoluzione cosacca, la seconda volta nel 1942 con l’alleato nazista.

Sarà peraltro interessante sapere se il nostro capo del governo seguirà l’esempio di quello spagnolo e apporrà un veto – in barba al diritto internazionale – al diritto di scalo in un porto italiano alla portaerei russa Ammiraglio Kuznecov.

Il centro Italia trema, l’Italia tutta crolla agli occhi del mondo. E si pensava che con Berlusconi avessimo toccato il fondo. Nave senza nocchiero in gran tempesta secondo l’Alighieri o piuttosto “le bateau ivre” di Rimbaud?

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Costituzione e sistema elettorale: dalla Costituente proporzionalista al maggioritario

Sul finire dei suoi lavori l’Assemblea Costituente affrontò il tema della legge elettorale proporzionale che, in seno alla seconda commissione,  il grande giurista Costantino Mortati (Dc) propose di costituzionalizzare. La proposta di inserire la legge nella carta non venne accolta, ma l’orientamento pressoché unanime fu quello di adottare la proporzionale per l’elezione della Camera nel 1948. In aula, la proposta venne ripresa dal comunista Antonio Giolitti, sotto forma di emendamento all’articolo 53, ma venne obiettato che questo era stato escluso in commissione, per cui l’emendamento venne trasformato in ordine del giorno, poi approvato. Probabilmente i Costituenti avrebbero fatto meglio ad inserire la norma nel testo della Costituzione, ma tanto non sembrò necessario perché l’orientamento era generalmente favorevole al sistema proporzionale e, d’altro canto, l’intera architettura costituzionale aveva come presupposto quel sistema elettorale.

E, per convincersene, bastino poche osservazioni. Ad esempio, nessun sistema a sistema maggioritario affida al Parlamento la funzione di revisione costituzionale o, per lo meno, non solo ad esso, prevedendosi o referendum popolari preventivi, o un ruolo determinante del Capo dello Stato oppure delle regioni o stati federati o anche di un Senato altrimenti eletto.

Di fatto, tanto la Costituzione formale quanto quella materiale hanno avuto il sistema proporzionale come pietra angolare su cui basarsi. La costituzione materiale perché in questo sistema elettorale valorizzava il ruolo dei partiti come organizzatori della democrazia, la Costituzione formale perché esso garantiva tanto la rigidità del testo, quanto l’accentuato pluralismo del sistema, che induceva a forme di governo di coalizione e ad intese più ampie della maggioranza di governo per decisioni delicate come l’elezione del Presidente, dei membri della Corte Costituzionale e del Csm. Tutto questo realizzava un equilibrio fra poteri di maggioranza e diritti delle opposizioni che, anche se mai perfetto, tuttavia garantiva un ruolo dinamico del Parlamento.

Dagli anni settanta, tuttavia, si manifestò una crescente degenerazione della vita interna dei partiti che produsse la sclerotizzazione del sistema istituzionale nel suo complesso. Di ciò venne data indebitamente la colpa al sistema proporzionale e, invece di procedere ad una regolamentazione per legge dei partiti, in modo da consentire l’intervento del giudice ordinario nei molti casi delle vere e proprie frodi (a cominciare dai tesseramenti truccati) e contrastare la degenerazione partitocratica, si preferì la strada del tutto controproducente del passaggio al sistema maggioritario, lasciando pericolosamente non mutate le norme più delicate (art.138, elezione del Presidente ecc.). Con una discutibile sentenza, la Corte Costituzionale decise di ammettere il referendum, probabilmente anche per effetto della pressione dell’opinione pubblica, debitamente pilotata dai mass media attraverso una accorta gestione dell’inchiesta “Mani Pulite” che fu l’ariete di sfondamento della manovra.

Superato l’ostacolo del referendum, la manovra proseguì introducendo una forma surrettizia di presidenzialismo, con l’indicazione del candidato Presidente del Consiglio, la cui scelta, secondo il dettato costituzionale, sarebbe spettata esclusivamente al Presidente della Repubblica. Per la verità, questa norma implicita trovò applicazione imperfetta e discontinua, perché, pur se in modo difettoso, la nostra continuava ad essere una Costituzione parlamentare, per cui, di fronte alla alle turbolenze di maggioranza, il Presidente nominò Capi del governo privi di investitura popolare (Dini nel 1995, D’Alema nel 1998, Amato nel 2000). Questa prassi, sul lungo periodo ha prodotto paradossalmente un iper protagonismo del Presidente della Repubblica, la cui figura ha finito per essere sempre più simile a quella del Presidente “regnante” della Costituzione gaullista francese. Non solo il Presidente ha ripetutamente nominato Capi del Governo di suo gradimento e con maggioranze ribaltate (Monti nel 2011, Letta nel 2013, Renzi nel 2014) ma si è posto come supervisore e garante, sino a presiedere riunioni dei capigruppo di maggioranza o, peggio ancora, promuovere processi di revisione costituzionale scavalcando procedure dell’art 138.

Siamo alla decostituzionalizzazione dell’ordinamento giuridico. Una sorta di colpo di stato strisciante, apertosi con il referendum voluto da Occhetto, Segni e Pannella e che oggi passa attraverso la riforma renziana che non sarà neppure l’ultima, quando l’effetto combinato dell’assurdo premio di maggioranza dell’Italicum e la sostanziale abrogazione del bicameralismo, spianerà la strada ad una più complessiva revisione costituzionale, che forse farà strame della prima parte, quella dei diritti dei cittadini e dei principi sociali, conformemente a quanto richiesto, due anni fa, dalla grande banca americana Jp Morgan.

Il malaffare a Roma solo scalfito dall’inchiesta su Mafia Capitale

Mentre nell’aula bunker di Rebibbia si celebra in modo piuttosto discontinuo il processo per l’inchiesta su Mafia Capitale, su Roma e le casse comunali continuano a pesare i danni di operazioni abbondantemente finanziate e scarsamente controllate. Piano piano sta emergendo la truffa dei Piani di Zona, grazie alle denunce dell’Asia-Usb e ad alcuni servizi televisivi. Eppure solo in due settimane già due famiglie truffate sono state sfrattate con tanto di intervento della polizia. Sembra adesso che la procura intenda chiudere una decina di fascicoli sui Piani di Zona avendo a disposizione parecchio materiale. Ma come funziona la truffa sui Piani di Zona? E come mai per tanto tempo si è fatto fatica a farla emergere?

Il modello seguito è il seguente. Una società, molto spesso una cooperativa edile, ottiene il permesso a costruire alloggi popolari in aree concesse dal Comune (la ex legge 167) accettando due condizioni. La prima è che il prezzo di cessione dell’appartamento (o l’affitto) non deve superare i parametri di legge a tutela del vincolo «agevolato» degli immobili. La seconda, è che nel costruire le case, l’impresa o il consorzio deve realizzare anche tutti i servizi necessari a renderle vivibili: fogne, illuminazioni, strade. Grazie alla denuncia degli inquilini e alla sistematica battaglia condotta dall’Asia-Usb e dall’avvocato Perticare, si è scoperto invece che gli appartamenti siano stati venduti o affittati a prezzi maggiorati come stabilito da 40 sentenze del Tar. I contributi erogati sui singoli appartamenti da Stato e Regione andavano però scomputati dal prezzo di vendita o nella definizione dell’affitto. Al contrario, le agevolazioni per le società e le cooperative non venivano scomputati e quindi si è venduto o affittato a prezzi di mercato, mandando a farsi benedire il carattere “sociale” dell’edilizia nei Piani di Zona e riempiendo del tutto impropriamente le tasche di aziende e cooperative. Lo stesso Corriere della Sera ha scritto di “colpevole inerzia di chi doveva vigilare in tutti questi anni” e non lo ha fatto, né al Comune né alla Regione. Alla fine del mandato l’ex assessore Giovanni Caudo ha presentato due delibere sui prezzi di cessione dopo anni di silenzio di ben tre diverse amministrazioni (Veltroni, Alemanno, Marino). E solo un anno fa la Regione ha pubblicato i moduli per redigere i piani finanziari a consuntivo, cosa che le imprese avrebbero dovuto depositare almeno cinque anni prima. Si è scoperto però che nessuno li aveva mai chiesti. Angelo Fascetti, dell'Asia Usb, alla fine è riuscito ad ottenere un incontro con il neoassessore della giunta Raggi, l’urbanista Paolo Berdini, e ha posto senza giri di parole la questione anche alla nuova amministrazione: “Perché si lasciano in balia delle società e cooperative che hanno speculato famiglie che hanno pagato il proprio alloggio costruito su terreno del Comune di Roma, ricevendo soldi pubblici anche a fondo perduto, o che hanno avuto l’applicazione di canoni uguali a quelli di mercato, non conformi alla legge, per alloggi di edilizia sociale? Quali sono le azioni che l'Amministrazione intende prendere per fermare tutti gli sfratti nei piani di zona e avviare le giuste verifiche sulle modalità di gestione di questo importante piano di abitazioni pubblico?”.

L’Assessore Berdini ha deciso di mettere le mani su due dei più contrastati Piani di Zona, quello di Tor Vergata e quello di Castelverde e revocare le concessioni. “Il Comune porterà fino in fondo la revoca del diritto di concessione, in questo modo potremo fermare gli sfratti perché è illegittimo che famiglie oneste vengano sfrattate dai delinquenti e dagli imbroglioni”, fa sapere Berdini che pure è arrivato a questa conclusione, auspicata dall’Asia-Usb e dagli inquilini, dopo un durissimo scontro verbale con il legale dell’Asia, Perticaro, finita quasi verbalizzata su alcuni giornali.

Ma i Piani di Zona non sono l’unico buco nero su cui la magistratura dovrebbe e, volendo, potrebbe mettere le mani andando a colpire i bersagli grossi del malaffare a Roma. La dovuta attenzione meritano anche i Punti Verde Qualità, altro esempio di consociativismo d’affari tra centro-sinistra e centro-destra a Roma. Il Programma “Punti Verde Qualità”, venne avviato nel 1995 dall’amministrazione Rutelli. Sulla carta intendeva creare spazi sportivi e ricreativi anche nelle periferie, dando aree pubbliche in concessione per 33 anni ai privati, i quali, in cambio, si impegnavano a realizzare, in cambio delle attività a pagamento (piscine, campi sportivi etc.), giardinetti, spazi per i giochi attrezzati, panchine per i cittadini. In pratica erano l’anticipo di quei micidiali “accordi in compensazione” con cui la giunta Veltroni ha reso ricchi e felici i costruttori romani.

Ma in venti anni i Punti Verde Qualità sono diventati un buco nero da 550 milioni di euro (121 secondo altre fonti) che grava sulle casse pubbliche verso le banche, senza aver portato i benefici previsti per la collettività. La causa principale del buco è la scelta del Comune, rinnovatasi nel corso delle amministrazioni Veltroni e Alemanno, di farsi garante dei mutui erogati dalle banche ai privati, per cifre lievitate oltre misura, senza controlli, e per lo più non corrisposte. L’aspetto più sorprendente è che in tutti questi anni sono stati lanciati spesso allarmi, costituite commissioni di scopo, fatte denunce alla Procura e alla Corte dei Conti, ma contemporaneamente venivano approvati, in modo assolutamente bipartisan, ulteriori finanziamenti ed esposizioni, con la proposta ricorrente, per risolvere il problema, di un passaggio della proprietà o del diritto di superficie di beni pubblici ai privati.

Con la giunta Veltroni viene agevolato il finanziamento per la realizzazione dei Punti Verde Qualità. Il Comune si fa da garante presso la Banca di Credito Cooperativo ed il Credito Sportivo per il 95% delle somme da erogare agli imprenditori che realizzeranno le opere. I finanziamenti delle banche vengono stanziati sulla base di stati avanzamento lavori. Una mossa azzardata che attiva gli appetiti della criminalità ed imprenditori corrotti, che vedono in questo meccanismo un facile giro di fatturazioni false per ottenere i soldi e non effettuare i lavori. Il business non è tanto nella gestione delle aree verdi ma nella realizzazione. Con la Giunta Alemanno i Punti Verde Qualità diventano oggetto di battute che ne identificano le caratteristiche: “Prendi i soldi e scappa”. Viene addirittura intercettato il faccendiere nero Mokbel al telefono con il boss della malavita di Ostia, Carmine Fasciani, che ne decanta le possibilità di fare soldi a palate. Un altro “nero” che si arricchirà con i Punti Verde Qualità è l’ex capo della segreteria di Alemanno, Lucarelli. Poi passerà la mano, prima ai cugini e infine a Silvio Fanella, il commercialista di Mokbel freddato in casa sua da un commando di killer neofascisti in cerca del malloppo promesso.

Quello dei Punti Verde Qualità è un groviglio oscuro, che neppure l’Assessore alla Legalità Alfonso Sabella è riuscito a risolvere, tanto da arrivare a ipotizzare una “sanatoria in convalida delle copiose e notevoli illegittimità riscontrate nei numerosi procedimenti di gara svolti dal Comune di Roma per l’affidamento in concessione della costruzione e gestione di aree verdi attrezzate aperte al pubblico nel periodo 1996-2012”.

Ad agosto dello scorso anno, in una Conferenza Stampa, l'allora Assessore alla Legalità, Sabella, aveva dichiarato di augurarsi che le cifre dell'esposizione debitoria del Comune possano restare quelle dei 121 milioni di euro. “In quella cifra non abbiamo messo i concessionari che finora hanno pagato – aveva precisato l'Assessore alla Legalità – ma se smettessero di pagare il problema potrebbe diventare più rilevante di quanto non sia stato finora”. Venticinque milioni già pagati, 121 milioni di debiti residui, poi ci sono altre rate annuali da 10 milioni di euro da pagare alle banche.

Nelle settimane in cui al Comune di Roma si apre la discussione sul bilancio, diventa opportuno e necessario che si smantellino tutte le ipoteche e le falsità sull’astronomico debito comunale. Un debito che in realtà è stato alimentato attraverso soldi pubblici regalati ai privati e accordi suicidi con le banche. E’ per questo motivo che continuiamo a “sorprenderci” del fatto che Mafia Capitale abbia avuto tanto clamore per un malaffare di qualche decina di milioni di euro ma che il bersaglio grosso, la “ciccia” del malaffare, non sia stata ancora presa di petto con l’energia dovuta.

E’ vero, il “Mondo di sopra” è più potente, trasversale e influente degli scagnozzi del “Mondo di mezzo” come Buzzi e Carminati. Ma nessuno ci venga a raccontare che il buco del debito comunale sia un fattore estraneo dagli appetiti dei privati e dalla complicità della macchina amministrativa. Le responsabilità erariali dei politici, a confronto con questi, sono quasi come quelle di ragazzini che hanno rubato le caramelle. Fumo negli occhi dei semplici di cuore, come quello che Renzi getta in queste settimane in vista del referendum contro la Costituzione.

Fonte

Trattato Ceta. Il premier canadese cancella il viaggio in Europa

di Jennifer Rankin - da The Guardian, traduzione e cura di Francesco Spataro

Il Primo Ministro canadese, Justin Trudeau, ha cancellato il viaggio a Bruxelles nel bel mezzo delle dispute in corso, per salvaguardare uno storico accordo sul libero commercio fra il suo paese e l’Unione Europea.

Trudeau avrebbe dovuto incontrare i leader europei Donald Tusk e Jean-Claude Juncker a Bruxelles oggi, ma all’ultimo momento ha deciso di non salire sull’aereo, mentre i politici Belgi continuavano a litigare sull’accordo, così da evitare che l’Unione Europea arrivasse ad una firma. Proprio una fonte UE ha confermato al quotidiano The Guardian che il summit non avrebbe avuto luogo, e che nessuna nuova data è stata per ora fissata.

Chrystia Freeland, addetto stampa per il ministro del commercio canadese ha dichiarato al Global news “Non è attesa nessuna delegazione canadese in Europa per questa sera. Il Canada rimane pronto a firmare questo importante accordo quando l’Europa sarà pronta.”

Era previsto che Trudeau volasse nella capitale belga ieri sera come parte di una delegazione che includeva la Freeland e il ministro degli affari esteri, Stéphane Dion. Il Trattato economico di libero scambio (CETA), su cui si sta lavorando da sette anni, è inciampato proprio sulla dirittura finale, per colpa della forte opposizione del governo regionale belga di Vallonia.

L’UE ha bisogno dell’adesione di tutti gli stati membri (28 per la precisione) per sostenere e far entrare in vigore il CETA, ma il governo federale belga, che appoggia il trattato, non è stato capace di dare il suo benestare a causa dell’opposizione dei parlamenti regionali di Vallonia e Bruxelles. I negoziati tra i differenti leader regionali sono ripresi giovedì (ieri per chi scrive), ma i rappresentanti politici si stanno confrontando per ricucire le loro difformità. Nella tarda notte di mercoledì, le voci che riferivano di un compromesso vicino sono aumentate quando una commissione formata dai leader regionali belgi ha iniziato a discutere un elaborato.

Paul Magnette, premier vallone, si è rifiutato di firmare il trattato, facendo riferimento a “problemi tecnici”. Magnette in Vallonia è sostenuto dal gruppo Socialista e dai Cristiano democratici di centrodestra.

“Ciò che ci ispira è la difesa dei valori fondamentali: identità culturale a livello europeo, difesa degli agricoltori, delle piccole e medie imprese, il principio di precauzione,” ha dichiarato alla rete televisiva RTBF, Benoit Lutgen presidente francofono dei cristiano democratici. “Cosa cambia se ci sarà un summit domani, o fra tre giorni, o magari sei settimane? Ai miei occhi non cambierebbe nulla. Abbiamo lavorato per ottenere trasparenza, che è già di per sé importante, non solo per i cittadini Valloni, ma anche per i Belgi o per gli Europei.”

La decisione di rimandare il summit sarà un duro colpo per Tusk, presidente del Consiglio europeo. Nella tarda mattinata di mercoledì ancora pensava che sarebbe stato possibile andare avanti con questo incontro già da tempo programmato, tanto da sollecitare il Belgio ad essere all’altezza della sua fama come “campione di costruzione di consensi”. La discussione ha invece riacceso tensioni di vecchia data tra la Vallonia, una regione che a lungo ha lottato contro un’eredità di declino industriale e di alto tasso di disoccupazione, e la ben più ricca e prosperosa Flanders, che commercia maggiormente con il Canada. Tutto questo ha rimesso in discussione anche la capacità della UE a firmare accordi sul commercio ed ha aumentato i dubbi e gli interrogativi sulle prospettive per la Gran Bretagna post Brexit, nel negoziare il proprio specifico accordo.

La Commissione europea ha da sempre cercato l’unanimità fra gli Stati membri dell’UE riguardo ai trattati commerciali, ma le voci critiche affermano che è stato un errore tattico, dare ai Parlamenti nazionali il veto effettivo riguardo il trattato con il Canada.

Anche se i Belgi fossero all’altezza della loro reputazione nel trovare compromessi, il CETA entrerebbe in vigore su basi temporanee. Per diventare un trattato permanente e completo, il CETA dovrebbe essere ratificato da 28 parlamenti nazionali e 10 altre assemblee regionali e/o camere alte (il Senato, in altre nazioni). Il Segretario di Stato per il commercio internazionale, il britannico Liam Fox, ha dichiarato ieri ai membri del Parlamento che, le difficoltà che si stanno affrontando sul CETA hanno evidenziato l’importanza della sottoscrizione da parte del Regno Unito di un accordo sul commercio prima della loro uscita dall’UE. La Gran Bretagna prenderebbe in esame una procedura simile a quella del CETA, ha affermato Fox, solo se fallisse nel concludere un accordo sul commercio, prima della fine dei due anni di trattative di “divorzio” regolate dall’articolo 50 dell’UE.

“Quel tipo di procedura potrebbe essere intrapresa solo se il nostro paese lasciasse l’ Unione Europea, dopo la scadenza del periodo coperto dall’articolo 50, senza alcun tipo di accordo o, se cercasse un nuovo FTA (acronimo di Free Trade Agreement, un Trattato di Libero Commercio) al di fuori della UE.”

Alcuni osservatori pensano che è una prospettiva verosimile, considerato che i negoziati su “divorzio” ed articolo 50 sono riservati al socio britannico della UE e che i leader europei non sottoscriveranno un trattato commerciale prima di aver concordato delle disposizioni finali sul “divorzio”. Fox, un convinto sostenitore del “leave”, ossia dell’uscita dall’UE, sostiene che l’esperienza del CETA per alcuni potrebbe essere motivo di riflessione, portando questi paesi a pensarci due volte prima di accettare un trattato di libero scambio con la UE.

“Coloro i quali mettono la politica prima della prosperità dovrebbero pensarci due volte” chiosa Mr. Fox.

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Africani d’Europa

Affrontare gli allucinanti fatti di Goro con toni moralistici o, peggio, con semplici richiami all’accoglienza è un puro e semplice esercizio retorico che rischia di essere inutile se non dannoso. È, invece, più che mai indispensabile fare analisi e dimostrare come quanto sta accadendo nel Sud dell’Europa sia la spia di precise scelte economiche e geopolitiche di sviluppo.

L’Italia di oggi non ha ancora realizzato di essere ripiombata in un’area di sottosviluppo e di marginalità politica, destino peraltro condiviso con tutti gli altri paesi del Mediterraneo. Basterà ricordare che, solo nel 2015, sono stati 107.000 i giovani italiani, in maggioranza under 35, che hanno lasciato il Paese in cerca di lavoro o di migliori condizioni di vita.

La fondazione Migrantes, nel suo rapporto, aggiunge una serie di dati interessanti. Le mete di destinazione preferite dai nostri connazionali sono, in primis, Germania e Regno Unito, a seguire, Svizzera e Francia e, inaspettatamente, Cina, Singapore, Thailandia e Giappone.

Se è vero che maggioritaria resta l'emigrazione meridionale, cresce contemporaneamente anche quella dal Nord: Lombardia e Veneto sono infatti le regioni che registrano, in termini assoluti, il maggior numero di partenze. In dieci anni, l’emigrazione italiana ha subito un incremento del 55%: le partenze sono passate da 3 a 4,8 milioni.

L’Italia ha un tasso di disoccupazione giovanile che sfiora il 40% e vede trionfare un modello di sviluppo fondato su precarietà, sfruttamento del lavoro, voucher, bassi salari e tagli al welfare. Quale stupore può destare il fatto che i giovani italiani cerchino migliori condizioni di vita e di lavoro?

Delfina Licata, redattrice del rapporto Migrantes, afferma che l’ultima ondata migratoria è partita dopo la crisi finanziaria del 2007 – 2008 e che oggi partono anche i ‘talenti semplici’, non solo i laureati disoccupati e i ricercatori senza futuro e garanzie. Altri studiosi del fenomeno sottolineano come l’emigrazione odierna sia molto diversa da quella di qualche anno fa: se prima si trattava d’imparare una lingua o di sperimentare diversi stili di vita e di lavoro, ora gli italiani emigrano per disperazione.

E l’Africa cosa c’entra in tutto questo?

Il continente africano è, da qualche anno, in tumultuosa ascesa a livello economico e demografico, ma, così come accade in Europa, a tale sviluppo non corrispondono aumento dell’occupazione e diminuzione delle diseguaglianza. Questo andamento è evidente, in particolare, per l’Africa subsahariana: “La crescita del 5 per cento annuo registrata negli ultimi dieci anni non ha condotto a un proporzionale aumento dei posti di lavoro e persistono profonde sacche di disoccupazione.

Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, l’Africa subsahariana ha la più alta percentuale di “lavoratori vulnerabili” al mondo: il 77,4 per cento del totale degli occupati. Un decennio di crescita non ha aiutato a risolvere il problema della povertà di massa che affligge la regione, distribuendo in modo fortemente ineguale i suoi frutti, con la diseguaglianza che, secondo la Banca Mondiale, “è a livelli inaccettabilmente alti e viene ridotta a un passo inaccettabilmente lento. Quando, tre anni fa, i lavoratori della miniera di Marikana, nel nord del Sudafrica, dove la disoccupazione tocca anche il 40 per cento nelle zone etnicamente segregate, sono scesi in strada per chiedere un aumento del loro salario pari a 500 euro al mese, la polizia ha sparato sui minatori uccidendone 34. Leadership sclerotizzate ed endemicamente corrotte, sistemi di governance e tutela dei diritti inadeguati lasciano esposti i cittadini e i beni comuni agli istinti predatori del grande business.” (da Internazionale del 20/8/2015, È il secolo dell’Africa, ma il suo modello di sviluppo è insostenibile, Niccolò Cavalli).

Nonostante la crescita economica degli ultimi anni, la Banca Mondiale, già nel 2013, affermava che “uno ogni due africani vive in condizioni di estrema povertà, ossia con 1,25$ al giorno” e che “la crescita dell’Africa non ha inciso sulla povertà, a causa degli alti livelli di diseguaglianza... Il tasso di povertà del continente era al 58% nel 1999 ed è sceso al 48,5% nel 2010. Circa un 10% in meno, la metà del cammino fatto dalla Cina nello stesso arco temporale”...“ Paradossalmente i paesi con la crescita più rapida sono anche quelli con la crescita meno inclusiva. Kenya, Ghana, Tanzania ed Etiopia vengono celebrati come esempi del nuovo miracolo economico, ma hanno la crescita meno inclusiva di tutti. Un problema sottolineato nell’ultimo Outlook della Banca africana di sviluppo, che però non è stato ripreso da nessuno”. (da Limes del 16/10/2013)

Le dodici donne africane e i loro otto bambini, rifiutati con un atto vile quanto ripugnante a Goro, costituiscono l’ultimo rivolo di un sistema di sviluppo che si preoccupa solo della mobilità dei capitali, delle merci e del “capitale umano”, ignorando qualsiasi altro fattore umanitario. Quelle barricate fanno il paio con i muri e le barriere che, passando per Calais, arrivano a Budapest, ma che presto potrebbero essere elevate da inglesi, tedeschi e olandesi contro italiani, greci e spagnoli.

Il capitalismo neoliberista, in un contesto di stagnazione demografica e di debole crescita economica, continua a produrre nei paesi dell’Europa meridionale disoccupazione di massa, sfruttamento sempre più brutale, tagli allo Stato sociale e condizioni di vita sempre peggiori. Agli abitanti di Goro bisogna dire che se non si lotta contro la UE, la Troika e il loro sistema di sfruttamento, tra qualche anno, le barricate verranno alzate in faccia ai loro figli perché gli africani d'Europa siamo noi.

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27/10/2016

I tunnel dell’Italia infame

Ci abbiamo fatto l'abitudine e non ci riflettiamo nemmeno più. Arrestano un po' di imprenditori, qualche funzionario pubblico, leggiamo di corruzione e di escort come cadeau per facilitare un appalto o la chiusura di entrambi gli occhi sul “cemento come un colla”. Tutto già visto, tutto metabolizzato e dimenticato nel giro di tre giorni. È da quelle parti che si ride quando c'è un terremoto, perché di sicuro fioccheranno appalti pubblici senza troppi controlli. Anzi, mai come in questo caso il terremoto è utile anche a far scivolare rapidamente via dalle prime pagine 35 arresti più o meno eccellenti.

E invece no. Questa inchiesta che ha portato in galera o nei pressi funzionari pubblici, figli di papà famosi, imprenditori vicini alla 'ndrangheta – esattamente come quella sull'Expo milanese, di cui sono sono state pubblicate le intercettazioni (solo sul giornale di Travaglio, pare) – è uno spaccato del potere che governa realmente questo paese. Anche in barba alle prescrizioni e ai controlli dell'Unione Europea. Comunque incontrando un grado di tolleranza molto alto (più dello 0,1%, insomma...).

È necessario non farsi distrarre dalle narrazioni che piovono da Palazzo Chigi o dai diversi scranni istituzionali. Qualsiasi governo del dopoguerra è stato impastato direttamente con questi interessi e questi personaggi. Anche dal punto di vista strettamente capitalistico, questo blocco di interessi rappresenta plasticamente l'“anomalia italiana”.

Che è poi la faccia impresentabile dell'inconsistenza dell'imprenditoria italiota a paragone del grande capitale multinazionale. Un'imprenditoria da appaltisti e “bollettari”, che riesce a vedere un guadagno (non il “profitto”, ma la semplice plusvalenza) solo a ricasco dei finanziamenti pubblici. Questo e non altro sono le grandi opere inutili e devastanti come il Tav, il Mose, l'Expo o le Olimpiadi (per ora forse, e fortunatamente, bloccate).

E' il micromondo in cui l'ex Ragioniere generale dello Stato (presunto cerbero addetto al controllo scrupoloso delle entrate e delle uscite) può passare in una notte alla presidenza di Infrastrutture spa o della Consap (Concessionaria dei servizi assicurativi pubblici) e in questa veste sponsorizzare e finanziare – con soldi pubblici, ovviamente – i lavori per il Terzo Valico. Opera che viene appaltata al consorzio Cociv (al 64% proprietà di Salini Impregilo), che naturalmente sceglie il figlio di Monorchio, ora arrestato, come direttore dei lavori.

È il micromondo in cui si fanno affari solo se si sta con un piede nel governo e l'altro in Confindustria, scivolando agevolmente da una compagine all'altra e viceversa.

Un micromondo dove ovviamente non c'è nulla da programmare, quanto a sviluppo economico del paese, nessuna strategia industriale da immaginare, ma solo spesa pubblica da gestire, escogitare, ungere, far approvare. Tanto questi vengono classificati come “investimenti”, e i tagli, quando verranno pretesi dagli organismi internazionali, si faranno solo su sanità, pensioni, istruzione, ricerca, ecc.

La coincidenza tra inchieste e terremoto mette in luce proprio lo scarto abissale tra bisogni generali e interessi privati di un ambiente politico-imprenditorial-mafioso.

Ne consegue che l'urgenza vera – quella di salvare vite umane e patrimonio artistico-culturale – sarebbe quella di mettere in sicurezza quel 70% di abitazioni senza garanzie. Un mare di microinterventi, dunque, a basso costo, alta intensità di lavoro (non si possono usare a questo scopo ruspe e talpe giganti, controllate da pochissimi uomini), basso tasso di profitto e alto livello di controllo (i proprietari stessi degli immobili, che si sincererebbero giorno dopo giorno di qualità e velocità dei lavori, nonché dei materiali usati).

Una bestemmia per le orecchie dei “consorziati” specialisti in grandi opere pubbliche. Che preferiscono di gran lunga lavori ciclopici senza controlli, fatti con materiali di scarto e alta intensità di macchinari, pattuglioni di polizia per reprimere eventuali resistenze locali, costi che lievitano di mese in mese con la certezza che lo Stato pagherà fino all'ultimo centesimo grazie a ministri, onorevoli, funzionari foraggiati in molti modi (dalla classica bustarella gonfia all'ancora più classica escort).

Questa Italia non sparirà neanche con la vittoria del NO al referendum del 4 dicembre. Mentre una catastrofica vittoria dei “sì” le consegnerebbe le chiavi per un dispotismo pressoché assoluto e il potere di schiacciare ogni opposizione sociale con molta più forza di quanta non ne sia stata usata fin qui nei confronti del movimento No Tav.

Per questo la vittoria del NO è solo una premessa, necessaria ma non sufficiente. Urge che un altro e ben più consistente blocco sociale prenda consistenza nel corso di questa battaglia, che lega questioni costituzionali e bisogni sociali, assetti istituzionali futuri e struttura dei diritti. Abbiamo iniziato a metterlo in moto il 21 e 22 ottobre. Si tratta di farlo diventare un soggetto centrale nella dialettica politica del prossimo futuro.

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Sarà anche un'anomalia italiana, personalmente, però,  trovo che il "il micromondo in cui si fanno affari solo se si sta con un piede nel governo e l'altro in Confindustria, scivolando agevolmente da una compagine all'altra e viceversa" abbia assonanze notevolissime con quell'industria multinazionale, in particolare finanziaria che da 30 anni almeno esprime la stragrande maggioranza della classe politica del mondo anglosassone e delle strutture dell'UE.

Moni Ovadia: Israele - Palestina, la verità del documento dell'Unesco

di Moni Ovadia – Il Manifesto

Le parole sono importanti! sentenziava Nanni Moretti in una scena da culto di una sua memorabile pellicola, dando ratifica all’affermazione con un sonoro ceffone vibrato ad una giornalista colpevole di esprimersi con un eloquio mediocre ed improprio. Dal tempo di quell’accorato grido di dolore del geniale cineasta molta acqua è passata sotto i ponti. Abusare perversamente le parole è diventata pratica comune che non provoca reazioni di sofferenza; in questi giorni, il nostro capo del governo si è prodotto in una tecnica di perversione del senso, sostituendo la parola italiana condono con l’anglicismo di sonorità meno sconcia voluntary disclosure.

L’ordine del discorso e la scelta delle parole possono diventare particolarmente insidiosi quando si parla di Israele, governo israeliano, israeliani, ebrei e via dicendo. A me è capitato di sentirmi apostrofare con il termine “antipatizzante” di Israele per avere definito “colonie” le colonie israeliane della Cisgiordania invece di descriverle con il più neutro “insediamenti”. Gli ultras proisraeliani a prescindere, ma anche coloro che non sono estremisti del campo – potremmo definirli i moderati di ogni schieramento – manifestano un’immediata idiosincrasia nei confronti di un crudo linguaggio di verità, qualora utilizzato nei riguardi di Israele.

Per queste sensibilissime persone, parole accettabili all’indirizzo di qualsiasi altro paese occupante e colonialista del mondo, diventano inascoltabili se utilizzate per criticare gli atti dei governi israeliani. Questa ipersensibilità ha provocato l’ennesima crociata pro Israele sulla stampa mainstream e nelle piazze, per denunciare l’antisemitismo dell’Unesco a proposito della sua risoluzione sulla Palestina occupata.

Nella traduzione integrale della risoluzione al comma 3 leggiamo: “Affermando l’importanza che Gerusalemme e le sue mura rappresentano per le tre religioni monoteiste, affermando anche che in nessun modo la presente risoluzione, che intende salvaguardare il patrimonio culturale della Palestina e di Gerusalemme Est, riguarderà le risoluzioni prese in considerazione dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e le risoluzioni relative allo status legale di Palestina e Gerusalemme...”.

In apertura, la risoluzione riconosce che Gerusalemme e le sue mura sono sacre ai tre monoteismi e ai loro fedeli: ebrei, cristiani musulmani. Non c’era dunque alcuna ragione di gridare all’antisemitismo, di accusare la risoluzione di voler negare il legame degli ebrei con quei luoghi. In realtà a me pare di intuire che la reazione degli ultras pro Israele, senza se e senza ma, dipenda piuttosto dal fatto che nei commi successivi la risoluzione si riferisca ripetutamente ad Israele con la definizione di “potenza occupante” e ne denunci la pratica violenta dei fatti compiuti sul territorio.

Ora, Israele è, piaccia o non piaccia, una potenza occupante e lo è da cinquant’anni e questo secondo le risoluzioni dell’Onu, non secondo i pro palestinesi. Ma attenti a dirlo! Diventereste illico et immediate antisionisti, ovvero antisraeliani, ovvero antisemiti. Guai all’Unesco che osa affermare che Israele è potenza occupante.

Invece, i politici israeliani di governo possono gridare ai quattro venti che Gerusalemme è la sacra ed indivisa capitale dello Stato di Israele nell’assoluto silenzio delle anime belle, e i leader dei partiti religiosi possono sostenere impunemente che tutta la terra di quella che fu la Palestina mandataria appartiene agli ebrei perché fa parte della terra “donata” da Dio.

Gli zeloti che fanno parte dell’elettorato della destra utrareazionaria sostenitrice di Netanyahu, possono farneticare di distruggere le moschee per edificare al loro posto il “Terzo Tempio” e compiere atti aggressivi nei confronti dei palestinesi, nessuno scandalo. È scandalo invece se il documento dell’Unesco non riconosce alle autorità israeliane e ai fanatici di Israele il diritto ad esercitare il proprio arbitrio.

Forse disturba la mancata identificazione di ebrei e governo israeliano in carica. Le anime belle della democrazia a popoli alterni sanno che le due cose sono diverse, ma dà loro un incontenibile fastidio. Eppure il problema di una precisa distinzione fra israeliani ed ebrei è ormai incandescente.
Un recente articolo apparso sul quotidiano israeliano Ha’aretz a firma di Chemi Shalev titolava: “Trump mostra agli estremisti di destra come amare Israele ed odiare gli ebrei” (alcuni estremisti di destra americani disprezzano gli ebrei progressisti con lo stesso veleno con il quale la destra israeliana odia gli ebrei di sinistra).

Eccolo il capolavoro che hanno edificato i nazionalisti e i fanatici religiosi israeliani con la fattiva collaborazione degli ultras pro sionisti e il benevolo sussiego di certi moderati che sono amici di Israele a prescindere.

Grazie a loro, gli eredi degli antisemiti di ogni tipo possono tornare ad odiare gli ebrei cominciando dai maledettissimi rossi e poi... Poi si vedrà.

Massa d’urto religiosa di questa nuova ideologia sono i cosiddetti cristiano/sionisti. Sono milioni, appartengono a chiese evangeliche millenariste e avventiste, sono sostenitori del sionismo integralista, rivendicano il diritto degli ebrei a possedere tutta la Terra Promessa e auspicano il ritorno di tutti gli ebrei in Eretz Israel perché secondo le loro profezie ciò provocherà la seconda parusia di Gesù e l’Armageddon. E gli ebrei? Quelli che riconosceranno il Cristo saranno salvi. E gli altri? Si fotteranno bruciando nelle fiamme dell’inferno! (L’interpretazione è mia).

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