Sul finire dei suoi lavori l’Assemblea Costituente affrontò il tema della legge elettorale proporzionale
che, in seno alla seconda commissione, il grande giurista Costantino
Mortati (Dc) propose di costituzionalizzare. La proposta di inserire la
legge nella carta non venne accolta, ma l’orientamento pressoché unanime
fu quello di adottare la proporzionale per l’elezione della Camera nel
1948. In aula, la proposta venne ripresa dal comunista Antonio Giolitti,
sotto forma di emendamento all’articolo 53, ma venne obiettato che
questo era stato escluso in commissione, per cui l’emendamento venne
trasformato in ordine del giorno, poi approvato. Probabilmente i
Costituenti avrebbero fatto meglio ad inserire la norma nel testo della
Costituzione, ma tanto non sembrò necessario perché l’orientamento era
generalmente favorevole al sistema proporzionale e, d’altro canto, l’intera architettura costituzionale aveva come presupposto quel sistema elettorale.
E, per convincersene, bastino poche
osservazioni. Ad esempio, nessun sistema a sistema maggioritario affida
al Parlamento la funzione di revisione costituzionale o, per lo meno,
non solo ad esso, prevedendosi o referendum popolari preventivi, o un
ruolo determinante del Capo dello Stato oppure delle regioni o stati
federati o anche di un Senato altrimenti eletto.
Di fatto, tanto la Costituzione
formale quanto quella materiale hanno avuto il sistema proporzionale
come pietra angolare su cui basarsi. La costituzione materiale
perché in questo sistema elettorale valorizzava il ruolo dei partiti
come organizzatori della democrazia, la Costituzione formale perché esso
garantiva tanto la rigidità del testo, quanto l’accentuato pluralismo
del sistema, che induceva a forme di governo di coalizione e ad intese
più ampie della maggioranza di governo per decisioni delicate come
l’elezione del Presidente, dei membri della Corte Costituzionale e del
Csm. Tutto questo realizzava un equilibrio fra poteri di maggioranza e
diritti delle opposizioni che, anche se mai perfetto, tuttavia garantiva
un ruolo dinamico del Parlamento.
Dagli anni settanta, tuttavia, si manifestò una crescente degenerazione
della vita interna dei partiti che produsse la sclerotizzazione del
sistema istituzionale nel suo complesso. Di ciò venne data indebitamente
la colpa al sistema proporzionale e, invece di procedere ad una
regolamentazione per legge dei partiti, in modo da consentire
l’intervento del giudice ordinario nei molti casi delle vere e proprie
frodi (a cominciare dai tesseramenti truccati) e contrastare la
degenerazione partitocratica, si preferì la strada del tutto
controproducente del passaggio al sistema maggioritario, lasciando
pericolosamente non mutate le norme più delicate (art.138, elezione del
Presidente ecc.). Con una discutibile sentenza, la Corte Costituzionale
decise di ammettere il referendum, probabilmente anche per effetto della
pressione dell’opinione pubblica, debitamente pilotata dai mass media
attraverso una accorta gestione dell’inchiesta “Mani Pulite” che fu
l’ariete di sfondamento della manovra.
Superato l’ostacolo del referendum, la manovra proseguì introducendo una forma surrettizia di presidenzialismo,
con l’indicazione del candidato Presidente del Consiglio, la cui
scelta, secondo il dettato costituzionale, sarebbe spettata
esclusivamente al Presidente della Repubblica. Per la verità, questa
norma implicita trovò applicazione imperfetta e discontinua, perché, pur
se in modo difettoso, la nostra continuava ad essere una Costituzione
parlamentare, per cui, di fronte alla alle turbolenze di maggioranza, il
Presidente nominò Capi del governo privi di investitura popolare (Dini
nel 1995, D’Alema nel 1998, Amato nel 2000). Questa prassi, sul lungo
periodo ha prodotto paradossalmente un iper protagonismo del Presidente
della Repubblica, la cui figura ha finito per essere sempre più simile a
quella del Presidente “regnante” della Costituzione gaullista francese.
Non solo il Presidente ha ripetutamente nominato Capi del Governo di
suo gradimento e con maggioranze ribaltate (Monti nel 2011, Letta nel
2013, Renzi nel 2014) ma si è posto come supervisore e garante, sino a
presiedere riunioni dei capigruppo di maggioranza o, peggio ancora,
promuovere processi di revisione costituzionale scavalcando procedure
dell’art 138.
Siamo alla
decostituzionalizzazione dell’ordinamento giuridico. Una sorta di colpo
di stato strisciante, apertosi con il referendum voluto da Occhetto,
Segni e Pannella e che oggi passa attraverso la riforma renziana
che non sarà neppure l’ultima, quando l’effetto combinato dell’assurdo
premio di maggioranza dell’Italicum e la sostanziale abrogazione del
bicameralismo, spianerà la strada ad una più complessiva revisione
costituzionale, che forse farà strame della prima parte, quella dei
diritti dei cittadini e dei principi sociali, conformemente a quanto richiesto, due anni fa, dalla grande banca americana Jp Morgan.
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