Con l'assoluzione di Hashi Omar Hassan si chiudono i primi 22 anni dall'omicidio di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin, l'inviata e il cameraman della Rai uccisi in Somalia mentre seguivano una pista giornalistica che portava evidentemente ad interessi rimasti ignoti ma fortemente difesi e rappresentati da tutti i governi italiani. Da allora ad oggi. Che si tratti di commercio di armi o di rifiuti pericolosi, sempre di business stiamo parlando...
La sentenza del Corte d'Apppello di Perugia non giunge affatto inattesa – il processo è stato riaperto perché uno degli accusatori di Hassan ha ritrattato tutto, spiegando anche perché aveva mentito – ed è stata voluta anche dalla famiglia Alpi, convinta da sempre che fosse stato loro fornito un capro espiatorio, non un colpevole.
A questo punto, dopo 22 anni e una guerra civile somala che dura da ancor prima di quella data, è illusorio pensare di poter trovare – vivi – gli autori materiali del duplice omicidio. Sarebbe necessario invece indagare davvero sulla copertura data da governi e inquirenti italiani a chi ha fatto di tutto per depistare eventuali indagini o accertamenti, di modo che non fosse mai rintracciabile una responsabilità qualsiasi.
Ci sembra infatti evidente che l'unico processo ancora possibile è allo Stato italiano – in specifico ai comandi militari che controllavano allora la Somalia e ai relativi servizi di intelligence – che ha fatto uccidere due cittadini di questo paese (per di più giornalisti del servizio pubblico!) e poi ha nascosto le prove.
Diciamo questo perché il primo processo è stato un depistaggio organizzato, stando alle parole usate dal magistrato rappresentante l'accusa nell'appello di Perugia, Dario Razzi: analizzando le prove emerse nei confronti di Omar Hassan "ne deriva un quadro bianco senza immagini, senza niente". "E quindi la mia conclusione non può che essere una richiesta di assoluzione per non aver commesso il fatto".
Non è raro che un imputato sia condannato senza prove, ovviamente. È rarissimo che ciò avvenga in un processo che ha vissuto sotto i riflettori della stampa in ogni sua fase, dall'inizio alla fine. Segno che la forza di chi ha tenuto tutto nascosto deve essere immensa, almeno rispetto alla capacità di indagine del giornalista medio italico (bassina, diciamo così). Una prassi che abbiamo visto all'opera molte altre volte. Almeno quante sono state le stragi di Stato in Italia.
Ripercorrendo le tappe di questa infame vicenda, si può ricordare che persino le perizie di routine – come l'autopsia – vennero svolte solo dopo lunga e decisa insistenza da parte della famiglia Alpi. La domanda è quasi banale: chi erano quei funzionari che facevano il muro di gomma davanti alla richiesta di un atto dovuto per qualsiasi morte violenta? A quali “uffici” facevano capo? E soprattutto: qualcuno ha provveduto ad interrogarli?
Da queste prime risposte – pretese ovviamente da chi dispone del potere giudiziario di farsi prendere sul serio – potrebbero dipanarsi i cento fili di una ricostruzione realistica di quanto avvenuto nei dintorni di Mogadiscio.
Servirebbe una magistratura davvero “terza”, capace di mettere il naso anche là dove il segreto è un abito mentale e una garanzia di impunità perenne.
C'è ancora un magistrato del genere, in questo paese?
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