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26/04/2024

Arma non convenzionale (1990) di Craig R. Baxley - Minirece

Gaza - Hamas ribadisce richiesta di cessate il fuoco. Emergono gli orrori dalle fosse comuni a Khan Younis

Hamas non accetterà un accordo di tregua senza un cessate il fuoco permanente e il ritiro completo delle truppe israeliane dalla Striscia di Gaza. Lo ha detto Khalil al Hayya, membro dell’ufficio politico di Hamas all’emittente “Al Jazeera”.

“Hamas non ha chiuso la porta ai negoziati ed è seriamente intenzionato a rilasciare gli ostaggi nel quadro di un accordo che garantisca anche il rilascio di migliaia di prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane”, ha affermato Al Hayya. Tra gli obiettivi c’è anche il “ritorno senza ostacoli dei palestinesi sfollati alle loro case in tutte le parti della Striscia, la ricostruzione di Gaza e la fine dell’assedio”.

Il gruppo palestinese ha consegnato la sua risposta all’ultima proposta, che includeva un emendamento degli Stati Uniti, lo scorso 13 aprile, e “sta ancora aspettando una risposta da Israele e dai mediatori”, ha proseguito Al Hayya, aggiungendo che “il punto critico che ha bloccato i negoziati è il rifiuto di Israele di accettare un cessate il fuoco permanente”.

Intanto le squadre della Protezione Civile di Gaza hanno analizzato i corpi di 392 persone sepolte in fosse comuni presso l’ospedale Nasser di Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza.

“Le squadre della protezione civile hanno dissotterrato 392 corpi dalle fosse comuni”, ha detto Yamen Abu Sulaiman, capo dell’agenzia di difesa civile di Gaza, in una conferenza stampa nella città meridionale di Rafah, giovedì, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Anadolu.

Tra le vittime c’erano i corpi di bambini. “Non conosciamo il motivo della presenza di corpi di bambini nelle fosse comuni dell’ospedale”, ha detto Abu Sulaiman.

Ha anche detto che su alcuni corpi sono state trovate prove di tortura. “Ci sono indicazioni di esecuzioni sul campo contro alcune delle vittime, mentre i corpi di altre vittime portavano segni di tortura e altri sono stati sepolti vivi”, ha detto Abu Sulaiman.

Durante la conferenza stampa, un funzionario della protezione civile ha condiviso un video delle vittime con segni di tortura evidenti sui loro corpi, che erano incatenati con cinture di plastica.

Molte delle vittime “sono state sepolte in sacchetti di plastica e poste a una profondità di tre metri, il che ha accelerato la loro decomposizione”.

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Sionisti esaltati e qualche domanda da porsi

La provocazione sionista non ha funzionato (nonostante alcuni media “complici”, che hanno propinato la versione già predisposta, senza neanche guardare quel che effettivamente è accaduto in piazza).

Primo punto fermo: è evidente che la “brigata ebraica” è oggi una sigla di comodo (ben pochi dei non molti membri storici sono oggi in vita, essendo passati 79 anni dai fatti).

Così come è evidente il tentativo di far passare la pressoché nulla operatività militare della “brigata ebraica” storica – peraltro inquadrata come reparto dell’esercito regolare del Commonwealth inglese, dunque senza alcuna autonomia – come protagonista della Resistenza italiana. Derubricando di fatto i partigiani a “comparse” (incredibile che ci possa essere in questo qualche dirigente attuale dell’Anpi disposto ad assecondare questo revisionismo).

Ancora più chiaramente, a Milano, lo striscione “identitario” esibito in piazza dichiarava spudoratamente il senso dell’operazione: “5.000 sionisti liberarono l’Italia“. Moltiplicando per quattro i numeri storici (ma sempre pochi restano...) e soprattutto chiarendo che “sionisti” ed “ebrei” non sono affatto sinonimi.

Quelli che oggi si riparano sotto questa sigla sono insomma la parte sionista e nazionalista (nel senso dello stato di Israele) della comunità ebraica, che meritoriamente può vantare numerosissimi esponenti di tutt’altra opinione.

Ma è chiaro che c’è stato un “salto di qualità” in quest’ala sionista, che ieri a Roma è arrivata determinata a cercare lo scontro fisico a tutti i costi, con una squadra di teppisti di cui alcuni a volto coperto (strano che la polizia non abbia neanche cercato di identificarli, vista la abbondante legislazione in proposito), praticamente “in divisa”. E immaginiamo cosa sarebbe accaduto, e cosa sarebbe stato scritto, a parti invertite.

È particolarmente indicativo il servizio in diretta di Rete4 (berlusconiana e governativa, dunque) in cui la cronista riferisce correttamente quel che era appena avvenuto e la responsabilità dei fatti (“una carica della ‘brigata ebraica‘”). Ma immediatamente interviene il ben noto Riccardo Pacifici che l’aggredisce negando l’evidenza, fino a quando la conduttrice della trasmissione cambia la versione smentendo la propria inviata sul campo (“non credo che ci sia stata alcuna carica“). Questa è l’informazione in Italia, ostaggio dei guerrafondai.


Viene in mente quella notizia, circolata nelle scorse settimane, che riferiva di 1.400 cittadini italiani di fede ebraica che stavano operando come riservisti militari a Gaza e in Cisgiordania, o ai confini col Libano. Sembra possibile che qualcuno abbia pensato di sfruttare una turnazione o i normali “periodi di licenza” per provare ad importare tecniche e “regole di ingaggio” apprese in combattimento (gestione dell’informazione compresa...).

È palese infatti il tentativo di applicare anche qui lo schema adottato dal governo Netanyahu (tutti i problemi si risolvono per via militare, e basta).

Il che getta anche una luce sinistra su quei “soldati di un esercito straniero in guerra” (Israele) che però possono sfruttare anche la nazionalità italiana e una condiscendenza politica decisamente eccessiva del cosiddetto “arco parlamentare”. È uno dei modi in cui la “guerra grande” che si sta combattendo in questa parte del mondo percola dentro il conflitto politico italiano e diventa “guerra interna”,

Troppi sospetti e pregiudizi? Mah, ci limitiamo a riportare – per esempio – la testimonianza de Il Faro di Roma, testata online cattolica, che in piazza ha visto quel che chiunque poteva – volendo – registrare.

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25 Aprile. La Brigata Ebraica sfila a Porta San Paolo tirando sassi sui filopalestinesi

Questa mattina [ieri, ndr] a Roma, in occasione delle celebrazioni per il 25 Aprile previste a Porta San Paolo, luogo simbolo dell’eroica Resistenza al Fascismo, è stato negato il diritto a manifestare a favore della Palestina e chiedere di fermare il genocidio in atto a Gaza.

I ragazzi di varie sigle della Sinistra dalle 7 di questa mattina erano impegnati a manifestare contro la guerra e le armi che stanno facendo strage anche di civili e bambini a Gaza e in Cisgiordania, quando alle 8.30 è sopraggiunto il corteo della Comunità Ebraica che ha tentato di avvicinarsi ai manifestanti, ma è stato contenuto dalla Polizia schierata in tenuta antisommossa.

In particolare a spingere sugli scudi e sul cordone delle forze dell’ordine è stato il servizio d’ordine della Comunità Ebraica, riferiscono alcuni cronisti.

Mentre si udivano le grida con insulti reciproci e l’accusa ai militanti della Sinistra di essere espressione di Hamas, è successo che alcuni esponenti del servizio d’ordine della Comunità ebraica hanno lanciato sassi contro i ragazzi filopalestinesi colpendo anche i cronisti che li riprendevano.

Sono due i giornalisti rimasti lievemente contusi. Un fotografo si recherà poi al Pronto Soccorso a farsi refertare e il cronista di un sito d’informazione online, benché colpito al naso da un sasso ha detto si colleghi: “vado avanti a lavorare, la manifestazione non è finita”.

Intanto, lentamente, si è allontanato il corteo della Brigata Ebraica percorrendo viale del Campo Boario diretto a piazza Bottego mentre le prime file in più di un’occasione hanno tentato di aggirare il cordone dei poliziotti

Le tensioni erano ampiamente annunciate. “Continuiamo la nostra lotta per chiedere lo stop al genocidio del popolo palestinese, che continua a resistere alle barbarie portate avanti da Israele e dell’imperialismo occidentale. Tutto accade con la collaborazione del nostro governo, che continua a schierarsi dalla parte del sionismo e che si dimostra sempre più a destra, con anche la collaborazione delle finte opposizioni”, recita un comunicato delle sigle filopalestinesi.

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Riflettendo sul 25 aprile/3. Resistenza “tollerata” e “tolleranza” del fascismo

di Massimo Zucchetti

Il «vento del Nord», come disse Pietro Nenni nel 1944, era quella spinta politica prodotta dalla Resistenza, che avrebbe dovuto spazzare via non solo il fascismo, ma anche tutte le «forze antidemocratiche, tutti gli interessi reazionari», essendo «una forza in irresistibile movimento, che non si accontenterà di parole sulla libertà e la democrazia, ma vorrà fondare la libertà su nuove istituzioni politiche e su nuovi ordinamenti economici».

Purtroppo, il vento del Nord diventò presto molto più tenue di quanto non pensassero i resistenti.

Resistenza tradita? Giorgio Bocca concluse con un “Resistenza incompiuta” la sua analisi storica del periodo. Noi, si parva licet, ci permettiamo di proporre un nostro “Resistenza tollerata”.

• La tollerarono obtorto collo gli anglo-americani durante la guerra, quando i partigiani liberarono tutte le principali città italiane (Roma esclusa), evitando agli Alleati tante mini-Stalingrado, o più vicino a noi, battaglie come la conquista sanguinosa di Aachen (Aquisgrana) nell’autunno 1944, o il massacro reciproco di sovietici e tedeschi per la conquista di Berlino nell’aprile 1945.

• La tollerarono, sempre gli anglo-americani, perché i tedeschi, per controllare e reprimere la Resistenza nel centro-nord, dovevano tenere impegnate diverse divisioni, sottratte al fronte.

• La tollerarono gli industriali, che tanta parte avevano avuto nel trionfo del fascismo vent’anni prima, e che nel ventennio avevano prosperato: furono assai veloci nell’annusare il cambiamento, e adeguarsi diventando anche fiancheggiatori dei resistenti. Pochi i veri antifascisti, è qui un dovere ricordare Enrico Mattei.

• La tollerò nel dopoguerra chi stava al Governo d’Italia, cioè in sostanza i democristiani, con il protettorato degli Stati Uniti. La società italiana, negli ultimi decenni, ha pian piano appiattito ed annacquato il ricordo della Resistenza, in una specie di abbraccio generale all’insegna del “eravamo tutti fratelli”.

Proprio per questo è importante, anche a distanza di ormai otto decenni, non dimenticare. Questo è particolarmente un dovere verso i giovani, che sono le prime vittime di questa pluridecennale campagna di disinformazione strisciante e buonista.

Il fascismo – repubblicano per facciata, ma dittatoriale fino alla fine – rimase sempre ciò che era stato fin dagli inizi: servo dei padroni, industriali e agrari. Alcuni infingimenti populisti e socialistoidi, con i quali il “socialista” Mussolini aveva già tradito la causa del socialismo e della pace negli anni ’10, trascinando l’Italia nella Prima guerra mondiale, vennero rivangati da Mussolini stesso ed altri personaggi, durante quei mesi di agonia finale del regime, e finirono, come fu giusto, nella pattumiera della Storia.

Perché un altro equivoco – a tal proposito – va chiarito. Se il partito dell’industria, vista l’imminente sua fine, ad un certo punto mollò il fascismo per rivolgersi agli Alleati, ed i fascisti reagirono con rabbia, questo non fa dei fascisti dei rivoluzionari anticapitalisti, ma solo dei servi messi alla porta, perché oramai imbarazzanti e inutili.

Così come non fa degli industriali degli antifascisti, ma – come sempre – dei capitalisti senza scrupoli pronti a servirsi di chiunque ed a cavalcare qualunque tigre, pur di conservare i propri privilegi ed estenderli: ricordiamo che grazie agli industriali e agli agrari vi fu l’avvento del fascismo, e sempre a causa loro l’Italia del dopoguerra tradì le migliori aspettative della Resistenza e finì in mano ai democristiani, con la supervisione degli Alleati.

Torniamo agli ultimi sfrontati tentativi di trasformismo di Mussolini e dei “Repubblichini moderati”.

La guida decisa di Sandro Pertini e di Lelio Basso mantenne, nella primavera 1945, i socialisti fuori da qualunque ambiguità o compromesso. Un’ultima lettera “ai compagni socialisti” venne vergata da Mussolini dopo la fallita trattativa in Arcivescovado e prima della fuga, il 25 sera.

Conteneva ancora profferte di accordo “fra compagni socialisti” (sic). Recapitata a Sandro Pertini, ebbe la consueta risposta: “La lettera non sarà presa in considerazione alcuna“. Bravo, Sandro. Nessuna trattativa, nessuna “comprensione”, nessun perdono saranno mai possibili, con i fascisti di ieri e di oggi. Il perdono – dicono quelli che ci credono – “spetta a Dio”.

Molti dei fascisti attuali si professano – non si comprende con quale coraggio e sfrontatezza – credenti. Ovviamente cristiani, religione ipocrita che calza loro a pennello. Nostro compito di antifascisti è al massimo questo: facilitare il più possibile l’incontro con “Dio” dei suddetti fascisti, in modo che possano riceverne il tanto agognato perdono. Ogni mezzo fu utile nel 1945, ogni mezzo deve esserlo oggi, per aiutarli in questo.

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Perché va sostenuta la resistenza del popolo argentino contro Milei

Bisogna essere grati all’obbrobrioso personaggio che risponde al nome di Javier Milei e che ricopre attualmente, speriamo ancora per poco, il posto di presidente dell’Argentina, per aver dimostrato senza ombra di dubbio che il neoliberismo sfrenato finisce per trasformarsi in fascismo bell’e buono.

Milei, colle sue incontenibili smanie distruttive, che lo hanno spinto a scegliere la motosega come suo strumento iconico, mi ricorda le imprese di Leatherface, il serial killer capo di una famiglia di assassini psicopatici protagonista di Non aprite quella porta, noto film horror cult statunitense del 1974.

Costui fa a pezzi con la motosega d’ordinanza tutti gli sventurati che circolano dalle sue parti per rispondere all’emarginazione sociale e culturale di cui è vittima.

Una vocazione alla violenza e al massacro che pare singolarmente in sintonia coi peggiori e senza dubbio mortiferi spiriti del capitalismo nella sua fase attuale, contrassegnata non solo dalla fase putribonda dell’imperialismo (che Lenin aveva definito a suo tempo fase suprema del capitalismo), ma anche dall’importanza centrale e strategica assunta dal complesso militare-industriale nel quadro del rafforzamento senza precedenti della finanza, dei settori ad alta tecnologia e dei monopoli in genere.

Non a caso il leader prediletto di Milei è quel Netanyahu le cui criminali pulsioni genocide, che si sono tradotte già nella morte di oltre trentacinquemila palestinesi in gran parte bambini e minacciano di trascinare il mondo intero nell’abisso della guerra nucleare, rendono un emulo indiscusso di Leatherface su scala planetaria.

L’altro elemento che ricollega le vicende di Milei a quelle narrate dal film horror di cinquanta anni fa che abbiamo ricordato è poi rappresentata dal ruolo chiave svolto dall’emarginazione sociale che nutre sentimenti distruttivi di rivalsa nei confronti del sistema che paradossalmente alimentano il sistema stesso. Infatti il successo elettorale di Milei è in gran parte dovuto alla sua capacità di intercettare i sentimenti di frustrazione sociale molto diffusi in settori giovanili e popolari che vivono le contraddizioni del capitalismo e sono rimasti delusi dalla sostanziale incapacità del peronismo e di altre forze che hanno governato l’Argentina negli ultimi anni a farsi carico delle loro problematiche, data la loro sostanziale subalternità al sistema.

Forte di questo consenso e dei difetti strategici altrui, Milei si è lanciato a testa bassa nella demolizione di qualsiasi intervento pubblico e di ogni sentimento di solidarietà umana e sociale, tentando addirittura di annientare la cultura dei diritti umani e la memoria dell’immane massacro compiuto negli Anni Settanta dalla dittatura militare, che inaugurò la prassi criminale delle sparizioni di massa, provocando la morte violenta, spesso a seguito di indicibili torture, di oltre trentamila persone.

Ma questa impresa sciagurata potrebbe rivelarsi superiore alle sue possibilità e tutti quanti dobbiamo auspicare che la parte migliore del popolo argentino riesca a porre fine a questa mostruosità antistorica che lo vorrebbe riportare a uno stato di amnesia e di totale assenza di identità.

Per questo è importante oggi sostenere con ogni mezzo la resistenza del popolo argentino a Milei: l’obbligo si impone in primo luogo a noi italiani che coll’Argentina abbiamo un fortissimo legame culturale e di sangue dato che buona parte della sua popolazione è di origine italiana.

Un’importante iniziativa in questo senso è stata il conferimento alla leader delle Madri ora Nonne di Plaza de Mayo, Estela Carlotto, da sempre protagonista della lotta per la verità e giustizia sui desaparecidos, del dottorato ad honorem dell’Università Roma Tre, avvenuta mercoledì scorso 17 aprile, così come la produzione letteraria e memorialistica in merito, che ha visto di recente la pubblicazione di un importante podcast dal titolo Nieto 133 sulla famiglia Santucho che fu vittima della repressione fascista, scritto da Claudia Gatti, Riccardo Cocozza e Florencia Santucho.

La pianta della memoria va coltivata e resa sempre più rigogliosa affinché mai in futuro si possano riproporre atrocità come quelle. Parte fondamentale di un indispensabile processo pedagogico rivolto alle giovani generazioni e alla società nel suo complesso, oggi sottoposte dagli apparati ideologici del capitalismo, dalla scuola all’università, dai giornaloni alle televisioni a un vero e proprio lavaggio del cervello, una tendenziale lobotomizzazione volta a prepararci tutti a vecchi e nuovi orrori.

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Oltre il Pil, così cambia l’economia della Cina

I dati del primo trimestre 2024 (Pil +5,3 per cento) hanno sorpreso i tanti analisti e osservatori che credono che l’economia cinese abbia raggiunto il picco e sia destinata a subire un brusco rallentamento.

L’economia cinese sta cambiando pelle: i “tre vecchi” (elettrodomestici, abbigliamento, mobili) sono stati soppiantati dai “tre nuovi” (veicoli elettrici, batterie, pannelli fotovoltaici) come principali prodotti d’esportazione.

La guerra commerciale e l’embargo tecnologico degli Stati Uniti stanno tuttavia complicando la rincorsa di Pechino.

Delle prospettive della seconda economia del pianeta abbiamo discusso con Roberto Donà, docente di Management presso la Xi’an Jaotong-Liverpool University di Suzhou (Cina) e consigliere della Camera di commercio dell’Unione Europea in Cina.

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La strana “democrazia” di Ucraina e Israele, parola di Washington

Ogni anno, il Dipartimento di Stato statunitense (l’equivalente del nostro ministero degli Esteri) stende un rapporto sul rispetto dei diritti umani in circa 200 paesi. Anche quest’anno è arrivato il momento di trasmettere i testi al Congresso, compresi quelli sui suoi alleati.

Non che poi Washington faccia davvero quel che dice, cioè difendere la democrazia e i diritti delle persone. Ma questi documenti sono in genere dettagliati e piuttosto onesti nel dar conto delle varie situazioni, pur ridimensionando spesso i crimini commessi da chi è legato agli USA.

Ad ogni modo, non si può nascondere tutto e quest’anno è sicuramente di un certo interesse andare a leggere cosa viene detto su due «bastioni» della democrazia, almeno per come sono presentati nei media occidentali.

Cosa ne pensa il Dipartimento di Stato dell’Ucraina e di Israele?

Per quanto riguarda l'Ucraina, la prima cosa che viene affermata è che, senza dubbio, i crimini commessi dai russi nel territorio di Kiev sono peggiori. E, tuttavia, sono elencati diversi nodi problematici che danno l’immagine di un paese che non ha nulla a che vedere con la “democrazia liberale”.

La legge proibisce torture e altre forme di abusi, ma vi sono resoconti che parlano di questo tipo di atti da parte delle forze dell’ordine. E del resto, con la legge marziale, le confessioni e le dichiarazioni estorte sotto costrizione possono essere utilizzate nei processi: insomma, in Ucraina è ormai legittimo torturare.

A queste note seguono tutta una serie di altre violazioni documentate, sia per ciò che riguarda gli arresti sia per i successivi procedimenti giudiziari. Sono tante le infrazioni delle norme di guerra, con la maggior parte attribuite alla Russia, ma rimarcando che esse vengono da entrambe le parti.

È soprattutto l’informazione a uscire devastata dalla guerra. Programmi banditi e sanzioni a giornalisti non allineati col governo, le querele e il pretesto della “sicurezza nazionale” per indirizzare le notizie sono largamente diffusi, così come la pratica dell’autocensura di ciò che si ritiene potrebbe suscitare malumori a Kiev.

Ci sono poi tanti altri ambiti in cui le illegalità si sono moltiplicate: violenza di genere, lavoro minorile, corruzione, libertà di associazione. Il rapporto sottolinea come, oltre ai simboli russi, anche quelli comunisti siano proibiti, cosa che di certo non dispiace ai vertici a stelle e strisce.

Del resto, i partiti comunisti sono stati banditi già dal 2015, ben prima dell’operazione militare russa. È bene ricordare che nelle democrazie liberali occidentali, sicuramente meno evolute di oggi, essi non vennero messi al bando nemmeno durante la Seconda guerra mondiale.

Passiamo a Israele, West Bank e Gaza. La prima sezione del rapporto si apre dicendo subito che nel corso del 2023 vi sono state “diverse segnalazioni che il governo o i suoi agenti hanno commesso uccisioni arbitrarie o illegali”. Non dopo il 7 ottobre, ma ben prima e durante tutto l’anno.

La legge israeliana non proibisce la tortura o altri trattamenti inumani, e ci sono varie relazioni attendibili sul loro utilizzo. Questo è avvenuto in particolar modo nei confronti dei detenuti palestinesi, e soprattutto dopo il 7 ottobre.

Per i crimini che prevedono condanne dai dieci anni in su è obbligatoria la registrazione degli interrogatori, ma una legge “temporanea”, continuamente prorogata dal parlamento, esenta i casi ascrivibili ai reati di sicurezza. In poche parole, tramite legislazione speciale Tel Aviv si è assicurata che non ci possano essere prove scritte dei crimini perpetrati sui prigionieri palestinesi.

Alcuni di loro, detenuti nella West Bank o a Gaza, sono stati trasferiti in strutture interne a Israele. Per molti gruppi che si battono in difesa dei diritti umani, questo va contro la Quarta Convenzione di Ginevra, che tutela i civili in tempo di guerra.

Tutele ormai dimenticate da tempo: il 2 maggio Amnesty International ha riportato l’utilizzo da parte del governo israeliano di un sistema di riconoscimento facciale da usare sui palestinesi per imporre ulteriori restrizioni di movimento. Inutile dire che il database biometrico che ne è risultato raccoglie i dati senza alcun consenso.

Il rapporto continua esplicitando che “il governo ha generalmente rispettato [la libertà di espressione] con alcune eccezioni, soprattutto per i palestinesi e i cittadini arabi/palestinesi di Israele”. Per questi ultimi vale anche, allo stesso modo, la restrizione del diritto a riunirsi pacificamente.

Sono frasi che smontano le dichiarazioni che ogni tanto si sentono sul fatto che i palestinesi con cittadinanza israeliana vivano “senza problemi” nell’entità sionista. Una falsità che deriva dalla Costituzione stessa di Israele, in quanto progetto coloniale, suprematista e, dal 2018, anche stato etnico-religioso (“ebraico“) per legge.

Nel rapporto sono ricordati anche molti altri elementi tragici del genocidio condotto da Israele. Per citarne uno, il Comitato per la protezione dei giornalisti ha denunciato “un apparente schema di attacchi ai giornalisti e alle loro famiglie da parte delle forze armate israeliane”.

Tutte queste informazioni non sono elucubrazioni di un qualche “comunista rancoroso” o di qualche “integralista islamico”, ma una rassegna di notizie e rapporti raccolti dal Dipartimento di Stato statunitense.

Come possano andare d’accordo con la retorica per cui la guerra che la filiera euroatlantica sta alimentando in Ucraina e Medio Oriente sia “a difesa della democrazia” è un mistero che ha senso solo nelle sale di Bruxelles e Washington.

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25/04/2024

Nikita (1990) di Luc Besson - Minirece

25 aprile/2. Fu guerra civile, non solo di Liberazione: e lo rivendicate pure, fascisti?

di Massimo Zucchetti

Seconda metà di Aprile 1945, 79 anni fa. L’insurrezione scoppia in Italia dopo venti mesi di occupazione nazista e cinque anni di guerra: da allora, l’Italia antifascista festeggia con il 25 aprile la liberazione dal nazifascismo e la fine della guerra.

Una guerra che aveva visto il territorio del nostro Paese essere campo di battaglia per lungo periodo lasciando l’Italia quasi completamente distrutta, e causando circa 472.000 morti, fra militari (319.000) e civili (153.000), cioè circa il 1,07% della popolazione: un italiano su cento, ucciso dalla guerra.

Sono nato all’inizio degli anni ’60, e fin da bambino mi son stati familiari i termini “classici”: partigiani, Resistenza, antifascismo, 25 aprile Festa della Liberazione. Sembravano date certe, definizioni chiare, termini condivisi da tutti. Dagli anni '90, abbiamo assistito invece a vari tentativi di cambio di nomenclatura.

Ha iniziato il governo Berlusconi, a ventilare un cambio di nome del 25 aprile in “Festa della Libertà”: un tentativo talmente scoperto nelle intenzioni e goffo nelle motivazioni, da essere poi stato sepolto e dimenticato dalla sua stessa pochezza e contingenza.

Attualmente, trovando comunque insopportabile quel “Liberazione” (che sottintende, dal nazifascismo), gli eredi del neofascismo – tra l’altro al governo del paese – si limitano ad affermare che il 25 aprile sarebbe una “Ricorrenza divisiva”.

Ma qui possiamo tranquillamente dare loro ragione una prima volta: il 25 aprile divide chi lo festeggia (e si riconosce nell’antifascismo, uno dei valori fondanti della Repubblica Italiana) da chi non lo festeggia (ed ha una visione qualunquista o immemore della storia politica italiana, non si riconosce nei suoi ideali, oppure ammicca con simpatia a una certa destra antidemocratica. Oppure, direttamente, bazzica il neofascismo).

Personalmente, riteniamo che, se si tratta di dividere chi è antifascista da chi non lo è, ben venga la definizione del 25 aprile come ricorrenza divisiva: riteniamo giusto ed appropriato essere “divisi”, nel senso di distinti e differenti, dagli eredi e continuatori ideologici del fascismo, ora aggiornato in destra nazionalista, populista, razzista e portatrice di pseudo-valori – utilizzando un aggettivo un po’ moderno – tossici.

Un altro sintomo dell’allergia dei revisionisti al termine “Liberazione” ed al concetto che essa sottende, si è manifestato nel cambio di denominazione da “Guerra di Liberazione” a “guerra civile”.

È nato come un’altra goffa e scoperta operazione revisionista: fu guerra civile perché sia da una parte che dall’altra combattevano italiani – realtà incontestabile – “e quindi” vi erano due parti che in qualche modo si equivalevano – forzatura inaccettabile perché antistorica e falsa, sia nel contesto italiano, che nel contesto ideologico dell’intera guerra mondiale, vista come scontro fra democrazia e libertà da un lato, dittatura e razzismo dall’altro.

L’operazione ha visto però prender piede ed essere accettata anche da molti antifascisti. Noi non siamo contrari a questa ridefinizione, che si basa su una realtà di fatto.

L’Italia, in effetti, fu largamente fascista durante il ventennio, e un numero non trascurabile di italiani restarono fascisti anche durante la guerra di liberazione.

Ed è quindi vero: la Resistenza combatté anche contro gli italiani fascisti repubblichini, che in armi affiancarono l’esercito tedesco invasore, con compiti da cane da guardia nella repressione.

Un prezzo altissimo, pagò l’Italia, in quegli anni: se andiamo alla miriade di singoli episodi di crudeltà, vigliaccheria, sopruso, ruberia, assassinio, delinquenza, repressione, tradimento, i repubblichini di Salò furono, nel modo meschino loro tipico, anche peggio dei nazisti occupanti.

Se guerra civile fu, venne resa tale dalla presenza e dalla barbarie delle Brigate Nere, della X MAS, delle varie bande di delinquenti fascisti con l’uniforme della polizia.

Molti vecchi arnesi squadristi volentieri trasmisero ai neofascisti quella certa mentalità da assassini a tradimento che poi ritroveremo nel terrorismo neofascista del dopoguerra.

Senza di loro, senza i repubblichini, sarebbe stata più propriamente una guerra di liberazione: in questo senso non possiamo che essere d’accordo con i revisionisti, sebbene non si riesca a comprendere quale merito possano ascriversi, i fascisti di Salò, nell’aver trasformato di fatto in guerra civile la guerra di Liberazione dell’Italia.

Oltretutto considerando che, dal punto di vista militare, il loro contributo al fronte fu praticamente nullo. O quale sollievo ne possano trarre ora i loro eredi politici. Va riconosciuto però un fatto: la manovra revisionista ha messo in risalto una realtà triste e dura da accettare, ma verissima: l’Italia, nel 1943-1945, era ancora in parte fascista. E tale rimase, in tracce, persino dopo la Liberazione.

A fine guerra, questo tumore non venne completamente estirpato nemmeno con il 25 aprile e neppure con l’epurazione e la Resa dei conti: esso ha avuto modo di sopravvivere e di generare, nel dopoguerra e fino ai giorni nostri, molte e diverse metastasi. Per sopprimere le quali, riflettendoci, non c’è altra scelta – anche oggi come allora – della guerra partigiana.

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Economia di guerra e keynesismo militare in salsa UE

L’ultimo rapporto del Sipri (Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma) ha certificato l’ennesimo aumento delle spese militari a livello mondiale. I 2.440 miliardi raggiunti infrangono ogni record, con gli USA a rappresentare, ovviamente, la fetta più grande di questa somma.

In realtà, il riarmo è una dinamica che procede da anni, anche se in maniera strisciante e meno visibile, ma sicuramente un’accelerazione si è avuta con l’operazione russa in Ucraina, dal 2022. La UE è stata sin da subito in prima fila nello sdoganare l’importanza della transizione a un’economia di guerra.

In uno scenario di maggiore tensione internazionale, in cui Washington non è più in grado di fare il bello e il cattivo tempo, le classi dirigenti europee hanno sentito la necessità di rafforzare le proprie forze armate. Ma non è solo una questione di proiezione di potenza.

Con la crisi dell’unipolarismo euroatlantico e la frammentazione sempre più netta del mercato mondiale, si sono aperte enormi crepe nel modello europeo export-oriented che ha il suo fulcro nella Germania. Dazi, sanzioni, distruzione del North Stream e apparente contrasto tra profitti e strategie politiche ne hanno sottolineato tutte le debolezze.

La classe dirigente europea non ha la flessibilità né la legittimità per poter dire che la compressione del mercato interno a favore delle esportazioni e la competitività ottenuta con la riduzione delle tutele dei lavoratori si rivelano oggi scelte fallimentari. Devono offrire un’altra lettura senza mettersi in discussione.

Dal febbraio 2022 il comparto militare-industriale è stato subito identificato come un’opportunità per rilanciare l’economia UE in crisi. I vertici militari ripresi su varie testate giornalistiche lo hanno cominciato a dire in maniera esplicita, coinvolgendo su questa strada anche la ricerca pubblica e pesando sempre più sulle scelte politiche.

Sul nostro giornale abbiamo già mostrato come la legittimazione delle filiere militari derivi, in primo luogo, da interessi materiali e dalle migliaia di posti di lavoro che, ad ogni modo, una produzione di massa garantisce. Non numeri tali da compensare la desertificazione industriale di paesi come il nostro, ma a qualcosa dovranno pur aggrapparsi.

Del resto, il keynesismo militare, insieme al ruolo del dollaro nel sistema finanziario internazionale, è ciò su cui gli Stati Uniti hanno fondato il loro modello negli ultimi decenni. Per i futuri “Stati Uniti d’Europa” Berlino e Parigi vogliono seguire lo stesso percorso anche sul lato bellico-produttivo.

L’11 aprile Macron ha inaugurato i lavori di una fabbrica di polvere da sparo e munizioni a Bergerac, dentro uno stabilimento di Eurenco, società al 100% di proprietà dello stato francese. L’evento è stato l’occasione per rilanciare le prospettive dell’industria militare francese.

Macron ha dichiarato: “ci siamo avviati verso un cambiamento geopolitico duraturo […] in cui l’industria della difesa svolgerà un ruolo crescente”. A fargli da eco in maniera ancora più esplicita è stata una nota dell’Eliseo, per cui la Francia deve “accelerare il proprio passaggio all’economia di guerra e ritrovare la propria sovranità nei settori strategici”.

Politici e dirigenti di Eurenco hanno sottolineato più volte i posti di lavoro e gli investimenti che il comparto militare garantirà nei prossimi anni. Nel 2023 gli ordini di armamenti francesi sono arrivati a 21 miliardi di euro, con le spese militari in aumento continuo da un quinquennio.

Una “ricchezza” (così riporta Le Monde) che viene evocata in continuazione. La presenza di Macron sembra essere la riproposizione francese della visita che il cancelliere tedesco Scholz fece lo scorso febbraio a un nuovo sito della Rheinmetall, in cui chiese una produzione europea “su larga scala”.

All’inaugurazione ha presenziato anche Mette Frederiksen, anch’essa socialdemocratica e a capo del governo danese. Copenhagen si rifornisce spesso dall’azienda tedesca, ha consegnato tutto il suo parco d’artiglieria all’Ucraina, e la Frederiksen ha anche affermato che “la libertà ha un prezzo”, facendo riferimento alla necessità di tagliare lo stato sociale per finanziare il riarmo.

Tornando alla Germania, la punta di diamante dell’industria tedesca, l’automotive, è in difficoltà di fronte alla competizione cinese. Il viaggio appena concluso da Scholz a Pechino lo ha visto barcamenarsi con logiche del passato in un mondo molto diverso da quello che ha fatto le fortune tedesche negli ultimi decenni.

Rheinmetall prevede che quest’anno le vendite supereranno i 10 miliardi di euro, 3 in più del 2023. Nello stesso anno, l’azienda ha ricevuto 108 mila candidature, e quest’anno sono già circa 40 mila.

Anche il produttore di ingranaggi Renk ha visto aumentare le richieste di lavoro, con profili professionali sempre più alti e formati. Dalle risorse umane dell’impresa fanno sapere che si aspettano domande da molti lavoratori provenienti dagli esuberi del settore automobilistico.

Il riarmo della Germania si presenta sempre più come una strada alternativa per il modello tedesco. Thomas Müller, ex amministratore delegato di Hensoldt, attiva nel mercato dei sensori per le difese aree, ha dichiarato: “approfittiamo dei problemi di altri settori per costruire la nostra forza lavoro”.

Insomma, politici e produttori di armi sono in sintonia più che mai nel far virare definitivamente anche la UE verso un keynesismo militare, che serva a riarmarsi e svolgere un ruolo autonomo nello scenario mondiale. Ma che garantisca anche nuove opportunità di crescita di fronte alla stagnante situazione economia.

Chi ha scelto questa strada in passato si è trovato in un circolo vizioso in cui, per alimentare la propria economia, ha alimentato anche l’impegno bellico su sempre più fronti, in sempre più conflitti. È un piano inclinato su cui l’imperialismo si è avviato, senza conoscere alternative.

Essa può venire solo da un processo di trasformazione sociale, in cui non sia più il profitto e il privato ad avere la proprietà e la gestione dei mezzi di produzione, e a decidere l’indirizzo degli investimenti. Questa transizione è in un certo senso favorita dalla guerra del capitale.

Come è già successo con le tragedie delle guerre mondiali, il passaggio a un’economia di guerra vede crescere un forte impianto di interventi e strutture pubblici di coordinamento. Anche se la UE ha ancora un modello di governance pieno di farraginosità, l’approvazione della prima strategia industriale sulla Difesa e l’impegno sulla Military Mobility sono esempi di importanti passi in questa direzione

Senza una pianificazione pubblica, sarebbe impossibile pensare di saper indirizzare l’intero sforzo sociale verso un obiettivo tanto deprecabile quanto impegnativo e totalizzante come la guerra. E allora la pianificazione, già largamente usata nelle grandi multinazionali, non solo è possibile, ma non si capisce perché dovrebbe essere utilizzata a questo scopo invece che ad altri più pacifici.

Su questo terreno le forze politiche di alternativa possono più facilmente far passare il messaggio di un mondo diverso, e mostrare che vi sono gli strumenti e le risorse per pianificare il cammino dell’intera collettività su questa diversa strada, sulla base degli interessi delle classi subalterne.

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Dilaga la protesta antisionista nelle università Usa

È decisamente questa l’America che ci piace (oltre al cinema, il blues e il jazz).

Sta dilagando in modo prorompente la protesta degli studenti statunitensi contro il genocidio in Palestina ed il criminale sostegno che fornisce l’amministrazione Biden, a Netanyahu e ai suoi suprematisti razzisti (basta ascoltare il discorso di Smotrich e BenGvir, qui in video, per averne una prova clamorosa).

La repressione della polizia, fin qui stolidamente feroce (centinaia di arresti senza che fosse avvenuto neanche il minimo “incidente”), ha avuto – come spesso avviene nella Storia – un effetto decisamente opposto a quello voluto.

Invece di spaventarsi e rinunciare, la folla dei manifestanti e il numero degli atenei interessati cresce di giorno in giorno.

E persino l’agenzia di stampa italiana Agi – di proprietà dell’Eni, ossia pubblica, quella che l’imprenditore fascista nonché senatore Angelucci vorrebbe comprare per consolidare il proprio mini-impero mediatico – è obbligata a denti stretti a registrare l’esplosione.

Nota a margine. Quando qualcuno dell’amministrazione Usa arriva ad ipotizzare l’intervento della Guardia Nazionale (truppe militari, non normale polizia, già criminale di suo), significa che il livello del panico nella “classe politica” è ormai oltre il livello di guardia.

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Il leader della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, il repubblicano Mike Johnson, è stato criticato durante una tesa visita alla Columbia University, mentre nei campus statunitensi dilagano le proteste contro la guerra a Gaza.

Ieri, la polizia ha fatto irruzione tra gli studenti che manifestavano in un’università del Texas, arrestando 34 persone, tra cui un fotografo di una testata locale, sullo sfondo dell’aumento di sit-in e accampamenti studenteschi nei college come parte di una crescente ondata di manifestazioni pro-Palestina.

Johnson ha denunciato che i funzionari della Columbia hanno perso il controllo della situazione e ha invitato la rettrice dell’università, Nemat Shafik, a dimettersi.

Mentre i responsabili degli atenei sono impegnati a disinnescare i disordini nei campus da una costa all’altra del Paese, alcuni si sono rapidamente rivolti alle forze dell’ordine, come l’Università del Texas ad Austin.

Qui, centinaia di poliziotti, tra cui alcuni a cavallo e con manganelli, si sono scagliati ieri contro i manifestanti per allontanarli dal prato principale del campus, facendoli a un certo punto cadere a terra.

Gli agenti si sono fatti strada tra la folla per effettuare gli arresti: 34 in totale, secondo i dati del dipartimento di Pubblica Sicurezza dello stato americano.

La polizia se n’è andata dopo ore di sforzi per riportare sotto controllo la folla; circa 300 manifestanti sono poi tornati a sedersi sull’erba e a cantare sotto l’iconica torre dell’orologio dell’ateneo.

Gli studenti che protestano contro la guerra a Gaza chiedono alle università di tagliare i legami finanziari con Israele e di disinvestire dalle aziende che sostengono il conflitto in corso da oltre sei mesi. Alcuni studenti ebrei affermano che le manifestazioni si sono trasformate in un’ondata di antisemitismo.

Anche alla Columbia, ieri, sono intervenute le forze dell’ordine, in un’iniziativa che ha portato i manifestanti a chiedere le dimissioni della rettrice Shafik, la quale ieri ha incontrato il presidente della Camera.

Johnson ha poi tenuto una conferenza stampa nel campus, insieme ad altri deputati repubblicani: ha respinto la versione per cui le proteste rientrano nella libertà di parola e quindi vadano tutelate e ha denunciato che i responsabili della Columbia non sono riusciti a proteggere gli studenti ebrei tra le preoccupazioni sull’antisemitismo all’interno e nei dintorni del campus.

“Questo è pericoloso”, ha detto Johnson. “Rispettiamo la libertà di parola, rispettiamo la diversità di idee, ma c’è un modo per farlo in modo legale e non è quello che è”.

“Il mio messaggio agli studenti all’interno dell’accampamento è di tornare in classe e porre fine a queste sciocchezze”, ha aggiunto. “Non possiamo starti a sentire”, hanno urlato i ragazzi contestando lo speaker della Camera.

Johnson ha anche ipotizzato la possibilità di chiamare le truppe della Guardia Nazionale, cosa che la governatrice democratica di New York Kathy Hochul, ha detto di non avere intenzione di fare. (Agenzia Agi)

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Nazisti ucraini e “brigata ebraica”, un miracolo targato Israele

Israele pone la legittimità della creazione del proprio Stato nel solco dello scontro della Seconda Guerra Mondiale, pertanto non si può formalmente posizionare al di fuori dal sistema di valori che ne scaturì.

Tuttavia le cronache mediorientali portano inequivocabilmente in quella direzione. Se però Israele andasse ostentatamente fuori da quel solco, potrebbe veder messa in discussione la legittimità della propria esistenza.

Nel tentativo di far sembrare d’essere rimasta in quel solco, Israele ha avviato una campagna revisionista sulla Seconda Guerra Mondiale con cui si vuole mostrare come fedele a un sistema di valori che ha completamente tradito.

Uno degli strumenti di questa campagna è la Brigata ebraica (sulla cui storia piena di ombre, che si pone in antitesi con l’esperienza della Resistenza, si può trovare un approfondimento su Contropiano), sotto le cui insegne molti sionisti si presentano negli eventi antifascisti.

Ovviamente ciò è puramente strumentale, a favore di Israele, e fa danno tanto alla causa palestinese quanto alla memoria storica italiana.

A Roma la Brigata ebraica – o meglio quelli che la ricordano – da alcuni anni non partecipa alle celebrazioni ufficiali del 25 aprile a Porta San Paolo. Ora si limita a presentarsi sulla stessa piazza la mattina presto, prima che inizi la manifestazione. Lì svolge una rapida commemorazione alla lapide delle truppe Alleate, per poi andarsene prima che arrivino i manifestanti.

Questa iniziativa potrebbe pure essere legittima, ma nel caso in cui non si intorpidisca la narrazione con ricostruzioni revisioniste. Quella lapide celebra si o schieramento in cui militò la Brigata ebraica, ma fa riferimento ad uno specifico evento, la liberazione di Roma.

In più, sulla lapide sono elencate le battaglie che si sono combattute per arrivare nella capitale il 4 giugno del 1944. All’epoca, la Brigata ebraica ancora non era stata fondata, quindi non ha partecipato a nessuna delle battaglie lì citate.

Ogni tentativo d’intestarsi quelle vittorie, va fermamente respinto, in nome dell’antifascismo, della giustizia e della verità storica. Questo è quello che si farà il 25 aprile a Porta San Paolo alle ore 8 di mattina.

La speranza è che la “Brigata ebraica” a Porta San Paolo abbia il buon gusto di presentarsi senza i banderisti ucraini, i seguaci dei fantocci di Hitler responsabili dell’Olocausto degli ebrei, che già si sono visti in piazza al fianco della comunità ebraica.

Un folle e raccapricciante cortocircuito logico.

Il 25 aprile a Roma ci sarà comunque una presenza ucraina a fianco dei sionisti e sarà alle ore 10 a via Tasso, all’interno di una iniziativa promossa dai Radicali.

La presenza dei nazisti ucraini nelle celebrazioni del 25 aprile non è qualcosa d’inedito, si era vista già in diverse città, tra cui Milano. Lì nella manifestazione che celebra la Resistenza, due anni fa gli ucraini si erano presentati con il simbolo del Battaglione Azov, che richiama quello della Divisione SS “Das Reich”.

Si tratta della Divisione che invase l’Ucraina (cioè l’Unione Sovietica) durante la Seconda Guerra Mondiale, evento che nella perversa prospettiva dei banderisti, fu la loro “liberazione”.

Nel corteo del 25 aprile di Milano la Brigata ebraica negli anni passati aveva un posto d’onore riservatogli da Cenati, l’ex presidente ANPI (recentemente dimessosi in polemica sulla gestione della crisi mediorientale), oggi le cose potrebbero andare diversamente.

Sia i sionisti che gli ucraini hanno dichiarato di non riconoscersi nello striscione di testa che recita “Cessate il fuoco ovunque”. Tuttavia, parteciperanno al corteo e lo faranno in uno spezzone congiunto che sarà aperto da uno striscione che storpia il pensiero di Calamandrei e offende la memoria di tutti i partigiani attraverso lo slogan “Ora e sempre la democrazia si difende”. Infatti, l’Ucraina è tutto fuorché una democrazia.

Alla luce di quanto succede in Palestina, le forze sioniste si pongono in antitesi a quelli che sono i valori della Resistenza, cercano però di rimanervi formalmente ancorati attraverso un uso strumentale e revisionista della Brigata ebraica.

Se si trascurano i valori e si punta tutto sulla tattica, si degenera facilmente. Agli ebrei che saranno al fianco dei banderisti, va ricordato che proprio gli uomini di Bandera sterminavano gli ebrei.

A tutti gli antifascisti va ricordato che gli ucraini seguaci di Bandera combatterono in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale e lo fecero naturalmente nelle fila delle SS; hanno persino un loro monumento, nel cimitero germanico della Futa (va ovviamente ricordato che non si tratta di una questione etnica, in quanto ci furono anche ucraini che, scappati dai campi di prigionia, si unirono alla Resistenza italiana, eroi a cui va tutta la nostra riconoscenza).

Inoltre, le SS spesso affidavano proprio ai banderisti la gestione dei lager, in quanto per ferocia non avevano eguali.

Assistiamo oggi ad una convergenza perversa tra sionisti e banderisti, qualcosa che lascia davvero disgustati e perplessi, ma che non va liquidato come semplice revisionismo fine a se stesso. Il fronte atlantista e sionista è in grande difficoltà, è tramortito da i colpi che gli sta assestando la Storia. Questa è solo la reazione scomposta di una bestia ferita.

Soprattutto nel 25 aprile in Italia c’è un ricompattamento delle istanze antifasciste, antisioniste e in generale progressiste. Un momento di grande visibilità in cui va in crisi il già traballante sistema di gestione del consenso da parte del Potere.

Capendo di non poter fronteggiare questa crisi – in quanto le contraddizioni sono tante e tali da renderlo quasi impossibile – il modo più agevole per tentare di reggere l’urto degli eventi è di far “saltare il tavolo” rompendo gli schemi: così si arriva alla convergenza tra sionisti e banderisti.

Tuttavia quegli schemi non sono una convenzione astratta, ma la rappresentazione della nostra storia, della nostra memoria, della nostra società. Chi forza quegli schemi, si mette contro tutto ciò, e va trattato di conseguenza.

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La mossa di Israele: guerra in Medio Oriente o carta bianca a Rafah

L’attacco chirurgico contro le strutture militari iraniane riduce il rischio di guerra con Teheran, ma dà a Israele il via libera per radere al suolo Rafah, l’ultima città rimasta a Gaza.

Il governo di Benjamin Netanyahu ha ceduto alle pressioni degli alleati americani e ha limitato le previste rappresaglie contro l’Iran dopo l’ondata di droni e missili lanciata domenica scorsa. Ora, il prezzo della risposta moderata israeliana, con il bombardamento delle istallazioni militari a Isfahan, sarà pagato dai palestinesi nel sud di Gaza.

Rafah, l’unica città palestinese di Gaza che non è stata distrutta da Israele nella sua crociata contro le milizie di Hamas, attende l’assalto delle forze israeliane schierate nella zona e che hanno già una data per l’attacco, concordata con gli Stati Uniti, in cambio di non scatenare una guerra con Teheran.

Mentre il mondo intero guarda verso l’Iran, Israele gioca le sue carte a Rafah per terminare li la carneficina iniziata con la guerra di Gaza.

Mentre il mondo intero guarda all’Iran, Israele gioca le sue carte a Rafah

Netanyahu e il suo gabinetto di estremisti finiranno il lavoro sporco a Gaza senza gli sguardi indesiderati di un Occidente spaventato dalla possibilità di una guerra totale in Medio Oriente. Ancora una volta, il conflitto israelo-palestinese appare come la causa ultima di una crisi generale nella regione.

Un avvertimento al programma nucleare iraniano, ma dopo Gaza

La scelta della base iraniana attaccata non è stata banale, dal momento che lì si trovano alcune delle infrastrutture più importanti del programma nucleare iraniano, nel mirino degli Stati Uniti e dello stesso Israele per il sospetto che possano avere un uso militare da parte dell’Iran, che lo starebbe nascondendo alle ispezioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA).

Secondo il canale televisivo americano ABC, che cita fonti della Casa Bianca, durante l’attacco di venerdì Israele ha colpito anche il sistema di difesa del sito nucleare di Natanz in Iran. Nello specifico, l’obiettivo potrebbe essere un radar antiaereo integrato nella protezione delle strutture di Natanz.

Il messaggio israeliano è molto chiaro: la prossima volta verrà distrutto il complesso nucleare iraniano

Il fatto che Israele possa facilmente colpire le vicinanze di Natanz e del suo impianto di arricchimento dell’uranio rappresenta una minaccia reale per l’Iran e per i suoi progressi nell’uso dell’energia nucleare con fini militari.

Solo a Isfahan, l’AIEA monitora sette impianti nucleari iraniani. Il messaggio israeliano è molto chiaro: la prossima volta verrà distrutto il complesso nucleare iraniano. Cioè, non è una minaccia a breve termine, ma per il futuro. L’attuale nemico per Israele non è l’Iran ma Gaza.

L’Iran ha minimizzato l’attacco, per evitare di perdere la faccia e di essere costretto a sferrare l’ennesima ritorsione. Il governo degli ayatollah si è limitato a far sapere che l’esercito iraniano ha abbattuto una serie di droni a Isfahan, ma non ha voluto confermare alcun attacco missilistico.

Israele, nel frattempo, non conferma né smentisce ufficialmente i risultati dei bombardamenti, siano essi con droni, missili, o ibridi.

Un’altra messa in scena per spaventare con una guerra regionale

Nessuno di coloro che sono coinvolti in questa crisi, che ha messo il Medio Oriente sull’orlo di un’esplosione regionale, vuole aggiungere altra benzina sul fuoco in questo momento. Questo attacco risponde più a una messa in scena che a un’operazione militare riuscita, come è avvenuto con la pioggia di 300 missili e droni lanciati dall’Iran contro Israele domenica scorsa.

Lo scorso 1° aprile Israele ha bombardato il consolato iraniano a Damasco e ucciso 13 persone, tra cui sette alti ufficiali militari iraniani. A questa azione Teheran ha risposto, nella notte tra il 13 e il 14 aprile, con il lancio di 300 droni e missili contro Israele. La stragrande maggioranza è stata intercettata prima di toccare il suolo israeliano dall’azione congiunta dei sistemi difensivi e degli aerei di Israele, Stati Uniti e Regno Unito.

Questo massiccio attacco iraniano è stato annunciato in anticipo alla Giordania e all’Iraq, che a loro volta lo hanno comunicato agli Stati Uniti. È stata una dimostrazione di forza senza la capacità di arrecare un danno reale, ma Tel Aviv l’ha presa molto male. Era la prima volta che l’Iran, il suo acerrimo nemico in Medio Oriente, attaccava il suolo israeliano.

Era solo questione di tempo prima che Israele rispondesse. La pressione degli USA, che aveva avvisato Israele che questa volta non lo avrebbero sostenuto in una risposta armata contro l’Iran, hanno fermato l’intenzione del Gabinetto di Netanyahu di lanciare una ritorsione su larga scala. Il prezzo per riuscire a calmare il desiderio di vendetta israeliano contro l’Iran è stato quello di deviare questa aggressività e accettare l’inevitabile presa di Rafah, mettendola a ferro e fuoco, dove quasi 1,5 milioni di palestinesi attendono un epilogo poco promettente.

Il vero obiettivo è Rafah, non Teheran

L’amministrazione del presidente Joe Biden chiede da settimane a Israele di contenersi a Gaza, invasa dall’esercito ebraico dopo l’incursione mortale dei miliziani dell’organizzazione islamista palestinese Hamas del 7 ottobre, che ha provocato 1.200 morti in territorio israeliano.

Dopo aver bombardato tutte le città di Gaza e aver invaso la Striscia, provocando la morte di oltre 34.000 palestinesi, di cui 14.500 bambini, quasi 77.000 feriti e più di 8.000 dispersi, la città di Rafah è l’attuale obiettivo dell’esercito israeliano. Il governo Netanyahu sostiene che Rafah è diventata l’ultimo bastione della resistenza di Hamas, un’organizzazione che ha giurato di cancellare dalla faccia della terra.

Ma Rafah è anche il luogo dove convergono la maggior parte delle centinaia di migliaia di palestinesi fuggiti dall’avanzata israeliana e dalla distruzione nel resto di Gaza. Situata al confine con l’Egitto, Rafah è diventata un vicolo cieco.

Le Nazioni Unite hanno avvertito che un attacco di terra a Rafah potrebbe trasformarsi in un massacro ancora più grande di quelli commessi dall’esercito israeliano a Gaza City, nel nord della Striscia, o a Khan Yunis, al centro, le più grandi città di Gaza oggi ridotte in macerie e rovine piene di cadaveri ancora non recuperati.

Il riconoscimento della Palestina nel contesto della crisi con l’Iran

Dopo la notizia dell’attacco israeliano a Isfahan, la diplomazia internazionale si è attivata per fermare l’escalation della tensione con l’Iran, con insistenti appelli alla moderazione espressi dalle Nazioni Unite, dal G7 riunito in questi giorni a Capri per analizzare le crisi ucraina e palestinese, dalla Russia, dalla Cina, da un gran numero di paesi dell’Unione Europea, dell’America Latina, del mondo arabo e persino della NATO.

La rappresaglia israeliana è avvenuta solo poche ore dopo che Washington ha dato a Tel Aviv un altro esempio della sua incondizionata serrata di ranghi. Questo giovedì il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato una risoluzione presentata dall’Algeria per accettare la Palestina come Stato a pieno titolo dell’ONU e non come semplice osservatore.

C’è stato il veto, gli Stati Uniti hanno impedito quel riconoscimento e hanno fatto un passo inconciliabile con la difesa del diritto internazionale di cui Washington vuole sventolare la bandiera come modello di democrazia occidentale.

L’Amministrazione Biden si è pienamente allineata con un Governo, quello israeliano, che ha convertito il diritto alla difesa di uno Stato, dopo l’attacco terroristico di Hamas di ottobre, nel genocidio di un intero popolo, quello palestinese.

Israele ora aggiunge la coercizione: o scatena una guerra in Medio Oriente o ha carta bianca a Rafah

Alla commissione di numerosi crimini di guerra, con l’attacco a colonne di rifugiati, ospedali, popolazioni civili, l’assassinio di giornalisti e operatori umanitari, o l’uso della fame come arma di guerra, Israele ora aggiunge la coercizione, anche nei confronti del suo migliore alleato gli Stati Uniti: o scatenano una guerra in Medio Oriente o hanno carta bianca a Rafah.

Israele esce più forte da questa crisi

Per ora, è Israele ad uscire più forte da questa crisi con l’Iran, poiché è riuscito ad allineare ancora più fortemente gli Stati Uniti dalla sua parte, come dimostrato dal veto sulla proposta di risoluzione sul riconoscimento dello Stato palestinese.

È evidente che Israele non permetterà mai l’esistenza di uno stato palestinese vicino e lo impedirà con l’aiuto dei suoi amici all’ONU o direttamente con la forza, come sta accadendo ora, sia a Gaza, con la sua distruzione diretta, sia in Cisgiordania con il furto di terra palestinese da parte di coloni ebrei illegali appoggiati dai fucili dell’esercito israeliano.

L’aggressione iraniana (o meglio, la non aggressione, perché a differenza delle azioni israeliane, questa ondata di droni e missili non ha causato morti in Israele) ha permesso a Israele un bagno di folla e di sostegno internazionale, puntando tutte le dita contro il barbaro regime di Teheran e dimenticando le stragi che si stanno commettendo a Gaza e quelle che potrebbero ancora essere commesse a Rafah.

Senza andare oltre, lunedì prossimo i membri dell’Unione Europea sperano di raggiungere un accordo per sanzionare l’Iran e la sua produzione missilistica, nonché il trasferimento di droni che Teheran potrebbe effettuare verso altri paesi.

L’apparente clemenza di Israele con il suo attacco chirurgico all’Iran dà ossigeno a Netanyahu

Ora, l’apparente clemenza di Israele con il suo attacco chirurgico all’Iran dà ossigeno a Netanyahu e alla sua politica di delinquenza in Medio Oriente, mentre manipola l’Occidente.

In un’intervista con il sito di analisi internazionale Politico, Fadi Quran, membro della rete di studi palestinesi Al-Shabaka, ha indicato che Netanyahu potrebbe aver puntato su una guerra regionale (con l’Iran) semplicemente in modo che “i leader occidentali fossero messi alle strette e lascino che Israele continui ad usare la fame come tattica a Gaza, per poi attaccare Rafah e portare la regione sull’orlo del baratro.”

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Il ruolo di droni, della cyberwarfare (e delle altre tecnologie emergenti) nei conflitti contemporanei

Negli scorsi giorni un gruppo di hacktivisti ucraini chiamato Cyber Resistance ha affermato su Telegram di aver violato i sistemi informatici di un produttore russo di droni, Albatross, sottraendo 100 gigabyte di dati, e di stare coordinando una serie di pubblicazioni dettagliate col sito InformNapalm.

Che in un articolo del 15 aprile sostiene di poter confermare come l’azienda di droni agricoli Albatross sarebbe coinvolta nello sviluppo dei droni “suicidi” Shahed, progettati dall’Iran, e impiegati dalla Russia contro l’Ucraina.

A febbraio un misterioso gruppo di hacker chiamati Prana Network aveva diffuso un leak su un’azienda militare iraniana, facendo circolare presunti documenti riservati (non confermati) secondo i quali, dall’inizio della guerra in Ucraina, la Russia avrebbe acquistato almeno 6.000 droni Shahed 136.

E avrebbe ricevuto un ampio aiuto per la creazione di linee di produzione locali per i droni, pagando questi accordi in parte in lingotti d’oro (secondo i documenti, i russi avrebbero pagato quasi 200mila dollari a drone e il prezzo includerebbe il supporto per mettere in piedi una produzione autonoma, per poi far scendere il costo unitario a 48mila).

“Ora la Russia sta cercando di acquistare e produrre migliaia di droni più avanzati”, scrive Hareetz, che ha esaminato i documenti e li considera autentici.

Indiscrezioni sugli sforzi della Russia di dare vita a linee di produzione proprie di questi droni erano già emerse mesi fa, quando il Financial Times scriveva che “Albatross ha costruito la sua nuova fabbrica all’interno della zona economica speciale di Alabuga, in Tatarstan – un sito che gli Stati Uniti hanno dichiarato essere il centro dello sforzo sostenuto da Teheran per sviluppare la capacità della Russia di produrre droni”. E a dicembre gli Usa l’avevano sanzionata proprio per questo, inserendola nella propria Entity List.

Ora veniamo a inizio aprile, quando questa zona è stata colpita da forze ucraine. I media russi hanno riferito che due droni avrebbero “colpito il complesso di dormitori della zona economica speciale russa di Alabuga, situata a più di 1.200 km dalla città nord-orientale ucraina di Kharkiv, vicino al confine con la Russia”, scrive Reuters, confermando a sua volta le immagini a disposizione.

“L’esperto militare ucraino Oleh Zhdanov – riferisce al riguardo Radio Free Europe (media finanziato dal Congresso Usa e dichiarato “organizzazione non desiderata” dalla Russia) – ha affermato che l’Ucraina stava probabilmente prendendo di mira un nuovo impianto di produzione di droni presso il sito di Alabuga, prevedendo che tali attacchi in profondità all’interno della Russia potrebbero diventare più comuni, date le capacità dei droni ora prodotti da Kiev”.

Se ora torniamo all’inizio di questa storia, il già citato sito InformNapalm scrive che “il 2 aprile 2024, le Forze di Difesa dell’Ucraina hanno colpito con droni kamikaze il territorio della cosiddetta zona economica speciale Alabuga“.

L’obiettivo dell’attacco – prosegue l’articolo – era la fabbrica di Yelabuz, dove sono assemblati gli “Shahed 136” iraniani, sotto il marchio russo “Geran-2”, utilizzati per attaccare l’Ucraina.

Fermiamoci qua. Tutta questa recente vicenda mostra il modo in cui si intrecciano nella guerra in Ucraina diverse dimensioni: la guerra cinetica tradizionale, il massiccio e diversificato uso di droni da entrambe le parti, la riconversione militare di industrie e tecnologie, gli attacchi informatici, i leak e la propaganda.

Un intreccio in cui ogni elemento tecnologico non è mai risolutivo di per sé, ma può dare dei vantaggi tattici o temporali, se calato nelle giuste circostanze. Occorre dunque ridimensionare l’hype nato qualche anno fa da alcune narrazioni attorno alla guerra ibrida (che a sua volta ha sopravvalutato la dimensione della guerra (dis)informativa), e a farlo è anche un report recente del Geneva Centre for Security Policy, che analizza proprio il ruolo delle tecnologie emergenti nel conflitto ucraino.

“Le innovazioni tecnologiche, unite alla mancanza di conflitti interstatali su larga scala, all’aumento della competizione globale attraverso altri mezzi e all’attenzione globale per l’antiterrorismo e la controinsurrezione, hanno portato a una grande attenzione per le forme di guerra “ibride”. Queste analisi rispecchiano un mondo che si aspettava che la guerra nel XXI secolo diventasse piccola, periferica e ibrida, oltre che remota, precisa, efficiente e meno letale”.

Tutto ciò ha portato a predizioni sbagliate, scrivono gli autori. Nella realtà non solo gli elementi tradizionali della guerra (munizioni, artiglieria, logistica, personale) restano centrali, ma ogni elemento tecnologico si lega al resto in contesti specifici e se diventa un vantaggio competitivo ciò avviene in virtù di come si inserisce nel resto. È la gestione di questa complessità a fare la differenza.

Sicuramente “la guerra in Ucraina dimostra che i droni – con vari livelli di sofisticazione, autonomia e tipi di funzioni – sono diventati un elemento essenziale della guerra moderna”, scandisce il report.

E l’Ucraina ha potuto trarre vantaggio dall’impiego di droni soprattutto all’inizio, mentre più recentemente anche la Russia ha iniziato a farne ampio uso.

“Le prime fasi della guerra sono state caratterizzate dalla mancanza di un uso diffuso degli UAV (Unmanned Aerial Vehicle, velivoli senza pilota, ndr) da parte russa. Alcuni esperti sostengono infatti che il mancato utilizzo dei droni da parte della Russia per l’intelligence, la sorveglianza e la ricognizione abbia contribuito ai primi insuccessi dell’invasione, in particolare per la scarsa consapevolezza situazionale derivante dall’assenza di droni”.

Inoltre, i droni sono serviti agli ucraini come efficace strumento di propaganda: i video dei successi degli attacchi alle truppe e ai carri armati russi sono circolati sui social media e hanno galvanizzato il supporto.

Oggi, scrive il report, si stima che la ricognizione con i droni fornisca alle forze ucraine l’86% di tutti gli obiettivi identificati.

Ma la lezione più interessante che arriva dai droni riguarda come il Paese li ha acquisiti e sviluppati. L’Ucraina è stata in grado di sfruttare con successo l’ecosistema globale delle “big tech”, il suo settore tecnologico commerciale civile, le start-up nazionali, le ONG e persino i singoli civili per la sua “guerra dei droni“, riducendo il ciclo tra prototipazione, sperimentazione, test, produzione e messa in campo.

“Mentre prima della guerra solo sette aziende producevano droni in Ucraina, ora ce ne sono fino a 200”.

I droni ci portano subito a un altro elemento tecnologico di questa guerra, l’uso di sistemi di intelligenza artificiale. Un settore dove è più difficile valutare utilizzi reali e risultati, e dove l’ombra dell’hype e della propaganda (anche dei fornitori di questi sistemi) si allunga con più decisione, a mio avviso.

Ma, scrive il report, le notizie provenienti sia dalla Russia che dall’Ucraina sembrano indicare che ci stiamo avvicinando a sistemi d’arma quasi autonomi, o sempre più autonomi.

In ogni caso l’Ucraina ha compreso la necessità di attingere ai dati, inclusi quelli raccolti dal vasto numero di dispositivi che catturano immagini, audio e video della guerra, o quelli che arrivano da informazioni open source.

In questa logica (ma di nuovo anche in quella della guerra informativa) le autorità ucraine hanno aperto canali Telegram o app dove i cittadini possono inviare video e foto delle truppe e dei materiali russi.

Secondo un articolo di questi ultimi giorni dell’Economist, aziende ucraine come Molfar offrono sistemi di IA per identificare target da colpire. O sono usati nel controspionaggio per individuare possibili tracce di spie e traditori. Inutile dire che alcuni degli esempi riportati sono piuttosto inquietanti.

Infine, c’è il fronte cyberwarfare. Anche in questo caso la guerra in Ucraina – come ho scritto più volte nella newsletter di Guerre di Rete – ha ridimensionato le aspettative rispetto alle potenzialità cyber. E le ragioni sono molteplici.

Il report le ripercorre, sottolineando anche il ruolo del settore privato nella difesa informatica di Kiev, da Microsoft a Starlink. “Le autorità ucraine sono state in grado di fare affidamento su una ricca rete di attori governativi e del settore privato, sia stranieri che nazionali, per identificare e rispondere rapidamente alle minacce informatiche”.

Ma l’Ucraina è stata anche protagonista dell’offensiva cyber, attraverso la costituzione dell’IT Army, una sorta di armata di volontari reclutati online per partecipare agli attacchi informatici contro la Russia (che avevo raccontato fin dagli esordi).

“Secondo una ricerca del Center for security studies dell’ETH Zurich, l’IT Army ha una struttura e attività altamente coordinate, con un “core team” ospitato dalle autorità ucraine. Sebbene esista un organo centrale di coordinamento, l’IT Army mantiene però una struttura organizzativa decentrata e diffusa”, scrive il report, aggiungendo che l’uso dell’IT Army e di hacker extraterritoriali ha anche contribuito a confondere i confini legali e normativi.

“Ad esempio, se un cittadino ucraino (o un altro cittadino) conduce un cyberattacco che interrompe le comunicazioni o le infrastrutture delle truppe russe, o in qualche modo influisce o riduce – anche solo marginalmente – le capacità di combattimento della Russia, dovrebbe essere considerato un bersaglio legittimo, anche in un Paese straniero?”

Per altro, la citata ricerca ETH (del 2022) diceva anche altre cose interessanti, indicando una zona grigia e di ambiguità consistente nella collaborazione (o nel chiudere gli occhi) di alcune aziende tech occidentali di fronte alla palese violazione dei loro termini di servizio da parte dell’IT Army (ad esempio, usare servizi anti-DDoS per ospitare strumenti di attacchi DDoS e via dicendo).

In conclusione, e tornando al report iniziale e recente del Geneva Centre for Security Policy, gli autori sottolineano che per quanto riguarda le operazioni informatiche offensive, poiché tra l’altro richiedono tempi lunghi di preparazione, queste possono avere più efficacia nelle “fasi prebelliche”, per raccogliere informazioni e analizzare i sistemi del nemico al fine di identificare le vulnerabilità e sfruttarle successivamente.

Mentre nel corso di un conflitto sono soprattutto strumenti di disturbo a bassa intensità e di sovversione.

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Cile - La resistenza non si ferma con le sentenze

Nessuno che conosca un po’ il Cile attuale e abbia seguito in qualche modo la storia della resistenza del popolo-nazione Mapuche poteva nutrire dubbi sul fatto che Hector Llaitùl, uno dei più noti portavoce della Coordinadora Arauco Malleco sarebbe stato condannato nel giudizio che lo vede accusato, pur senza prove, di “usurpazione violenta, furto di legname e attentato contro l’autorità”.

La condanna avviene in base a quanto previsto dalla legge sulla Sicurezza dello Stato, in regime di militarizzazione del territorio del Wallmapu e di eccezione costituzionale fortemente voluta dal presente governo che sfacciatamente si proclama “transculturale”.

La CAM è la più antica, consistente e radicata delle organizzazioni di resistenza del popolo Mapuche. Ritiene la liberazione del popolo nazione Mapuche possibile solo a seguito del recupero delle terre usurpate dallo Stato cileno e l’espulsione delle imprese forestali che materialmente le occupano.

Non meraviglia che questo Governo cileno, fedele al dettato neoliberista, non intenda tradire le aspettative e i privilegi concessi, anche dai precedenti Governi, alle imprese forestali nazionali e multinazionali e quindi creda di poter risolvere la questione con la repressione fisica e giudiziaria, collettiva e individuale, della popolazione mapuche.

La lotta di liberazione nazionale Mapuche però non si fermerà per una sentenza di tribunale. Non si è fermata per secoli, malgrado le stragi, spoliazioni e feroce repressione cui quel popolo è stato sottoposto.

Inoltre, è assolutamente evidente la similitudine tra la Resistenza nel Wallmapu del popolo Mapuche contro il colonialismo dello Stato cileno e la Resistenza del Popolo Palestinese che continua imperterrita e non si ferma, malgrado il genocidio in corso, contro il colonialismo israeliano d’insediamento che dal 1948 (e anche prima in verità, ma questa è un’altra storia…) opprime, reprime e massacra gli abitanti della Palestina.

Le Resistenze non si processano e non si fermano con le sentenze.

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Popolo Mapuche. Nome di battaglia: Héctor Llaitul

«Questo luogo era la zona più ricca di biodiversità al mondo. Oggi è la seconda regione più desertica del Cile. Il modello di monocoltura forestale difeso da questo Governo ha lasciato solo terreni acidi e inutili. Ma il popolo nazione Mapuche ha un rapporto equilibrato con la terra e non si fermerà», ha affermato Héctor Llaitul, prigioniero politico e portavoce della Coordinadora Arauco Malleco, prima di ricevere il verdetto di condanna del Tribunale Penale Orale di Temuco, regione dell’Araucanía, questo 22 aprile 2024.

E la sua parola, attraverso la quale transitano le antiche generazioni del suo popolo mille volte punito e risorto, ha anche chiarito che «ci dicono sempre che dobbiamo partecipare mediante una ‘via politica’, ai meccanismi offerti dalle istituzioni. Ma per noi la realtà è la stessa: comunità prive di vita, impoverite, che reclamano per riprendersi il proprio territorio. Ci costringono a esistere in antagonismo: la terra per i potenti o la terra per i Mapuche.

Parlate pure delle prove di questo processo, ma non venite a dirci che lo Stato cileno ha risolto i nostri diritti fondamentali (…) visto che nella sua natura più profonda è uno Stato colonialista, razzista, discriminatorio. E non venite nemmeno a dirci che l’industria forestale che ci lascia senza fonti d’acqua è un’alternativa di sviluppo per il popolo nazione Mapuche».

Héctor Llaitul, prima di essere un combattente di spicco per il suo popolo, è stato anche un combattente contro la dittatura civile e militare di Pinochet. Ecco perché nella sua vita si incontrano molte battaglie, piazze e tempo.

«La storia del popolo Mapuche è una storia di resistenza fin dall’arrivo degli spagnoli», ha ricordato Llaitul, e il suo volto si staglia nella geometria di una carcerazione anticipata che hanno i tribunali quando fanno piombare le loro leggi sopra gli oppressi.

«Oggi c’è resistenza perché è su di noi la cultura della morte, della militarizzazione, dell’ingiustizia ripetuta. Il fatto che io sia condannato non metterà fine al diritto profondo delle rivendicazioni dei Mapuche. Questa è una verità che duole al sistema coloniale, al mondo imprenditoriale, ma, al contrario, non duole al cileno cosciente, perché la nostra lotta va ben oltre: ha a che fare con la resistenza e la sopravvivenza dei territori, con la ricerca di un mondo migliore per tutti, per i mapuche e per i cileni», ha detto Llaitul.

Le accuse rivolte dalla Procura e degli avvocati al portavoce di un popolo che persegue l’autonomia e l’indipendenza, rientrano nella Legge sulla Sicurezza dello Stato in quanto presumono un suo coinvolgimento in appelli pubblici rivolti alle comunità mapuche affinché utilizzino la violenza armata e attacchino le infrastrutture delle imprese forestali .

Da parte loro, gli avvocati difensori di Llaitul, Victoria Bórquez e Josefa Ainardi, hanno sottolineato possibili parzialità nel caso, cosa che, come previsto, è stata negata sia dal procuratore Leiva che dai rappresentanti del Ministero degli Interni e dell’impresa Bosques Cautín,.

Llaitul è in detenzione preventiva da due anni. Uno dei suoi difensori ha sottolineato le preoccupazioni espresse dal Consiglio delle Nazioni Unite per l’eccessivo grado di militarizzazione della zona mediante lo stato di eccezione costituzionale, che implica una discriminazione contro il popolo Mapuche.

La Procura, dopo aver ottenuto un verdetto di condanna, ha chiesto una sentenza per 25 anni di reclusione, pena che dovrà ancora essere pronunciata dal tribunale il prossimo 7 maggio, in via virtuale.

Tuttavia, lo Stato capitalista, autoritario, conservatore, razzista ed escludente del Cile, attraverso la sua estensione giudiziaria, uno degli apparati repressivi strategici dell’ordine costituito, ha avviato un processo contro il membro della comunità mapuche Héctor Llaitul senza alcuna prova oltre alle dichiarazioni del portavoce indigeno.

Cioè, ciascuna delle accuse che il Pubblico Ministero ha rivolto a Llaitul è priva di prove decisive. Illegittimità aggravata dal ricorso ai cosiddetti ‘testimoni protetti’, cosa che non consente alcuna difesa. La Procura ne ha chiamati cinque, ma solo due si sono presentati, e uno ha addirittura dichiarato per iscritto, testo letto dallo stesso procuratore. Ciò rende viziato l’intero processo e ingiusta la condanna.

Allo stesso modo, le accuse contro Llaitul sarebbero state compilate da un’unità speciale di polizia, con poteri mai determinati e la cui origine, poteri e costituzione non sono mai stati dettagliati. Lo Stato, infatti, ha utilizzato un software in uso all’intelligence di polizia e politica, chiamato “sistema di avvistamento”, che può essere manipolato georeferenziatamente e il cui scopo specifico è stato quello di perseguitare e impostare prove false contro determinati membri del popolo mapuche.

Per quanto riguarda il ruolo dei media di massa e aziendali, i titoli della stampa del regime dominante (stampa di proprietà delle classi dominanti e, quindi, modellatrice privilegiata del discorso politico pubblico) funzionano come armi atomiche contro la resistenza del popolo-nazione Mapuche e la sua lotta per il recupero dell’autogoverno e del proprio territorio.

Ecco alcuni esempi: “Scoperta connessione mapuche-canadese”, “Potenti gruppi stranieri esercitano influenza sui Mapuche, denuncia l’istituto“, “Identificano un’agitatrice mapuche conosciuta come La Chepa”, “Agricoltori denunciano che il violento leader mapuche ha ricevuto una formazione in Chiapas.”

È così che si riproduce ad alta frequenza la propaganda contro la resistenza mapuche, attraverso le catene del duopolio El Mercurio-La Tercera, tutti i dipartimenti informativi della televisione aperta e igiornali di notizie digitali e multimediali.

Sono questi i mezzi comunicativi e politici utilizzati dalle élite cilene per cercare di imporre i propri interessi di classe nella dimensione della visione del mondo di un’intera società, compresa quella mapuche, e i cui contenuti risuonano inesauribilmente attraverso l’educazione formale, il lavoro e forme predeterminate di vita sociale e utilizzo del tempo libero.

Del resto, il multiforme meccanismo di ampliamento del senso comune dei gruppi sociali privilegiati per diversi secoli ha perforato la resistenza indigena. Quello stesso senso comune il cui obiettivo di fondo è l’espropriazione della terra mapuche e delle sue ricchezze, la subordinazione della popolazione allo sfruttamento produttivo e lo sterminio della dissidenza politica.

Il luogo in cui il capitale coloniale localizza i suoi interessi e le sue enclavi diventano rapidamente riduzioni di comunità preesistenti, prigioni ampliate, caserme per la disciplina sociale, fisica e mentale. Il suprematismo del colonizzatore trasforma l’altro in un oggetto sociale svuotato di sé, dipendente, reso inferiore.

L’occupante cerca la sottomissione totale della società occupata, e nel più breve tempo possibile. Tuttavia, per fare ciò è necessario risparmiare risorse attraverso la sottomissione consenziente e l’interiorizzazione negli oppressi dell’impossibilità di resistere e della legittimità dei fini dello stesso invasore.

In Cile, i mass media sono parte della prolungata guerra antipopolare per la sottomissione dei meticci e degli indigeni.

Ma sebbene il potere mediatico di una minoranza sociale abbia concentrato nella persona di Héctor Llaitul tutti i mali del mondo, quello stesso odio di classe, etnico e colonialista crea il suo rovescio. Moltiplica cioè la solidarietà con la causa mapuche, trasforma in carta le prigioni politiche, sparge le sue ragioni su coloro che erano rimasti indifferenti e nobilita ancora una volta la dignitosa resistenza di un popolo che lotta per ciò che gli spetta: la terra e la libertà.

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24/04/2024

8½ (1963) di F. Fellini - Minirece

La guerra su cui vogliono ingannare il mondo. Trucchi e bugie di Israele

Lo Stato ebraico elogia la massiccia presenza di reporter. Dove e chi decidono loro. Spingendo anche in maniera non sempre elegante a riportare la loro versione dei fatti. Solo la loro è meglio. «Guerra e onestà sono due elementi che non sono mai stati concordanti; quasi sempre il netto contrario», la premessa di Eric Salerno. Anche lui, come noi, sotto shock, a mettere assieme indignazione e ragionamento.

Guerra? Vendetta? Follia?

«Tre dei figli e tre nipoti del leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh sono stati assassinati ieri con un ordigno israeliano mentre salivano su una vettura nel centro di Gaza City. Guerra? Vendetta? Israele sostiene che erano tutti ‘diretti a compiere un atto terroristico». Una specie, scusate il sarcasmo, di “gita in famiglia”.

Senza pudore, senza vergogna

Parlare di giustizia e onestà in piena guerra serve a poco soprattutto dopo che sono stati uccisi più di trentatré mila palestinesi, in buona parte civili e bambini, da quando i militanti di Hamas e della Jihad Islamica sei mesi fa attaccarono le pacifiche comunità ebraiche in Israele lungo il confine con la striscia di Gaza. L’affermazione di fonti israeliane, che dopo la morte dei parenti di Haniyeh, ‘lui probabilmente’ non sarà più disponibile a negoziare lo scambio di ostaggi-prigionieri fa sorridere.

Sorrisi tragici e digrignar di denti

Da giornalista avrei sorriso anche io se non fosse per il fatto che già ridevo dopo aver letto, appena prima, il comunicato della «Direzione nazionale della diplomazia pubblica» israeliana che ha presentato, con orgoglio «la sua attività sulla scena internazionale dopo sei mesi di guerra».

La ‘legittimità della politica israeliana sul campo di battaglia. «Fin dalle prime ore della guerra, il Direttorato Nazionale della Diplomazia Pubblica, presso l’Ufficio del Primo Ministro, ha condotto una campagna globale di diplomazia pubblica di portata senza precedenti – leggo e sottolineo – al fine di promuovere la legittimità della politica e degli sforzi israeliani sul campo di battaglia».

Memorie di lontane censure

Non voglio fare paragoni, ma l’organizzazione – o quanto meno come viene presentata dalle autorità israeliane – fa venire in mente storie di cui leggevo da ragazzo soprattutto perché ai giornalisti, approdati a Tel Aviv, è stato concesso raccontare quello che vedevano in Israele e lungo il confine con Gaza ma non potevano osservare, se non a distanza, ‘quello che succedeva nella striscia’, devastata da mesi di bombardamenti quasi costanti, se non accompagnati (e per poco tempo) dalle truppe israeliane.

Embedded ereditato da Israele

Il termine embedded era diventato famoso ai tempi dell’assalto americano all’Iraq di Saddam Hussein. Un’altra guerra dove devastazione e overkill avevano raggiunto livelli incomprensibili. E dove il risultato finale della guerra al leader iracheno ha lasciato morti, feriti e una nazione a dir poco spezzettata e in disordine.

Le virtù informative israeliane

«Tra le agenzie che partecipano al centro di comando – si legge nel comunicato israeliano – ci sono i servizi di sicurezza, l’IDF, la polizia israeliana e organismi governativi tra cui il Ministero degli Affari Esteri, il Ministero per gli Affari della Diaspora, l’Agenzia pubblicitaria governativa e l’Ufficio stampa governativo».

Di seguito una sintesi dei servizi forniti alla comunità internazionale: «Fin dalle prime ore della guerra, il Direttorato Nazionale della Diplomazia Pubblica, presso l’Ufficio del Primo Ministro, ha condotto una campagna globale di diplomazia pubblica di portata senza precedenti al fine di promuovere la legittimità della politica e degli sforzi israeliani sul campo di battaglia».

‘L’Equilibrio della copertura’

E ancora: «Attraverso il lavoro di portavoce e di diplomazia pubblica con i principali mezzi di stampa e radiotelevisivi di tutto il mondo, la Direzione nazionale della diplomazia pubblica ha contribuito ad avviare e promuovere centinaia di storie». Interessante questo passaggio: «Storie per rafforzare la narrativa israeliana, moderare i resoconti critici, rispondere agli eventi di cronaca e generare un’intensa attività e favorire l’equilibrio nella copertura».

L’Inganno assoluto senza risparmio di forze

«La copertura globale degli eventi della guerra – viene raccontato con orgoglio – è stata di una portata senza precedenti. Oltre 4.000 giornalisti da tutto il mondo sono venuti in Israele per seguire la guerra, trasformandola così nell’evento mediatico più seguito dalla fondazione dello Stato...

I giornalisti hanno partecipato a tour nel sud e nel nord, hanno visitato il sito del festival NOVA e hanno ricevuto briefing strategici e di zona da ufficiali dell’IDF, agenti di polizia, volontari ZAKA, capi di consiglio locale e testimoni del massacro...

Nell’ambito degli sforzi di diplomazia pubblica sulla scena internazionale, la Direzione nazionale della diplomazia pubblica – in collaborazione con il portavoce dell’IDF – ha lanciato il sito web “Massacro di Hamas del 7 ottobre” che ha mostrato al mondo alcuni dei crimini di Hamas contro l’umanità, con fotografie e videoclip... Il sito ha avuto 43 milioni di visite nei primi tre giorni».

Manipolatori vanitosi, esibiscono l’inganno

Una assistenza quasi perfetta se non fosse per il fatto che molto del materiale giornalistico presentato ai giornalisti veniva scelto o preparato in modo da portare avanti una narrativa ben precisa che voleva giustificare la ferocia dell’azione militare israeliana – morti, feriti, Gaza trasformata in una terra praticamente inabitabile – come risposta al indubbiamente feroce attacco dei militanti palestinese.

Occultamento mal riuscito: troppi cadaveri e prepotenza attorno

Lo sforzo dell’apparato propagandistico israeliano non è riuscito a trasformare la narrativa o a moderare le critiche che sono piombate, mai come prima, sul governo israeliano. E ieri, un episodio minore, ha influito negativamente sugli sforzi dell’apparato propagandistico.

La corrispondente di Tve (rete televisiva spagnola) in Israele, Almudena Ariza, ha dovuto interrompere il collegamento in diretta con il Telegiornale 1 da Gerusalemme quando un uomo si è piazzato davanti alla telecamera e non le ha permesso di continuare la cronaca.

L’aggressività radicata e diffusa che ormai travolge il Paese

«Non lasciano lavorare, mi dispiace molto. Dobbiamo interrompere», ha spiegato Ariza mentre un uomo vestito di nero, probabilmente un ebreo ortodosso, le faceva segno di spostarsi. «Non è la polizia, è un cittadino comune», ha precisato mentre era in collegamento e cercava di spiegargli – in inglese – che stava solo facendo il suo lavoro e chiedeva di lasciarla continuare».

L’ingresso in scena di altre persone ha messo fine al collegamento e Tve ha spiegato sul suo account X: «La pressione su Netanyahu aumenta e aumentano anche le difficoltà nell’informare da Gerusalemme, come è successo alla nostra corrispondente, interrotta da vari cittadini durante un collegamento in diretta».

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Cina - Aumenta del 40% la produzione di chip, le sanzioni statunitensi stanno diventando controproducenti

Secondo un recente articolo del South China Morning Post, le sanzioni imposte dal Governo degli Stati Uniti alla Cina sull'importazione dei semiconduttori ha generato un effetto ben diverso dal frenare la crescita del paese nel settore. Secondo quanto riportato, la produzione cinese di chip è cresciuta del 40% nel primo trimestre del 2024.

Non è un segreto che gli Stati Uniti stiano diventando sempre più restrittivi nei confronti del mercato orientale. Proprio due giorni fa abbiamo riportato dell'ennesimo ban ad opera del governo americano che ha avuto un impatto importante, seppur non così grave, su Intel e NVIDIA.

Stando a quanto riferito dal Dipartimento del Commercio USA, l'obiettivo è quello di limitare la crescita della regione orientale nel settore dell'IA e dello sviluppo tecnologico in campo militare. Sono queste le basi sulle quali gli Stati Uniti hanno limitato l'esportazione in Cina dei chip più avanzati, lasciando la piena libertà per i semiconduttori prodotti su nodi a 28 nm o inferiori.

Il nodo a 28 nm, infatti, è un processo produttivo obsoleto, inadatto alla produzione di chip all'avanguardia e, secondo il ministero americano, non rappresenterebbe una minaccia nazionale – almeno non quanto lo sarebbero i semiconduttori sviluppati sui nodi più aggiornati.

Tuttavia, si tratta di un processo produttivo ancora ampiamente utilizzato per sviluppare i chip dei dispositivi elettronici di base come telefoni fissi, tostapane, apparecchiature mediche e perfino automobili. La ragione per cui gli Stati Uniti non sono intervenuti sul commercio di questi chip è chiaramente di non intaccare la catena di approvvigionamento.

Se però da una parte la Cina – almeno per il momento – non è in grado di competere con gli USA nella produzione più avanzata, nel settore dei chip a 28 nm è sulla buona strada per diventare il leader produttivo su scala globale.

All'inizio di quest'anno, la produzione di chip legacy in Cina ha raggiunto il suo massimo storico con 36,2 miliardi di unità costruite solo nel mese di marzo. Il rapporto del SCMP indica che la produzione è triplicata rispetto allo stesso trimestre del 2019, anno in cui il governo ha avviato il programma per l'indipendenza dalla tecnologia occidentale.

Da allora, la stretta costante del Governo degli Stati Uniti ha motivato quello cinese ad aumentare progressivamente gli investimenti nella produzione di semiconduttori. Si ritiene, infatti, che siano proprio i contributi statali i principali finanziatori dell'industria e stiano spingendo sulla realizzazione di chip al punto tale da rischiare una sovrapproduzione.

Secondo le stime della testata, la Cina realizzerà il 39% della produzione di chip legacy a livello globale entro il 2027, una tendenza che potrebbe continuare a crescere negli anni successivi se gli Stati Uniti dovessero continuare ad applicare le restrizioni attualmente in vigore.

Al momento, sul fronte dei chip avanzati, la Cina ha un profondo svantaggio rispetto a colossi come Intel o TSMC: non ha accesso agli strumenti litografici necessari alla produzione di chip all'avanguardia. Tuttavia, il dominio assoluto nel settore dei chip legacy non farebbe altro che generare nuovi investimenti nella produzione interna e supportare la politica di indipendenza messa in atto dal governo di Xi Jinping.

Se da un lato, quindi, la Cina è stata costretta ad aumentare le importazioni del 12,7% nel primo trimestre 2024 pur di avere accesso alla tecnologia più avanzata, l'altro lato della medaglia è che la stretta occidentale sta facendo solo da incentivo all'accelerazione dello sviluppo verso l'autosufficienza tecnologica.

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