Il contesto
Il 1984 era stato un anno piuttosto "caldo" per la
politica e la società italiana. L'anno era iniziato col "decreto di San
Valentino" varato dal governo Craxi, relativo al taglio dei punti di contingenza
e volto a colpire il meccanismo della "scala mobile". Ne era derivato un duro
scontro tra il governo, sostenuto dalla Cisl di Carniti, da un lato, e il Pci di
Berlinguer con la Cgil di Lama e i Consigli dei lavoratori autoconvocati,
dall'altro. Lo scontro, che metteva in discussione un compromesso sociale di
vecchia data, aveva avuto una prima ricaduta nella manifestazione del 24 marzo
contro il decreto e un serrato confronto sociale e parlamentare che sfocerà
infine in una proposta di referendum abrogativo.
Alle elezioni
europee di giugno, svoltesi all'indomani della
morte di Berlinguer dopo il comizio di Padova, il Pci era diventato il primo partito del Paese.
Il sistema
politico, tuttavia, rimaneva bloccato. Il mese seguente, le conclusioni della
relazione Anselmi, al termine dei lavori della Commissione d'inchiesta sulla
loggia P2, avevano provocato le
dimissioni del ministro socialdemocratico Pietro Longo.
Nelle settimane seguenti, mentre il giudice Casson indagava su
quella che sarebbe stata nota come "Gladio" e rinviava a giudizio il colonnello
Amos Spiazzi, la magistratura fiorentina approfondiva i rapporti tra neofascisti
e servizi segreti in relazione agli attentati ai treni compiuti in Toscana negli
anni precedenti [1]. Intanto Michele Sindona era estradato in Italia e venivano
arrestati il boss della banda della Magliana Enrico Nicoletti e vari esponenti
della camorra.
Ma erano soprattutto le rivelazioni di Tommaso
Buscetta – personaggio di primo piano di "Cosa nostra", anch'egli estradato in
Italia – a mettere in discussione una serie di equilibri dei quali lo strapotere
della mafia era stato parte significativa. Ne derivarono, il 29 settembre, ben
366 mandati di cattura per reati di mafia, cui seguirono altri 127 arresti
provocati dalle dichiarazioni del pentito Salvatore Contorno.
"Cosa
nostra" reagiva prontamente, il 18 ottobre, con la
strage di piazza Scaffa a Palermo.
Intanto, negli stessi giorni, il gen. Musumeci, ex vicedirettore
del Sismi, e altri cinque dirigenti dei servizi segreti venivano arrestati con
l'accusa di avere depistato le indagini sulla strage di Bologna e di aver
favorito la fuga del faccendiere Francesco Pazienza, coinvolto tra l'altro nelle
inchiesta sul caso Calvi e sulla Loggia P2. Il 3 novembre a essere arrestato per
rapporti con la mafia era invece l'ex sindaco di Palermo, il democristiano Vito
Ciancimino [2].
Poche settimane prima, infine, era stato ucciso Tony
Chichiarelli, il "falsario di Stato" autore dei falsi comunicati Br durante il
sequestro Moro. A marzo era stato protagonista della rapina alla Brink's
Securmark, una finanziaria di cui era socio anche Sindona, assieme ad esponenti
della Banda della Magliana; prelevati 35 miliardi di lire, i rapinatori avevano
lasciato alcuni proiettili e una finta risoluzione delle Brigate Rosse, inviando
poi a un quotidiano altri "reperti" riconducibili ai casi Moro e Pecorelli [3].
Pressata da inchieste e arresti, iniziava dunque a venire alla luce
quella che l'ex presidente della Commissione Stragi Giovanni Pellegrino definirà
"la 'zona grigia' fatta da elementi della P2, dei servizi, da un mondo oscuro
degli affari, da criminalità organizzata, siciliana e romana, da personaggi
della destra eversiva" [4].
Equilibri consolidati, fondati su patti
indicibili, rischiavano di saltare. È in questo contesto, oltre che nel quadro
di una situazione sociale e politica molto mossa, che matura la "strage di
Natale".
La strage
È il 23 dicembre 1984, due giorni prima
del Natale.
Molti sono i meridionali che hanno parenti al Nord e
partono da Napoli per trascorrere le festività con loro; qualcuno, invece, come
due giovani fidanzati di Parma, Susanna Cavalli e Pier Francesco Leoni, è salito
sul treno a Roma, diretto verso casa [5].
Il treno è il rapido 904,
partito da Napoli alle 12:55. Alle 19:08, quando ha lasciato da mezz'ora la
stazione di Firenze, una terribile esplosione, partita dal vagone 9 di seconda
classe, lo squarcia e ne arresta la corsa. L'effetto è ancora più devastante
poiché lo scoppio avviene nella Grande Galleria dell'Appennino, tra le stazioni
di Vernio e S. Benedetto Val di Sambro, la stessa zona dove dieci anni prima era
avvenuta la strage dell'Italicus. Se il treno che viaggiava in senso contrario
fosse entrato anch'esso nella galleria, le conseguenze sarebbero state ancora
peggiori,
ma un piccolo ritardo e l'intervento di macchinista e ferrovieri evitano un
disastro più grave.
Lo squarcio nel treno provocato dall'esplosione è comunque
impressionante. L'intero vagone 9 è completamente devastato. I morti sono quindici, fra i quali tre bambini e un'intera famiglia,
i De Simone; 267 i feriti, di cui alcuni in modo grave.
Un
sedicesimo viaggiatore, Gioacchino Taglialatela, padre di una delle vittime, la
piccola Federica, perderà la vita di lì a poco a causa delle ferite riportate.
Nelle loro testimonianze i superstiti ricordano il boato, il buio pesto, il fumo
denso, e un silenzio irreale, ovattato, provocato dal trauma ai timpani, cui
seguono il caos, le urla disperate, l'orrore dei corpi straziati [6].
Antonio
Calabrò, che sarà presidente dell'Associazione dei familiari delle vittime,
ricorda "le macerie addosso, la bocca piena di sangue, il senso di oppressione
al petto"; Lucia Gallo, "la cascata di vetri [che] come proiettili arrivavano da
tutte le parti" [7]. "Non avevo più la percezione del corpo – dichiarerà Antonio
Celardo, anch'egli poi presidente dell'Associazione – soprattutto non mi sentivo
gli arti […]. Poi mi feci coraggio e cominciai a toccarmi. Nonostante una gamba
fracassata mi resi conto di essere intero e ancora vivo" [8].
I
soccorsi sono immediati ed efficienti. Tuttavia occorre più di un'ora e mezza
perché possano raggiungere il luogo dell'esplosione. Il denso fumo all'interno
della Galleria dell'Appennino è il maggiore ostacolo che si trovano di fronte i
ferrovieri che per primi giungono sul posto.
Molto vivide, a
distanza di anni,
le testimonianze di alcuni di loro, come il toscano Andrea Marzoppi o Luciano
Rescazzi, responsabile della protezione civile presso l'Unione dei comuni.
Ricorda un altro soccorritore, Paolo Vandelli, di origine campana
ma allora residente nel Bolognese: "Tutto in quella galleria era un muro di fumo
e polvere", raggiungere il convoglio non fu facile, mentre i superstiti
abbandonavano il treno come potevano [9].
Quello che i soccorritori si trovano di fronte è impressionante.
Nella loro memoria, e nella memoria collettiva, rimarrà una bambola, giocattolo
di una delle bambine presenti sul treno, anch'essa coperta da bagagli e
detriti.
Lo scoppio è stato causato da una
carica di esplosivo radiocomandata, posta su una griglia portabagagli,
presumibilmente durante la sosta a Firenze. Una viaggiatrice sopravvissuta,
Rosaria Gallinaro, parlerà agli inquirenti di un uomo, salito a Santa Maria
Novella, intento a sistemare due borsoni sulla griglia portapacchi del corridoio
anziché negli scompartimenti, dove pure vi era spazio [10].
Una
testimonianza raccolta da Giuliana Covella, quella di Lidia Carreras, ascoltata
dagli inquirenti solo a partire dal 2013, riferirà di "un uomo alto, con una
ventiquattrore, che andava avanti e indietro alla stazione di Napoli prima che
il treno partisse", osservando "con circospezione i finestrini e gli
scompartimenti" [11].
Ai funerali delle vittime, che si tengono a Bologna con il discorso
del sindaco Renzo Imbeni e la presenza del Presidente della Repubblica Pertini e
della Presidente della Camera Nilde Iotti, partecipa una folla enorme.
Le
prime reazioni
La strage rievoca nella coscienza collettiva del Paese
le pagine più atroci della strategia della tensione.
Le prime
notizie giungono come un fulmine a ciel sereno nel clima prenatalizio.
Subito
la stampa rileva la coincidenza del luogo della strage con quella dell'Italicus
di dieci anni prima.
Per "l'Unità" è un ennesimo "agguato alla
democrazia". "La Repubblica" si domanda "chi protegge gli assassini" e
ricollega la strage alle inchieste su strategia della tensione e depistaggi
che nei mesi precedenti hanno coinvolto alti esponenti del servizi segreti e
lo stesso Licio Gelli.
Intanto giungono varie rivendicazioni. Tra queste, una telefonata
all'Ansa "di un uomo con accento siciliano, secondo la quale la strage non
doveva essere considerata 'una trama politica' ma un fatto di mafia", e "la
bomba non era a tempo, ma telecomandata"; e una al "Corriere della Sera", da
parte di uno sconosciuto che il giorno dopo viene incontrato da un funzionario
della Digos alla stazione di Firenze: la strage sarebbe partita "dalla mafia,
dalla 'ndrangheta e dai politici perché per i loro traffici di droga avevano
avuto fastidi dalla polizia". Dell'uomo, però, si perdono le tracce [12].
Nel frattempo inquirenti e commentatori avanzano le prime ipotesi.
Secondo il sostituto procuratore di Bologna, Claudio Nunziata, "la pista nera è
chiarissima": troppe sono le analogie con l'Italicus.
Per il
giornalista Giorgio Bocca, la strage potrebbe esser fatta "risalire a quei
poteri occulti, a quei centri di criminalità politica e mafiosa che sono stati
messi negli ultimi anni con le spalle al muro".
Nel
dibattito che si svolge alla Camera il 27 dicembre, il capogruppo socialista Formica afferma: Con tempismo costante i seminatori di morte [...] invadono la scena
per ricordare pesantemente al Governo [...] agli italiani e agli altri, che
l'Italia non può e non deve avanzare in autonoma sovranità, non può e non deve
liberarsi dai limiti di una democrazia circoscritta [...]. La fragilità dello
Stato ha aperto varchi [...] a poteri paralleli, a criminalità organizzata, ad
inquinanti contaminazioni.
Ma "da almeno due anni" sta avanzando "una
riflessione collettiva intorno ai temi corposi della democrazia più alta [...]
della presenza internazionale più autonoma e più autorevole".
È
questo processo che si vorrebbe bloccare.
Il democristiano Rognoni
avanza invece una lettura simile a quella di Bocca: "In un momento in cui lo
Stato è duramente impegnato contro la criminalità organizzata, l'improvviso e
studiato ritorno di un fronte terroristico [potrebbe] rappresentare un tentativo
di alleggerire la pressione della difficile battaglia contro i commerci, i
poteri, i delitti della mafia o di alte consorterie occulte" [13].
Di fatto anche negli anni seguenti saranno queste – strage di
matrice politica con manovalanza camorristica e mafiosa, oppure strage di mafia
anticipatrice di quelle del 1992-93 – le due interpretazioni prevalenti, assieme
a quella che vede un intreccio di queste due componenti.
Le
indagini
Le indagini si indirizzano subito su una duplice pista:
quella napoletana, che ha origine nell'anticipazione della strage che Carmine
Esposito – un ex poliziotto di estrema destra, che aveva appena trascorso un
breve periodo di detenzione – aveva fatto alcuni giorni prima dell'eccidio alla
Questura di Napoli, e che porta verso il clan di Giuseppe Misso, gruppo
camorristico il cui leader ha anch'egli posizioni neo-fasciste, e verso Massimo
Abbatangelo, parlamentare del Movimento sociale italiano; e quella romana,
avviata dall'arresto di Guido Cercola, braccio destro a Roma dell'esponente
mafioso Pippo Calò, cui segue il ritrovamento, nella casa dell'affittuario e
sodale di Cercola, di due congegni radioelettrici in grado di innescare
un'esplosione compatibili con quelli usati per la strage, e poi, in un casale
dello stesso Cercola, di due pani di esplosivo Semtex H (di cui uno ridotto di
circa un chilo), sei cariche di tritolo (di cui una mancante di 40 grammi) e
nove detonatori, anch'essi compatibili con quelli usati per l'attentato.
La figura di Calò è di particolare rilievo: "cassiere della mafia",
è al "crocevia di affari che legano mafia siciliana, camorra napoletana,
malavita romana [...] e sottobosco dell'estrema destra" [14].
Secondo il giudice Viglietta, che indaga sulla banda della Magliana,
– quella di Calò è "un'organizzazione con stretti vincoli con la destra
eversiva, ambienti deviati dei servizi segreti e della massoneria", la quale non
è priva di "obiettivi politici" [15].
Nelle settimane successive
vengono fermati vari membri del clan Misso. Il primo è il giovane Carmine
Lombardi, sospettato di aver portato l'esplosivo alla stazione di Napoli, il
quale di lì a poco viene ucciso in un agguato. Il secondo è Lucio Luongo, che
conduce gli inquirenti all'arsenale del gruppo. Dal canto suo, un altro
componente della banda già detenuto, Mario Ferraiuolo, inizia a collaborare,
confermando che il clan, oltre all'attività di criminalità comune, si muoveva
anche per finalità politiche, e sostenendo che si erano svolte riunioni con
Abbatangelo, il quale, ai primi di dicembre del 1984, avrebbe consegnato a Misso
armi, detonatori e un pacco chiuso contenente esplosivi, portato a Roma da
Luongo una settimana prima di Natale; affermazioni poi confermate da Luongo.
Nell'ottobre 1985 Calò è incriminato come mandante della strage,
mentre altri 22 ordini di cattura sono emessi per Misso e i suoi per reati di
camorra; tra i ricercati è anche Gerlando Alberti jr, legato alla "famiglia" di
Calò ma "trapiantato" nel clan Misso e di fatto elemento di collegamento tra le
due realtà. Misso riceve inoltre una comunicazione giudiziaria per la strage del
904, e così di lì a poco Abbatangelo.
Nel gennaio 1986 il Pm Vigna
chiede il rinvio a giudizio di Calò, Cercola, e altri tre esponenti del gruppo
romano, e di Misso, Abbatangelo e altre tre persone del gruppo napoletano. Per
Vigna, la strage sarebbe il frutto di un intreccio di interessi, di mafia,
camorra e destra eversiva, e finalizzata a "distogliere l'impegno della società
civile dalla lotta contro la mafia", producendo un "blocco del paese sulla via
della democrazia". Il Pm ipotizza "una pluralità di valenze" della strage,
frutto del legame tra settori di mafia, camorra, destra eversiva e Banda della
Magliana, e di una convergenza di interessi tra questi soggetti [16].
I
processi e le sentenze
Il primo passo dell'iter giudiziario sulla
strage del 904 è la sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio emessa dal G.I. di
Firenze Gironi il 3 novembre 1987, che accoglie le richieste di Vigna sul rinvio
a giudizio di Calò, Cardone, Cercola, Di Agostino, Rotolo, Schaudinn, Misso,
Galeota, Luongo ed Esposito, cui poi sarà aggiunto Pirozzi. La posizione di
Abbatangelo, eletto deputato, viene stralciata.
Il giudice,
accettando le ipotesi investigative del Pm, ritiene possibile "che l'attentato
sia stato suggerito allo scopo di distogliere l'attenzione degli apparati
istituzionali dalla lotta contro le centrali emergenti della criminalità
organizzata". Tuttavia "le marcate connotazioni politiche di molti degli
imputati, i collegamenti con precisi ambienti della destra eversiva […] possono
rendere ipotizzabili anche altri più ambiziosi moventi". Insomma è plausibile
che la strage avesse anche "obiettivi politici" e fosse parte di un piano
comprendente una serie di gravi attentati. Quanto al gruppo napoletano, in
presenza di "numerosi indizi di probabili contatti" tra clan Misso e Calò, il
suo ruolo resta da approfondirsi [17].
Intanto, alla vigilia
dell'inizio del processo, Schaudinn – ritenuto l'artificiere della strage, e
dunque elemento centrale della vicenda – con la complicità di funzionari
dell'Ambasciata tedesco-occidentale di Roma, si sottrae agli arresti domiciliari
e fugge in Germania.
Nel febbraio 1989 è emessa la
sentenza di primo grado.
Vengono condannati all'ergastolo per i reati di strage, attentato
per finalità terroristica ed eversiva, banda armata, fabbricazione e detenzione
di esplosivi, Calò e Cercola del gruppo romano, e Misso, Galeota e Pirozzi tra i
napoletani; per gli stessi reati, ma con le attenuanti, sono condannati anche Di
Agostino (28 anni) e Schaudinn (25 anni), pure del gruppo romano.
Per il giudice Sechi, la strage aveva "molteplici finalità": Indebolire il sistema democratico del nostro Stato; distogliere con
false emergenze l'impegno civile, politico e giudiziario e determinare, dunque,
quella situazione di incertezza e di disorientamento dei pubblici poteri e di
sfiducia in questi da parte dei cittadini che sono i presupposti indispensabili
per la crescita [...] del proprio potere (mafioso) [18].
Nel marzo
1990 la Corte d'Appello di Firenze conferma le condanne di Calò, Cercola e Di
Agostino, ma assolve Misso, Galeota e Pirozzi dai reati di strage, attentato e
banda armata. La Corte, cioè, ritiene credibili le riunioni "politiche" del clan
Misso e la consegna di esplosivi al clan da parte di Abbatangelo, ma non giudica
questi elementi sufficienti a provare il nesso con la strage.
Circa
un anno dopo, la I sezione della Corte di Cassazione – presieduta da Corrado
Carnevale – respinge i ricorsi di PM e parti civili, mentre accoglie quelli
degli imputati, annullando la sentenza di II grado. Per Carnevale, gli elementi
emersi nel processo sono "generici" ed "equivoci", e addirittura sarebbe
"arbitrario e assiomatico" definire Calò mafioso. Pochi giorni dopo, invece, la
Corte d'Assise di Firenze condanna Abbatangelo all'ergastolo. Si crea così una
situazione paradossale, per cui gli imputati del processo principale sono stati
assolti, mentre Abbatangelo – il cui ruolo era inserito nella stessa vicenda – è
condannato.
Nel novembre 1991 si apre il processo di rinvio in
appello, che a sua volta ribalta la decisione della Cassazione. La II Corte
d'Assise d'Appello di Firenze, presieduta dal giudice La Cava, nella sentenza
del 14 marzo 1992 ribadisce l'ergastolo per Calò e Cercola e la condanna di
Schaudinn a 22 anni, e riduce a 24 anni la pena per Di Agostino. Per Misso,
Galeota e Pirozzi – già assolti in via definitiva per i reati più gravi – sono
confermate le condanne per la detenzione di esplosivi. Il quantitativo di
esplosivi in dotazione al gruppo romano, peraltro, fa pensare a "un vasto [...]
programma di attentati", per cui la strage del 904 si inserirebbe "in una
strategia terroristica di più ampio respiro". Quanto al gruppo napoletano,
secondo la Corte la consegna degli esplosivi da Abbatangelo a Misso non basta a
provare il nesso con la strage.
Commenta Guido Neppi Modona: la
sentenza fa "luce sul perverso intreccio tra mafia e politica, terrorismo
neofascista e deviazioni istituzionali che ha insanguinato gli ultimi venti anni
di storia italiana". La strage del 904 viene dunque inquadrata in un "programma stragista, in cui il controstato della criminalità mafiosa e
dell'eversione nera avevano sperimentato la comunanza di obiettivi e di metodi
di lotta politica".
Sulla via del ritorno da Firenze, peraltro, Galeota viene
freddato da un killer: è un altro protagonista dei fatti che non potrà più
parlare. A lui si aggiungerà, nel gennaio 2005, Guido Cercola, suicida in
carcere in circostanze sospette. Quanto ad Abbatangelo, nel febbraio 1994 è
assolto in appello dall'accusa di strage, e condannato a sei anni per detenzione
di armi ed esplosivo.
La vicenda si riapre nel 2010, allorché, in
seguito alle dichiarazioni di alcuni pentiti, la Dia di Napoli riapre
l'inchiesta. Nell'aprile 2011 Totò Riina, il "capo dei capi" della mafia, è
colpito da un'ordinanza di custodia cautelare come mandante della strage del
904. L'ipotesi investigativa è che
la strage servisse a costringere lo Stato a trattare con la mafia; il fatto che l'esplosivo utilizzato nel 1984 fosse dello stesso tipo di
quello impiegato per gli attentati dell'Addaura e di via D'Amelio sembrerebbe
confermare il collegamento [19].
Rinviato a giudizio Riina
nell'aprile 2013, nel maggio dell'anno successivo si tiene l'udienza
preliminare; a novembre inizia presso la Corte d'Assise di Firenze, presieduta
da Ettore Nicotra, il nuovo processo.
Durante le udienze, nel
gennaio 2015, Giovanni Brusca ribadisce la sua convinzione del coinvolgimento
dei vertici di Cosa Nostra nella strage: non solo Calò, dunque, ma lo stesso
Riina.
Un altro collaboratore di giustizia,
Leonardo Messina, conferma che Calò non avrebbe potuto agire in autonomia
perché "nessuno, pena la morte, può fare un omicidio di questo livello senza il
permesso della commissione provinciale o regionale".
Tuttavia,
nell'aprile 2015, la Corte assolve Riina per non aver commesso il fatto. Ancora
una volta, l'idea di una strage esclusivamente mafiosa non convince i
magistrati. "Non può escludersi – scrivono nelle
motivazioni della sentenza
– che [nella strage] abbia trovato coagulo un coacervo di interessi convergenti
di diversa natura".
Il contributo delle commissioni d'inchiesta e le
ricostruzioni storiografiche
La ricerca storica sulla strage del
treno 904 ha stentato a decollare.
Dieci anni dopo l'evento, Roberto
Arbitrio, coordinatore dell'osservatorio permanente dell'Eurispes sui fenomeni
criminali, presieduto dall'onorevole Giuseppe Ayala, dedica al tema una prima
ricerca. Per l'autore, dietro la strage vi sono "connivenze tra estrema destra
[…] criminalità organizzata di stampo mafioso […] e Massoneria deviata".
Arbitrio sottolinea l'"anomalia" dell'attentato, che costituirebbe "la prima
bomba di mafia sui treni". Di fatto "l'obiettivo non ha un significato
strettamente mafioso".
Dietro l'attentato si può dunque ipotizzare
"una struttura complessa, non solo di interesse mafioso". Del resto, le
rivelazioni di Buscetta riguardavano non solo questioni di mafia, ma anche
retroscena del golpe Borghese, del rapimento Sindona, dell'omicidio Moro. La
strage può essere stata dunque
"il punto di incontro" tra gli interessi della mafia e quelli di altri
soggetti attraverso l'uso del terrorismo stragista.
Della vicenda del rapido 904 si occupa anche la Commissione
parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata
individuazione dei responsabili delle stragi. Nel dicembre 1995 la relazione
Pellegrino mette in discussione la lettura della strage come esclusivamente di
mafia.
È un giudizio che la Commissione ritiene di dover riconsiderare
[...]. Vero è che [...] l'accertata matrice mafiosa dell'episodio parrebbe in
qualche misura separare la strage del 904 dalle precedenti e configurarla
quasi come una anticipazione degli attentati di Roma, Milano e Firenze che hanno
segnato l'estate del 1993 [...]. E tuttavia è la stessa personalità del
principale responsabile individuato per la strage del 904, a fornire spunti di
rilievo opposto.
È accertato, infatti, il 'ruolo di frontiera'
svolto da Calò, per i rapporti stretti fin dagli anni '70 con la Banda della
Magliana, personaggi del mondo politico ed economico. Si tratta di "una zona
grigia caratterizzata da rapporti incrociati tra mafia, servizi segreti,
criminalità politica e comune, il cui ruolo appare ormai innegabile [...] 'un nodo siciliano'" che va ben oltre il contesto dell'isola.
L'iter giudiziario,
insomma, non avrebbe portato alla luce quella "rete di complicità" che pure
esisteva.
In tal senso la
conclusione dei magistrati, che hanno visto nella strage una reazione della mafia alle rivelazioni di
Buscetta e alla crisi del patto col potere politico, è "apprezzabile – ma non
pienamente appagante".
Il giudizio della Commissione, dunque, lascia
aperti molti interrogativi. Pochi mesi dopo un volume a cura dell'Associazioni
di familiari vittime per stragi ribadisce che quello del rapido 904 "fu un
attentato anomalo. Un attentato in cui più chiaramente di altri si intravede
l'ampiezza delle logiche criminali, i collegamenti tra esse, un attentato nel
quale al fine eversivo fa da sfondo l'ombra inquietante dell'elemento mafioso;
un nemico composito e nascosto, con molte facce e molte presenze dentro e fuori
del nostro paese" [20].
Anche la ricostruzione storica proposta nel
volume del 2006 conferma la necessità di approfondire ulteriormente l'intreccio
di moventi e protagonisti della strage [21]. A sua volta, Rita Di Giovacchino
sottolinea il ruolo dell'organizzazione di Calò come "struttura di servizio" a
disposizione di massoneria e "apparati dello Stato", evidenziando inoltre come
l'artificiere Schaudinn, lungi dall'essere una figura secondaria, fosse "un
elemento di spicco di un'organizzazione internazionale", legata ad ambienti
neofascisti, protetta da autorità croate, Cia e Mossad, "a metà guado tra mafia
e servizi segreti" [22].
Dal canto suo, Stefania Limiti, sulla base
tra l'altro delle rivelazioni di un altro pentito, Luigi Giuliano, osserva che
il gruppo di Misso – secondo Giuliano "un'organizzazione potentissima",
comprendente esponenti politici e militari – era legato all'organizzazione
neofascista "La Fenice", già protagonista di vari episodi della strategia della
tensione [23].
È interessante notare infine che le stesse più
recenti acquisizioni giudiziarie, quelle cioè relative al processo Riina,
abbiano confermato l'insufficienza di una lettura che attribuisca l'eccidio
esclusivamente alla mafia, alludendo anch'esse a un panorama più articolato e
complesso.
La verità storica sulla strage del 904 non può dirsi
dunque ancora raggiunta.
Memorie e letture contemporanee
La
memoria della strage del 904 non ha avuto un percorso facile. Sebbene
l'Associazione tra i familiari delle vittime sia stata costituita poche
settimane dopo l'evento, il 17 marzo 1985 – anche grazie alla collaborazione
dell'Associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna e del suo
presidente di allora, Torquato Secci – il sostegno delle istituzioni non è
stato sempre all'altezza delle aspettative.
La prima commemorazione
si tenne nella sede del Consiglio comunale di Napoli, al Maschio Angioino, il 18
dicembre 1985. All'Associazione fu promessa una sede, che tuttavia arriverà solo
venti anni dopo.
Per i superstiti si apre il drammatico dilemma tra
il dimenticare, il rimuovere una esperienza così dolorosa, e il coltivare la
memoria. Alcuni di loro trovano nell'Associazione "una seconda famiglia" [24].
Il secondo anniversario vede la realizzazione di una mostra
fotografica, allestita nella stazione di Napoli per circa un mese, e un'altra
mostra, più grande, viene realizzata per il ventennale, nel 2004. Quest'ultimo
anniversario è particolarmente importante per rilanciare la memoria della
strage. In quella occasione, oltre alla commemorazione ufficiale, si svolgono un
incontro tra i familiari delle vittime e il sindaco di Napoli, Rosa Russo
Jervolino, e un
reading del giornalista e scrittore Daniele Biacchessi
[25].
Anche in queste iniziative, la strage del 904 viene collegata
alle altre stragi che hanno insanguinato il Paese a partire dal 1969. Non a
caso, l'Associazione dei familiari
partecipa alle commemorazioni della strage dell'Italicus e di quella di Bologna,
ed è parte attiva della
rete
che le varie associazioni, gli archivi e le altre strutture che si occupano
della storia e della memoria di quei fatti tragici hanno costituito negli ultimi
anni.
Importante anche la
commemorazione svoltasi in occasione del trentennale, alla quale hanno preso parte anche il sindaco di Napoli Luigi De Magistris e
don Luigi Ciotti, presidente dell'Associazione "Libera".
A Ischia,
dove la memoria della piccola Federica Taglialatela è molto curata ed esiste
anche una fondazione a lei intitolata, un recital degli allievi della scuola
media "Giovanni Scotti" ha ricordato la giovanissima scolara che perse la vita
quel 23 dicembre.
In genere, in occasione degli anniversari, la
strage viene ricordata con una duplice cerimonia: alla stazione di Napoli e poi
alla stazione di San Benedetto Val di Sambro.
Dal 2003, nella stazione del capoluogo campano, una targa ricorda le vittime
dell'eccidio, ma la sua collocazione poco felice la rende "una traccia
'invisibile'" [26]. Un'altra targa si trova a San Benedetto Val di Sambro.
La
stessa memoria collettiva del Paese stenta ad avere coscienza di quanto avvenne
quel 23 dicembre.
Dopo lo studio di Roberto Arbitrio per l'Eurispes,
solo nel 2006 è stata pubblicata, grazie all'Associazione dei familiari col
sostegno della Regione Campania, una prima monografia dedicata alla strage.
Nel 2014 la giornalista
Giuliana Covella ha pubblicato un nuovo volume sulla "strage dimenticata", con la prefazione del sindaco De Magistris, le cui presentazioni hanno
ravvivato l'attenzione sul 904.
Riguardo ai mass-media, è
soprattutto negli ultimi anni che l'attenzione alla vicenda del rapido 904 si è
fatta più viva. Nel 2010 il giornalista napoletano
Marcello Anselmo realizza un audio-documentario, trasmesso da Radio Tre dal 20 al 24 dicembre di quell'anno. Nel gennaio 2012,
per la trasmissione "La storia siamo noi",
la Rai manda in onda un documentario sulla strage.
Pochi mesi dopo, una video-intervista a Enza Napoletano
realizzata da Eliana Iuorio per Road Tv Italia, torna a dare voce ai superstiti.
Del dicembre di quello stesso anno è infine un'altra
video-intervista, al presidente dell'Associazione Antonio Celardo, in viaggio verso San Benedetto Val di Sambro per la commemorazione della
strage.
Nel dicembre 2015 Rai Storia ha dedicato un
nuovo documentario
alla vicenda del 904.
Negli stessi giorni Martino Lombezzi, giovane
documentarista bolognese,
ha ultimato il suo documentario sulla strage, ricco di testimonianze e di molte riprese anche dell'ultimo processo
celebrato, quello a Totò Riina.
L'Associazione dei familiari, dal
canto suo, continua a promuovere la memoria dell'evento, attraverso attività
nelle scuole, iniziative pubbliche e
una pagina Facebook costantemente aggiornata.
Attualmente la presidente è Rosaria Manzo. Ha dichiarato uno dei
superstiti: Vedere in carcere chi ha materialmente messo la bomba […] non mi
avrebbe dato nessun appagamento. Mi darebbe grande appagamento scoprire la
verità sul vero perché è stata organizzata questa strage, sui veri motivi alla
base delle varie stragi italiane di quel periodo [27].
È questa, in
effetti, la ferita ancora aperta della memoria collettiva del nostro paese.
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