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31/10/2012

Italia, la portaerei di Israele

L'Italia è la nuova «portaerei» di Israele. In meno di dieci anni, un tassello alla volta, si completa il disegno del puzzle. Strategico, militare, commerciale e politico. Basta avere la pazienza di intrecciare notizie, protocolli, fotografie. Oppure seguire le scie degli aerei, degli appalti e della diplomazia formato Finmeccanica. Tutto funzionale alla guerra all'Iran?

Caccia israeliani in volo radente sulla Sardegna. Tornado italiani nel deserto del Negev. Scambi di "carte" tra mercanti d'armi, benedetti dalla Nato e dai governi (più o meno tecnici). Ecco l'alleanza «a contratto» fra Roma e Tel Aviv.

Commesse a «somma zero»
Un preliminare «blindato», previsto dalla legge, affidato ai militari. Chiude il cerchio della «collaborazione» avviata dall'ex ministro della difesa Antonio Martino. Sacheon, Corea del Sud, gennaio 2012. I vertici di Korean Aerospace Industries inoltrano l'ultima offerta ai militari israeliani: 25-30 addestratori Golden Eagle in cambio dei droni con la stella di David. È un affare da 1,6 miliardi di dollari. Per di più fa contenti anche gli americani: gli aerei sono firmati Lockheed-Martin e i robot-volanti servono a spiare la Corea del Nord.

Ilsoo Kim, ambasciatore sudcoreano in Israele, ha reso noto attraverso le colonne del Jerusalem Post: «Spendiamo 30 miliardi di dollari all'anno nel settore della difesa». Il governo di Seul sarebbe disposto a dirottarne almeno 5 in radar e sistemi anti-missile made in Israel. È quanto provano a spiegare i contractors locali: da mesi giocano di sponda con i lobbisti al ministero della difesa. Tuttavia, sono manovre "acrobatiche". L'aeronautica militare israeliana (Iaf) ha diffuso una nota che tecnicamente chiude la partita. Contiene la raccomandazione d'acquisto al proprio general staff di 30 addestratori Aermacchi M-346 Master prodotti da Finmeccanica già selezionati da Emirati Arabi e Singapore. Non è una specifica vincolante per il governo Netanyahu, ma nel quartier generale di Alenia a Venegono Superiore (Varese) stappano le bottiglie.

Il 17 febbraio il ministero della difesa israeliano ufficializza il preliminary agreement con gli italiani. Valore: non meno di 1 miliardo di dollari. Per Aermacchi è fatta, con relativo ritorno d'immagine buono per altri due mega-appalti all'orizzonte (Usaf e forze aeree polacche). Il concorrente da battere è sempre Kai.

Diventa di pubblico domino il prezzo del "successo" di Finmeccanica, l'altra faccia della medaglia della maxi-commessa bellica vinta dalla holding controllata dal ministero dell'economia. In cambio degli M-346, l'Italia dovrebbe acquistare uno stock di prodotti dalle aziende militari dello Stato ebraico. Per un miliardo di dollari. È una partita a somma zero. L'affare di Alenia lo pagano i contribuenti.

Emerge il controvalore: l'Italia avrebbe nel mirino due aerei-radar, ma all'Aeronautica militare fanno gola anche sofisticati sistemi satellitari, segnalano i quotidiani a Tel Aviv. Particolari tecnici, per addetti ai lavori, tutt'altro che secondari.

Un passo indietro
Epoca Berlusconi, con il ministero degli esteri affidato a Franco Frattini. Già nel 2003 scatta la sintonia: il ministro Martino e il collega israeliano (generale di corpo d'armata) Shaul Mofaz firmano a Parigi l'accordo di cooperazione Italia-Israele nel settore della difesa. Scenari integrati tra i due Paesi e piena collaborazione su tutti i fronti: da licenze, royalties e informazioni tecniche scambiate «con le rispettive industrie nella ricerca di progetti e materiali di interesse per le parti» normate dalla legge 94/2005, all'«importazione, esportazione e transito di materiali militari e di difesa» con lo scambio di informazioni e hardware.

Gli effetti vengono letteralmente fotografati nell'autunno 2011. A Decimomannu (Cagliari) gli spotter immortalano l'atterraggio di F-16 e Gulfstream con la stella di David. Ufficialmente, manovre nell'ambito dell'esercitazione «Vega» condotta con piloti italiani e della Nato.

Missioni non sempre regolari, come risulta dal resoconto stenografico della seduta della Camera dei deputati del 18 novembre. All'ordine del giorno, plana l'interdizione al volo comminata da un tribunale militare israeliano a un pilota Iaf per aver effettuato tonneau a bassa quota. Sulle coste della Sardegna.

La segnala il deputato Augusto Di Stanislao (Idv) con un'interrogazione al ministero della difesa che giusto in quelle ore, cambia: Ignazio La Russa cede il posto all'ammiraglio Giampaolo Di Paola. La vicenda è coperta dal programma di cooperazione individuale con Israele ratificato dalla Nato nel 2008. Di Stanislao però, ricorda che «l'unica potenza nucleare della regione» rifiuta di firmare il trattato di non-proliferazione.

Negli stessi giorni, dal sito internet dell'Iaf decollano altri segni dell'«amicizia» tra Italia e Israele. A disposizione, la cronaca degli «Hawk over Sardinia» insieme alle dichiarazioni del maggiore Baruch Shushan, comandante dell'Aerial maintenance formation («Ci siamo preparati per questo cinque mesi»).

Dopo i sigilli di Erdogan allo spazio aereo turco, le sessioni congiunte Israele-Nato in Italia sono imprescindibili. Necessarie, anche per lo stato maggiore dell'Aeronautica; in cambio, partecipa all'esercitazione «Desert dusk» (5-15 dicembre 2011) facendo decollare dalle basi di Grosseto, Gioia del Colle e Piacenza 25 caccia che compiono un centinaio di missioni di volo nei poligoni della base di Ovda, nel deserto del Negev. Un altro corollario a somma zero.

Convergenze armate
Resta da capire se gli indirizzi strategici che palazzo Chigi impartisce all'Aeronautica corrispondono ai notam inviati dal governo israeliano ai suoi piloti. In Sardegna si vola in funzione di obiettivi reali: l'orografia si presta a missioni precise, l'addestramento risulta sempre allineato agli scenari «prossimi». Si simula un'operazione militare alle installazioni nucleari iraniane? Il governo Monti ne è tecnicamente al corrente? Un altro dettaglio alimenta i dubbi. Nelle esercitazioni congiunte gli aerei militari italiani provano i sonic-boom a bassa quota con lo stesso intento degli alleati israeliani, che lo utilizzano contro la popolazione palestinese a Gaza?

Comunque, per testare l'inossidabilità del «patto d'acciaio» con Israele conviene girare nuovamente il binocolo. In parallelo alle manovre militari, dal 6 ottobre 2009 è operativo un altro fondamentale corridoio. È il Gruppo di collaborazione parlamentare presieduto dalla vicepresidente della commissione esteri Fiamma Nirenstein, con Luca Barbareschi (Pdl), Emanuele Fiano (Pd) e Massimo Polledri (Lega Nord). Lavori articolati su piani di interscambio finalizzati a solidificare relazioni bilaterali in campo culturale e scientifico. Un ponte diplomatico permanente, tra «democrazie occidentali», politicamente a tutto campo. La cornice istituzionale perfetta per tenere insieme il quadro affrescato da Finmeccanica.

L'aprile scorso il presidente Monti ha trascorso le vacanze di Pasqua tra Ramallah e Cesarea, ribadendo il sostegno italiano al piano dei due popoli in due Stati. Ad Abu Mazen come a Netanyahu ha ricordato la necessità di superare lo stallo negoziale «facendo il possibile per scongiurare il ritorno della violenza». Corrisponde al mandato Onu affidato al generale degli alpini Paolo Serra, che dal 2 gennaio è il comandante dei 10.988 caschi blu (di 36 Paesi) della missione Unifil nel sud del Libano.

E qui scatta il cortocircuito: la piena esecutività di accordi, obblighi e contratti stipulati con Israele compromette di fatto l'«interposizione» nelle operazioni di peacekeeping. D'ora in poi, sarà più difficile per i governi, non solo arabi, chiudere un occhio sulla "cobelligeranza" italiana. Con tutte le conseguenze del caso.

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Lo spread snobba Berlusconi

Solo 6 punti in più dopo la «svolta populista» di venerdì scorso. La finanza globale considera il «ritorno del Caimano» un film che non si farà mai.
Non serviva essere esperti di speculazione finanziaria per sapere che la sortita berlusconiana - «decideremo se togliere la fiducia al governo immediatamente» - avrebbe avuto un effetto visibile: lo spread che aumenta. E così è andata: il differenziale tra Btp e Bund tedeschi è salito nella giornata di ieri fino a 353 punti. Nemmeno tanto, appena 6 punti. Come se i mercati avessero ormai archiviato il Cavaliere e tutte le sue giravolte. Una leggera increspatura, insomma, giusto per far capire che se questo paese è tanto fesso da voler ripercorrere una strada chiusa, il suo destino è già segnato.
Meno di un anno fa quel maledetto spread era arrivato a 575 punti, con Silvio barricato a palazzo Chigi. Forse avrebbe resistito ancora qualche giorno, ma in due ore il titolo Mediaset perse il 12%, tanto da esser sospeso dalle contrattazioni per eccesso di ribasso. Berlusconi uscì a mani alzate e Monti prese il suo posto appena 24 ore dopo esser stato innalzato al ruolo di senatore a vita. Se qualcuno crede che sia stato solo un bizzarro «incrocio di coincidenze», può ritirarsi in convento. Ieri il Biscione ha perso appena il 2,1%, in una giornata negativa per tutte le piazze del Continente (Piazzaffari -1,5%) e con Wall Street chiusa per uragano in arrivo.
Dobbiamo concluderne per forza di cose che Berlusconi è politicamente morto e sepolto nella considerazione globale. Il suo «ritorno» è ormai solo una favoletta per cercare di tener buoni quanti, a sinistra, hanno molto da ridire sulle politiche messe in atto dal governo «tecnico»; ma sui tavoli che contano - le piazze finanziarie e le riunioni della troika (Bce, Fmi, Ue) - le sue minacce suonano ormai come il ruggito di una pulce.
La conferma diretta, in forma algida e velenosa più del solito, è venuta dallo stesso Mario Monti, impegnato a Madrid in colloqui con Mariano Rajoy. Perseguitato da giornalisti obbligati a tener d'occhio solo la provincia italiana, prima si è mostrato sorpreso dal possibile collegamento tra andamenti dello spread e comportamenti berlusconiani: «Non ci avevo pensato». Salvo poi dire che «lo spread attuale è ingiustificato; per qualche ragione che mi sfugge era a 330, oggi è a 350, comunque molto meno di un anno fa quando era a 575». Venti punti, invece di 240; questo è quanto Silvio «pesa» oggi.
Infine si è dilungato con noncuranza sulla sortita suicida del fu Caimano: «Minacce di ritiro della fiducia a questo governo non possono essere fatte, perché non lo vivremmo come una minaccia. Siamo stati richiesti di dare un contributo in un momento difficile di questo paese. Pensiamo di stare avendo buoni risultati, ma non spetta a noi valutarlo. Sono 'minacce' che a noi non toglierebbero niente, se non l'attività di governo che non è stata da noi ricercata».
Questo, viene ricordato, è un governo che dipende da una maggioranza parlamentare solo «pro forma», per la necessità di mantenere una legittimità democratica esteriore. Ma la sostanza è altrove; la forza o la legittimazione vengono da poteri molto ben definiti, ma soprattutto sovrastanti il cortile italico. L'esecutivo in carica può benissimo esser fatto cadere, ma cosa accadrebbe poi «è una domanda da rivolgere alle forze politiche, ai mercati, non a me. Non voglio neanche speculare su questo». Non ce né bisogno.
Naturalmente, lo strapotere «europeo» sulle sorti di questo paese è ancora in fase di strutturazione istituzionale. Mancano molti tasselli prima di poter considerare chiusa ogni possibilità di ritorno al passato, anche se la strada - tra un Fiscal compact e il «pareggio di bilancio» inserito a forza nella Costituzione - è ampiamente tracciata. Lo sfaldamento del Pdl indica però una dinamica sociale, prima che banalmente politica: il suo «blocco sociale» di riferimento (in parte coincidente quello della Lega), quella «borghesia del reddito» cresciuta tra commesse pubbliche ed evasione fiscale, imprenditoria minimale («piccolo è bello», «padroni a casa nostra») e caporalato reale, si sta sciogliendo man mano che la crisi avanza; e appare chiaro che la «ripresa» - se mai ci sarà - avrà altri piloti al posto di guida. I settori «avanzati» dell'imprenditoria sanno che solo dietro «il montismo» potranno avere una chance in un mondo fin troppo competitivo per le loro ossa. Per tutti gli altri, semplicemente, non ce n'è più.

da "il manifesto"

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Crisi Fiat, Marchionne rottama la Lancia: ‘Il marchio verrà ridotto o eliminato’

Il marchio Lancia ”verrà ridotto o eliminato”. Parola di Sergio Marchionne, che ha annunciato la nuova strategia del gruppo Fiat sui marchi. Strategia che verte su due punti: rottamazione dello storico marchio del Lingotto, rilancio di Alfa Romeo e Maserati. “Lancia – ha detto – non tornerà quella che era una volta, oggi ha un appeal limitato spiegando che l’unico modello economicamente sostenibile in Europa è la Ypsilon che sarà preservata. Come già accade oggi, quindi, il marchio vivrà dei prodotti derivati dalla Chrysler concepiti a Detroit, almeno fino a quando ci sarà un ritorno economico”. Dalle slide che Sergio Marchionne ha esposto durante la conference call emergono delle previsioni al ribasso del gruppo Fiat. Si prevede di raggiungere il pareggio delle attività europee nel 2015-2016 ma per il 2014, il gruppo ha deciso un taglio da 104 a 94-98 miliardi. L’obiettivo è quello di fare “leva sui grandi marchi storici premium come Alfa Romeo e Maserati, riallineare il portafoglio prodotti e riposizionare il proprio business per il futuro”. Una scelta, si evidenzia, fatta rispetto all’alternativa di “rimanere focalizzati su un mercato di massa”. Gli interventi sugli impianti italiani saranno sviluppati entro i prossimi 24-36 mesi e, si ribadisce nelle slide, “non si chiuderà nessuno stabilimento in Italia”. Da un mese, ha dichiarato inoltre l’ad di Fiat, “abbiamo iniziato a lavorare con il governo italiano su interventi per migliorare la competitività dell’export”. Il futuro prossimo, tuttavia, non sarà roseo. E Marchionne non lo nasconde: “Per il prossimo anno – ha detto – non punto su fenomenali miglioramenti dei risultati rispetto al 2012″. Poi la nota polemica. “Quando guardo alle presentazioni dei concorrenti mi chiedo perché ci sia tanto interesse solo per i nostri progetti” visto che gli altri gruppi “non danno indicazioni anno per anno” altrettanto dettagliate. Quasi uno sfogo, quindi, quello del manager quando gli vengono chiesti chiarimenti sui target per il periodo 2013-2015.

“Nei prossimi anni – ha continuato Marchionne – anche dal punto di vista sociale sarà una grande sfida per tutti, ma la soluzione non è dietro l’angolo”, un taglio alla gamma Fiat ma con un focus su due modelli “iconici” come 500 e Panda, e un rilancio per Alfa e Maserati nell’ottica di rialzare il portafoglio dei marchi su modelli con margini maggiori. E’ un gruppo Fiat meno ”popolare” ma con redditività più alta, deciso a sfondare in nuovi mercati come quelli nord-americani e asiatici. Dal documento emerge una riduzione della “esposizione” di Lancia, di cui si punta a salvare l’”unicità” del modello Ypsilon (ma solo se “economicamente sostenibile”), laddove è evidente invece la scommessa su Alfa Romeo e Maserati, il cui appeal va oltre i confini italiani ed europei. “Dobbiamo essere onesti: la Lancia ha un appeal limitato fuori dall’Italia”, ha detto Marchionne, aggiungendo che invece ”la produzione di Jeep non sarà trasferita dagli Stati Uniti alla Cina”. ”Siamo stati incredibilmente prudenti e così siamo riusciti a superare la tempesta” ha sottolineato a proposito della liquidità del gruppo. “Una scelta saggia” quella sugli investimenti, considerata anche da altri “una scelta di efficienza industriale”. Poi, per quanto riguarda l’ultima creatura della casa Torinese – la Giulietta – Marchionne  ha un’idea molto chiara: “Va bene – ha detto – ma opera in un segmento molto sensibile al prezzo e su questo punto abbiamo assistito a una attività innaturale dei concorrenti”. Tuttavia Fiat non parteciperà alla guerra dei prezzi perché “dobbiamo mantenere una integrità” anche dei margini, ha spiegato l’ad.

PREVISIONI AL RIBASSOIl gruppo Fiat prevede di raggiungere il pareggio delle attività europee nel 2015-2016. Per il 2013 la nuova stima del gruppo Fiat è di ricavi tra 4,3 e 4,5 miliardi (finora il target era di 5,5 miliardi) e di un utile della gestione ordinaria tra 4 e 4,5 miliardi (era di 6,1). Per il 2014 sono previsti ricavi tra 94 e 98 miliardi (erano 104 miliardi) e un utile della gestione ordinaria tra 4,7 e 5,2 miliardi (era 7,5 miliardi). Rivisti al ribasso anche i target di vendite: per il 2012 da 85 a 82 miliardi di euro, per il prossimo anno da 97 a 88-92 miliardi, mentre per il 2014 il taglio di stime è da 104 a 94-98 miliardi. Giù anche le previsioni sui profitti: per il 2012 da 4,5 a 3,8 miliardi, per il 2013 da 6,1 a 4,0-4,5 miliardi e nel 2014 da 7,5 a 4,7-5,2 miliardi.

CALO IN BORSAForte calo per Fiat in Borsa dopo i conti dai quali emerge che, esclusa Chrysler, nei primi 9 mesi la perdita è di 800 milioni rispetto all’utile di 1,2 miliardi dello stesso periodo 2011. Il titolo ha chiuso in calo del 4,66% a 3,93 euro tra forti scambi: sono passate di mano 48 milioni di azioni (pari al 3,8% del capitale) contro una media quotidiana dell’ultimo mese di 15 milioni. Ha tenuto invece Exor (+0,2%) e soprattutto Fiat industrial (+1,9%), che diffonderà i conti domani.

DATI TRIMESTRE Il gruppo ha chiuso il terzo trimestre con un utile netto di 286 milioni di euro, più che raddoppiato rispetto allo stesso periodo del 2011. L’utile della gestione ordinaria del gruppo è pari, in quel periodo, a 951 milioni di euro (851 nel terzo trimestre 2011) grazie agli andamenti particolarmente positivi in Nafta, Latam e Apac, mentre per Emea il risultato è negativo di 238 milioni di euro.
I ricavi sono aumentati del 16% rispetto al terzo trimestre 2011 per effetto della forte crescita dei volumi nelle regioni Nafta, Latam e Apac. Questi ultimi hanno più che compensato la diminuzione in Emea “che risente del perdurante deterioramento delle condizioni del mercato, particolarmente severo in Italia”. Nei primi nove mesi del 2012 il gruppo Fiat ha venduto 3,1 milioni di veicoli.
L’indebitamento netto industriale però è salito a 6,7 miliardi di euro (5,4 miliardi al 30 giugno 2012) per effetto dell’assorbimento di cassa stagionale del terzo trimestre di Fiat esclusa Chrysler, accentuato dalle condizioni del mercato in Europa. Lievemente positivo il contributo di Chrysler, nonostante la stagionalità estiva e gli investimenti. La liquidità disponibile, che include 3 miliardi di euro di linee di credito non utilizzate, è pari a 20 miliardi di euro. I target sono stati confermati al livello inferiore della forchetta originariamente indicata.

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Sono sempre più convinto che Marchionne stia attuando strategie che porteranno a un lento disfacimento del gruppo.

30/10/2012

Elezioni in Sicilia: l'analisi degli antagonisti

Si comincia sempre volentieri dalle frasi celeberrime di Mao. Frasi famosissime ma dotate di una tale grazia che  non sembrano logorarsi nonostante l’uso e lo scorrere del tempo. Eppure la frase utile per spiegare quanto accaduto in Sicilia è di Deng Xiao Ping e compie giusto mezzo secolo: “non importa di che colore sia il gatto purché mangi il topo”. La frase di Deng va collocata nel contesto della durissima lotta, apertasi nel partito comunista cinese, dopo la tremenda carestia a cavallo degli anni ’50 e ’60 causata dal disastroso processo di industrializzazione forzata promosso proprio da Mao. Deng, con quella frase, suggeriva un approccio prudente e maggiormente pragmatico ai problemi dell’economia cinese rispetto al modello maoista di mobilitazione totale. Si tratta in fondo dell’approccio che lo ha portato a governare la Cina dopo l’esaurirsi della rivoluzione culturale. La frase di Deng, come quelle di Mao, va però anche intesa come un’allegoria, un qualcosa che trascende potentemente il suo primo significato. Nel nostro caso quindi possiamo interpretare benissimo nell’allegoria del topo la persistenza italiana di un ceto politico istituzionale fatto prevalentemente di disperati, pronto a vendere il paese all’incanto secondo le regole della governance liberista continentale. Il gatto, quello che può mangiare il topo, sembra essere il Movimento 5 Stelle con dei risultati elettorali semplicemente impensabili, almeno per i non avvertiti, pochi mesi fa. La storia italiana sembra così prendere le sembianze della filosofia di Deng: ci suggerisce un corso degli eventi nel quale il gatto può davvero mangiare il topo. Oltretutto l’approccio maoista del “grande balzo in avanti”, quello che criticava proprio Deng, negli anni, tralasciando la storia degli ultimi decenni, in Italia ha ripetutamente mancato la possibilità di mangiarsi il topo. Ma perché i risultati siciliani ci danno questa indicazione, sulla possibilità concreta di Grillo di paralizzare e sinistrare il ceto politico istituzionale?

Cominciamo da una realtà che, come d’abitudine, si trova esattamente al contrario delle frasi di Pierluigi Bersani. Il segretario del Pd ha parlato di voto siciliano come qualcosa di anomalo, difficilmente ripetibile. E’ evidente il tentativo di esorcizzare la presenza di Grillo, ormai materializzatasi in voti.  Ma i riti sciamanici possono poco contro l’accumularsi dei fatti: per il Movimento 5 Stelle la prova siciliana era quella più difficile. Non solo perché un flop, o persino un mezzo successo, del Movimento 5 Stelle in Sicilia avrebbe depotenziato in qualche modo la campagna per le politiche. Ma proprio perché le condizioni di riproduzione di quel movimento sono tipiche di un genere di società che è meno radicata al sud: alta ed efficiente penetrazione tecnologica, uso della rete su temi di opinione pubblica, presenza di un ceto, anche precario, di tecnici di ogni tipo che si politicizzano con temi da società civile del nord. A questa evidente mancanza, che aveva portato a maggio l’M5S a un 5% a Palermo ben diverso dal successo di Parma, ha sopperito lo stesso Grillo. Che ha colmato questo gap con un tour siciliano impressionante per numero di date, capacità performativa sul terreno e partecipazione di massa. La vittoria siciliana di Grillo è quindi frutto di una doppia capacità performativa: sul terreno e in rete. Dove la prima compensa i difetti strutturali locali della seconda. E nonostante che i media nazionali abbiamo ridotto ai minimi termini, salvo la traversata dello stretto, la campagna di Grillo.

E così è arrivato il risultato dell’M5S primo partito della Sicilia con un forte peso simbolico e politico a livello locale e nazionale. L’astensionismo, come si è visto in Sicilia, non frena poi il grillismo. Al contrario, come a Parma, oggi ne rappresenta una delle condizioni per la vittoria. Sta infatti accadendo questo: una parte consistente della società esce dalla politica istituzionale, dai suoi nessi clientelari ormai impoveriti o dalle sue subculture di riferimento, e si rifugia nel sonno dell’astensione. Mentre una parte significativa dell’elettorato, ormai trasformato in informed citizenry dalle rivoluzioni tecnologiche e dalle mutazioni delle culture politiche, erode spazio alla propaganda tradizionale dei partiti. Finendo così per pesare in un doppio modo: perché fa convergere i voti verso le liste “contro la casta” e  perché questo spostamento viene amplificato, in termini di percentuali di voto,  dall’assenza di voti ai partiti tradizionali causa astensione. Insomma l’attuale informed citizenry italiana non solo soprattutto vota Grillo ma, per come si sta spostando l’elettorato italiano, è come se ogni suo voto valesse due. Naturalmente Pdl e Pd sono liberissimi di pensare che l’astensione rappresenti una sorta di parcheggio di voti che poi possono tornare. Ma per adesso è lecito presupporre il contrario: l’astenuto rappresenta un’identità politico elettorale in mutazione che, una volta assimilata la nuova tendenza generale del voto, può tornare ad essere elettore persino contro l’ex partito di riferimento. E oggi la tendenza generale parla con un nome solo: Grillo.
Si è aperto così un scenario greco per la Sicilia: entro una crisi sociale ed economica fortissima i partiti istituzionali del passato hanno visto, in percentuali diverse, perdere il proprio potere tradizionale di attrazione. E’ emersa così una forza elettorale dirompente, come Syriza in Grecia, capace di mettersi in primo piano ma non ancora di vincere del tutto. Vista la situazione siciliana, per Grillo, meglio così: può fare propaganda quanto vuole sulle prossime convulsioni di centrodestra e centrosinistra in Sicilia e usare i risultati di queste campagne sia a livello locale che nazionale.

Bersani ha parlato di “risultato storico in Sicilia”: intendeva la vittoria elettorale di Crocetta. Per quanto possa essere considerato un risultato storico, vincere avendo agganciato l’Udc siciliana, già incubatrice dei Cuffaro e dei Saverio Romano, ed ancora oggi espressione del peggiore, inquinato e più retrivo potere clientelare dell’isola. Ma c’è anche un’altra dimensione storica che Bersani deve considerare: la possibilità di un risultato siciliano che serva da detonatore per evidenziare, al grosso dell’elettorato italiano, le continuità tra il Pd e il peggio della vecchia politica. Già oggi Pd e M5S sono separati, a livello nazionale, da soli 3 punti secondo sondaggi della stessa Swg di centrosinistra. E oggi i  sondaggi tendono a prenderci oppure ad orientare il voto: non a caso ne circolava uno, nei giorni scorsi, con Grillo primo partito della Sicilia. Visto quanto è cresciuto l’M5S nei sondaggi a livello nazionale con l’effetto Parma, dal 5% dell’aprile al venti delle settimane scorse, il fenomeno è di quelli da tenere in considerazione. Il consenso a politiche montiane o post-montiane, che sono la stessa cosa, all’Europa dei “sacrifici” alle prossime elezioni generali può effettivamente mancare proprio sul piano della volontà popolare. Ben sapendo che non siamo nell’ottocento e che la volontà popolare fa poi sempre i conti con la governance continentale.
Le conseguenze della politica siciliana su quella nazionale sono poi storicamente consolidate dal punto di vista della politica istituzionale. Basti pensare alla giunta Lombardo, presidente poi inquisito per concorso esterno in associazione mafiosa, che ad un certo punto ha goduto dell’appoggio del Pd. Stavolta le conseguenze possono essere diverse: la Sicilia può anche dare al gatto una spinta importante per mangiarsi il topo. Avendo dato a Grillo quel tipo di spinta proveniente dal movimento dei forconi che non è stata capitalizzata dalla lista locale che ne faceva direttamente riferimento.  Certo, d’ora in avanti può veramente accadere di tutto, come accade in Italia quando in Sicilia cambiano gli equilibri politici, e non sono da escludere colpi di scena di ogni genere. Si possono anche scatenare forze che ribaltano lo scenario nazionale così come si prospetta dal voto siciliano. Ma Grillo, se visto con gli occhi dell’oggi, ha la capacità di catalizzare tutta la protesta contro il decadente ceto politico neoliberista che si è saldato dentro le istituzioni del paese. E qui non si deve aver timore di non contribuire  a sabotare un qualcosa che può arrivare alla giugulare dei partiti della seconda repubblica.

Anzi, a questo punto rispunterebbe Mao, quello della rivoluzione culturale avversata proprio da Deng: nel mezzo della lotta intestina al Pcc, che era uno scontro tra differenti facce della società cinese, alla fine della prima metà degli anni ’60, quando ci furono le condizioni per far scattare l’indicazione: “bombardate il quartier generale”. La terribile saggezza del Grande Timoniere finisce infatti per avere l’ultima parola anche sul più intelligente revisionismo. Dietro l’immagine di Deng, rispunta così il volto di Mao. E così deve essere perché, in Italia, una eventuale missione compiuta del gatto nei confronti del topo aprirebbe un caos tale, nella politica istituzionale, da rendere necessario uno sforzo politico di portata ben superiore rispetto ai suggerimenti dettati dal pragmatismo. Nel frattempo, senza ambiguità o senza snaturarsi oppure dissolversi fa bene seguire l’indicazione di Mao: “dobbiamo sostenere tutto ciò contro cui il nemico combatte, e combattere contro tutto ciò che il nemico sostiene”. C’è un vecchio terrore nella politica comunista: quello che vuole che il solo esercizio della tattica neghi la possibilità del distendersi della strategia. E’ invece nel migliore esercizio della tattica che la strategia comincia sia a far sentire il peso delle proprie esigenze che a far intravedere la possibilità di un futuro. Che il gatto mangi quindi il topo, se ce la fa. E lunga vita alla memoria del compagno Mao.

Per Senza Soste, nique la police

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Elezioni in Sicilia: l'analisi di sinistra

In sintesi:
-il Pdl si squaglia come un gelato all’Equatore, passando da 900.000 a 247.000 voti (persi più di 2 su 3);
-il Pd “vince” ma perdendo 248.000 voti (1 su 2);
-l’Udc, non solo non intercetta un voto di quelli persi dai partiti maggiori, ma ne perde 130. 000 dei suoi (più di 1 su 3);
-la lista Sel-Federazione della sinistra va malissimo perdendo 25.000 voti sui risultati del 2008 (il peggior risultato in assoluto, rispetto al quale c’era stata una ripresa alle europee dell’anno dopo);
-il Movimento 5 stelle decuplica i voti rispetto a 4 anni fa e sfiora il 15%

L’astensione, per la prima volta nella storia delle consultazioni elettorali dal 1945 in poi, supera la metà degli elettori.

Il quadro mi sembra chiaro: se le formazioni di destra si dissolvono, il Pd non rappresenta alcuna alternativa ed affonda più lentamente del suo concorrente, ma affonda. Non è la crisi della maggioranza di destra, ma la crisi del sistema politico che precipita. Se si trattasse di indicazioni valide a livello nazionale, dovremmo dedurre che i partiti interni al sistema non superano il 35% dei consensi totali. E, infatti, il boom delle astensioni è un evidente segno politico di ritiro della fiducia degli elettori nei confronti del sistema nel suo complesso.
Qualcuno argomenta che gli elettori voltano le spalle alla politica in favore dei “tecnici”, sperando di risolvere i problemi del paese fuori della politica ed affidandosi ad una tecnocrazia illuminata. I sondaggi sembrano avvalorare questa ipotesi garantendo che Monti, pur in calo rispetto ad un anno fa, gode pur sempre della fiducia del 54% degli intervistati. Non so a voi, a me parlando con la gente, da almeno sei mesi capita di incontrare solo quelli del 46% che bestemmiano appena gli nomini Monti e non uno del mitico 54% che lo appoggia. Inizio ad avere il sospetto che quei sondaggi siano solo marchette.

Non credo che, se anche Monti trovasse il coraggio di fare una sua lista, la situazione muterebbe di molto, perché l’ondata di (immotivato) entusiasmo che accompagnò la sua ascesa a Palazzo Chigi si è ormai dissolta da tempo senza lasciare alcuna particolare traccia.

Il punto è la totale assenza di offerta politica: i partiti dicono tutti le stesse cose (cioè niente) ed il dibattito politico è ridotto ad un teatrino di mediocrissime macchiette da avanspettacolo come Berlusconi, Bossi, Maroni, Bersani, Renzi, Casini, Fini, Vendola… Un teatrino che non appassiona più nessuno, perché emergono solo i personalismi privi di una qualunque idea.

Ma anche i tecnici hanno deluso: la loro grande scienza è servita solo a gonfiare di tasse la gente, portando il paese in recessione, facendo aumentare il rapporto Debito pubblico/Pil, restando a valori elevati di spread e, beffa finale, per incassare meno entrate fiscali dell’anno precedente. In altro momento commenteremo il senso di questa politica economica, qui ci limitiamo ad osservare come la percezione del disastro sia abbastanza netta fra la gente.

Resta l’urlo della protesta attraverso il voto alle liste di Grillo che travolge ogni resistenza avviandosi di slancio ad una affermazione nazionale senza precedenti. Ed il segnale è chiaro: sin qui il M5s aveva avuto forti affermazioni solo in Piemonte ed Emilia e risultati consistenti in Veneto, Liguria e Toscana, ma non aveva avuto risultati significativi nel sud. Ora “sfonda” in Sicilia; per di più, in breve voteremo in Lombardia e Lazio, regioni sciolte per la valanga di scandali: tutta biada per Grillo ed i suoi, per cui non è difficile prevedere che anche in quelle regioni ci sarà una valanga di astenuti ed un balzo in avanti del M5s. Come dire che Grillo arriverà alle politiche con il vento in poppa, dopo una raffica di successi e, se sino a settembre si poteva pensare ad una affermazione contenuta fra il 10 ed il 14%, ora diventa realistico pensare che possa sfondare il 20 e sfiorare il 25%.

E questo sarebbe il prodotto dell’azione concomitante del trend ascendente del movimento e della valanga astensionista: se Grillo prende 5 milioni di voti (che, in condizioni normali, con una partecipazione intorno all’80%, equivarrebbero ad un 14% circa), ma i votanti scendono a 21 milioni (il 47% del totale), la percentuale è del 23,80%.

Grillo ci ha dimostrato di sapere ben interpretare il disagio diffuso e la rabbia della gente (ne prendano diligente nota Vendola, Diliberto e Ferrero che rischiano seriamente di essere spazzati via), ma non ci ha ancora dimostrato di saper produrre risultati politici in positivo ( e se ne possono avere anche stando all’opposizione). Ragione di più, per la sinistra di guardare con interesse a questo fenomeno, cercando di sinergizzarsi con esso. Il M5s può contribuire a ridare slancio vitale ad una sinistra avvizzita e spenta, ma questa (se riesce a scavare criticamente nella sua esperienza storica) può aiutare il movimento ad irrobustire il suo –per ora gracile- profilo programmatico.

Se le tendenze dovessero restare queste (e dando per scontato, a questo punto, che il sistema elettorale resti il Porcellum) la cosa più probabile è che  il Pd vinca alla Camera aggiudicandosi il 54% dei seggi, ma potrebbe non vincere al Senato, il che riaprirebbe la porta ad un orrido governo Monti bis, oppure si potrebbe tentare una intesa con il M5s su alcuni punti qualificanti (e in questo senso sembra andare Crocetta nelle sue prime dichiarazioni).

In effetti, le formazioni di destra si stanno squagliando: la Lega è ormai un residuato bellico, il Pdl sta annegando negli scandali, l’Udc è archeologia democristiana che non interessa più nessuno e, soprattutto, Berlusconi, che è stato per 20 anni il perno di questa destra, non ha più nessuna credibilità. Le sue disperate giravolte (“Mi candido”, “No, ci penso”, “Ma forse mi candido”, “No: mi ritiro definitivamente”, “Vado in Kenia”, “faccio cadere Monti”, “Sono costretto a restare in scena…”) non fanno che bruciare quell’estremo residuo di prestigio che aveva. L’uomo è finito ed, anche se non vuole ammetterlo, lo sa anche lui. E le sentenze di condanna ora fioccheranno. A proposito, un inciso: pur ritenendo fondata la motivazione della condanna di Berlusconi, mi ha lasciato perplesso l’espressione usata dal giudice “naturalmente portato a delinquere” che si richiama agli artt. 108 e 109 dei quali, in altri anni, chiedevamo l’abrogazione, in quanto espressioni della cultura giuridica fascista propria di Alfredo Rocco e di derivazione lombrosiana. Anche se non ho un’idea positiva del Cavaliere, resto convinto dell’opportunità di espungere dal codice quell’orrore fascista e, pertanto, non posso approvarne l’uso in ogni caso. Per di più, credo che si tratti di una frase inutile, che non aggiunge nulla alla sostanza della vicenda penale e si presti ottimamente alle campagne vittimistiche berlusconiane. Nel complesso un errore, ma ci risiamo con la pretesa dei magistrati di giudicare in interiora hominem.

Tornando all’asse principale del discorso, se le espressioni politiche che la destra ha usato in questi anni sono in aperta liquidazione, questo non significa che la destra non esista più e non ci sia il potenziale per una sua ripresa. C’è una massa di elettori di destra calcolabile intorno agli 8 milioni di voti che si sta astenendo (non ci vuol molto a capire che è quello il principale flusso anche alimenta l’area del non voto) perché non trova uno sbocco decente, ma che potrebbe nuovamente coagularsi ed in breve, intorno a qualcosa di nuovo se ci fosse qualcosa di credibile. Per ora non si vede nulla del genere all’orizzonte, per lo meno in termini elettorali, ma le sorprese sono sempre possibili. Dunque, non vendiamo la pelle dell’orso prima di averlo ucciso.

Aldo Giannuli

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Elezioni in Sicilia: l'analisi di destra

L'astensionismo e il BOOM di Grillo sono due facce della stessa medaglia. Pensiamo a quanta gente non sarebbe andata a votare in più se non ci fosse stata l'offerta del MoVimento 5 Stelle, visto che ha votato meno della metà degli aventi diritto e visto che il MoVimento 5 Stelle con il suo candidato è vicino al 20% vuol dire che l'astensionismo sarebbe aumentato di un ulteriore 10%, ossia quasi due siciliani su 3 sarebbero rimasti a casa. Primo dato quindi: il M5S non fomenta l'antipolitica, ma anzi salva la politica dall'antipolitica, offrendo una proposta alternativa. Avvicina la gente alla politica anzichè allontanarla. La seconda questione, oltre al fatto che il M5S è il primo partito, riguarda i numeri dei partiti che hanno comandato in Sicilia in questi ultimi anni. Sono in via di estinzione. Vedo un pdl al 12% quando soltanto 11 anni fa maramaldeggiava in Sicilia alle politiche nazionali con il famoso 61 - 0. Vedo chi avrebbe dovuto aproffittare di questo malgoverno, cioè il pd, poco sopra il 12% del pdl. Vedo l'udc, che ha espresso gli ultimi due governatori entrambi forzatamente dimissionari per questioni giudiziarie, languire intorno al 10%. La Sicilia è particolarmente significativa è uno dei due grandi serbatoi di voti, assieme alla Lombardia, con i quali poi si vincono le elezioni politiche nazionali. E' una regione molto particolare, una delle meno favorevoli al M5S. Il fatto che il M5S sia il primo partito in una regione così poco abituata all'uso di internet è ovviamente ancora più significativo. Mi pare di poter dire che se il M5S prende il 18% con il suo candidato e il 15% con la sua lista in una regione come la Sicilia, allora è abbondantemente sopra il 20% nelle regioni del Centro Nord. Su questo non avrei dubbi." Marco Travaglio

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L’Iran, la sua politica estera e il programma nucleare

Il costante allarmismo per una possibile azione militare israeliana, contro gli impianti nucleari iraniani, ha caratterizzato il dibattito mediatico nei mesi appena trascorsi. In realtà sono fermamente convinto che così come oggi non è imminente un’azione militare contro Teheran, non lo sarà nemmeno nei prossimi mesi. La complessità della situazione richiederebbe un’analisi approfondita, su questioni specifiche come la politica estera iraniana (effettivo contesto all’interno del quale deve essere considerato e commisurato il programma nucleare iraniano), le caratteristiche specifiche di tale programma nucleare, nonché le strategie di contenimento attuate da Stati Uniti e Israele e le conseguenze che un Iran dotato delle tecnologia nucleare miliare causerebbe sulla scena politica internazionale. Per motivi di spazio suddivideremo questa analisi in più articoli. Oggi ci limiteremo a trattare alcuni aspetti fondamentali della politica estera iraniana, doverosa premessa ad ogni futura considerazione.

Considerazioni sulla Politica Estera Iraniana

Da circa un decennio è in corso un rinnovato tentativo, da parte della teocrazia iraniana, di porsi come principale attore politico regionale. Un obbiettivo perseguito tramite una politica estera a tratti aggressiva, volta all’espansione delle proprie sfere di influenza.

In un’analisi oggettiva della situazione, non può non essere sottolineato come i vertici del regime iraniano abbiano percepito il proprio stato come costretto in una condizione di accerchiamento, contrastato da attori ostili e obbligato alla reazione di fronte a sfide non eludibili. Il regime iraniano ha quindi caratterizzato la sua azione sul piano diplomatico come diretta conseguenza di questa percezione. I fattori che hanno contribuito a determinare questa situazione sono stati diversi e differenziati. La crescente presenza militare statunitense nella regione, unitamente ad una politica estera permeata da una percezione unipolare e incentrata quasi esclusivamente sulla logica di potenza.

La volontà del governo turco di Erdogan di divenire il nuovo attore strategico principale nell’area del Mediterraneo. La crescente influenza del Pakistan, nuova potenza nucleare. La necessità del governo iraniano di porsi come valido interlocutore in un confronto con la potenza cinese, diplomaticamente attiva nella regione e partner commerciale di primaria importanza. Nonché la costante competizione con gli stati sunniti della penisola arabica, percepiti come potenziale minaccia sia per l’accesso al Golfo Persico, sia per la gestione delle fonti energetiche in chiave regionale e nei mercati globali.

Questa percezione ha trovato un naturale innesto su alcuni tratti culturali caratteristici e su aspettative storicamente consolidate interne al regime iraniano. Queste minacce esterne sono divenute un valido sostegno per gli uomini più intransigenti presenti ai vertici del regime teocratico di Teheran, i quali per un decennio hanno potuto dettare le linee di una politica estera aggressiva e volta al contrasto, anche violento, delle minacce, riducendo in minoranza le voci contrarie interne al regime.

Il programma nucleare iraniano è un fattore di importanza primaria nella politica estera iraniana, derivante e direttamente legato sia alla percezione delle minacce esterne, sia a questa conduzione della politica estera da parte dell’ala più radicale del regime teocratico.

Oltre ai rapporti internazionali di politica estera consolidatisi nello scorso decennio, l’Iran si è trovato di fronte a due sfide regionali nei confronti delle quali non avrebbe potuto rinunciare ad agire, ovvero: l’invasione e la successiva guerra civile irachena e la crisi afghana.  Entrambe queste crisi, ancora oggi non completamente risolte, hanno aperto scenari all’interno dei quali un’eventuale assenza di attori iraniani, o filo iraniani, avrebbe relegato Teheran ad un mero ruolo marginale nella regione. In particolar modo con il venir meno del regime iracheno,  naturale contrappeso politico all’espansionismo iraniano, le potenze occidentali non hanno saputo contrastare efficacemente l’azione iraniana, facilitando Teheran nella sua ascesa ad attore regionale di rango primario.

L’ Iran ha supportato alcuni gruppi sciiti durante la lunga guerra civile irachena, contribuendo in maniera sostanziale alla destabilizzazione del paese. Ancora oggi nel sud Iraq la teocrazia iraniana è in condizione di poter manipolare l’economia gestendo il mercato nero e i relativi flussi di merci e denaro dalle zone confinanti dell’Iran. Inoltre ogni qual volta i rapporti di potere all’interno del parlamento e del governo iracheno variano e si scontrano apertamente con gli interessi iraniani, questi ultimi intervengono impartendo precise direttive alle milizie armate sciite irachene. Un’attività simile è stata posta in essere anche in Afghanistan, dove Teheran non ha rinunciato ad influenzare la politica interna dello stato, ottenendo però risultati minori.

Sia in Iraq che in Afghanistan, Teheran è intervenuta sostenendo attori non statuali. Un caso simile ma che ha portato a risultati ben più consolidati riguarda Hezbollah in Libano. In questo paese gli iraniani oltre ad aver avuto modo di creare e gestire un proprio fronte militarizzato contro lo stato di Israele, hanno sostenuto economicamente la creazione di uno stato nello stato all’interno del sud del Libano, con scuole, infrastrutture indipendenti e garantendo servizi sociali. Fornendo anche un supporto militare diretto durante la guerra fra Israele e Hezbollah nel 2006. Ciò si è reso possibile grazie alla compiacenza di un altro alleato regionale, lo stato siriano di Assad, il quale ha concesso per anni libertà di movimento al costante flusso di aiuti e rifornimenti iraniani indirizzati nella valle libanese della Bekaa. Oggi è lo stesso Assad a ricevere aiuti da Teheran, nel tentativo disperato di mantenere il controllo dello stesso stato siriano.

Un altro attore non statuale con cui Teheran ha intrattenuto importanti rapporti è Hamas. Nella striscia di Gaza l’Iran ha, per alcuni anni, trovato un valido alleato, spingendosi al punto da plasmare una stranissima alleanza fra forze sciite e sunnite. Il tentativo è stato quello di riproporre il modello di organizzazione e supporto attuato con Hezbollah nel sud del Libano. Ma questa strategia, ha portato Teheran dal tentativo di divenire nuovo protettore e garante della causa palestinese ad un fallimento non indifferente. L’ alleanza sembrerebbe essere venuta definitivamente meno proprio in questi ultime settimane, con l’abbandono della Siria da parte dei vertici in esilio di Hamas, i quali in un primo momento non hanno risparmiato critiche nei confronti dell’ex protettore Assad e successivamente si sono rivolti ai loro vecchi alleati sunniti del Qatar.

Questi ultimi si sono dimostrati ben interessati a tornare a ricoprire il ruolo di protettori di Hamas. La visita a Gaza dell’ Emiro del Qatar al-Thani, avvenuta nelle scorse ore rappresenta una primo significativo fallimento della politica estera iraniana nella regione. Fallimento che si rifletterà inevitabilmente sulle tensioni diplomatiche che contrappongono la diplomazia di Teheran e gli stati sunniti della penisola arabica, per il controllo di alcune isole del Golfo Persico composte in maggioranza da popolazione sciita e potenzialmente destabilizzanti per i regimi sunniti che tentanto di mantenerle sotto il proprio controllo politico.

Un altro importante insuccesso della politica iraniana è giunto con le rivolte sociali dello scorso anno, che hanno caratterizzato la cosiddetta “Primavera Araba ”, dando  luogo ad una serie di cambiamenti politici senza precedenti in diversi stati arabi. Durante queste rivolte nessuno ha guardato a Teheran e alla Rivoluzione Iraniana, ne come esempio, ne come modello da perseguire. Differentemente lo sguardo dei manifestanti e le richieste di aiuto sono sempre state costantemente rivolte ad occidente.

Vi è poi l’incognita legata alla possibile destabilizzazione del vicino regime siriano. Anche senza un eventuale caduta del regime di Bashar al Assad, Teheran potrebbe vedere la Siria sprofondare in un aspro confronto armato fra fazioni interne. Con un eventuale intervento anche solo indiretto di attori esterni come la Turchia e le milizie libanesi,  lo stesso stato iraniano potrebbe venir costretto in un confronto lungo e logorante, con un inevitabile dispendio di risorse. Differentemente qualora il regime di Assad dovesse cadere, Teheran potrebbe perdere la principale via di supporto e rifornimento a Hezbollah in Libano. Conseguentemente la sua capacità di influenza nella vita politica interna di questo paese potrebbe venir drasticamente ridotta.

In via definitiva la politica estera iraniana è stata chiaramente espansiva e aggressiva, durante lo scorso decennio, aspetto che ha turbato i governi di diversi stati fra cui, oltre a Israele e gli Stati Uniti, i regimi sunniti del Golfo Persico, la Turchia e lo stesso Egitto. Nonostante ciò la diplomazia iraniana  ha anche dovuto affrontare significative battute di arresto. Questi fallimenti sono risultati maggiormente accentuati ogni qual volta a Teheran è mancata la capacità di incidere con la forza e con la logica di potenza all’interno degli scenari politici.

In quest’ottica il programma nucleare iraniano assume un ruolo particolare e significativo, divenendo uno strumento fondamentale dell’agire politico iraniano sul piano internazionale.

di Lorenzo Adorni, 26 ottobre 2012

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29/10/2012

Il problema non è il debito pubblico. Ecco perché.


Internet è uno strumento fantastico. Consente di accedere a molte fonti ufficiali di informazione, senza sorbirsi le mediazioni e le distorsioni del cosiddetto mainstream. Le fonti ufficiali sono costituite, per esempio, dalle analisi, i grafici e le statistiche costruite dagli uffici di enti ed istituzioni quali l'Istat, la Corte dei Conti, le Camere, e così via. Prima di internet, queste fonti erano raggiungibili quasi esclusivamente dagli operatori del mainstream. E quando raccontavano balle, i cittadini non avevano molti mezzi per accorgersene. E' anche per questo che cercano in ogni modo di mettere il bavaglio ai blog indipendenti. Perché grazie ai dati ufficiali possiamo svelare l'enormità delle balle che ci propinano: ovvero che per uscire dalla crisi dobbiamo “fare sacrifici”, diminuire il debito pubblico e realizzare “riforme” simili a quelle della “virtuosa” Germania.

Ho affrontato questo tema nella mia recente video-intervista a byoblu, che ha suscitato un ampio e vivace dibattito, sia sul blog che su youtube. Il che mi ha dato l'opportunità di offrire alcuni chiarimenti ed una precisazione su quanto avevo affermato nel video, circa il fatto cioè che la maggior competitività della Germania rispetto ai PIIGS, tra cui l'Italia, si basa principalmente sulla capacità del governo tedesco di tenere bassa l'inflazione contenendo i salari e comprimendo i diritti dei lavoratori.

Ora, alla documentazione che ho già fornito, costituita prevalentemente da analisi ed interventi di esperti economisti, aggiungiamo i dati ufficiali della Commissione Europea sull'evoluzione della competitività in diversi Paesi dell'eurozona nel periodo successivo all'introduzione della moneta unica. Possiamo così mettere a fuoco i motivi per i quali, dal 2000 in poi, la Germania ha visto aumentare la propria competitività rispetto ai PIIGS, i quali, non potendo svalutare la propria moneta rispetto a quella tedesca, appaiono incapaci di recuperare le quote di mercato perdute e si avvitano sempre più nella crisi. I dati raccolti dalla Commissione Europea si trovano scorrendo la documentazione parlamentare relativa alle modifiche al modello di Documento di Economia e Finanza (DEF) introdotte nel 2011, dove leggiamo che in esso, cioè nel DEF, deve essere contenuto il Piano Nazionale di Riforme (PNR).

Il PNR, che costituisce la più rilevante novità del DEF, è un documento strategico che definisce gli interventi da adottare per il raggiungimento degli obiettivi nazionali di crescita, produttività, occupazione e sostenibilità delineati dalla cosiddetta “Strategia Europa 2020”. Tra le altre cose, il PNR indica gli squilibri macroeconomici nazionali e i fattori di natura macroeconomica che incidono sulla competitività dei diversi Stati. E' un documento che viene redatto in strettissima collaborazione con le istituzione europee, seguendo il calendario del cosiddetto “Semestre europeo”.

L’indicatore utilizzato per verificare le evoluzioni della competitività è il tasso di cambio effettivo reale, che può essere costruito sulla base di vari indicatori diversi. Il tasso di cambio reale si determina ponderando l’andamento degli indicatori di prezzo (o di costo) che si decide di considerare, con le variazioni del tasso di cambio. Si ha perdita di competitività quando un aumento dei prezzi interni rispetto alla media dei prezzi internazionali non è compensato da una svalutazione del cambio di pari ammontare (cioè, in sostanza: perdiamo competitività quando i nostri prezzi aumentano più di quanto aumentino negli altri Paesi, perché chi acquista dall'estero inizierà a trovare vantaggioso comprare da altri Paesi esportatori, che sono ovviamente quelli dove i prezzi sono cresciuti di meno. Naturalmente ciò accade perché non possiamo svalutare la moneta nazionale, se potessimo farlo, i potenziali acquirenti esteri potrebbero continuare a trovare vantaggioso comprare da noi).

Il PNR propone quattro misurazione del cambio reale, basate sull’utilizzo dei seguenti indici (Non spaventatevi, sotto ai relativi grafici trovate la spiegazione delle varie sigle):
  1. L’indice IPCA dei prezzi al consumo;
  2. Il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP);
  3. Il deflatore del PIL;
  4. L'indice dei prezzi alle esportazioni.
Queste rilevazioni sono di particolare importanza per noi perché riguardano proprio il periodo che ci interessa, dacché misurano le variazioni degli indici dall'anno 2000 in poi. In pratica, per i Paesi presi in considerazione, si prende il valore che l'indice considerato aveva nell'anno 1999 e lo si pone uguale a 100. Poi si misurano le variazioni negli anni successivi. Il risultato sono i grafici che seguono, i quali mostrano gli andamenti relativi agli indici di Germania, Francia, Italia, Spagna e alla media dell'area-euro, indicata con AE. Ecco quindi i dati di cui abbiamo bisogno per capire perché la Germania aumenta la sua competitività a discapito dei PIIGS e per comprendere, quindi, molte delle ragioni di fondo della crisi attuale. Vediamoli:

Figura 1Tasso di cambio reale basato su indice IPCA. Da wiki: questo indice è stato sviluppato per assicurare una misura dell'inflazione che fosse comparabile a livello europeo; l'indice, riferito alla stessa popolazione ed allo stesso territorio dell'indice dei prezzi al consumo per l'intera collettività, è però calcolato in relazione ad un paniere di beni e servizi costruito tenendo conto sia delle particolarità di ogni paese sia di regole comuni per la ponderazione dei beni che compongono tale paniere.
Ricordiamo che un aumento dell'indice rappresenta una perdita di competitività.

Figura 1


Figura 2 – Tasso di cambio reale basato sul costo del lavoro per unità di prodotto. Dal blog di Alberto Bagnai: Il CLUP è il costo del lavoro per unità di prodotto, ed è dato dal rapporto di due rapporti: (redditi da lavoro dipendente/occupati dipendenti)/(valore aggiunto totale/occupati totali). Si tratta, cioè, del rapporto fra redditi unitari da lavoro dipendente (il costo del lavoro per addetto), e produttività media del lavoro (il prodotto per addetto).
Ricordiamo che un aumento dell'indice rappresenta una perdita di competitività.

Figura 2


Figura 3 – Tasso di cambio reale basato sul deflatore del PIL. Il deflatore del PIL è il numero indice che esprime il rapporto tra PIL nominale (cioè il PIL calcolato a prezzi correnti) PIL reale (cioè il PIL calcolato a “prezzi costanti”, depurandolo dall'inflazione). Più il valore del deflatore è alto, più la crescita del PIL indica meramente un aumento dei prezzi invece che un aumento reale del volume degli scambi.
Ricordiamo che un aumento dell'indice rappresenta una perdita di competitività.

Figura 3


Figura 4 – Tasso di cambio reale basato sui prezzi alle esportazioni. Ricordiamo che un aumento dell'indice rappresenta una perdita di competitività.

Figura 4

Tutte queste rilevazioni indicano una perdita di competitività da parte dell'Italia rispetto alla nazione tedesca, ma essa appare più accentuata nei grafici relativi al CLUP e i prezzi alle esportazioni, tanto che il documento dal quale abbiamo estratto i grafici riporta: “La perdita di competitività risulta più pronunciata se si considera il tasso di cambio basato sul clup o sui prezzi delle esportazioni. Tali indicatori evidenziano come l’Italia subisca un’erosione della competitività sui mercati internazionali da ormai un decennio: nella misura utilizzata dal PNR (tasso di cambio effettivo ponderato in base al CLUP), questa perdita di competitività raggiunge circa il 15% [Secondo l’analisi del PNR, nel 2010 si è registrato un incremento del clup rispetto al valore dei tre anni precedenti del 9,1%.]

Dunque anche i dati ufficiali confermano che il problema principale dell'eurozona risiede nel differenziale di inflazione fra i Paesi membri, che sembra determinato, prevalentemente, dal diverso andamento del costo del lavoro per unità di prodotto, il quale ha determinato un significativo aumento dei prezzi alle esportazioni in Paesi come l'Italia e la Spagna, rispetto a Francia e Germania. Ecco perché la crisi colpisce così duramente la Spagna. Perché il vero problema è la perdita di competitività, non certo il debito pubblico. La nazione iberica, infatti, negli anni precedenti alla crisi, presentava un rapporto fra debito/PIL assolutamente basso: 36,2% nel 2007, 39,8% nel 2008.  Ed ecco perché vogliono imporre anche in Italia i licenziamenti facili, le deroghe alle tutele sancite dai Contratti Nazionali di Lavoro, la precarietà a vita: perché tutto questo, azzerando il potere contrattuale dei lavoratori e costringendo gli italiani a lavorare di più guadagnando di meno, permette di abbassare il CLUP e alzare i profitti.

Immagino già l'obiezione del difensore dell'euro di turno: “E va bene, hai ragione, la Germania ha guadagnato competitività abbassando il CLUP contenendo i salari, ma noi possiamo raggiungere lo stesso risultato attraverso un'altra via! In Italia ci sono troppe tasse, abbassiamole! Giù il cuneo fiscale!” Purtroppo questa strada non può condurre fuori dalla crisi. Perché?

Abbiamo visto che il problema dell'eurozona è il differenziale di inflazione e competitività che i PIIGS scontano rispetto alla Germania. Dunque, per considerare che l'abbassamento del cuneo fiscale rappresenti una strada efficace per l'uscita dalla crisi dovrebbero essere vere due premesse:
  1. l'andamento del valore del cuneo fiscale nel periodo successivo all'introduzione della moneta unica dovrebbe aver avuto un ruolo importante nel determinare l'aumento di competitività della Germania;
  2. dovrebbe esistere un buon “margine di manovra” per l'Italia rispetto alla nazione tedesca, cioè le tasse sul lavoro in Italia dovrebbero essere significativamente più alte che in Germania.
Anche in questo caso, è sufficiente dare uno sguardo ai dati ufficiali della Commissione Europea per capire la situazione, e per rendersi conto che nessuna delle due premesse è verificata. In effetti, in Italia, il cuneo fiscale presenta un valore abbastanza elevato, ma fra i pochi Paesi che vantano una tassazione sul lavoro ancora maggiore vi è proprio la Germania! E se guardiamo agli andamenti dei valori nel periodo compreso fra il 2000 e il 2008 vediamo che le variazioni sono ben poco consistenti. L'Italia oscilla tra il 41,6% e il 43,5%, la Germania fra il 46,6% e il 47,9%:

Tabella 1
[Dati estratti dal documento “Tax wedge on labour cost” pubblicato sul sito Eurostat, scaricabile qui]

Adesso spero sia più chiaro per tutti il modo in cui la "virtuosa" Germania ha costruito i suoi successi. Ora, se vogliamo restare nella gabbia dell'euro, tocca a noi fare le stesse “riforme”, proseguendo lo scempio iniziato dalla Fornero. Oppure possiamo forzare le sbarre, ed uscire.

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Buona la prima

A Roma, 50 mila persone in piazza per contestare Monti e le sue politiche. Molte vertenze sociali in un corteo tranquillo che gli studenti scuotono bloccando la tangenziale e poi tutta la città. Prossima tappa lo sciopero sociale europeo del 14 novembre.

E' appena terminata la manifestazione del No Monti Day a Piazza San Giovanni, gli studenti sono ancora in corteo selvaggio sulla Tangenziale Est di Roma. Alcune prime considerazioni sorgono spontanee su questa che è stata la prima giornata dell'autunno che ha visto in piazza l'opposizione politica e sociale al governo Monti.

Considerata l'assenza di un movimento sociale forte la manifestazione nei numeri è andata bene. Circa 50 mila persone (per dare numeri realistici) hanno sfilato in corteo per le strade di Roma. Una manifestazione eterogenea che ha visto la partecipazione di lavoratori in lotta (Ilva, Alcoa), di studenti medi e universitari, degli insegnanti in mobilitazione contro l'aumento dell'orario lavorativo e contro il ddl Aprea, di delegazioni del movimento No Tav e per l'acqua pubblica. Tante anche le lotte ambientali presenti. Questo è senz'altro l'aspetto maggiormente positivo del corteo, la presenza di tante lotte e vertenze sociali che ogni giorno si battono contro la crisi e contro questo governo, con lo sguardo sempre attento anche alle mobilitazioni europee.

Poco in sintonia con il quadro europeo è sembrato invece l'arcipelago delle organizzazioni politiche e sindacali presenti nella manifestazione cui comunque va dato il merito di averla costruita. Avremmo però voluto vedere in testa al corteo le lotte della scuola che oggi appaiono come una speranza per tutto il paese. E invece abbiamo rivisto le solite organizzazioni con i soliti volti, rigorosamente maschi. Vecchi anche gli slogan ed il modo di stare in piazza di tante organizzazioni.
Sembra che ancora qui in Italia non si sia imparato molto dagli Indignados spagnoli e dal movimento americano di Occupy. Dal protagonismo diretto e dalla partecipazione di donne e uomini che hanno animato i più grandi movimenti degli ultimi anni.

Fortunatamente a dare un segnale diverso alla giornata del No Monti Day ci hanno pensato gli studenti e i precari che, partiti dalla Sapienza per poi congiungersi a Piazza della Repubblica con il corteo nazionale, non si sono accontentati di fermarsi a San Giovanni per il solito comizio. Hanno proseguito in migliaia in corteo selvaggio verso Porta Maggiore, hanno imboccato la rampa della Tangenziale Est fino allo svincolo della Roma-L'Aquila.
Roma è stata di nuovo bloccata.
Studenti e precari hanno sfilato dietro lo striscione “Piazze invase contro la Troika. E' l'Europa che ce lo chiede”. Un chiaro riferimento ai movimenti di Spagna, Grecia e Portogallo perché, di fronte all'Europa dell'austerity, della BCE e dei presunti governi tecnici, solo una dimensione europea e autorganizzata dei movimenti potrà realmente opporsi alla crisi ed individuarne una via d'uscita radicalmente alternativa.

Le scuole e le università in piazza oggi hanno espresso ancora una volta la volontà di costruire una dinamica di mobilitazione ampia e radicale anche in Italia. Non una sommatoria di tante piccole forze residuali ma una moltiplicazione di forze nuove, giovani e incazzate, distanti anni luce dai vecchi schemi della sinistra e dalle sue lotte intestine.
Questo protagonismo dei giovani e dei precari si è visto anche oggi in piazza e su questo bisognerà puntare. Verso lo sciopero sociale europeo del 14 e la giornata di mobilitazione del 16 novembre.

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Frankenstorm, la tempesta perfetta su chi se ne frega

Gli americani hanno la passione per le catastrofi, si capisce da Hollywood. Le creano e ritornano loro addosso, ma non si chiedono perché accada. E infatti Obama e Romney non hanno trovato tempo di parlarne in campagna elettorale.

Questo report dell'Ansa è informativo e ironico quanto basta per restituirci un affresco vivido del pasticcio culturale che blocca ogni possibilità di contrastare gli affetti delle proprie scelte industriali.

Ci voleva l'uragano Sandy per rilanciare nella campagna elettorale americana l'argomento dei cambiamenti climatici: «Sono rimasto sorpreso che non se ne sia parlato nei duelli (tv con Mitt Romaney), anche perché su questo tema non ci siamo mossi con la velocità dovuta», ha ammesso il presidente Barack Obama.
Ma Sandy ora punta verso gli Usa e fa così paura che èŠ stato soprannominato "Frankenstorm", per la sua "mostruosa" potenza distruttiva e perché, guarda caso alla vigilia di Halloween, rischia di diventare un "assemblaggi" di due vortici diversi, uno tropicale e uno artico. Insomma, una "tempesta perfetta". E così, nelle domande degli ascoltatori di Mtv, rivolte oggi in diretta tv al presidente americano, la questione è stata sollevata più volte.
Obama ha ribadito di credere «a quegli scienziati secondo cui stiamo emettendo troppe emissioni di anidride carbonica nell'atmosfera e che tutto questo sta danneggiando il pianeta». I media americani continuano intanto a dare aggiornamenti sulle devastazioni lasciate da Sandy dietro di sé‚ nei Caraibi - decine di morti e danni pesantissimi - e sulla sua direzione e velocità….
Al tempo stesso, molti giornali hanno notato che, ironia della sorte, i cambiamenti climatici sono di fatto un tema rimasto fuori dalla campagna elettorale, ma ora l'uragano potrebbe anche influenzare le elezioni. Sandy, o meglio Frankenstorm, potrebbe in effetti abbattersi sugli stati in bilico della East Coast, dove i due candidati sono impegnati a recuperare i voti degli ultimi indecisi.
Romney, ha già cancellato un comizio previsto domenica in Virginia. E Obama potrebbe dover cambiare la sua agenda: come responsabile della sicurezza nazionale, rischia di dover tornare alla Casa Bianca per dirigere i soccorsi. E la minaccia incombe anche sullo stato di New York, per il quale il governatore Andrew Cuomo ha dichiarato in serata lo stato di allerta, mentre il sindaco della Grande Mela, Michael Bloomberg, ha avvertito i concittadini che la tempesta dovrebbe cominciare a farsi sentire sulla città… da domenica sera.
Intanto, la stampa nota con sarcasmo che, anche dopo un ennesimo anno di temperature record, siccità… e scioglimento dei ghiacci artici, né Obama né Romney hanno mai citato il surriscaldamento della terra nei dibattiti-sfida in tv. In questo modo «hanno fatto la storia», scrive ironico in un blog sull'Huffington Post l'ambientalista Tim Profeta. È infatti la prima volta dal 1988 che l'effetto serra non viene citato e discusso in un dibattito presidenziale. E il New York Times si domanda come mai nessuno dei due candidati abbia sentito l'urgenza di rispondere a domande fondamentali quali: devono gli Stati Uniti tagliare le emissioni di gas responsabili dell'effetto serra? Dovrebbe l'energia pulita essere sovvenzionata? Dovrebbe il Paese investire pi— dollari nella ricerca per l'energia pulita?
Lo stesso giornale si risponde che in realtà «la lista delle ragioni (di questo silenzio) è Š lunga». E ne cita alcune, come la necessaria trasformazione del sistema americano di produzione e consumo dell'energia, che almeno a medio termine causerebbe un aumento dei prezzi. Oltre al fatto che i due modi più— efficaci per ridurre l'inquinamento - tassarlo o regolarlo - sono di fatto un argomento "politicamente tossico", quando i problemi dell'economia sono al centro di tutto."Politico" a sua volta volta riferisce che molti ambientalisti hanno lanciato l'allarme. «Considerato che i cambiamenti climatici potrebbero essere la sfida maggiore a cui dovremmo far fronte nei prossimi decenni, il silenzio è‚ un vero disservizio per il Paese», ha scritto Michael Mann, ricercatore di meteorologia della Penn State University.
È stato creato anche un sito web, "climatesilence.org". Tra l'altro vi si può leggere che «l'incapacità» di Obama e Romney «di collegare i punti e fare un pò di matematica mette a rischio la Nazione e impedisce lo sviluppo di un piano nazionale e globale per rispondere alla sfida più urgente della nostra epoca».

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28/10/2012

Caro amico "anticasta", ti spiego perché l'editoria non può essere abbandonata al mercato dopo essere stata sequestrata dai partiti

Un testo dedicato agli amici che difendono strenuamente tanti "beni comuni", ma pensano che la stampa non sia un bene comune e vada abbandonata alle leggi di mercato tagliando ogni forma di aiuto pubblico. Il vero nemico sono le concentrazioni, non il sostegno pubblico alla cultura.
 
Appoggereste un movimento che vuole privatizzare i beni comuni? No, vero? Abbiamo lottato strenuamente per difendere dalle privatizzazioni e dalle speculazioni l'acqua pubblica, la scuola pubblica, la sanità pubblica e alcune reti di trasporto pubblico. Nei paesi dove la salute e l'istruzione sono diventati beni di consumo abbiamo una popolazione più malata e più ignorante, e i trasporti privatizzati sono più cari e meno capillari, come sa bene chiunque possa confrontare il servizio offerto dalle vecchie "Ferrovie dello Stato" (capace di raggiungere anche i borghi più sperduti), con quello attualmente offerto da "Trenitalia SpA", che taglia i rami secchi e favorise l'alta velocità, le tratte ad alta percorrenza e i prezzi altissimi, rottamando a colpi di "Frecce" i vecchi treni interregionali, intercity, espressi e i "notturni" che hanno aiutato tantissimi emigrati del sud a passare il natale e la pasqua con le loro famiglie.

Ma c'è un bene comune che "il popolo dei referendum" non sembra intenzionato a difendere: l'editoria, che qualcuno vorrebbe abbandonare alle spietate leggi di mercato. E quando si dice "editoria" si parla di un contenitore che racchiude tantissimi altri beni comuni: la cultura, il pluralismo, la difesa delle minoranze, l'esercizio della libera espressione, la difesa delle voci più deboli, l'autodifesa dei cittadini dai monopoli dei grandi cartelli editoriali che condizionano la vita, l'economia e la politica del paese.

Un settore molto delicato, che è commercio e servizio pubblico al tempo stesso, luogo di profitto mercantile e luogo di nutrimento dell'anima, sfera pubblica e proprietà privata. E allora proviamo a ragionarci un pò sopra per capire come funziona questo settore.

Partiamo dai dati: gli Stati Uniti hanno più di 46 milioni di cittadini che vivono sotto la soglia di povertà, praticamente uno su sette, un record mai raggiunto finora, e secondo le recenti segnalazioni del "Guardian" sembra che le stime più recenti dell'US Census Bureau portino questo valore a 49 milioni. Alla faccia di chi pensa che il mercato si regoli da solo portando benessere per tutti.

La favola della "mano invisibile del mercato" che autoregola l'economia offrendo a tutti le stesse opportunità si è rivelata in molte occasioni per quello che è: un imbroglio bello e buono, ed è per questo che con la nostra cultura del "bene comune" ci vengono i brividi ad immaginare una società dove non ci sono servizi pubblici di pronto soccorso e la salute è completamente in mano alle leggi della domanda e dell'offerta.

Ma c'è qualcuno che ancora si ostina a credere alla stessa teoria riproposta in modo diverso: "lasciate i giornali sul mercato senza che lo stato ci metta un centesimo, che vinca il migliore e alla fine prevarranno i giornali più onesti, trasparenti e coraggiosi". Sarà vero?

Per capire se il "mercato libero" e senza intervento statale può essere il contesto migliore per favorire il pluralismo non c'è bisogno della sfera di cristallo con cui guardare il futuro, bastano un pò di informazioni e un pò di memoria per leggere il passato. Il grafico qui sotto spiega quello che è accaduto negli ultimi anni nella "Land of the free", la terra a stelle e strisce degli uomini liberi, dove i grandi colossi mediatici hanno vissuto un processo di drastica concentrazione che nel giro di pochi anni ha ridotto del 90% il numero delle aziende che controllano la gran parte del mercato.

La concentrazione mediatica negli Usa

Nel 1983, 50 grandi "corporation" controllavano la grande maggioranza di tutti i mass media negli Stati Uniti. In quell'anno, il saggista Ben Bagdikian fu bollato come "allarmista" per aver descritto questo fenomeno nel suo libro "The Media Monopoly". Nella quarta edizione del libro, pubblicata nel 1992, Bagdikian ha previsto che questo numero sarebbe sceso fino ad una mezza dozzina di compagnie, e anche questa previsione fu accolta con scetticismo. Nel 2000, quando è stata pubblicata la sesta edizione del libro, il numero dei "grandi attori mediatici" negli USA era sceso effettivamente a sei.

Nel 2004 Bagdikian dà alle stampe "The New Media Monopoly", una edizione rivisitata ed espansa del suo best-seller, e nello stesso anno le grandi "corporation" che controllano la maggior parte dell'industria statunitense dei media si contano sulle dita di una mano: Time Warner, Disney, Murdoch's News Corporation, Bertelsmann e Viacom.

Il settore di cui si parla non riguarda solo i libri e le pubblicazioni periodiche, ma è un enorme mercato che comprende quotidiani, riviste, stazioni radiofoniche e televisive, musica, film, video, servizi televisivi via cavo e agenzie fotografiche. Un enorme "moloch" che il libero mercato statunitense ha affidato alle decisioni di cinque consigli di amministrazione, che rispondono solo ai loro azionisti e non ai cittadini della "culla delle libertà".

Ciò nonostante quando si tratta di dire "basta dare soldi ai partiti per fare giornali faziosi", molti si fanno prendere la mano e dicono "basta dare soldi all'editoria, vogliamo la stessa stampa libera che c'è negli Stati Uniti dove chiunque può andare in edicola se fa un buon giornale".

Ma questo non è vero, perché a dispetto del sogno americano che può trasformare un qualunque lustrascarpe nel proprietario di una catena di giornali, per chiunque sia estraneo a questi giochi di potere ci sono delle barriere all'entrata e delle economie di scala che penalizzano gli "outsiders".

In altre parole, è molto più facile fondare una nuova testata per la News Corporation di Murdoch che per un qualunque altro imprenditore (barriere all'entrata), una piccola casa editrice tematica ha dei costi di produzione per ogni singola copia di gran lunga superiore a quelli di un colosso editoriale (costi marginali più alti), i libri degli editori indipendenti sono ignorati, mentre ogni nuova uscita di un grande gruppo editoriale può contare sulla promozione gratuita di tutte le altre testate del gruppo (sinergie di marketing).

Le cose scritte tra parentesi sono le vere "leggi di mercato", quelle che si studiano in università, e sono le stesse leggi che ci permettono di dire con un buon grado di certezza che ogni mercato editoriale completamente abbandonato dall'intervento correttivo del settore pubblico si trasforma in un oligopolio impermeabile all'ingresso di nuovi soggetti, dove si uccide il pluralismo e si produce una "cultura di plastica" che dà spazio solo alle voci più forti, affermando uno scenario dove anche i consumi "alternativi" di cultura sono comunque ristretti in un ventaglio di opzioni ben determinato.

Questo è quello che accade in un mercato come quello statunitense, dove si producono libri per centinaia di milioni di potenziali lettori, nella lingua che è la prima al mondo per diffusione e la terza per numero di madrelingua dopo il cinese e lo spagnolo, un mercato dove le potenzialità commerciali sono infinitamente più grandi di quelle che abbiamo nel nostro piccolo paese da sessanta milioni di abitanti con dieci milioni scarsi di lettori abituali e una media di lettura tra le più basse in Europa, con il 44% degli abitanti che legge tre libri all'anno o meno, e regioni come la Sicilia dove a detta dell'Istat il 20% delle famiglie non ha libri in casaRipeto: non ha libri in casa.

Facendo le debite proporzioni tra noi e gli Stati Uniti, possiamo capire che l'abbandono di un settore relativamente piccolo e assolutamente debole come quello della carta stampate alle regole di un mercato predatorio rischia di creare in Italia delle forme di concentrazione ancora più odiose e soffocanti di quelle che si sono sviluppate negli USA.

Il mercato editoriale italiano
E infatti osservando la situazione nostrana si può capire come il fenomeno della concentrazione mediatica (che è il vero male da combattere) sia giunto ad uno stato più che avanzato anche nel nostro paese, per nulla mitigato da un intervento statale mai orientato verso il pluralismo, e sempre espressione dei rapporti di forza tra partiti e lobbies. Ecco qui alcuni dati, pubblicati sul numero 3 della rivista Mamma! nell'inchiesta "A chi vanno i soldi che spendiamo in edicola?"

Quello dell'editoria italiana è un mercato da quasi 5 miliardi di euro (nell'articolo si parla di "4927 miliardi, ma in realtà all'epoca ci è saltata una virgola, ed erano 4,927 miliardi) dove cinque società per azioni controllano il 71% del settore: Rcs Editori Spa (21,3%), Gruppo Editoriale L'Espresso (18,6%), Mondadori (18,3%), "Il Sole 24 Ore Spa" (10%), Caltagirone Editore (4,9%).

Nell'articolo scrivevamo anche che "l'antidoto migliore a questa concentrazione di potere e di giornali" è "sapere a chi si danno i soldi quando si compra un giornale e premiare la piccola editoria indipendente non controllata dalle cinque sorelle della carta stampata".

Se leggendo tutto questo hai capito che l'editoria è un bene comune da difendere contro gli accaparramenti e le concentrazioni mediatiche così come abbiamo difeso l'acqua pubblica dagli accaparramenti delle multinazionali dell'acqua, allora ti invito a proseguire per passare dall'analisi della situazione alla sintesi di alcuni principi condivisi. Altrimenti, se sei ancora convinto che neppure un centesimo della spesa pubblica debba essere destinato a misure che tutelano le voci più deboli dell'editoria e della cultura, e pensi che la soluzione migliore per la stampa sia un mercato completamente deregolato senza alcun intervento pubblico realizzato a nome dei cittadini e nel loro interesse, puoi tranquillamente lasciar perdere le considerazioni che seguono.

Bene. Se stai leggendo ancora vuol dire che ritieni condivisibili in tutto o in parte le considerazioni sulle peculiarità del mercato editoriale, sulla specificità dell'editoria italiana e sull'importanza di un intervento pubblico che sia orientato dai cittadini, libero dai condizionamenti dei partiti e dei grandi editori. A partire da queste considerazioni di natura generale, provo a tracciare alcuni principi che partono da convinzioni personali:

1 - La cultura e l'informazione non possono essere totalmente abbandonate alla sfera del mercato, perché dove questo è avvenuto il risultato non è stato il moltiplicarsi delle voci e il fiorire dell'editoria libera, ma la concentrazione editoriale e la creazione di oligopoli e monopoli di fatto, che creano fortissime barriere all'entrata per i soggetti nuovi che hanno qualcosa di diverso da dire.

2 - La cultura e l'informazione vanno sottratte all'indebita ingerenza dei partiti e delle lobbies come Confindustria e la Cei, che hanno monopolizzato questo settore a proprio esclusivo beneficio utilizzando i fondi per l'informazione pubblica per finanziare le proprie campagne di propaganda privata.

3 - I  criteri di sostegno alle iniziative editoriali devono essere stabiliti dai cittadini con meccanismi aperti e trasparenti, e non dai partiti con meccanismi clientelari.

4 - I finanziamenti ai quattro più grandi gruppi editoriali italiani (che hanno le spalle abbastanza larghe per stare sul mercato da soli, soprattutto se alle spalle hanno il Vaticano, Confindustria o i Partiti Politici) vanno immediatamente azzerati per favorire il pluralismo.

5 - Il sostegno pubblico garantito dai cittadini alla cultura "fuori mercato" va indirizzato a beneficio delle tante iniziative di microeditoria, riviste locali, radio e tv comunitarie, librerie di quartiere e tante altre migliaia di piccole voci che sono la vera ricchezza culturale del paese, e che per le loro dimensioni non riuscirebbero a stare "sul mercato" raccogliendo abbastanza audience, pur rappresentando un indispensabile complemento all'editoria di massa, alle testate nazionali, ai network radiotelevisivi e alle grandi catene librarie.

6 - L'intervento pubblico a correzione delle distorsioni del mercato può trasformare quelli che fino a ieri erano finanziamenti a fondo perduto in un investimento capace di creare ricchezza nel paese, rendendoci più istruiti grazie ad un settore editoriale più pluralista, dove i giornalisti non sono abbandonati alle prepotenze dei grandi editori e possono avviare più facilmente nuove iniziative autonome, senza che debba intervenire un nuovo Principe Caracciolo a finanziare gli Scalfari del terzo millennio.

Se mi hai seguito fin qui, e concordi con questi principi, ecco una possibile proposta concreta: L'OPZIONE FISCALE.

L'opzione fiscale è uno strumento che toglie potere ai partiti e lo consegna ai cittadini, rendendoli liberi di scegliere come sara' spesa o come non si potra' spendere una parte delle loro tasse.

Chi pensa che si debbano azzerare i finanziamenti all'editoria lo farà per la sua quota parte segnalando le sue intenzioni nella propria dichiarazione dei redditi, chi invece pensa che si debba finanziare una determinata testata indicherà in un apposito spazio della dichiarazione dei redditi il codice fiscale dell'associazione, dell'azienda o dell'organizzazione che realizza una determinata iniziativa editoriale ritenuta degna di sostegno. In questo modo si ottiene l'effetto benefico di decentralizzare le risorse finora concentrate nelle mani dei partiti e di pochi avidi gruppi editoriali e al tempo stesso permettere ai cittadini di finanziare anche iniziative piccolissime qualora le ritengano meritevoli di sostegno, senza vincoli sulle copie vendute, sul bacino di utenza o su altri criteri puramente "numerici" e non indicativi del valore culturale di una iniziativa.

Il discorso dell'opzione fiscale potrebbe estendersi anche ad altri ambiti, e a quel punto ad ogni dichiarazione dei redditi potremmo conoscere quanti italiani vogliono finanziare le guerre all'estero, quanti vogliono finanziare la piccola editoria, e quanti vogliono invece uno stato che non faccia guerre nè cultura e preferiscono che i soldi siano destinati agli ospedali, alle carceri e ad altri tipi di iniziative.

Il meccanismo dell'opzione fiscale è simile a quello dell'"otto per mille" destinato alle organizzazioni religiose o al "cinque per mille" destinato alle associazioni, con la differenza che l'opzione fiscale per l'editoria potrebbe prevedere anche l'eventualità di una OBIEZIONE FISCALE, cioè l'azzeramento di quei finanziamenti da parte del singolo cittadino e il riconoscimento del diritto di esprimere una scelta dicendo "io non voglio finanziare questo settore di attività", dirottando su altre spese pubbliche i soldi che sarebbero stati assegnati ai giornali, alle cosiddette "missioni di pace" o ad altre attività non imprescindibili per il funzionamento della cosa pubblica.

Il finanziamento di questi settori "non strategici" potrebbe essere affidato alle scelte espresse dai cittadini attraverso l'opzione fiscale, e il sostegno ritirato a certe attività non fondamentali (come ad esempio le missioni di pace all'estero) potrebbe essere dirottato su altre voci di spesa (ad esempio le forze di polizia tributaria per la lotta all'evasione fiscale) innescando delle spirali virtuose nell'economia nazionale.

Purtropppo nel ragionamento sull'opzione fiscale c'è un gravissimo difetto: apre uno scenario che è troppo democratico per i partiti, troppo dannoso per i grandi editori, troppo complicato per trasformarlo in uno slogan dei movimenti, troppo equilibrato per essere adottato da chi si trova a suo agio solo esprimendo posizioni massimaliste e populiste tagliate con l'accetta, troppo omnicratico e decentralizzante per essere adottato dal potere politico e da qualunque altro gruppo di potere organizzato che tende ad accentrare, controllare, dominare anche se a fin di bene.

Ma il fatto che ci siano degli obiettivi difficili non può farci chiudere gli occhi davanti alla possibilità di un altro mondo con un'altra editoria. Il fatto che sia molto ripida la salita del cammino che porta verso il disarmo, la nonviolenza, l'omnicrazia, la cultura diffusa e popolare, la libertà di pensiero e il pluralismo non può esimerci dal percorrere questa salita con l'intima persuasione che l'ingerenza dei partiti nell'editoria sia un male da evitare, ma senza abbandonare questo settore così delicato alla violenza predatoria del mercato che è un male ancora peggiore.

Nè dei partiti, nè dei padroni: la cultura, l'informazione e l'editoria devono essere controllate dai cittadini, finalizzati al bene comune e non al profitto o al tornaconto politico, governate da principi di apertura e non di selezione naturale tra le aziende più forti. Non siamo costretti a scegliere il male minore tra il potere statalista dei partiti e quello neoliberista dei consigli di amministrazione, ma abbiamo il diritto di progettare alternative e il dovere di informarci su tutte le alternative possibili.

E forse, quando avremo capito l'importanza che avevano i tratti di ferrovie locali dismessi da Trenitalia per questioni di redditività, riusciremo a capire anche l'importanza che possono rivestire in una società civile degna di questo nome dei pezzi di editoria sottratti al mercato, preziose "riserve indiane" di libero pensiero che andrebbero difese da tutti noi, anziché essere abbandonate alle insidie di un mercato dove per una presunta "autoregolazione" tutta da dimostrare alla fine la "cultura" di massa vince sulla buona editoria.

La pista Iran-Contras

Nell'ambito delle ricerche per un libro su un periodo tragico della storia centramericana, un conflitto armato durato 30 anni fino al 1987, ho avuto accesso a documenti del governo Usa da poco declassificati. L'obiettivo è, con la prospettiva data dal quarto di secolo trascorso, di far conoscere i fatti legati all'affaire Iran-Contras e alla politica del presidente Ronald Reagan in quel periodo. L'affaire Iran-Contras ebbe luogo fra l'85 e l'86, attraverso la vendita illegale di armi all'Iran da parte di alti funzionari dell'amministrazione Reagan. Le armi erano state sequestrate dagli israeliani all'Olp e regalate agli Stati uniti che in parte le utilizzarono per finanziare segretamente la Contra, come si chiamava la resistenza armata al governo sandinista del Nicaragua, dal momento che esisteva una esplicita proibizione del Congresso Usa che impediva di usare fondi pubblici a questo scopo. Reagan appoggiava i Contras e voleva rovesciare con la forza il regime sandinista, che aveva sconfitto la dittatura di Anastasio Somoza nel '79. Così il conflitto oltrepassò i confini del Nicaragua e si propagò a tutto il Centramerica. L'allora direttore della Cia, William Casey, trovò il modo per prendersi gioco della proibizione del Congresso nella figura del tenente colonnello Oliver North, che diresse l'operazione segreta dall'Ufficio per la sicurezza nazionale della Casa bianca. North e il generale in pensione Richard Secord costituirono una società a Panama, la Udall Research Corporation, per coprire l'acquisto di un terreno e la costruzione di un aeroporto nella località costarricense di Potrero Grande, chiave di volta per l'apertura del cosiddetto Fronte sud in appoggio ai Contras. L'aeroporto fu costruito nei primi mesi dell'86. Il 17 marzo 1986, a quanto risulta dai registri della Casa bianca (documento 42), l'allora ministro per la sicurezza del Costa Rica, Benjamìn Piza, fu ricevuto da Reagan. All'incontro parteciparono anche North e Joe Fernández, l'uomo della Cia in Costa Rica, il quale poi testimoniò che Piza aveva chiesto la riunione e una fotografia con Reagan quale unica condizione per dare il suo assenso alla costruzione dell'aeroporto. North preparò per il presidente il seguente memorandum: «Il ministro Piza è stato l'uomo-chiave per aiutarci a organizzare il Fronte sud di opposizione ai sandinisti. E' intervenuto con il presidente della repubblica Monge in numerose occasioni e ha collaborato nello sviluppo di una base d'appoggio logistico dell'opposizione nicaraguense alle forze dispiegate nel nord del Costa Rica. (...) Per quanto il ministro Piza debba lasciare l'incarico nel maggio dell'86 quando s'insedierà il governo del presidente Arias, continuerà a giocare un ruolo importante nella politica e diplomazia costarricensi. Come tale, è una figura chiave per conservare l'appoggio alla nostra politica nella regione». Reagan così si rivolse a Piza: «L'ammiraglio Pondexter mi ha parlato del suo attaccamento alla causa della democrazia in Centramerica. (...) Confidiamo di poter godere del suo appoggio anche dopo maggio e che la resistenza democratica del Nicaragua continui ad avere quanto è necessario per trovare una via d'uscita democratica». Tutti così raggiunsero i loro obiettivi: Reagan consolidò il suo appoggio alla Contra, Piza ebbe la sua fotografia e North ebbe il suo aeroporto per poter aprire il Fronte sud. Ma ci fu anche un grande sconfitto: la sovranità del Costa Rica. Dopo quella riunione, Piza si incontrò con Secord. La ricostruzione di questo incontro risulta dalla testimonianza di Fernández, che accompagnò Piza. «Sono molto preoccupato - disse Piza - di quello che stiamo facendo per tenere segreta questa pista» (documento 40). Piza allora dettò un memorandum che la Udall Research Corporation gli avrebbe dovuto indirizzare (documento 39): «Dietro sua richiesta verbale, la Udall Research Corporation ha il piacere di mettere a disposizione del governo del Costa Rica un aerodromo nell'area di Potrero Grande. A nostro avviso quest'area è necessaria per la formazione della Guardia civile e come aerodromo d'emergenza alternativo». Il nuovo presidente del Costa Rica, Oscar Arias, aveva basato la sua campagna sulla necessità di pace per la regione e aveva affermato che l'aeroporto non si sarebbe più potuto utilizzare dopo l'insediamento del suo governo, l'8 maggio 1986. Precisamente l'8 maggio 1986 io assistetti all'insediamento di Arias come prossimo ministro delle risorse naturali, energia e miniere. La delegazione Usa era guidata dal vicepresidente George Bush e comprendeva Elliott Abrams, segretario di stato aggiunto per l'America latina. L'ambasciatore Lewis Tambs aveva già annunciato loro che Arias si opponeva all'utilizzo della pista di atterraggio. Allora Abrams disse: «Dovremo strizzargli i coglioni, mano dura con lui». Al momento Arias non seppe di questa frase, e del resto l'aeroporto continuò a essere usato, ma quando gli fu riferita ne proibì l'utilizzo: ordinò che fosse riempito di sacchi di sabbia e si scavassero buche lungo la pista. L'indebolimento di Ronald Reagan, dovuto alle rivelazioni sull'affaire Iran-Contras negli Stati uniti, aprì uno spazio politico che permise ai cinque presidenti centramericani la firma, il 7 agosto 1987, del Piano Arias per la pace, che mise fine ai tre decenni di conflitto regionale e valse al suo autore il premio Nobel per la pace di quell'anno.

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