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31/01/2023

Irrational man (2015) di Woody Allen - Minirece

Le strade iniziate e interrotte della filosofia

di Luca Cangianti

Vladimiro Giacché, Filosofia dell’Ottocento. Dall’Idealismo al Positivismo, Diarkos, 2022, pp. 594, € 26,00 stampa, € 12,99 ebook.

Mai quarta di copertina fu più adeguata a esprimere lo spirito e le ragioni di un’opera come Filosofia dell’Ottocento. Dall’Idealismo al Positivismo. Le parole sono quelle di Hegel: «Il patrimonio di razionalità autocosciente che oggi ci appartiene non si è sviluppato soltanto dal terreno del presente. Esso è essenzialmente un’eredità. La nostra attuale filosofia è il risultato del lavoro di tutti i secoli».

L’autore del libro, Vladimiro Giacché, che conosciamo per le sue opere di storia ed economia (una fra tutte: Anschluss. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa) nasce come filosofo e a ben vedere non ha mai smesso di esserlo, anche occupandosi di flussi monetari, guerre e imperialismi. Questo suo ultimo lavoro è molto di più di uno dei tanti manuali in cui i sistemi filosofici vengono giustapposti a freddo, quasi fossero reparti di un manicomio prima della legge 180. Giacché tratta con grande fluidità i pensatori dell’Ottocento immergendosi nel loro lessico e nel loro orizzonte intellettuale. Ciò nonostante nell’introduzione dichiara apertamente il senso “politico” della sua operazione: la storia della filosofia è un antidoto potente contro la velenosa e diffusa credenza che allo stato presente delle cose non vi sia alternativa; essa ci offre una profonda conoscenza del presente insieme a molti altri scenari diversi e devianti, «Strade iniziate e interrotte» che in alcuni casi potrebbero perfino essere riprese.

Il volume – cui ne seguiranno altri – prende le mosse da un evento storico, la Rivoluzione francese, e da un processo, la dissoluzione del sistema kantiano. Vengono così spiegati i sistemi filosofici di Fichte, Schelling, Hegel e i rispettivi tentativi d’individuazione di principi assoluti del sapere capaci di abbracciare la realtà nel suo complesso. Di contro alle metafore meccaniche del Settecento emergono spiegazioni teleologiche improntate alla complessità e all’organicità.

Si tratta degli ultimi tentativi di dare alla filosofia un volto sistematico, poi tali ambizioni titaniche entrano in crisi: le costruzioni di Schopenhauer, Kierkegaard e Feuerbach, pur nella loro eterogeneità, sono sia causa che effetto di tale processo dissolutivo. Parallelamente il pensiero scientifico moderno sviluppa un sapere basato sull’esperienza con un conseguente scetticismo riguardo all’utilità di un’indagine sull’essenza delle cose. Le cosmologie positiviste di Comte, Mill e Spencer trovano grande diffusione anche oltre i circoli specialistici, senza tuttavia evitare di ritornare «a quelle concezioni ingenue del rapporto tra pensiero e realtà la cui critica da parte di Kant aveva dato avvio ai dibattiti filosofici idealistici e romantici.»

Filosofia dell’Ottocento è un libro rivolto sia a chi ha formazione filosofica, sia a chi desidera approfondire – anche con un sano godimento nella lettura – la storia dei sistemi di pensiero umani. A tal fine, oltre al linguaggio chiarissimo, contribuiscono al successo del progetto: la suddivisione dei capitoli in paragrafi brevi, la selezione di letture commentate e di brani critici, l’inclusione di poeti (Hölderlin, Goethe, Leopardi), letterati (Mazzini) e scienziati (Darwin) che permettono una trattazione del pensiero filosofico calata nella ricchezza e nella complessità del tempo.

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Trainspotting (1996) di Danny Boyle

Te la do io la Cool Britannia. Ovvero, la storia di come quel guastafeste di Daniel Francis Boyle riuscì a distruggere l’immagine patinata e sorridente della nuova golden age britannica degli anni Novanta, consegnandone però ai posteri - forse inconsapevolmente - una delle icone più celebri. Un cortocircuito reso possibile da una particolare convergenza di circostanze e incastri cronologici. Nel 1996, infatti, il Regno Unito si stava avviando a un crocevia storico: dopo gli anni delle dure riforme economiche della Lady di Ferro Margaret Thatcher e la più grigia gestione conservatrice di John Major, l’astro nascente Tony Blair si accingeva a riportare il (New) Labour al numero 10 di Downing Street dopo 17 anni e a traghettare il paese nella modernità del Duemila, rimodellandone l’immagine anche attraverso un’abile operazione di marketing, cui contribuivano la rinascita musicale griffata britpop e un più complessivo fermento culturale e sociale. Una ritrovata vitalità che avrebbe portato all’utilizzo dell’espressione “Cool Britannia” per indicare proprio quel generale senso di euforia nazionale, particolarmente marcato tra le nuove generazioni. Un fenomeno in gran parte mediatico ma che oggi, dopo lo strappo doloroso della Brexit, non può non essere ricordato con struggente nostalgia.

Non era tutto oro quel che luccicava, però, e lo stesso britpop nelle sue pieghe più politiche l’aveva già ampiamente denunciato, con testi pungenti, grotteschi ma anche fortemente polemici, ben distanti dall’immaginario fracassone dei fratelli Gallagher o dalla spensieratezza dei Blur di “Girls & Boys”. Nessuno però aveva ancora osato tanto come Danny Boyle, il più anarchico e sfrontato esponente del nuovo cinema britannico, deciso a far sprofondare la coolness albionica in un baratro di degrado, idealmente simbolizzato dal “peggior cesso della Scozia” che farà chiudere gli occhi agli spettatori in una delle scene più disturbanti di “Trainspotting”.

“Io ho scelto di non scegliere la vita: ho scelto qualcos’altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando ha l’eroina?”

Choose life

Fin dal suo esordio dietro la macchina da presa, l’irresistibile noir grottesco “Piccoli omicidi tra amici”, Danny Boyle ha messo in campo la sua idea anarchica di cinema come “fuga dalla realtà” (anche letteralmente: la corsa è infatti un topos ricorrente nella sua filmografia). Figlio di emigranti irlandesi, rigidamente formato presso il collegio dei Salesiani di Bolton (al punto da subire persino la tentazione di prendere i voti), quindi spinto dagli studi presso la Bangor University ad assecondare la sua vena artistica sul palcoscenico fino a dirigere il Royal Court Theatre di Londra, il regista di Manchester persegue ossessivamente l’idea (quasi sempre illusoria) di un ribaltamento sociale, di una via d’uscita dalla società dei consumi e dai suoi asfissianti dogmi. Se nel debutto a offrirla era una prospettiva criminale (per caso), in “Trainspotting” è la più seducente e autodistruttiva delle realtà alternative: la droga, nella fattispecie l’eroina.

Questa volta però il canovaccio c’è già: l’omonimo romanzo di Irvine Welsh, cult generazionale che nel titolo allude all’abitudine di osservare i treni sfrecciare sui binari e darne notizia da una città all’altra, vizio perdigiorno che accomunata sbandati e ammalati di noia d’ogni angolo del Regno Unito. Dietro la stravaganza del titolo, si celano però le crude vicissitudini dei protagonisti: un gruppo di balordi eroinomani che si aggirano per la Edimburgo di fine anni Ottanta. Boyle scolpisce in modo memorabile i suoi protagonisti, a partire dall’ormai iconico Mark Renton (Ewan McGregor), il “frontman” del gruppo che è anche voce narrante del film e nel celebre monologo iniziale dichiara di aver scelto “una sincera e onesta tossicodipendenza” in quanto preferibile alla banalità di una vita socialmente accettabile; assieme a lui ci sono il viscido Sick Boy (Jonny Lee Miller), donnaiolo ossessionato da 007 e Sean Connery, il goffo e imbelle Spud (Ewen Bremmer), l’ingenuo Tommy (Kevin McKidd) che, pur resistendo a lungo al richiamo della droga, finirà col pagarne il prezzo più alto, così come Allison, ragazza madre con figlia di poco più di un anno. Vivono tutti di espedienti, di piccoli crimini per pagarsi le dosi, ad eccezione di Francis Begbie (Robert Carlyle) che però è il più pericoloso, con le sue tendenze violente e rissaiole. Sono tutti perdenti nati, proprio come la nazionale di calcio del loro paese, quella Scozia che odiano dal profondo perché “colonizzata dalle mezze seghe inglesi”.

Le loro esistenze al margine si consumano tra serate in discoteca, incontri sessuali e risse, tra droga, alcol, tentativi di disintossicazione e ricadute, con lo spettro dell’Aids che inizia a serpeggiare, in un percorso narrativo che ricalca più o meno fedelmente la struttura del romanzo, priva di linearità ma costruita su una serie di episodi in bilico tra dramma e ironia. Una struttura riadattata sapientemente dal taglia e cuci del fido sceneggiatore John Hodge, con la distaccata voce narrante a fungere da collante. Meno politica del romanzo, ma forse ancor più caustica e divertente – tra battute fulminanti e incidenti surreali (la videocassetta porno scambiata con quella dei migliori cento gol della storia del calcio!) - la riduzione filmica a cura del duo Hodge-Boyle convince Welsh, fino ad allora restio a concedere i diritti cinematografici del suo romanzo, temendone una trasposizione troppo realista e depressa, in stile “Christiane F.”, che ne avrebbe snaturato lo spirito. Welsh aveva anche intuito il potenziale commerciale del film, che pur con un risicato budget di 1,5 milioni di sterline, sarebbe diventato un blockbuster, con incasso globale di circa 72 milioni di dollari. Ringrazierà regalando anche un cameo da spacciatore.

Cinema punk

Impostando la pellicola come una sorta di biopic punk nel solco del “Sid & Nancy” di Alex Cox (con dinamiche di gruppo simili a quelle di una rock band), il regista di Manchester in sole 7 settimane e mezzo di riprese costruisce una parabola temporale che spazia da quel che resta dei turbolenti e glamorous 70’s agli strascichi della recessione e dell’era thatcheriana, per approdare nelle assordanti discoteche londinesi impasticcate di ecstasy dei primi anni Novanta.

Dopo la prima fase ambientata a Edimburgo (che nella realtà è Glasgow), dedicata a illustrare lo stile di vita del gruppo e le sue sciagurate conseguenze, la vicenda infatti si trasferisce assieme al suo protagonista nella capitale inglese, il cui stile di vita, scintillante ma spietato, è contrapposto al degrado della derelitta Scozia. Un eldorado ammiccante e illusorio, in cui l’auspicata redenzione si trasformerà in un tradimento (altro trait d’union con “Piccoli omicidi tra amici”) a dispetto di tutti i sensi di colpa.

Punk è anche lo stile di Boyle: nichilista e quasi amorale nel descrivere il brivido della cultura della droga (“Non volevamo fare un film depressivo, volevamo riflettere anche sul divertimento che la droga può dare, l’aspetto più scioccante del libro”, spiegherà), e spregiudicato anche dietro la macchina da presa, con i suoi virtuosismi da videoclip, i suoi ammiccamenti televisivi, la sua costante oscillazione tra iper-realismo (con una crudezza degna del Darren Aronofsky di “Requiem For A Dream”) e sequenze oniriche da allucinazione psichedelica, i suoi colori sgargianti e un montaggio sempre forsennato e implacabile. Uno stile artigianale, anche furbo e greve all’occorrenza, con tanto di ormai celebri derive scatologiche, ma sovversivo nel vero senso del termine. Forse troppo per la rigidità di alcuni critici che non riusciranno mai a metabolizzarlo e soprattutto a comprenderne la portata innovativa. Eppure potrebbe bastare un rapido elenco delle scene-cult del film per definirne la grandezza.

La prima, anzitutto. Il film si apre infatti con la celebre corsa a perdifiato di Renton e Spud inseguiti dalla polizia dopo un furto, sulle martellanti note di “Lust For Life” di Iggy Pop, mentre il protagonista declama il lungo monologo sulla sua “scelta di vita”. Due minuti da antologia che mettono subito in chiaro un altro dogma di Boyle: la pari dignità (se non prevalenza) delle musiche rispetto alle immagini. Una simbiosi totale, fin nei dettagli: “Ogni percussione in battere della sezione ritmica basso-batteria del brano corrisponde a un passo posato sull’asfalto, a un libro che cade dalle tasche rigonfie di tascabili appena rubati, allo scontro momentaneo con un passante che, urtato, esce di scena” (Luca Lombardini, “Brucia ragazzo brucia”).

Ma non meno memorabile è la scena dell’overdose di Renton, che sprofonda in un tappeto persiano cullato dalla struggente “Perfect Day” di Lou Reed, fino all’iniezione di adrenalina grazie alla quale rivedrà la luce, mentre scorrono profetici i versi “You’re going to reap just what you sow” (“Raccoglierai ciò che hai seminato”), con successiva e inevitabile crisi d’astinenza, ritratta in una stanza che si muove acuendo, assieme al rimbombo sonoro, il senso d’angoscia del protagonista, con riprese fin da dentro le lenzuola. E ancora la scena finale, con la trasfigurazione dell’espressione di Renton, dalla paura al sorriso, con il suo volto fuori fuoco accompagnato dal ritorno della voce fuoricampo, per un monologo surrealmente eguale e contrario a quello iniziale.

Sono tutti tasselli dell’approccio visuale di Boyle, vero illusionista dell’immagine che si diletta tra il dondolio della macchina a mano e improvvisi fermi fotogramma, in un costante gioco di manipolazione che mira a spiazzare lo spettatore. Ad esempio “posizionando la camera nella prospettiva di oggetti inanimati, quindi negando totalmente la possibilità di immedesimazione, con l’uso di lenti molto larghe o grandangoli che danno il senso di distorsione della realtà, con l’intenzione di svelare il gioco cinematografico e strizzare l’occhio allo spettatore che in questo caso non è più in relazione con il protagonista ma è cosciente del proprio ruolo e partecipe” (Gianluigi Perrone, “L’impero dei sensi”). È ciò che accade, ad esempio quando Renton guarda in camera in freeze frame alla fine della sua corsa. Un cinema fortemente “visivo” al quale contribuisce la fotografia suggestiva di Brian Tufano, ispirata alle opere di Francis Bacon in una sorta di via di mezzo tra realtà e fantasia.

Generazione Trainspotting

È un mix astuto ed efficacissimo ad avere reso “Trainspotting” un film generazionale. Una vera e propria operazione semiotica che mescola cinema, letteratura e musica in un unicum capace di fissarsi nell’immaginario collettivo per tanti anni a venire. Nel forgiare la sua idea di cult-movie, Boyle fa uso di un citazionismo quasi tarantiniano, a partire dal prediletto, “Arancia meccanica” di Stanley Kubrick, dal quale mutua diversi aspetti: dall’approccio grottesco (con continuo avvicendarsi dei registri drammatico e comico) all'accento sulle scene disturbanti, dalla critica sociale – che si esprime nella violenza per Alex e i drughi, nella droga per Renton & C. – all’idea del gruppo/gang come alternativa al disagio del nucleo familiare, fino al conclusivo riallineamento alle regole del sistema: per la nausea indotta dalla “Cura Ludovico” nel primo caso, per un conscio e cinico fatalismo nel secondo. C’era infine la comune esigenza di affrancarsi dalla matrice letteraria di partenza – il romanzo di Anthony Burgess per “A Clockwork Orange”, quello di Welsh per “Trainspotting” – puntando su una forte integrazione tra immagini e musiche. E, come detto, Boyle allestisce una colonna sonora a prova di bomba: uno scintillante juke-box intergenerazionale che spazia dai suddetti evergreen di Iggy Pop e Lou Reed ad altri classici firmati Brian Eno (“Deep Blue Day”), David Bowie (“Golden Years”), Blondie (“Atomic” nella cover degli Sleeper), Joy Division (“Atmosphere”), fino alle hit di alcune tra le principali band britanniche del periodo: dai Blur (“Sing”) ai Pulp (“Mile End”), dai Primal Scream (l’omonima “Trainspotting”) agli Elastica (“2:1”) fino alla techno-trance degli Underworld, con quella “Born Slippy” destinata a divenire uno dei tormentoni definitivi dei 90’s.

Ma il citazionismo non si esaurisce con il palese riferimento ad “Arancia Meccanica” (omaggiato anche nella scena della serata al Volcano, con sala identica a quella della prima sequenza del film di Kubrick, con tanto di dialoghi surreali che ricordano quelli di Alex e compari). Boyle cita anche “C'era una volta in America” (1984) di Sergio Leone (la scena in cui Spud trova i soldi nell'armadietto), nonché alcuni feticci musicali come i Clash del video di “Bankrobber” (1980) e i Beatles di “Abbey Road” (la scritta nelle casa del pusher “Madre Superiora” ripresa dal verso “Mother superior jump the gun” di “Happiness Is A Warm Gun”). Non a caso ai Beatles il regista inglese dedicherà il folle e nostalgico “Yesterday” (2019) immaginandosi cosa potrebbe succedere in un mondo (tristissimo) che non li avesse mai conosciuti.

Last but not least, Boyle indovina il cast, confermando il suo pupillo Ewan McGregor, destinato a divenire un divo di Hollywood (da “Moulin Rouge!” a “Star Wars”), e affiancandogli alcuni promettenti attori britannici del periodo, come Ewen Bremner (che aveva interpretato Renton in teatro e venne reclutato per la parte di Spud), Jonny Lee Miller (poi moderno Sherlock Holmes nella serie tv “Elementary”), Robert Carlyle, che spazierà da Ken Loach e “Full Monty” a 007, e una diciannovenne Kelly McDonald nei panni di Diane, girlfriend di Renton. Tutti si sarebbero affermati in seguito sfruttando l’enorme popolarità del film.

Così fuori dagli schermi e al tempo stesso umani, nel loro essere criminali per caso (e di mezza tacca), quei personaggi iconici daranno vita a un’istantanea di gruppo tra le più vivide e impietose del cinema britannico. Ne sarà un adeguato corrispettivo dieci anni dopo quella di “This Is England” (film e serie) scattata da Shane Meadows, indubbio allievo di Boyle per la sua capacità di scandagliare le sottoculture della gioventù scapestrata d’Albione tra desolazione proletaria e sfascio morale.

Secondo capitolo della sua “Bag of money trilogy”, dedicata agli effetti del denaro sulle persone, “Trainspotting” otterrà un successo mondiale capace di rivitalizzare un cinema d’oltremanica in piena crisi d'incassi, proiettando Boyle verso una mecca hollywoodiana tanto seducente quanto insidiosa, un po’ come la Londra di Renton. Qui realizzerà il terzo capitolo della trilogia, il deludente “Una vita esagerata” (1997), e l’interessante ma incompreso “The Beach”, in cui si consumerà la rottura con il suo attore-feticcio McGregor, rimpiazzato da un rampante Leonardo DiCaprio.

La carriera di Boyle proseguirà a fasi alterne, tra pregevoli film di genere (“28 giorni dopo”, 2002; “Sunshine”, 2007; “127 ore”, 2010), qualche passaggio a vuoto (“Millions”, 2004, “T2 Trainspotting”, 2017) e l’altro clamoroso exploit del brillante “The Millionaire” del 2008, realizzato a Bollywood, che gli varrà ben 8 Oscar 8 statuette, tra cui Miglior film e Miglior regista (ma non il favore dei soliti oltranzisti della critica che continueranno a snobbarlo). Del resto, anche la stampa britannica userà con Boyle il metro adottato solitamente con le next big thing musicali, pompando all'inverosimile “Trainspotting” (spacciato come una sorta di risposta britannica a “Pulp Fiction”) e dimenticando frettolosamente il suo artefice nelle prove successive.

Peccato soprattutto per l’occasione mancata del sequel di “Trainspotting”, il succitato “T2”, che si risolverà solo in una rimpatriata nostalgica senza verve né senso. Niente a che vedere con lo sberleffo punk dell’originale: uno sprazzo di “no future” cinematografico capace, al contrario, di fissarsi nel tempo, facendosi fenomeno pop. Candidato all'Oscar per la miglior sceneggiatura non originale, sarà anche inserito nel 1999 dal British Film Institute tra i migliori 100 film britannici del XX secolo. Invecchiato? Forse un po’ sì. Ma rimane la testimonianza sincera di un'epoca e uno degli spaccati più crudi e autentici sulla vita di chi non sceglie la vita.

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Il Medio Oriente scalpita

A sottolineare come in Medio Oriente tutto sia in movimento – e pertanto le tensioni stiano schizzando verso l’alto – il principe ereditario dell’Arabia Saudita Mohammed bin Salman ha avuto ieri un colloquio telefonico con il presidente russo Vladimir Putin.

Il tema del colloquio era la cooperazione all’interno dei paesi del gruppo OPEC+ per mantenere la stabilità del mercato petrolifero. Il Cremlino ha aggiunto però che Bin Salman e Putin hanno anche discusso dell’ulteriore sviluppo della cooperazione bilaterale nei settori politico, commerciale, economico ed energetico.

I ministri dell’OPEC+ (l’Organizzazione dei paesi storici esportatori di petrolio, più la Russia) avranno un incontro online il prossimo 1° febbraio ed è probabile che verrà deciso di mantenere l’attuale politica sulla produzione di petrolio, una scelta che però sta dando “seri dispiaceri” a Washington.

Le divergenze sugli obiettivi di produzione di petrolio tra USA e OPEC+, lo scorso avevano determinato un disaccordo tra Stati Uniti e Arabia Saudita. Ma il ministro degli Esteri saudita, Faisal bin Farhan, all’inizio di gennaio ha tenuto a sottolineare che l’attuale stabilità del prezzo del petrolio nel mercato “dimostra che l’Arabia Saudita ha preso la decisione giusta”.

Sulle quote, la produzione e il prezzo del petrolio, permangono però fattori di incertezza, in quanto l’offerta sarà influenzata dalle recenti sanzioni occidentali sull’industria petrolifera russa, imposte in seguito alla guerra in Ucraina, nonché dai limiti di prezzo introdotti sui prodotti russi a dicembre.

Ma la situazione in Medio Oriente appare in movimento anche più a est e riguarda quello che fino a ieri era la potenza rivale dell’Arabia Saudita.

L’agenzia Reuters rivela che Iran e Russia hanno collegato i loro sistemi di comunicazione e trasferimento interbancario per contribuire a incrementare le transazioni commerciali e finanziarie, e bypassare quindi il sistema SWIFT – sotto il pieno controllo Usa – attraverso cui agiscono le sanzioni occidentali.

Dalla reintroduzione nel 2018 delle sanzioni statunitensi contro l’Iran, dopo che Washington ha abbandonato l’Accordo sul nucleare iraniano nel 2015, la Repubblica islamica è stata disconnessa dal servizio finanziario SWIFT con sede in Belgio, che è un punto di accesso bancario internazionale chiave.

Simili limitazioni sono state imposte lo scorso anno anche ad alcune banche russe a seguito dell'invasione dell'Ucraina.

“Le banche iraniane non hanno più bisogno di usare SWIFT con le banche russe, per l’apertura di lettere di credito e trasferimenti o garanzie”, ha detto il vice governatore della banca centrale iraniana, Mohsen Karimi, all’agenzia Fars News.

Mentre la Banca centrale russa ha rifiutato di commentare l’accordo firmato domenica, Karimi ha affermato che “circa 700 banche russe e 106 banche non russe di 13 paesi diversi saranno collegate a questo sistema”, senza approfondire i nomi delle banche straniere.

La Repubblica Islamica Iraniana sta affrontando la sua peggiore crisi di legittimità dopo mesi di proteste antigovernative, scatenate dalla morte di una giovane donna fermata da parte della cosiddetta “polizia morale”. Le autorità iraniane temono che l’isolamento economico e la mancanza di miglioramenti economici possano portare a ulteriori disordini.

Il leader iraniano Ali Khamenei ha affermato lunedì che l’establishment ha dovuto affrontare “un problema tangibile di benessere e mezzi di sussistenza”, che non potrebbe essere risolto senza la crescita economica.

Sabato l’Iran è stato anche oggetto di attacchi aerei con droni, da parte di Israele e Stati Uniti, contro gli impianti militari e industriali in alcune città del paese. Curiosamente, mentre i giornali statunitensi ne addebitavano la responsabilità a Israele, la televisione saudita Al Arabya ha accusato soprattutto gli Stati Uniti.

In Palestina tutte le organizzazioni della resistenza palestinese hanno deciso di rispondere colpo su colpo ai raid e alle vessazioni dell’occupazione israeliana in Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme, ma anche nei territori del ’48, in pratica in tutti i territori palestinesi riconosciuti dall’Onu nel 1947.

L’affermazione della ultra-destra sionista, ora al governo di Israele con Netanyahu, è stata inevitabilmente valutata come una dichiarazione di scontro frontale con la pluridecennale aspirazione dei palestinesi alla propria autodeterminazione.

Sono i segnali di una escalation che ormai incombe su tutto il Medio Oriente, dove l’asse Usa-Israele sta incassando brutte sorprese ma appare comunque disposto a tutto pur di mantenere uno statu quo economico, strategico e diplomatico ritenuto però non più sostenibile dalla maggioranza dei paesi mediorientali.

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La previdenza privata ha perso valore nel 2022. Aumentano però gli iscritti ai fondi pensione privati

I rendimenti sono calati ma lavoratrici e lavoratori ci cascano ancora. Dal rapporto annuale della Covip, (la Commissione di Vigilanza sui fondi pensione), emerge che il 2022 è stato un anno difficile per i fondi pensione privati che hanno riportato un forte calo dei rendimenti, a causa del rallentamento dell’economia e dei mercati finanziari, anche se gli scritti hanno continuato a crescere.

Secondo la relazione annuale, nel 2022 i risultati delle forme complementari di previdenza (i fondi pensione privati, ndr) hanno risentito del calo dei corsi dei titoli azionari e del rialzo dei tassi di interesse nominali, che a sua volta determina un calo dei corsi dei titoli obbligazionari.

I rendimenti netti sono pertanto risultati negativi a -9,8% per i fondi negoziali ed a -10,7% per i fondi aperti; e addirittura a -11,5% nei PIP (Piani Individuali Pensionistici) di ramo III. Per le gestioni separate di ramo I, che contabilizzano le attività a costo storico e non a valori di mercato ed i cui rendimenti dipendono in larga parte dalle cedole incassate sui titoli detenuti, il risultato è stato pari all’1,1 per cento.

Nei dieci anni da inizio 2013 a fine 2022, il rendimento medio annuo composto dei fondi pensioni privati, al netto dei costi di gestione e della fiscalità, si è attestato al 2,2% per i fondi negoziali, al 2,5% per i fondi aperti, al 2,9% per i PIP di ramo III ed e al 2% per le gestioni di ramo I. Nello stesso periodo, la rivalutazione del TFR lasciato in azienda è risultata pari al 2,4% annuo.

Per quanto riguarda il numero di pensioni integrative, queste a fine 2022 risultano essere 10,3 milioni, in crescita di 564.000 unità (+5,8%) rispetto alla fine del 2021. Occorre chiarire che tali posizioni, includono anche quelle di coloro che aderiscono contemporaneamente a più forme, il che fa corrispondere il totale degli iscritti ai fondi pensioni privati a 9,2 milioni di persone (+5,4%).

Nei fondi negoziali si registrano 349.000 posizioni in più rispetto alla fine dell’anno precedente (+10,1%), per un totale di 3,806 milioni, beneficiando ancora dell’apporto delle adesioni contrattuali (200mila) fra cui anche quelle dei neo-assunti del pubblico impiego (80mila in più). Nelle forme pensionistiche di mercato, si rilevano 106.000 posizioni in più nei fondi aperti (+6,1%) e 84.000 posizioni in più nei PIP “nuovi” (+2,3%); alla fine di dicembre, il totale delle posizioni in essere in tali forme è pari, rispettivamente, a 1,842 milioni e 3,697 milioni di unità.

Le risorse destinate alle prestazioni erano scese a 205 miliardi di euro alla fine di dicembre 2022 (-3,6%) per effetto delle perdite in conto capitale (-7,7 miliardi) determinate dall’andamento dei mercati finanziari. Nei fondi negoziali, l’attivo netto è di 61 miliardi di euro, nei fondi aperti a 28 miliardi e nei PIP “nuovi” a 45 miliardi.

Nel corso del 2022 i contributi incassati da fondi negoziali, fondi aperti e PIP sono stati pari a 13,9 miliardi di euro (+4,2 per cento rispetto al 2021). L’incremento si riscontra in tutte le forme pensionistiche, variando dal 4,5 per cento per i fondi negoziali, al 7,8 per cento per i fondi aperti, al 2 per cento per i PIP.

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Chi gioca a far morire Alfredo Cospito?

Dopo 102 giorni di sciopero della fame le condizioni di salute di Alfredo Cospito sono ovviamente al limite della sopravvivenza. E il governo italiano deve soltanto decidere se vuole lasciarlo morire oppure no.

La nota di Palazzo Chigi diramata ieri – “Lo Stato non scende a patti con chi minaccia. Azioni del genere non intimidiranno le istituzioni. Tanto meno se l’obiettivo è quello di far allentare il regime detentivo più duro per i responsabili di atti terroristici” – lascia chiaramente intendere che la morte del prigioniero anarchico è già stata messa in conto dall’esecutivo a guida post-fascista. Secondo antica tradizione, insomma...

Partiamo dalle condizioni di salute, chiarite dal suo medico di fiducia, Angelica Milia: “È partito da un indice di massa corporea da obeso e ora stiamo andando verso il sottopeso, rischiamo questioni irrisolvibili per gli organispiega la cardiologa all’Adnkronos –. Abbiamo avuto un ulteriore calo del potassio e abbiamo aumentato la terapia: ha perso un altro chilo e sta andando incontro al sottopeso rispetto all’indice di massa corporea”.

“Quando si perde oltre il 50 per cento del peso corporeo iniziale, intervengono questioni irreversibili – continua Milia –. Andando avanti col digiuno si intaccano i muscoli prima, poi gli organi interni e alla fine i muscoli respiratori e il cuore. Prima aveva un indice di massa corporea sopra i 30, ora siamo vicini ai 20. Arrivati a quelle condizioni l’organismo cerca energia anche nel poco grasso che trova nella guaina nervosa dei nervi”.

“Se va in fibrillazione ventricolare con arresto cardiaco lo si rianima, ma poi? – si chiede il medico –. Anche spostandolo in un’altra struttura, dove si possa operare più in fretta, cambierebbe poco. Il fisco è intaccato in modo grave e il recupero sarebbe difficile perché non vuole neanche l’alimentazione forzata. Non si può fare altro che toglierlo dal 41-bis”.

Di fronte a questo quadro clinico il sottosegretario alla giustizia Andrea Ostellari risponde che “Cospito è monitorato 24 ore al giorno. Nonostante il suo prolungato sciopero della fame, la decisione sulle sue condizioni spetta ai medici. E se loro sostengono che la sua situazione è sotto controllo ci dobbiamo fidare. Inoltre la Cassazione, che ha anticipato il suo pronunciamento, si esprimerà sulla fine del carcere duro, in modo autonomo e sereno. Chi deve decidere nel merito non deve farlo sulla base di minacce e attentati”.

Sulla fiducia da nutrire nei confronti dei medici dipendenti dal ministero di via Arenula basterebbe forse il ricordo di quelli presenti a Bolzaneto, nel 2001. Ma meglio lasciar perdere...

Ma Ostellari ha saputo dire anche di peggio: “Eventuali atti di clemenza sono concessi quando c’è un ravvedimento, una buona condotta. Non mi pare che Cospito si sia ravveduto e inoltre lo Stato non sta compiendo alcun illecito contro di lui. Si è dichiarato apertamente terrorista ed è stato condannato, non è in una fase di misura cautelare”.

Il sottosegretario sembra ignorare che la “buona condotta” non è legata alle convinzioni del detenuto, ma ai suoi comportamenti. E in più lega apertamente gli “atti di clemenza” al “ravvedimento” o “pentimento”. Confessa, insomma, che il 41bis è una forma consapevole di tortura per ottenere “l’abiura” del prigioniero. Come durante l’Inquisizione...

Sabato scorso la manifestazione di solidarietà con Alfredo è stata caricata dalla polizia, che ha proceduto a fermare 41 persone. Nella notte, poi, una bottiglia molotov è stata lanciata contro il commissariato Prenestino di Roma, senza causare danni.

In più, anonimi hanno fatto recapitare una busta contenente un proiettile al PG di Torino. E tanto serviva a far gridare al bisogno delle “fermezza” contro il prigioniero.

Un florilegio di dichiarazioni a favore di telecamera, in un crescendo delirante. Si va dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, che spiega: “Questi gravissimi (?) fatti dimostrano che chi ha deciso di infliggere il carcere duro a Cospito aveva visto giusto nel ritenerlo ancora un leader, un riferimento forte per una vasta compagine anarchica ritenuta pericolosa”.

Il sottosegretario non riesce forse a rendersi conto che Alfredo è diventato un “riferimento” proprio a causa dell’incredibile applicazione nel suo caso di una condanna all’ergastolo ostativo per una cosiddetta “strage contro lo Stato” che non ha provocato né morti, né feriti, né danni. Il confronto con Piazza Fontana e altre stragi di Stato – tutte senza colpevoli – è impietoso.

E dunque il sottosegretario mostra di non conoscere neanche il dispositivo del 41bis, che dovrebbe – secondo le maldestre intenzioni dei suoi inventori – “impedire che i detenuti continuino a dirigere dal carcere le organizzazioni che avevano guidato”. Cosa che non si può neanche pensare per un’area informale che non prevede comunque né dirigenti né tanto meno “capi”, come quella anarchica.

L’“influenza morale” del prigioniero, che di per sé non sarebbe neanche un reato o una condizione “aggravante”, gli deriva semmai da quello che lo Stato gli sta facendo. Dunque tirarlo fuori dal 41bis contribuirebbe a ridurre ogni tensione intorno al suo nome e al suo corpo.

Troppo difficile da capire per chi identifica “la legge” con la propria volontà, al di fuori di qualsiasi codice penale e Costituzione. O troppo comodo poter gridare al “terrorismo” quando questo pericolo manifestamente non esiste (una bottiglia contro un muro è stato sempre considerato un banale “atto dimostrativo”; un proiettile in una busta può essere stato inviato da chiunque, anche da chi vuol male ad Alfredo).

Troppo facile vestirsi di “fermezza” in questo caso, attingendo ad un vocabolario di 50 anni fa e ad un immaginario infame messo assieme dalla complicità storica tra Democrazia Cristiana e PCI.

E infatti prova a riportare la discussione sul piano concreto il legale di Alfredo, Flavio Rossi Albertini, che stigmatizza il tentativo di portare il dibattito sulla falsariga della “linea della fermezza” per il sequestro Moro: “L’esecutivo sembra fermo al marzo del 1978. Qui non si discute se ‘cedere alle pressioni’, ma se ricorrono le condizioni per mantenere il mio assistito al 41 bis”.

Ed anche il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, che degli esiti di quella stagione era stato protagonista (creando l’associazione Antigone), prova a portare un lampo di concretezza in un cortocircuito parolaio e ideologico: “Io non entro nel merito, se non per l’aspetto sanitario. Però non è vero che la revoca (del 41 bis, ndr) sia giuridicamente impossibile. Per gli atti amministrativi la possibilità esiste sempre, al di là della legge sul 41 bis”.

Uno Stato che non sa correggere un proprio “atto amministrativo”, oltretutto palesemente assurdo nel caso specifico (una strage senza vittime né danni) oltre che incostituzionale (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”), non merita neanche di fregarsi di quella qualifica...

Noi non abbiamo dubbi sul fatto che ci sia, nel governo e fuori, chi pensa di poter guadagnare qualcosa dalla morte di Alfredo. Anche per questo, oltre che per ragioni di umanità e giustizia, va tolto subito dal 41bis.

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Medio Oriente - Si apre il “terzo fronte” di guerra?

Guerra sul campo in Ucraina. Guerra ibrida nel Mar Cinese. E adesso venti di guerra anche sul terzo fronte: il Medio Oriente.

Con gli attacchi aerei israeliani (e statunitensi) sull’Iran e in Siria e l’escalation armata sul fronte interno in Palestina, il governo fascista di Netanyahu, in coordinamento con gli USA, si è assunto la responsabilità di aprire un “terzo fronte” di questa guerra mondiale a pezzi che ormai è cominciata. Occorre cominciare a leggere gli eventi bellici in Medio Oriente nel loro insieme e non più come episodi separati legati “alla sicurezza di Israele” come recitano a mo’ di litanìa le autorità di Tel Aviv e i governi occidentali.

Secondo il Wall Street Journal, è stata Israele ad effettuare sabato l’attacco con i droni contro un complesso della difesa in Iran a Isfahan. Il WSJ cita dirigenti statunitensi e fonti a conoscenza dell’operazione. Il raid ha colpito una fabbrica di munizioni nella città di Isfahan, proprio accanto a un sito appartenente all’Iran Space Research Center.

Il quotidiano statunitense che cita fonti interne all’amministrazione Usa, rileva che il direttore della Cia, William Burns, avrebbe fatto un viaggio in Israele la scorsa settimana proprio per discutere di queste operazioni.

L’attacco con un drone a una struttura di difesa nella città iraniana di Isfahan è stato condotto da Israele per proteggere i propri interessi di sicurezza e non per impedire le esportazioni di armi verso la Russia, secondo quanto riportato domenica dal New York Times. L’attacco di sabato è stato effettuato dall’agenzia di intelligence Mossad, secondo il quotidiano, che ha citato alti funzionari dell’intelligence statunitense. Il rapporto ha sottolineato che Isfahan è un hub per l’industria missilistica di Teheran dove viene assemblato il missile a medio raggio Shahab, che ha una gittata in grado di colpire Israele. Secondo lo statunitense Institute for Study of War “Questo attacco probabilmente aumenterà ulteriormente le preoccupazioni iraniane sulla presunta presenza dei servizi di intelligence israeliani in Azerbaigian e nel Kurdistan iracheno”.

Il sito militare iraniano ha subito danni minori a seguito dell’attacco dei mini-droni e non ci sono state segnalazioni di vittime e feriti. I media iraniani riferiscono che uno dei droni è stato abbattuto dal sistema di difesa aerea e altri due dispositivi sono stati intercettati dai militari e fatti saltare in aria. Ma secondo Agenzia Nova i raid sono avvenuti in sei diverse città iraniane e più volte è entrata in funzione la contraerea iraniana. L’ISW riferisce che esplosioni sono state sentite a Karaj, nella provincia di Alborz; Dezfoul, provincia del Khuzestan; e Hamedan City, provincia di Hamedan, nelle ore successive all’attacco dei droni.

L’agenzia di stampa iraniana IRNA ha descritto i droni come “quadricotteri equipaggiati con proiettili”. I quadricotteri, il cui nome deriva dal fatto di avere quattro rotori, operano tipicamente a breve distanza con un controllo remoto. La televisione di Stato iraniana ha poi mandato in onda un filmato dei detriti dei droni, che assomigliavano a quadricotteri disponibili in commercio.

La scorsa settimana, gli Stati Uniti e Israele hanno condotto la loro più grande esercitazione militare congiunta coinvolgendo più di 7.500 militari in una serie di scenari nel Mediterraneo orientale per testare la loro capacità di eliminare i sistemi di difesa aerea e rifornire jet, operazioni che potrebbero essere elementi chiave di un importante attacco militare contro l’Iran. Ma secondo il Times of Israel, l’obiettivo dell’esercitazione congiunta era anche di mostrare agli avversari come l’Iran, che “Washington non è troppo distratta dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e dalle minacce della Cina.

In Cisgiordania un altro palestinese è stato ucciso dai soldati israeliani questa mattina nella città di Hebron. Il Ministero della Salute palestinese ha identificato l’uomo come Nassim Abu Fouda. Secondo l’agenzia di stampa ufficiale palestinese WAFA, Abu Fouda è stato colpito mentre era alla guida della sua auto nei pressi della Tomba dei Patriarchi a Hebron. Un altro palestinese è stato ucciso ieri nei pressi della colonia di Kedumin a ridosso della città palestinese di Nablus.

La tensione in Cisgiordania è ormai schizzata alle stelle. Le operazioni militari israeliane hanno provocato la morte di 171 palestinesi nel 2022 e di altri 35 solo dall’inizio dell’anno, 2500 palestinesi sono stati arrestati. Nel 2022 sono stati uccisi 31 israeliani.

In Siria sette persone sono state uccise nei raid aerei di ieri sera contro un convoglio di camion che attraversava la parte orientale del Paese dall’Iraq. Un convoglio di 25 camion appartenenti a milizie anti USA, è stato attaccato nei pressi della città siriana orientale di Al-Bukamal mentre attraversava il confine con l’Iraq, ha riferito domenica sera la rete televisiva saudita Al Arabiya. Secondo il rapporto, almeno tre forti esplosioni hanno scosso l’area. Nell’area dell’attacco, secondo l’agenzia Ynet News, sono stati osservati aerei presumibilmente appartenenti alle forze della coalizione statunitense.

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Vecchie e nuove sfide per l’esquerra indipendentista e anticapitalista catalana

L’autodeterminazione, l’Europa e la guerra. (parte prima)

A più di 5 anni dall’ottobre che vide la leadership catalana egemonizzata dai socialdemocratici di ERC e dai piccolo borghesi di Junts per Catalunya fermarsi davanti alla soglia della rivoluzione del sistema politico catalano e spagnolo, l’esquerra independentista e anticapitalista non ha ancora risposto ad alcune domande rimaste da allora in sospeso, un compito al quale si è aggiunta la sfida dell’opposizione alla guerra e alla NATO.

Il tutto in un contesto in cui il riformismo del PSOE, dispiegatosi prima con l’indulto concesso ai principali responsabili del primo ottobre, poi con il maquillage del delitto di sedizione, ha raggiunto l’obiettivo della provvisoria normalizzazione del paese, complici le direzioni di ERC e Junts, entrambe stordite dalla repressione inaugurata dai popolari e confermata dai socialisti.

Una normalizzazione politica che è calata su una società in cui le contraddizioni reali si aggravano: secondo l’ultima rilevazione dell’Istituto di Statistica della Catalunya (IDESCAT), più di un quarto della popolazione catalana si trova in una situazione a rischio di povertà ed esclusione sociale.

Un dato che non sorprende se si tengono in conto gli effetti delle ormai decennali politiche di austerità e della recente inflazione scatenata dalla guerra. Un dato che, una volta di più, dovrebbe contribuire a smontare il cliché dei catalani borghesi e benestanti caro alla sinistra spagnola.

Accanto a una riflessione sulle questioni aperte dal referendum d’autodeterminazione, in questo dossier si propone la traduzione di due tra le più significative analisi sulla guerra in Ucraina elaborate dall’esquerra independentista e anticapitalista.

La prospettiva non vuole essere quella dell’assunzione acritica di un modello sorto in un contesto esterno, bensì quella di offrire dei materiali che da un lato possano arricchire il dibattito contro la guerra e la NATO, dall’altro contribuiscano a stringere nuove alleanze tra i popoli e le classi subalterne del continente, nella prospettiva della rottura dell’architettura liberista della UE.

Un compito rispetto al quale non sembrano ancora emerse opzioni organizzative all’altezza della gravità della situazione e che perciò interpella tutta la sinistra di classe, il cui contributo teorico e pratico pare più che mai necessario.

Le domande irrisolte del referendum d’autodeterminazione del 2017

Il referendum rappresenta il punto più avanzato della lunga e altalenante lotta del popolo catalano, almeno nella fase che comincia a partire dal dopoguerra. Più avanzato sia della dichiarazione di indipendenza (rimasta sulla carta) che della maggioranza del 52% raggiunta nelle elezioni del febbraio 2021.

Il referendum rappresenta questo vertice perché per garantirne la celebrazione e per preservarne il carattere di rottura con lo stato e con gli equilibri esistenti, risultano decisivi i comitati popolari, come e più del contributo della Generalitat. Ha dunque un valore notevole per il suo esempio di auto-organizzazione popolare unico in Europa ma anche per le domande che ha posto all’ordine del giorno del movimento indipendentista e che finora sono rimaste senza risposta.

Il referendum ha reso evidente che lo stato spagnolo non lascerà le redini del potere solo perché i catalani lo hanno deciso in una consulta elettorale. Sia con un governo del PP, sia con un governo del PSOE, lo stato non è disposto a riconoscere il diritto all’autodeterminazione del catalani.

La repressione del referendum, i processi che hanno coinvolto oltre 4.000 persone negli ultimi cinque anni, lo spionaggio della cupola indipendentista, dei familiari e persino degli avvocati dei detenuti hanno reso evidente che lo stato è disposto a ricorrere a qualsiasi mezzo pur di impedire la nascita della repubblica catalana.

La prima domanda che il referendum rivolge implicitamente al movimento indipendentista è allora la seguente: con quali mezzi, con quali organismi di lotta, con quali istituti di partecipazione popolare è possibile strappare il potere dalle mani dello stato?

Si tratta di un interrogativo impegnativo, certo di non facile soluzione ma ineludibile se si vuole portare a termine la rivoluzione necessaria per fondare la repubblica catalana. Tuttavia il settore oggi maggioritario del movimento indipendentista sembra averlo rimosso completamente. Dal canto suo l’esquerra independentista e anticapitalista è consapevole dell’importanza del tema ma non è arrivata finora ad una elaborazione teorico-pratica adeguata.

Una prima indicazione per rispondere alla domanda è venuta proprio dal referendum e dai comitati sorti per difenderlo, i protagonisti indiscussi delle occupazioni dei collegi elettorali e della resistenza pacifica ma ferma davanti alla polizia, divenuti dopo il primo ottobre Comitati di Difesa della Repubblica.

I CDR sono stati uno strumento di partecipazione decisivo per proseguire la lotta negli anni seguenti al referendum ma insufficiente: pur continuando la mobilitazione, sono rimasti intrappolati tra l’incudine della svolta autonomista di ERC e di Junts, incantati dalle sirene riformiste del PSOE, e il martello della repressione dello stato.

Ciononostante i CDR hanno dimostrato di poter svolgere un’azione unitaria proprio nei momenti più conflittuali (a cominciare dal primo ottobre e dai differenti scioperi generali dei mesi successivi) portando tutto il movimento su posizioni più avanzate. Ciononostante la domanda rimane inevasa.

La seconda questione che il referendum lascia aperta è quella della cosiddetta internazionalizzazione del conflitto, da più parti evocata con insistenza. Ma qual è la visione internazionale e la reale politica estera dell’indipendentismo? Al di là della retorica, come si concretizza la internazionalizzazione del conflitto?

Sia Junts che ERC coltivano un europeismo tanto ingenuo quanto incomprensibile: le due branche maggioritarie del movimento vedono nella Unione Europea una istituzione più democratica dello stato, considerato ancora intriso della cultura franchista. Perciò si illudono che prima o poi la UE sostenga la loro richiesta di votare la permanenza o meno della Catalunya nel regno di Spagna.

Questa illusione resiste nonostante la UE non abbia mosso un dito in favore del movimento indipendentista. Pur dietro alla Germania, alla Francia e all’Italia, la Spagna è un socio essenziale per la formazione di un polo europeo in grado di competere con i giganti che dominano lo scenario internazionale. Un polo europeo la cui stabilità interna vale ben più della radicale domanda di democrazia dei catalani.

Ciò nonostante ERC e Junts si ostinano a parlare della Catalunya come di un nuovo stato dell’Unione Europea e considerano la internazionalizzazione come la ricerca più o meno occasionale della solidarietà di questo o quel partito straniero rappresentato nel parlamento europeo.

Su questo terreno l’esquerra independentista e anticapitalista svolge una battaglia essenziale per ribaltare la politica estera dell’indipendentismo. Una battaglia per rendere consapevole la società catalana di una verità tanto semplice quanto densa di conseguenze: la repubblica catalana cozza non solo contro lo Stato ma anche contro il progetto e gli interessi dell’UE.

Nascondersi questo dato di fatto significa mettere la testa sotto la sabbia e ritornare alla gestione della misera autonomia concessa dal governo di Madrid. Perciò su questo terreno l’esquerra independentista e anticapitalista è impegnata per chiarire le prospettive e i compiti del movimento, essenziale per la sua crescita.

Internazionalizzare davvero il conflitto significa infatti contestualizzare la lotta dei catalani nel quadrante europeo, nell’ambito del polo imperialista in formazione. Significa seppellire una volta per tutte l’europeismo di ERC e Junts e caratterizzare il movimento per la ricerca di un nuovo assetto istituzionale europeo, all’insegna della pace e della cooperazione tra i popoli delle due sponde del Mediterraneo.

Significa cioè vedere la repubblica catalana come l’apertura di una crepa nella nascente architettura imperialista europea. Significa tornare alle origini dell’indipendentismo rivoluzionario degli anni ’70 e porre all’ordine del giorno non solo l’indipendenza ma anche il socialismo. Chiarire questo punto è oggi un compito essenziale dell’esquerra independentista e anticapitalista, certamente arduo ma non più procrastinabile.

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30/01/2023

Rosetta (1999) di Jean-Pierre e Luc Dardenne - Minirece

Inciampare nella guerra mondiale

La fame di armi della leadership ucraina sembra sconfinata. Non appena gli Stati Uniti e la Germania hanno annunciato che avrebbero fornito i carri armati “Leopard” e “Abrams” all’Ucraina, il presidente ucraino Zelenskiy ha chiesto aerei da combattimento e missili.

Il cancelliere Scholz ha escluso mercoledì al Bundestag la consegna di aerei da combattimento o il dispiegamento di truppe di terra. Ma quanto è credibile dopo aver tracciato linee rosse più volte per poi attraversarle poco dopo? I colloqui iniziali tra il capo della NATO Stoltenberg e Zelensky sulla consegna di bombardieri nucleari F-35 sono già in corso, e sia gli Stati Uniti che la Francia non escludono la consegna di aerei da combattimento all’Ucraina.

“Stiamo combattendo una guerra contro la Russia”, ha affermato il ministro degli Esteri tedesco a una riunione del Consiglio d’Europa.

La signora Baerbock non sa cosa sta dicendo? O intende inviare soldati tedeschi per scortare carri armati tedeschi in battaglia contro la Russia nel prossimo futuro, poiché non c’è tempo per addestrare soldati ucraini? Oppure siamo stati tutti ingannati e questo addestramento è avvenuto da tempo, poiché mesi fa si è deciso di rifornire i carri armati Leopard?

Ad ogni modo, senza l’intervento diretto della NATO, l’Ucraina difficilmente raggiungerà il suo obiettivo di cacciare le truppe russe dal Donbass e dalla Crimea. “È difficile immaginare la vittoria senza una forza aerea”, ha detto Melnyk, viceministro degli Esteri ucraino e ammiratore di Bandera.

Quindi l’Occidente dovrà decidere: giocherà alla roulette russa e rischierà una guerra nucleare per la vittoria dell’Ucraina? O gli Stati Uniti e la NATO torneranno in sé e convinceranno l’Ucraina ad accettare una pace di compromesso? Ma quanto è cinico allora incoraggiare la leadership ucraina a mandare a morte decine di migliaia, forse centinaia di migliaia di persone in più, fornendo costantemente nuove armi?

Siamo su una traiettoria discendente che potrebbe sfociare in una guerra mondiale e in un’apocalisse nucleare. Ed è anche chiaro che per entrare in guerra l’Occidente dovrebbe sacrificare quei “valori” che sono stati usati per giustificare la guerra, soprattutto la libertà di espressione e la democrazia. Perché un tale passo nell’abisso difficilmente potrebbe essere reso appetibile alla popolazione, anche con la continua propaganda mediatica.

“Solo tanta verità prevale quanto noi prevaliamo. La vittoria della ragione può essere solo la vittoria del ragionevole” – dobbiamo ora basarci su questa saggezza di Bertolt Brecht opponendoci alla coalizione di carri armati e bombardieri che parti dell’élite dominante stanno forgiando con una grande coalizione del ragionevole.

Questo deve alzare la voce e resistere, sul posto di lavoro, nei media, in parlamento e per strada!

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La RAI dichiara guerra alla Russia

Non sappiamo quanto fondamento abbia la leggenda metropolitana secondo la quale Bruno Vespa sia figlio naturale di Benito Mussolini. Probabilmente nessuna, anche se fu avallata da una discendente conclamata del Duce come Alessandra. Quello che è certo è che Vespa rappresenta l’archetipo del giornalista cortigiano, pronto a tutto pur di servire con vera e propria libidine il Potere, quale che esso sia.

Se il giornalista è quel professionista la cui meritoria funzione dovrebbe consistere nel rendere edotto il pubblico della realtà, diffondendo l’informazione su quanto avviene nel modo più obiettivo e imparziale possibile, ben si può intendere come tutta la lunga e fortunata carriera di Vespa abbia ben poco a che vedere con tale funzione.

Ce lo ricordiamo ancora giovinetto, o quasi, quando appollaiato sugli scranni del Telegiornale, ancora monopolista esclusivo dell’informazione pubblica e privata, propinava all’Italia sotto shock per la strage di piazza Fontana la balla della responsabilità di Valpreda e di Pinelli, destinata a coprire le trame dei fascisti e dei servizi italiani e statunitensi che di quella strage furono i veri autori.

Sono passati ben più di cinquant’anni e il nostro Bruno è più che mai sulla cresta dell’onda e ben inserito nei circoli del Potere di cui è sempre stato il fedele portavoce, senza tralasciare pruriginose attenzioni ai delitti che, solleticando i lati peggiori dell’animo umano, fanno maggiormente audience, e ci restituiscono un quadro inquietante della nostra società malata.

Non ci si può quindi stupire troppo del fatto che Vespa, abbinando il suo indubbio fiuto giornalistico coll’altrettanto indubbia propensione a servire perinde ac cadaver il Potere dominante del momento, si sia gettato a corpo morto sulle vicende ucraine per sponsorizzare in tutti i modi possibili Zhelensky e il progetto della NATO e di settori finora maggioritari del governo statunitense decisi a portare avanti la guerra contro la Russia fino all’ultimo ucraino e, se necessario, fino all’ultimo cittadino europeo.

È il progetto alla Stranamore oggi impersonato non tanto dal malfermo e senile Presidente Biden o dall’amorfo burocrate NATO Stoltenberg, per non parlare dei servi sciocchi presenti in massa nelle burocrazie e nei governi europei, quanto dal Segretario di Stato Blinken, portavoce dei settori oltranzisti che, pur di evitare la saldatura tra Russia ed Europa, hanno scelto di accettare il rischio di ridurre il nostro continente a un ammasso di macerie radioattive.

È questo il progetto nefasto che Vespa ha deciso più o meno consapevolmente di sposare, intervistando Zhelensky e poi invitandolo al Festival di Sanremo, con la complicità di un altro “artista” sovvenzionato in modo principesco dall’erario italiano, quale Amadeus.

Cornuti e mazziati, gli italiani non solo pagano di tasca propria Crosetto e le sue spese militari, contribuendo così a porre le premesse della propria autodistruzione bellica, ma anche il codazzo spettacolarizzato di nani e ballerine guerrafondai cui viene assegnato il principale palcoscenico multimediale in cui da tempo si esibisce la nostra disastrata autocoscienza nazionale.

Zelensky quindi potrà riproporre in quella sede il suo ripetitivo appello alla guerra e agli armamenti, approfittando della generosa ospitalità di Vespa, Amadeus e vertici RAI per porre un altro tassello della guerra globale e nucleare che si sta delineando. E questo proprio nel momento in cui il suo regime scricchiola, è costretto a ricorrere alla repressione generalizzata del dissenso e alla fucilazione dei soldati sempre più stanchi di questa inutile strage, palesando sempre più i suoi tratti genetici di autentico fascismo.

Il dubbio figlio naturale del Duce e l’indubbio erede politico del nazifascista ucraino Bandera si sono quindi ritrovati per ammannirci un’intollerabile spettacolarizzazione del conflitto fratricida che dura ormai da quasi un anno e, mentre fa ogni giorno migliaia di vittime ucraine e russe, minaccia di travolgere tutta l’Europa e il pianeta intero nel fuoco della guerra. Direi che la misura è colma.

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Il ruolo delle Nazioni Unite nel teatro delle ombre congolese

Il 2009 segna una svolta nella storia della Missione delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo (MONUC). A gennaio, la ribellione del Congresso Nazionale per la difesa del popolo (CNDP) è stata smantellata, il suo leader arrestato in Ruanda e la sua ala militare integrata nell’esercito congolese (FARDC).

In precedenza, quest’ultima e i Caschi Blu avevano assistito impotenti alle offensive delle truppe del generale Laurent Nkunda. Gli insorti avevano occupato vaste porzioni di territorio nella provincia orientale del Nord-Kivu e avrebbero potuto prendere in considerazione di marciare su Kinshasa.

Kigali aveva così aiutato il presidente congolese Joseph Kabila a salvare il posto. Prima infiltrando il CNDP per organizzare il putsch di Bosco Ntaganda – tentativo non riuscito del tutto – poi preparandosi a ricorrere alla forza per sconfiggere i ribelli, così costretti a deporre le armi.

Cambiamento di sistema

Se la « soluzione regionale » della crisi in versione ruandese era riuscita là dove i diciannovemila soldati dell’ONU avevano interpretato il ruolo di spettatori più o meno impotenti, nelle alte sfere della Casa di Vetro a Washington, in particolare all’interno del Dipartimento delle operazioni di mantenimento della pace (DOMP, o DPKO, secondo l’acronimo inglese), la convinzione di dotare la Missione di un mandato più robusto per fornire un sostegno attivo alle FARDC stava guadagnando terreno. Si imponeva un cambiamento di strategia, se non di sistema

All’epoca, il francese Alain Le Roy dirigeva il DPKO, secondo la consuetudine dell’istituzione creata nel 1992, della quale la Francia ha sempre detenuto il comando (a parte il primo mandato affidato a Marrack Goulding, con Koffi Annan come vice). Anche il Capo di Stato Maggiore dell’onnipotente Ufficio degli affari militari del DPKO era un francese, il generale Jean Baillaud.

Vice consigliere militare del Segretario generale (UNSG), secondo la nomina ufficiale, vi resterà fino al 2012. Ex paracadutista formato nelle missioni segrete nelle temibili Forze speciali transalpine – si legge la menzione « COS » (Comando delle operazioni speciali) nel suo profilo twetter – questo ufficiale è considerato un dottrinario.

Progettista della teoria dell’«Approccio globale» – aggiornamento della Dottrina della « Guerra rivoluzionaria » (DGR), la versione della contro-insurrezione elaborata dalla Scuola Militare di Parigi, e ad uso delle OPEX (Operazioni esterne) della Francia in Africa – Baillaud si trova nella giusta posizione e al momento giusto per appoggiare sul piano dottrinale la trasformazione radicale del concetto stesso di «mantenimento della pace » che si va preparando nei laboratori delle NU.

L’approccio contro insurrezionale

In effetti, come sottolinea nel suo notevole saggio, Militarizing the Peace: UN Intervention Against Congo’s Terrorist’ Rebels, l’americana Rachel Sweet, esperta delle Missioni delle Nazioni Unite: «La Missione delle Nazioni Unite ha sperimentato un nuovo approccio nel 2009, quando ha iniziato a supportare l’esercito congolese... Nel 2010, la Missione è stata riorganizzata con un mandato più aggressivo, al fine di stabilizzare le zone di conflitto nell’Est del paese cambiando il suo nome in MONUSCO, Missione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione nella RDCongo. Adottò un approccio “contro insurrezionale” per aiutare l’esercito congolese a “liberare, ripulire e mantenere i territori controllati dai ribelli”».

La sicurezza dei civili avrebbe dovuto essere così assicurata e l’autorità dello Stato ripristinata in tutto il paese.

Negli uffici della nuova MONUSCO viene elaborata una «Strategia di Sicurezza internazionale e Supporto alla stabilizzazione» («ISSSS»), «modellata sui principi della contro insurrezione, secondo la quale le operazioni militari di pulizia delle zone ribelli dovrebbero essere seguite da un processo di sostegno e di costruzione dello Stato» (The International Security and Stabilization Support Strategy, MONUSCO).

Con l’adozione di questo concetto di «stabilizzazione», la MONUSCO diventa l’esperimento pilota del DPKO, che sarà seguito via via dalla Missione multidimensionale integrata delle Nazioni Unite per la stabilizzazione in Mali (MINUSMA, aprile 2013) e dalla Missione multidimensionale integrata delle Nazioni Unite per la stabilizzazione in Centrafrica (MINUSCA, aprile 2014).

Dimenticando che lo Stato che stavano rafforzando era promotore o causa dell’insicurezza, si vedrà una decina di anni dopo come queste Missioni mancheranno il loro obiettivo dichiarato, la protezione dei civili: «Le missioni forniscono a questi governi una protezione e una legittimità di facciata di cui usano e abusano contro la loro popolazione. Nella RDC, ad esempio, la Monusco ha fornito supporto logistico e militare a un esercito che si distingue per le sue violazioni dei diritti umani» (T. Vircoulon, ex direttore Africa del think tank International crisis group, Il mantenimento della pace, versione ONU: radiografia dell’impotenza, Le Monde, 10/10/2017).

La Brigata di intervento

Tuttavia, nel 2013, la strategia di contro insurrezione e di sostegno allo Stato partner RDC da parte della MONUSCO diventa operativa. Per farla finita con la nuova rivolta dell’M23, iniziata nel marzo 2012, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (UNSCR) adotta la risoluzione 2098 nel marzo 2013. Il testo, redatto da Parigi, autorizza «a titolo eccezionale e senza che questo crei un precedente», lo schieramento a sostegno della forza del MONUSCO e dell’FARDC di una Brigata offensiva (Force intervention brigade, FIB), la prima nella storia delle Nazioni Unite.

A metà del 2013, la FIB si dispiega sul campo. Sotto forte pressione diplomatica e militare, in particolare degli elicotteri da combattimento MI-35 dell’esercito ucraino e dei Denel AH-2 della forza aerea sudafricana, in dotazione alla MONUSCO, l’M23 si ritira in Uganda.

Durante questo anno di guerra 2012-13, il generale francese Patrick Boubée de Gramont è responsabile della forza della MONUSCO. Collabora con il responsabile del DPKO, il suo compatriota Hervé Ladsous, per sostenere il governo di Kinshasa. Attraverso l’ONU, la Francia non ha mai lesinato gli sforzi per assicurare il mantenimento al potere di Joseph Kabila.

«I nostri ufficiali rappresentano la Francia in seno a tali comandi (del DPKO, ndr) e la loro azione volontaristica permette di servire direttamente gli interessi strategici e operativi del loro paese. Una forza di mantenimento della pace delle Nazioni Unite può permettere alla Francia di evitare una costosa operazione nazionale risparmiandole rischi politici, e di raggiungere i suoi obiettivi politico-militari», affermerà più tardi su una rivista militare questo generale di divisione proveniente dalla Marina.

Con Ladsous, Boubée de Gramont è a capo della forza della MONUSCO in un sistema di alleanze ibride che mobilita, con le FARDC, milizie locali come APLCS e l’FDLR, i ribelli hutu ruandesi responsabili del genocidio dei tutsi nel 1994 nel paese delle mille colline ed ex compagni d’armi dei militari francesi. Paradosso vuole che la revisione strategica avviata nel 2009 in seno al DPKO fosse stata finalizzata, almeno nelle intenzioni dichiarate, allo sradicamento di questo gruppo...

Azione segreta e pressione psicologica

Durante la guerra contro l’M23, i combattimenti convenzionali furono accompagnati da azioni segrete e da una forte pressione psicologica su questo movimento e sulle popolazioni. Molte bombe furono sganciate su Goma, nel Nord Kivu, e in territorio ruandese. Degli atti seguiti da una campagna mediatica che ne attribuiva la responsabilità all’M23.....

Nel luglio 2013 Boubée de Gramont lascia la MOMUSCO. Lo sostituisce... Baillaud, che ha appena terminato il suo mandato all’Ufficio degli affari militari del DPKO, giusto in tempo per volare verso la RDC e poi andare in Uganda per partecipare alle discussioni preliminari agli Accordi di pace tra l’M23 e il governo congolese. Secondo una delle nostre fonti dell’epoca, il generale «inquadrava» gli ufficiali superiori delle FARDC presenti ai colloqui.

Il dispiegamento della Brigata fu deciso, secondo i testi per neutralizzare non solo l’M23, ma l’insieme dei gruppi armati dell’Est. Alla fine del 2013, viene annunciata una seconda campagna, orientata in linea di principio contro le FDLR; tuttavia il MONUSCO cambia rotta e suggerisce al governo congolese di procedere allo sradicamento dell’Allied Democratic Force (ADF), una ribellione ugandese attiva nel Grande Nord del Nord Kivu dal 1995.

È l’inizio di una serie di eventi turbolenti che coinvolgeranno l’esercito congolese in un contesto di forze oscure che agiscono nell’ombra.

Il primo ad essere incaricato delle operazioni contro l’ADF è il colonnello Mamadou Ndala, assassinato il 2 gennaio 2014, a Beni. Il movente e le circostanze esatte della sua morte non saranno mai chiariti, tuttavia, la corte militare riunita a Beni in novembre dello stesso anno condannerà alla pena capitale l’imputato principale, il colonnello dell’FARDC Samuel Birotsho, ex alto ufficiale della rivolta del RCD-K-ML di Mbusa Nyamwisi, accusato di collusione con l’ADF.

Entra in scena Mundos

Queste ultime saranno sconfitte a Madina nell’aprile 2014 dal generale Bahuma, inviato sul posto dopo l’omicidio di Ndala. Circa nello stesso periodo, Kinshasa aveva inviato a Beni un generale della Casa Militare del presidente Kabila, Akilimali Muhindo Mundosi, detto Mundos. Doveva indagare sui presunti preparativi di una nuova rivolta in gestazione da parte di vecchi elementi dell’RCD-K-ML, che avevano mantenuto una catena di comando parallela all’interno delle FARDC e progettavano di deporre Joseph Kabila.

Ad agosto, Bahuma muore improvvisamente e misteriosamente in Sudafrica. Mundos prende il suo posto a capo di un’unità speciale, la 31ª Brigata. Tra i suoi ranghi è anche integrato un colonnello membro del Consiglio nazionale di sicurezza (CNS) e analista personale di Kabila in materia di sicurezza.

Sul posto da marzo e ufficialmente per mobilitare i gruppi armati chiamati Mai Mai e convincerli ad allearsi con le FARDC, Frank Ntumba, questo è il nome dell’allora colonnello, probabilmente collaborava già con Mundos nel quadro di una missione segreta.

All’inizio di ottobre 2014, iniziano a Beni i primi massacri di contadini. Si apre un ciclo infernale, ancora in corso oggi. Le versioni ufficiali, governativa e delle Nazioni Unite, attribuiscono rapidamente i fatti all’ADF, malgrado che questa ribellione fosse stata appena disfatta e non si fosse mai distinta negli omicidi di civili.

A novembre 2014, un rapporto di deputati inviati a Beni per indagare, riferisce quanto segue: ordini contraddittori all’interno dell’FARDC, ufficiali che impediscono ai loro subordinati di intervenire durante le carneficine, che si svolgono anche vicino alle loro posizioni, complicità di alcuni ufficiali con gli assassini, «Immobilismo o inazione della MONUSCO».

Altre relazioni, tra cui quella delle Nazioni Unite, poi inchieste e reportages, mettono in discussione la versione ufficiale. Il nome di Mundos, degli ufficiali della 31ª Brigata e di altri reggimenti ritornarono sistematicamente: tutti sarebbero stati coinvolti nei massacri e, secondo alcune fonti, ne sarebbero stati i promotori.

È edificante leggere, tra gli altri, questi estratti della sintesi del Comitato del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (CSNU) che presiede alle sanzioni contro individui o entità ritenuti responsabili di violazioni dei diritti umani e/o di crimini di guerra. Secondo il testo, datato febbraio 2018: «Mundos ha reclutato ed equipaggiato ex combattenti di gruppi armati locali affinché partecipassero a esecuzioni extragiudiziali e ai massacri perpetrati dall’ADF.
Mentre era il comandante dell’operazione Sukola I delle FARDC, Mundos ha dato supporto e anche comandato una fazione di un sottogruppo dell’ADF, noto come ADF-Mwalika. Sotto il comando di Mundos, l’ADF-Mwalika ha compiuto attacchi contro civili con il sostegno supplementare dei combattenti delle FARDC, anche in questo caso sotto il comando di Mundos durante le operazioni»
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La Scuola di guerra di Kinshasa

Tuttavia, più di tre anni dopo la pubblicazione, che include Mundos nell’elenco delle persone sanzionate dalle Nazioni Unite, queste continuano a sostenere sul campo un esercito coinvolto in atrocità commesse contro le popolazioni. D’altronde e una volta partito da Beni, Mundos ha continuato la scalata nelle gerarchie dell’FARDC.

Nel gennaio 2021, il presidente della Repubblica Democratica del Congo Tshisekedi ha inaugurato la Scuola di Guerra di Kinshasa che è frutto del CHESD, il Collegio degli alti studi di strategia e difesa di Kinshasa, fondato dalla società francese THEMIIS (The Management Institute for International Security) e di cui il generale Baillaud è stato direttore accademico prima di lasciare il suo posto alla MONUSCO, nel luglio 2016.

Se la tragedia di Beni e dell’ADF si rivela così essere la storia di una contro insurrezione condotta secondo i suoi metodi più radicali (creazione di gerarchie parallele nell’esercito e mobilitazione di una falsa ribellione per attaccare i civili e inoculare la paura nelle popolazioni), è lecito o meno chiedersi se i suoi autori locali, nascosti in uno scenario oscuro e di dissimulazione, non fossero stati formati ai principi della «Guerra Rivoluzionaria» della Scuola Militare di Parigi, la più estrema delle dottrine anti-sovversive?

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Guerra in Ucraina - La maggioranza degli italiani ancora contraria all'invio di armi

Se mai ce ne fosse stato ancora bisogno, è arrivata una ulteriore conferma che la maggioranza della popolazione nel nostro paese non è d’accordo con governo e parlamento nell’inviare ancora armi all’Ucraina. E che soprattutto vuole che la guerra cessi a qualunque costo, anche quello di bypassare la leaderhisp ucraina.

Un nuovo sondaggio di Euromedia Research, presentato dalla sua direttrice Alessandra Ghisleri, conferma infatti che la maggioranza degli italiani (il 52%) rimane contraria all’invio di armi all’Ucraina.

Il campione intervistato si schiera anche contro un eventuale intervento della Nato nel conflitto. E la maggioranza relativa pensa che la guerra finirà con un cessate il fuoco negoziato con la Russia che poi sarà imposto a Kiev. Le opzioni che raccolgono maggiori consensi sono quelle di: “Negoziare con i russi un cessate il fuoco alle spalle degli ucraini per imporlo agli aggrediti” (38,2%), “ridurre il sostegno militare a Kiev per convincere Zelensky dell’impossibilità di vittoria” (25,6%), “entrare in guerra per salvare l’Ucraina e distruggere la Russia a rischio di distruggere anche se stessi” (8,4%). Un quarto degli intervistati “non sa e non risponde” (27,8%).

Solo un terzo degli intervistati (33,9% ) ritiene doveroso il sostegno all’invio dei carri armati tedeschi Leopard 2 all’Ucraina, mentre il 58% è contrario in quanto vede in questa scelta la possibilità di un inasprimento del conflitto. Il 68% degli intervistati si dice contrario anche a un eventuale intervento della Nato nella guerra.

Gli italiani sentono il conflitto in Ucraina ancora lontano, ma tra i giovani la percezione è assai diversa: il 15,8% sente vicine le ostilità della guerra e il 51% le sente addirittura prossime.

La Ghisleri ha spiegato nel programma Rai “Porta a Porta” che la percezione che è peggiorata rispetto a un altro sondaggio – sempre a cura di Euromedia Research – effettuato a metà dicembre, nel quale i dati erano indubbiamente più improntati all’ottimismo rispetto ad adesso e che la percentuale di contrari all’invio di armi è aumentata rispetto a dicembre. Mentre i favorevoli sono leggermente in calo nonostante la propaganda di guerra a televisioni unificate.

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Sorrentino, i genitori e la scuola. Al di là dell’entusiasmo...

Da alcuni giorni gira sui social un video di 3 minuti, preso dalla serie Call my agent, in cui Paolo Sorrentino parla con un certo Vittorio della sua esperienza, in veste di nonno, degli incontri scuola famiglia.

Il video mi è arrivato da colleghi, entusiasti per come Sorrentino bacchettava i genitori e ne criticava l’entusiasmo immotivato, definito da lui “il sentimento più orrendo dell’essere umano”.

In un clima di esaltazione collettiva, c’è tra i genitori chi si propone come insegnate di batteria, chi di macarena, chi come allenatore di ciclismo pur guardandolo solo in televisione e poi c’è lui, Sorrentino, su cui alla fine cade lo sguardo di tutti e che declina l’invito degli astanti a fare le riprese dei corsi pomeridiani e ne spiega il perché.

Dice che quando i suoi figli erano piccoli, il pomeriggio dopo la scuola o durante le vacanze, semplicemente giocavano per i fatti loro e tutto sommato ora gli sembrano felici.

Il suo intervento gela gli interlocutori, alcuni dei quali lo bollano come assassino e delinquente. La scena si conclude con Sorrentino che comunica a Vittorio di aver scritto una lettera a Dio per chiedergli di educare i genitori.

Appena ho visto il video mi è arrivato subito quel misto di sottile cinismo, arguzia e supponenza che per molte persone è ragione di vanto, oltre che segno di superiorità intellettuale.

Questa modalità narrativa veicola una visione della realtà: dei genitori, che hanno tempo da perdere, dal basso delle loro passioni amatoriali o anche velleità distorte, propongono dei progetti pomeridiani nella scuola dei loro figli, accolti dalla maestra, che dalle poche battute sta al loro stesso gioco, animata dallo stesso entusiasmo immotivato.

Dalle reazioni che l’algoritmo mi ha messo davanti agli occhi sui social, ho notato che i docenti accoglievano Sorrentino come un giustiziere, con lo stesso entusiasmo che lui criticava nei genitori.

E non ho potuto non pensare: “Certo i genitori sono un problema grosso nella scuola, ma perché lo sono diventati? E poi, in quanti docenti, presidi, impiegati, ministri, artisti c’è lo stesso tipo di esaltazione vuota? E ancora, perché la gestione del tempo libero degli studenti, ma anche degli adulti è cambiata negli ultimi 30 anni? E infine, a cosa dobbiamo questo fiorire di progetti formativi e ricreativi nelle scuole, sia per alunni che per docenti?”

Cominciando dall’inizio, gli argini sono crollati perché ‘il cliente ha sempre ragione’, e il cliente è il genitore, che decide di scegliere una scuola piuttosto che un’altra, allungandone l’esistenza, evitando la riduzione delle sezioni e la nomina dei docenti su più scuole, complicandone così il lavoro. Il ricorso da parte del genitore è l’arma che vince a prescindere, non la fermano nemmeno i colpi di pistola.

Ma chi è stato a indebolire gli argini, spesso minandoli di proposito, se non ministri, presidi, docenti e in più gli intellettuali e i giornalisti che sparano a zero sulla categoria, fomentando e reindirizzando a piacimento e convenienza la rabbia sociale?

Nessuno è al riparo dall’esaltazione immotivata, che spesso nasconde disagi inconsapevoli e vuoti esistenziali compensati alla meno peggio, come un abisso coperto dallo scotch.

Scegliere di raccontarne una manifestazione particolare, però, è una scelta politica, così come ogni nostra azione lo è e in più quelle artistiche ne intensificano ulteriormente la resa.

I progetti nella scuola, oltre che per rimpolpare l’offerta formativa dell’istituto, con una ricaduta positiva sulla sua immagine, possono assolvere a due funzioni: da un lato danno delle possibilità formative e ricreative ai ragazzi che non potrebbero permettersele al di fuori di essa per questioni familiari, sociali, economiche o organizzative; dall’altro sono un’opportunità per i genitori lavoratori, senza rete familiare e con scarse risorse, di sapere che i propri figli sono in un luogo con dei coetanei, che al di là della parrocchia, sembra l’unico posto aggregativo gratuito rimasto.

Ora giungiamo all’ultima questione del perché i figli di Sorrentino, pur non avendo preso parte a nessun progetto, sono così felici oggi. Senza scadere in un facile umorismo, vorrei semplicemente capovolgere l’immagine e la domanda: perché oggi sembra così difficile per i ragazzi interagire ed aggregarsi fuori da contesti controllati e pensati dagli adulti?

Anche prima del covid, dai sondaggi si riscontrava un aumento di forme ansiose e depressive tra ragazzi sempre più giovani, come mai? Perché i soldi del PNRR pensati per aumentare il benessere nella scuola saranno utilizzati per la sua digitalizzazione?

Perché la maggior parte dei docenti si presta a un gioco al massacro, pur se cosciente della ricaduta su se stessi e sulla società tutta? Perché continua a sottomettersi a regole e leggi sempre più ottuse, per poi sollazzare scodinzolando al primo che fa della sgangherata ironia sulla propria condizione?

Evitare queste domande oltre alla ricerca delle risposte va a gonfiare ulteriormente quell’entusiasmo che è l’altra faccia del cinismo. La stessa falsa moneta.

E certi interventi e certe reazioni hanno lo stesso effetto della saliva in aria, che si diffondeva, ai miei tempi, nell’aula dopo la lezione di musica, ad opera del compagno che con tutta disinvoltura roteava in aria il tubo della diamonica, provocando quella pioggia in caduta irregolare sugli astanti, dopo aver suonato le note di brani tristi e monchi, quanto ogni scuola.

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Croazia - Il fascino discreto dell’Euro cede il passo alla rabbia

È passato quasi un mese da quando, il 1 gennaio scorso, la Croazia è entrata a far parte dell’Eurozona con l’adozione dell’euro come moneta. L’ingresso della Croazia nell’euro è stato accolto con gioia dai vertici della Bce e dell’Ue, ma nel Paese si è verificato un forte rialzo dei prezzi, specie di generi alimentari e dei servizi che sta facendo imbufalire la popolazione.

La Von der Leyen aveva ovviamente affermato che: “L’euro porterà grandi benefici economici e sociali alle persone e alle imprese della Croazia. Abbasserà le barriere per le aziende, ridurrà i costi per gli importatori e gli esportatori, portando a una scelta più ampia e a prezzi migliori per i consumatori. Insieme all’adesione a Schengen, l’adozione dell’euro darà un ulteriore impulso al settore turistico cruciale della Croazia”.

Ma i cittadini croati non sembrano essere così entusiasti come la Von der Leyen, anzi smentendo concretamente la sua retorica, denunciano che la maggior parte dei rincari dei prezzi riguarda arrotondamenti che in molti casi – come avvenuto in Italia nel 2002 – superano di molto la conversione della moneta, con rincari dal 5 fino al 20 per cento rispetto ai prezzi precedenti l’introduzione della moneta unica europea.

I cittadini croati, hanno denunciato fra l’altro rincari per pane e burro anche del 30%. Il primo ministro Andrej Plenković ha accusato “una parte dei commercianti e imprenditori di approfittare della transizione dalle kune croate all’euro con questo comportamento irresponsabile” ed ha annunciato possibili interventi se la situazione non si normalizzerà.

Gli ispettori statali hanno ispezionato negozi e mercati in tutto il Paese alla ricerca di abusi, ma sono state inflitte solo 240 multe.

Il governo aveva incontrato le associazioni di categoria dei commercianti, i cui leader erano stati convocati dal ministro dell’Economia Filipovic il 3 gennaio per poi tenere le bocche cucite con i cronisti una volta terminato il vertice.

Secondo il giornale croato Vlada i rappresentanti dei commercianti non hanno parlato con la stampa dopo l’incontro, ma avevano affermato prima dell’incontro che gli aumenti dei prezzi non erano dovuti all’arrotondamento dei prezzi ma ad altri fattori, tra cui la crisi del Covid-19 e la guerra in Ucraina.

Gli aumenti dei prezzi, oltre a causare un danno economico ai cittadini croati, gettano ombre sul passaggio dalla valuta nazionale alla moneta unica che il governo vorrebbe far passare alla storia come un successo.

“Tutto è andato nel migliore dei modi e senza problemi, dalla fornitura di banconote e monete alle operazioni di pagamento e al funzionamento degli sportelli automatici”, ha affermato Plenkovic. Il passaggio all’euro, a detta del premier, rappresenta “un enorme passo avanti verso la piena integrazione nell’Unione europea”.

Ma i proclami europeisti di Zagabria, dopo gli effetti sugli aumenti delle tariffe, stanno venendo usati come argomento forte dalla forze più ostili a Bruxelles.

Ad esempio la Croazia, dal 2023 non sarà sicuramente più una meta low cost per le vacanze dei turisti europei, e il turismo è una delle principali fonti di introiti economici per il paese.

La crisi energetica e la guerra in Ucraina avevano già fatto alzare l’inflazione in tutto il mondo ed anche in Croazia, con un tasso del 13,9% annuale.

La Petrol, una società slovena che controlla un quarto dei distributori di carburante croati, ha protestato contro il ‘price cap’ imposto dalle autorità lo scorso febbraio, chiudendo tutti i punti vendita per un’ora lo scorso 28 dicembre e ha lamentato una perdita di 34,6 milioni di euro, solo sul mercato croato, nei primi tre mesi del 2022.

La Petrol ha accusato i governi di Lubiana e Zagabria di non aver pagato le compensazioni previste e di essere pronta a far causa “a meno che il governo non smetta di intervenire sui prezzi”.

La HEP, l’azienda elettrica nazionale croata, sta erogando da mesi energia a costi calmierati nelle principali catene di distribuzione.

Ma già tutte e tre le principali società di telecomunicazioni hanno annunciato che aumenteranno i prezzi a febbraio e i media locali hanno riferito che anche le banche intendono aumentare i tassi di interesse per i nuovi mutui.

Venendo come turisti li avevamo pure avvisati i croati, adesso benvenuti nel meraviglioso mondo dell’Eurozona!!!

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Joseph Ratzinger. L’eredità del “pastore tedesco”

A neppure tre settimane dal commiato del “pastore tedesco” (per parafrasare una storica copertina de il manifesto di quando fu eletto papa) è uscito, per sua volontà postumo, quasi volesse continuare a incombere sul suo successore, il primo libro di Joseph Ratzinger scritto da emerito: “Che cos'è il Cristianesimo”.

Neanche il tempo dunque di iniziare a sedimentare le reazioni di quel momento, con l’inesorabile coro di condoglianze, sentite come pure di circostanza. Che si sono incentrate soprattutto sull’intellettuale e il teologo forbito, ricordato nella sua lunga vita per il pontificato e il “mite” decennio da ritirato.

Sono però stati in pochi a risalire agli anni precedenti e a parlare di lui quale conservatore. Anzi, di più: un reazionario che da inquisitore dell’infinito papato (27 anni) di Karol Wojtyla (in quanto suo prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede) contribuì nella decade degli ’80 ad affossare la Teología de la Liberación latinoamericana, che altro non era che l’avanguardia nell’applicazione del Concilio Vaticano II.

Con al centro l’“opzione preferenziale per i poveri” e quelle “comunità ecclesiali di base” che intendevano ribaltare il secolare oppressivo schema coloniale (oligarchia versus peones) iniziato (a suon di “cappa e spada”) con la conquista.

Non fu un caso che ad aprire la II Conferenza dell’Episcopato latinoamericano a Medellin (Colombia) nell’agosto 1968 sia stato Paolo VI in persona, nel suo unico viaggio in America Latina (e mentre era in corso l’invasione sovietica della Cecoslovacchia).

Altrettanto precisa per tempismo fu la prima missione all’estero di Giovanni Paolo II nel gennaio 1979 a Puebla (Messico) due mesi dopo la sua elezione per, al contrario, arginare le conclusioni della III Conferenza di quei vescovi che avrebbero ratificato i contenuti e gli sviluppi della precedente. Come a dire che il destino del Concilio si giocò in gran parte proprio in America Latina.

Fu subito dopo che il Papa polacco reclutò l’ex arcivescovo di Monaco (diocesi successivamente assurta anch’essa alle cronache per la pedofilia) a capo del Sant’Uffizio, con l’obiettivo di affossare le aperture di quel Concilio ispirato da Giovanni XXIII (e attuato fin dove possibile da papa Montini) all’insegna di un ecumenismo che doveva essere aperto a tutti “gli uomini (e aggiungerebbe oggi papa Francesco “le donne”) di buona volontà”.

Senza parlare poi di quella nuova visione circolare e sinodale della Chiesa che il papa polacco ignorò, mantenendo il centralismo piramidale romano. Non che ci siano stati veti o abiure formali naturalmente. Salvo adottare quel mellifluo linguaggio frequente nel mondo ecclesiastico di cui Ratzinger era specialista: assumere (eventualmente) nella forma per non praticare nella sostanza.

L’asse Reagan-Woytila

Al contempo, nel subcontinente più cristiano-cattolico del pianeta, con quell’operazione venne spianata (forse pure inconsapevolmente) la strada al piano neoliberista di Ronald Reagan che contemplava fra le altre cose l’espansione delle sette evangeliche. Che già agli inizi degli anni ’80 annoveravano in Guatemala il generale golpista Efraín Ríos Montt, primo genocida delle popolazioni maya, e al contempo pastore della Iglesia del Verbo (mentre suo fratello Mario era vescovo cattolico).

Del resto risale ancora al 1969 il rapporto che Nelson Rockefeller consegnò al presidente Nixon al termine di una sua lunga missione oltre il Rio Bravo, dove lo allertava che, se non fermata, quella “sovversiva” teologia della liberazione avrebbe messo in pericolo alla radice l’imperiale dottrina Monroe dell’“America agli americani” (ristretti agli statunitensi).

Rapporto cui seguirono negli anni ’80 i due noti Documenti di Santa Fe redatti da ultraconservatori, dove per l’appunto si auspicavano investimenti milionari per la penetrazione dei predicatori fondamentalisti.

Ma almeno al Papa polacco si poteva concedere l’attenuante di provenire da un paese a “socialismo reale” e di essere di conseguenza attratto dalla sponda occidentale più conservatrice della “guerra fredda”. Che significava pure diffidare delle evoluzioni teologiche del Centro e Sudamerica con parvenze (spesso strumentali) di marxismo.

Così che “sua santità” si lasciò da subito influenzare dalla parte di vescovi latinoamericani (in testa il colombiano Lopez Trujillo e il peruviano Juan Luis Cipriani) che, sotto l’abile regia dell’Opus Dei, intendevano resistere in quanto storico braccio ecclesiastico (al fianco di quello militare) delle oligarchie locali.

Al Cardinale Ratzinger il compito di istruire le censure e le contestazioni a teologi come il peruviano Gustavo Gutierrez o i brasiliani Clodovis e Leonardo Boff (ma anche in Europa il coetaneo svizzero/tedesco Hans Küng e lo spagnolo José Maria Castillo).

Per non parlare del Padre gesuita basco Jon Sobrino, trapiantatosi in El Salvador, particolarmente preso di mira dal cardinale Joseph per i suoi scritti che umanizzavano eccessivamente la figura di Gesù di Nazareth, come a sostenere che se lui era “il figlio di dio” allora lo erano allo stesso modo tutti gli altri essere umani.

Sobrino era particolarmente vicino all’arcivescovo di San Salvador, Oscar Romero, assassinato dagli squadroni della morte nel 1980 mentre celebrava messa, e la cui canonizzazione fu sbarrata per decenni dall’accoppiata papale polacco-tedesca. Fino all’insediamento sul soglio di Pietro dell’argentino Bergoglio che nel 2018 poté convertirlo in San Romero de America.

Guarda caso anche qui in coppia con Paolo VI che era stato l’unico papa a sostenere mons. Romero in vita. Così come nel 2014 Francesco, insieme alla precipitosa canonizzazione di Wojtyla, pretese, in contemporanea, anche quella di papa Roncalli.

Non poteva del resto che toccare al primo pontefice latinoamericano riabilitare pure, poco prima che morissero, i due sacerdoti-ministri del governo rivoluzionario sandinista Miguel d’Escoto (agli esteri) ed Ernesto Cardenal (alla cultura) sospesi a divinis all’indomani del viaggio di Wojtyla in Nicaragua quel fatidico venerdì 4 di marzo del 1983 (noi eravamo lì) quando fu clamorosamente contestato in piazza a Managua durante la messa. Evento poi rimosso per sempre dai resoconti dei decenni successivi.

L’ombra di Romero

Mentre il seguente 6 marzo, in El Salvador in piena guerra civile, fu ricevuto dal mandante dell’uccisione di Romero, l’ex maggiore Roberto D’Aubuisson (allora presidente del parlamento); non senza aver voluto almeno prima (rompendo il protocollo) inginocchiarsi sulla tomba dell’arcivescovo. Che aveva comunque clamorosamente delegittimato in vita nel maggio 1979 in Vaticano intimandogli che “doveva in qualche modo dialogare con quel governo”.

Quel tragico viaggio nell’istmo centroamericano, preparato anche con Ratzinger, culminò in Guatemala con il generale/reverendo Rios Montt che lo accolse all’aeroporto con tutti gli onori (per non parlare dell’apparizione di Wojtyla in Cile, quattro anni più tardi, al fianco del dittatore Pinochet).

All’indomani della caduta del Muro di Berlino Giovanni Paolo II rivolse finalmente le sue attenzioni all’unico sistema rimasto, quello del libero mercato retto dal “dio denaro”. Ma da allora nessuno gli fece più caso (vedi invasione dell’Iraq).

Cercò pure di recuperare in qualche modo l’America Latina chiedendo l’aiuto e promuovendo figure più aperte come Jorge Bergoglio e l’honduregno Óscar Rodríguez Maradiaga. Col cardinale Ratzinger almeno formalmente più dialogante anche con figure come il teologo Gutierrez. Ma ormai era troppo tardi.

Basti dire che oggi, per esempio nel gigante Brasile, i seguaci del fondamentalismo religioso (nonché “bolsonaristi”) superano quasi in numero i cattolici. Da ultimo è giunto il subentro sul soglio di Roma di un Benedetto XVI “addolcito” quanto geopoliticamente algido. Incorso pure in qualche infelice scivolone sui temi da lui ritenuti prioritari: come la “lezione” di Ratisbona, o la riabilitazione dei “lefebreviani” e della messa in latino (con i fedeli alle spalle del celebrante). Tuttavia si è salvato in qualche modo con l’ultimo atto da pontefice: le dimissioni.

Chissà, dopo lo scoppio del Vatileaks, comprese che da sapiente studioso e spiritualista quale era non avrebbe potuto mettere mano alle riforme in quel vespaio che era la curia vaticana. E così è finito col campare più da emerito che da papa, chiuso in un relativo silenzio ma pur sempre continuando a fare da ingombrante riferimento degli esponenti ed apparati tradizionalisti del cattolicesimo.

Solo il suo fedelissimo assistente Georg Gaenswein si avventurò in qualche isolata quanto maligna forzatura. Anche se almeno a lui tocca riconoscere di aver rotto per primo la fitta coltre d’ipocrisia incombente sul lutto papale evocando da subito (dalla sua prospettiva) “i diavoli che circolano” nella Santa Sede.

Que descanse en paz dunque e comunque Benedetto Ratzinger, si direbbe oltre Atlantico; in quello che non poteva che essere il sepolcro occupato da papa Wojtyla prima di essere proclamato “santo”. Se intendeva combattere il relativismo con una rassicurante fede nel solo aldilà, al contrario avrà contribuito a rinsaldare il processo di secolarizzazione e decadenza della Chiesa Cattolica, con il conseguente svuotamento dei templi.

Mentre Francesco, unico “vicario di Cristo” rimasto, tenta, contra viento y marea si proferirebbe ancora laggiù, di risalire la china di quel visionario Concilio dell’“anche di qua”, eretto da due Papi e demolito dai loro due successori.

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