Jeff Beck non è stato un grande compositore, avendo solo sporadicamente firmato i propri brani, né un grande produttore, non avendo diretto nessuno dei suoi album classici. È stato però uno strumentista talmente rivoluzionario da rendere ininfluente chi firmasse i brani.
Sia chiaro, si è circondato per tutta la carriera di autori di riconosciuto prestigio, ma è stato a sua volta capace di valorizzarli, adattando il proprio stile a quello altrui senza mai snaturarsi. È qualcosa che si dice spesso dei grandi interpreti vocali, ma molto meno degli strumentisti: non è un caso che uno degli aspetti di Beck più amati dai colleghi, nonché dagli ascoltatori, sia proprio il suo lirismo, l'impressione che la sua chitarra cantasse.
Vengono spesso fatte notare, a sottolineare questa attitudine, le sue riletture di classici del rock in chiave strumentale, con i suoi assoli perfetti sostituti delle linee vocali, ma non è in realtà un argomento probante: cose simili avvenivano sin dai tempi degli Shadows. Il lirismo di Jeff Beck è semmai dovuto alla sua esecuzione di parti estremamente complesse, che non solo a dispetto di ciò non smarrivano la propria fruibilità, ma all'orecchio dell'ascoltatore medio riuscivano anche a nascondere il proprio tasso tecnico. Nell'immaginario comune, infatti, la difficoltà di un virtuosismo è legata alla sua velocità, e nello specifico a quella delle dita che scorrono lungo la tastiera: per sua stessa ammissione, Beck non è mai stato un chitarrista dotato di una velocità paragonabile a quella di alcuni suoi colleghi (è particolarmente nota la sua riverenza nei confronti di John McLaughlin).
Il suo lavoro più interessante avveniva attraverso l'uso della leva del tremolo, gli armonici, i bending usati per imitare altri strumenti (dall'armonica a bocca al sitar), i giochi di volume, l'inserimento improvviso di dissonanze e pause. Si incontrano pochi virtuosi dello strumento che sono in grado di modificare il proprio timbro in corsa e far apparire la cosa come organica, così come del resto i chitarristi noti per la loro ricerca sul suono sono raramente fra i migliori a livello tecnico: Beck era il perfetto punto d'incontro di due attitudini che la narrativa rock ha a lungo fatto apparire come antitetiche, ma che non è affatto detto debbano esserlo. Un approccio scevro di ideologie e fra i più curiosi emersi dal rock britannico degli anni Sessanta, tanto da non venire mai sorpassato dal tempo. Proprio per la sua capacità di muoversi di pari passo con l'evoluzione dello strumento e delle tecniche di trattamento del suono, il Beck del 2000 aveva uno stile diverso da quello degli anni Sessanta, laddove Eric Clapton e Jimmy Page – tanto per citare i due colleghi che, come lui, hanno militato negli Yardbirds – una volta raggiunta una certa maturità stilistica non sono più riusciti a progredire.
Questa
sua attitudine mutagena verso lo strumento si è riflessa anche sullo
stile dei suoi dischi: dalla metà degli anni Sessanta a oggi, Beck ha
affrontato musica beat, psichedelia, blues, hard rock, funk, jazz-rock e
sperimentazione elettronica.
L'album oggetto dell'articolo è il
secondo della fase jazz-rock, o jazz fusion che la si voglia considerare
(il confine è labile e se Beck è un musicista rock, la band che lo
sostiene nello specifico proviene invece dal jazz).
Fortemente suggestionato dalla Mahavishnu Orchestra del già citato John McLaughlin, Beck chiude la breve esperienza in compagnia di Tim Bogert (basso) e Carmine Appice (batteria), e abbandona il blues rock che ha caratterizzato la sua carriera in proprio fino a quel momento: il nuovo orizzonte è per l'appunto verso l'ibridazione fra il rock e il jazz elettrico.
Pubblica così due dischi gemelli a breve distanza l'uno
dall'altro: "Blow By Blow" (1975) e "Wired" (1976), entrambi interamente
strumentali e prodotti da George Martin (il mentore dei Beatles è tutt'altro che fuori posto nell'ambito, avendo curato proprio in quel periodo "Apocalypse" della Mahavishnu Orchestra).
Il
più noto fra i due è "Blow By Blow", che all'epoca raggiunse
inaspettatamente il numero 4 della classifica statunitense, ma ci sono
diverse ragioni per ritenere "Wired" più importante per il percorso
dell'artista: primo, non ricorre alle stucchevoli parti orchestrali
presenti nel disco precedente; secondo, pur presentando una cover a
testa, "Wired" è per il resto composto esclusivamente da brani firmati
dai membri della band che accompagna Beck durante le sessioni, mentre
"Blow By Blow" ricorre a ben quattro brani a firma esterna (fra i quali
un paio di Stevie Wonder,
grande amico di Beck) – qualunque sia il giudizio di valore che si
voglia dare sui pezzi in ballo, "Wired" è senza dubbio un prodotto più
personale e con meno ingerenze creative estranee allo studio di
registrazione; terzo, con "Wired" fanno ingresso in formazione due
musicisti fondamentali, non a caso ex-membri della Mahavishnu Orchestra:
il tastierista Jan Hammer e il batterista Narada Michael Walden.
Oltre ai due appena citati, lo accompagnano turnisti di prestigio quali Wilbur Bascomb (fra i bassisti più richiesti in ambito rhythm 'n' blues), Max Middleton (Clavinet e pianoforte elettrico, già membro chiave in "Blow By Blow") e Richard Bailey (batteria in un paio di brani, in assenza di Walden).
"Led Boots", composta da Middleton, apre l'album con un jazz-rock distorto guidato da un ritmo funky, che alterna un classico andamento in 4/4 a una parte in 7/8 in cui però il ride continua a scandire i quarti. Gli assoli sono affidati prima alla chitarra di Beck e poi al Minimoog di Hammer.
"Come Dancing", primo contributo di Walden, si poggia su shuffle di batteria e basso slappato. Il primo assolo di chitarra è segnato dall'effetto dell'Octaver (un pedale che fa suonare una nota singola come doppia, in questo caso settato sull'ottava bassa). È un effetto solitamente utilizzato per gonfiare il suono, aumentando la potenza e la ruvidità delle note basse della chitarra (non a caso, due decenni dopo se ne sarebbe fatto uso nella scena stoner), ma Beck riesce a gestirlo con estrema pulizia, adattandolo così a un arrangiamento dalle sonorità limpide e levigate. Il passaggio più interessante arriva a 3' 10": la chitarra esegue una frase in La maggiore (fino a quel momento il brano era in Re minore), dopodiché esegue una serie di accordi che, per semitoni, ritorna nella tonalità di partenza.
"Head For Backstage Pass" è un breve jazz-funk
firmato da Bascomb, con il basso che guida i lavori prima con un assolo e
poi con un riff che sembra una versione anabolizzata dei classici groove
della Motown. Beck si prodiga in uno dei suoi assoli più rapidi, mentre
il piano elettrico sincopato di Middleton insegue la chitarra. Hammer
apporta "Blue Wind", jam di blues-rock tecnologico dal riff
particolarmente orecchiabile. L'assolo, che fa un uso esasperato della
leva del tremolo, tocca l'apice a 3' 03", quando appare una rapida
sequenza in sedicesimi. Parti simili si eseguono solitamente in
plettrata alternata, ma Beck la suona in scioltezza senza plettro (il fingerpicking
è da sempre il suo stile preferito, sin da quando, ancora giovanissimo,
tentava di imitare il leggendario chitarrista country Chet Atkins).
Il
trittico finale è interamente firmato da Walden. "Sophie" si apre con
un paesaggio atmosferico in 7/8 per chitarra blues e pianoforte
elettrico arpeggiato, densa di tensioni armoniche, per poi mutare in una
jam in 4/4 (il basso esegue comunque una scala ascendente che
dà la sensazione di trovarsi ancora in tempo dispari, per poi aggiungere
un'ultima nota e far quadrare il passo).
Si chiude con il midtempo funky di "Play With Me" – su groove
di Clavinet e caratterizzato da un futuristico assolo di Minimoog in
cui Hammer anticipa in qualche modo la musica dei videogiochi – e il
romantico acquarello semiacustico di "Love Is Green", con Walden al
pianoforte: pur stilisticamente distante dal resto della scaletta (si
adatterebbe forse più ai dischi pubblicati in quel periodo
dall'etichetta jazz tedesca Ecm), è tanto breve e delicato da non
risultare fuori luogo. Sigilla l'album quasi come i musicisti
riprendessero fiato dopo una lunga cavalcata.
Uscito nel maggio
del 1976, "Wired" raggiunge il numero 16 della classifica americana il 7
agosto, rimanendo in classifica per 25 settimane e vendendo un milione
di copie. Beck sarebbe tornato a pubblicare un album in studio soltanto
quattro anni più tardi, con "There & Beck", a riprova di un
carattere volatile e poco incline al compromesso: negli anni Settanta
pause così lunghe fra un disco e l'altro erano piuttosto anomale.
Proprio l'attitudine radicale ha fatto tuttavia sì che la sua fiammella di esploratore ardesse a lungo, superando indenne lo scorrere del tempo: basti pensare a dischi come "Who Else?" (1999) e "You Had It Coming" (2000), che sfoggiavano addirittura influenze breakbeat e industrial. Non esattamente le sonorità più prevedibili per un chitarrista emerso dal blues rock degli anni Sessanta.
Jeff Beck è morto quasi all'improvviso, il 10 gennaio 2023, per una meningite batterica fulminante. Nei momenti in cui questo articolo viene pubblicato sui vari media campeggiano ancora gli elogi e i tributi dei molti musicisti che hanno subito la sua influenza.
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