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31/10/2021

Assassino senza colpa? (1987) di William Friedkin - Minirece

Sodom - 2001 - M-16

Se c’è una line-up dei Sodom a cui non sono mai stato affezionato è quella con Bernemann e Bobby Schottkowski. Quest’ultimo oggi è in una delle due incarnazioni degli storici Tank, e, se siete interessati ai fenomeni di bipolarismo metallico (Batushka, Rhapsody), dovreste quanto meno documentarvi sulla loro attuale situazione, poiché è spassosa.

Tom Angelripper li aveva raccattati da un gruppo crucco chiamato Crows. Questi ultimi avevano pubblicato su Century Media un solo album, The Dying Race del 1991, un power metal raffinato ed americaneggiante che non lascia minimamente presupporre che alcuni di loro un giorno sarebbero finiti in una delle formazioni più rozze al mondo per antonomasia. Ogni volta che rileggo il nome di Bernd Kost (Bernemann) nei crediti di The Dying Race stento a crederci. Ma è così.

Gli errori che ho visto Bernemann mettere a segno sono per me una persecuzione, per quanto io non sia chitarrista; è l’anti palm-mute in persona e l’hanno preso in un gruppo thrash. Possa la Madonna perdonarmi per le cose che le ho detto le quattro volte che ho visto i Sodom con Bernemann alla chitarra. Bobby, invece, è un taglialegna prestato al drum kit. La suddetta line-up ha partorito un album pazzesco, uno solo, sebbene già da Till Death Do Us Unite si potesse percepire un piacevole vento di cambiamento. Questo disco è naturalmente M-16,. Figlio dello stesso 2001 di The Antichrist (finalmente bene) e Violent Revolution (bene, ma che paraculata gigantesca), batte entrambi gli album “rivali” giocando sul terreno dell’onestà e del fucile mitragliatore. 

M-16 è come quei videoclip reperibili su YouTube in cui i texani ci dimostrano che è possibile abbattere quaranta cinghiali in un pomeriggio sorvolando le praterie con un elicottero e un armamentario degno di Call of Duty – World at WarM-16 è un album “con la firma”, non dipende dagli accenni slayeriani come accaduto al pur buono Code Red, ma è Sodom in tutto e per tutto senza assomigliare né alle bordate di stampo Usa di Agent Orange né alla metallaraggine ostentata di Better off Dead, né al periodo estremo, né al violentissimo Tapping the Vein o agli ammiccamenti “punk” che ne seguirono.

M-16 è un’ultima versione inedita dei Sodom, corposa, egocentrica, a mitraglia, non troppo veloce ma nemmeno troppo melodica. È un album oscuro e pesantissimo, mai però spinto all’eccesso quanto il meraviglioso Tapping the VeinI tempi lenti si prendono tutta la parte centrale del disco, di cui ho adorato Little Boy più delle altre. Lo appesantiscono, forse, ma all’accelerazione di Lead Injection ci si sente nuovamente a casa. Gli ingredienti di facile richiamo sono la mid-tempo di sasso (Napalm in the Morning, volendo una nuova Remember the Fallen o una One Step Over the Line meno cupa) e la rockeggiante Marines, seguita dalla chiacchierata riproposizione di Surfin’ Bird. Fine.

Non mi interessano particolarmente i seguenti album dei Sodom. L’omonimo ha ancora benzina in corpo e un apprezzabile gusto melodico. In War and Pieces ha le ultime canzoni davvero sensate a firma della band tedesca. L’album orgoglioso, sfacciato e magnifico del trio (perché oggi un secondo chitarrista là dentro, perché?) Angelripper/Bernemann/Bobby è questo e soltanto questo. E quando uscì fu una goduria infinita esserne travolti. Un M-16 è per sempre. (Marco Belardi)

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La guerra nucleare che nessuno vuole e qualcuno auspica

Laura Cooper, vice assistente del Segretario alla difesa yankee per Russia, Ucraina ed Eurasia “invita” gli alleati degli USA ad annullare ogni limitazione alle forniture di armi letali (ca va sans dire: di carattere “difensivo”) ai nazigolpisti ucraini, portando a esempio il Pentagono che «al momento ha già rifornito Georgia e Ucraina di lanciarazzi “Javelin”».

Dunque, ha detto Cooper, dato che Kiev deve poter «acquisire i mezzi necessari alla difesa... vorrei che quelle limitazioni fossero tolte».

In effetti, secondo fonti presidenziali russe, a metà ottobre Kiev ha ricevuto una notevole quantità di «armi d’attacco d’alta precisione» e, nella sua recente visita a Kiev, il capo del Pentagono Lloyd Austin, ha confermato che tra le commesse di armi per 60 milioni di dollari, rientrano anche i lanciarazzi anticarro “Javelin”, la cui fornitura all’Ucraina era stata decisa dalla Casa Bianca già nel 2017.

La comunicazione tra “alleati” agisce però anche in senso inverso. Prendiamo, ad esempio, il caso tedesco: nonostante il Presidente Frank-Walter Steinmeier dichiari che le forniture di armi a Kiev costituiscano una strada di uscita dalla crisi ucraina molto rischiosa e controproducente, ecco che la sua Ministra della difesa, Annegret Kramp-Karrenbauer, predica spavaldamente l’impiego di armi nucleari contro la Russia. Ma non è la sola a farlo.

Stando al Financial Times (lo riprendiamo da RIA Novosti), vari “alleati” di Washington, sia d’Europa che del Pacifico, farebbero pressioni sugli yankee perché desistano dalla ventilata idea di passare al principio sul “non impiego per primi” dell’arma atomica, perché un simile passo potrebbe rendere la Russia “troppo audace”.

Allo stato attuale, nulla impedisce agli USA di lanciare un attacco nucleare preventivo, così che i loro alleati, come nota il FT, (e, vorremmo aggiungere, come predicava anche un noto Segretario generale italiano, scomparso nel 1984) si sentono protetti sotto il loro “ombrello nucleare”.

Secondo le fonti del FT, la Casa Bianca avrebbe diffuso un questionario tra gli “alleati” (detta così, non sembra già una barzelletta?) per conoscere la loro opinione in merito a eventuali mutamenti nella politica nucleare USA, e la maggior parte avrebbe valutato negativamente un cambiamento.

Nello specifico, sarebbero contrari Gran Bretagna, Francia, Germania, Giappone e Australia, che temono il passaggio al principio secondo cui gli USA ricorrerebbero all’arma nucleare solo in circostanze concrete e ciò sarebbe «un enorme regalo per Cina e Russia».

A proposito di armi atomiche e in vista di una riunione, nel 2022, delle potenze nucleari, nel quadro del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari, poche settimane fa la CNN aveva riportato notizie del Pentagono, secondo cui gli USA disporrebbero oggi, ufficialmente, di 3.750 testate nucleari, mentre altre 2.000 sono in attesa di essere smantellate.

Tra l’altro, già lo scorso aprile, Radio Sputnik riportava le parole della portavoce del Ministero degli esteri russo, Marija Zakharova, secondo cui Washington manterrebbe il silenzio sui propri piani per lo schieramento di nuove armi nucleari e il trasferimento delle infrastrutture militari NATO ai confini russi.

In realtà, aveva detto Zakharova «di nuovo gli USA, sulla base di congetture, avanzano pretese nei confronti della Russia per un suo presunto programma militare-biologico d’offesa, violando così la Convenzione sulle armi biologiche e tossiche (BTWC). Tali speculazioni sono prive di qualsiasi fondamento».

Di fatto, faceva notare Mosca, il Pentagono tace sui «propri piani per schierare nuove armi nucleari», proprio quando «le azioni USA e dei loro alleati per approntare l’uso delle armi nucleari non strategiche americane schierate in Europa nell’ambito delle cosiddette missioni nucleari congiunte NATO, contraddicono» il Trattato sulla non proliferazione delle armi nucleari.

Ma, come diceva già a metà del XIX secolo Aleksandr Herzen, «il Pacifico è il Mediterraneo dell’avvenire».

Ecco quindi che, appena tre giorni fa, il capo diretto della Zakharova, Sergej Lavròv, ha allargato il discorso alle ambizioni planetarie della NATO e alle nuove strutture militari in Estremo oriente, quali AUKUS e QSD: «Ci sono prove che i pianificatori della NATO stanno ora guardando a Est e, per bocca del Segretario generale Stoltenberg, affermano che la missione della NATO dovrebbe estendersi alla regione indo-pacifica.

A dar retta a loro, sembra che la loro missione debba estendersi a tutto il mondo. Ritengo che questi siano giochi molto pericolosi e noi faremo di tutto per contrastare tali tendenze e sensibilizzare tutti i paesi a cui si estendono tali tentativi, sui pericoli di un tale corso».

Il fatto è che, ha detto Lavròv, il lavorio diplomatico per contrastare tali piani NATO non è più sufficiente: «è necessario adottare altre misure, adeguate alle minacce nei confronti» della Russia e posso assicurare che «tutti i dipartimenti competenti, diplomatici e non, stanno facendo quanto necessario».

Tutto questo non significa affatto che Washington si sia dimenticata del Mediterraneo e delle sue vicinanze (il 30 ottobre, il cacciatorpediniere “USS Porter”, classe “Arleigh Burke”, armato di missili da crociera, è entrato nel mar Nero), tanto più che il gioco intermittente al rialzo condotto da Recep Erdogan sembra innervosire non poco alcuni degli “alleati” europei.

Ecco così che il Segretario di Stato Anthony Blinken e il suo omologo greco Nikos Dendias hanno prorogato di altri cinque anni l’accordo per l’uso delle basi militari a Creta, con gli USA che intendono accrescere il numero di basi in territorio ellenico, tra cui gli aeroporti della Grecia centrale e il porto di Alessandropoli, appena una quarantina di km a ovest del confine turco.

Sullo sfondo delle numerose dispute greco-turche nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale, l’intesa di Atene con gli USA segue di appena un mese l’accordo militare sottoscritto all’Eliseo tra il Primo ministro Kyriakos Mītsotakīs e Emmanuel Macron, che prevede l’acquisto da parte greca di 24 caccia Dassault Rafale e tre fregate classe “Belharra” prodotte dalla Naval Group (quella della fregatura coi sommergibili per l’Australia), oltre ad “azioni congiunte a tutti i livelli”.

L’americana The National Interest scrive che la parte politica di tale accordo, in caso si renda «necessaria una risposta armata ed entrambe le parti constatino un attacco al territorio di una di esse, le vincola a reagire con ogni mezzo a disposizione».

Non a caso, Mītsotakīs avrebbe qualificato l’accordo un «patto di difesa» e un «passo chiave» per tutelare gli «interessi europei» nel Mediterraneo. Stando così le cose, osserva Stanislav Tarasov su IA Rex, si è in presenza di un precedente: un’alleanza tra paesi membri della NATO, al di fuori dell’Alleanza atlantica.

Lo stesso Jens Stoltenberg ha reagito negativamente all’accordo militare franco-greco e ha ricordato agli “alleati” che «l’80% della spesa per la difesa della NATO proviene da alleati esterni alla UE» e che anche «la prospettiva strategica e le priorità dei tre principali membri della NATO» si trovano al di fuori della UE: USA, Gran Bretagna e Turchia.

Non sono certo estranei a simili passi, gli interessi economici distinti tra “alleati” nel Mediterraneo, in particolare in quello orientale. Ne è ulteriore prova il recente summit Grecia-Cipro-Egitto a Nicosia, nel corso del quale, ancora Mītsotakīs ha dichiarato che l’incontro è «coinciso con l’ulteriore tensione creata dalla Turchia, l’aggressione turca alla Repubblica di Cipro, l’invio di naviglio turco nella Zona economica esclusiva di Cipro e le azioni verso la costa di Famagosta» e ha accusato Ankara di «ambizioni imperiali e azioni aggressive dalla Siria alla Libia, dalla Somalia a Cipro e dall’Egeo al Caucaso».

In risposta, Ankara ha reagito al «blocco d’accerchiamento» degli alleati NATO. Ora, se come dice Macron, la Grecia agisce «non solo per se stessa, ma anche per l’Europa e la Francia», ciò significa che gli “alleati” NATO giudicano la Turchia colpevole non solo, o non tanto, per l’acquisto degli S-400 russi, quanto per il sempiterno interesse materiale: in questo caso, le ricchezze sottomarine.

Da un paio di mesi, navi oceanografiche turche stanno conducendo rilievi sismici in quella che la Grecia considera la propria piattaforma continentale, cioè l’isola di Castelrosso (Kastellorizo), oltre 70 miglia da Rodi, ma appena due miglia dalla Turchia.

I baci e abbracci tra i partecipanti “in presenza” alle vacanze romane del G20 nascondono (molto male) quel “ognuno per sé” che risponde perfettamente al credo di ogni liberale: in economia, politica, ma anche nelle strategie “di difesa” militare.

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Pensioni: il lavoro infame di CgilCislUil

“Per quanto riguarda le pensioni l’impegno del governo e ritornare in pieno al sistema contributivo”. Lo ha detto il presidente del Consiglio, Mario Draghi, nel corso della conferenza stampa al termine del Consiglio dei Ministri che ha approvato la legge di bilancio.

E come al solito, su un tema delicato qual’è quello delle pensioni perché va ad incidere sulle condizioni di vita di decine di milioni di persone, assistiamo, per l’ennesima volta, alle indecenti sceneggiate delle tre maggiori confederazioni sindacali.

Si, perché, a proposito delle manovre in corso, in questi giorni, sulle pensioni, andrebbe ricordato ai più giovani che l’idea di cambiare il metodo di calcolo da “retributivo” a “contributivo” con la legge Dini del 1995, in vigore dal 1° gennaio 1996, fu dei proprio dei sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil.

Una legge che segnò la fine del sistema previdenziale italiano solidale che garantiva pensioni dignitose a tutti. Basti dire che la proposta di Berlusconi di 2 anni prima che prevedeva “soltanto” di diminuire il coefficiente di ogni anno di anzianità, era, senza alcun dubbio, migliore.

Il calcolo contributivo, infatti, non si basa sugli ultimi stipendi o sulla media delle retribuzioni percepite come il sistema retributivo, ma sui contributi effettivamente versati nel corso dell’attività lavorativa, rivalutati e trasformati in rendita da un coefficiente che aumenta all’aumentare dell’età pensionabile.

Un calcolo che penalizza fortemente le categorie più povere, non prevedendo più nessun meccanismo solidaristico di compensazione. Di fatto, una poderosa spinta alla privatizzazione di tutto il sistema previdenziale pubblico che viene così trasformato progressivamente in ente che elargisce solo sussidi caritatevoli per i più poveri.

E quale fu il movente? Semplice: con l’entrata in vigore della riforma Dini (legge 335/1995) furono introdotti i fondi pensione cogestiti da assicurazioni e sindacati con la previsione di consigli di amministrazione “chiusi”, ovvero con dentro i sindacalisti (i così detti “enti bilaterali“, ovvero, organismi paritetici costituiti da associazioni padronali e sindacati dei lavoratori).

Sul punto Cgil Cisl e Uil non hanno mica cambiato idea e lo hanno chiaramente ribadito in questi giorni come da dichiarazioni riportate dal quotidiano il manifesto del 28 ottobre 2021(in foto).

Sappiano, dunque, chi devono ringraziare i lavoratori più giovani (tirati in ballo continuamente solo per aizzarli contro i più anziani) i quali, alla fine della loro infinita vita lavorativa (di mezzo tanti lavori a termine), percepiranno importi pensionistici da fame proprio grazie a quella riforma.

Una norma sciagurata che introdusse il famigerato “calcolo contributivo” proprio per ridurre drasticamente gli importi e spingere così i lavoratori a devolvere la propria indennità di fine rapporto in favore di una pensione integrativa privata.

Da allora, le sedi sindacali si sono trasformate, infatti, in dependance di alcuni grandi gruppi assicurativi ed i funzionari sindacali in veri e propri broker sempre a caccia di nuovi clienti.

Ma la cosa ancora più ignobile è che la svendita del sistema pensionistico pubblico del nostro paese fu ripagata ai traditori con una legge del 1996 che consente ancora oggi ai dirigenti sindacali italiani apicali di andare in pensione con il calcolo retributivo migliore del mondo: quello che consente di calcolare la pensione sull’ultimo mese di retribuzione percepito.

Ecco come si spiega, a titolo esemplificativo, una pensione stratosferica come quella dell’ex segretario della CISL Bonanni che ammonta a 336mila euro l’anno, ovvero, la stessa cifra che percepisce il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, o, per restare in Europa, il doppio esatto dello stipendio annuale del presidente francese Emmanuel Macron.

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Familiari delle vittime del Covid a Montecitorio

Il giorno in cui si commemorano i morti: “raccolte 10.000 firme, ora dateci una vera commissione d’inchiesta sulla gestione della pandemia”

I familiari delle vittime di covid organizzano una commemorazione pacifica e silenziosa nel giorno dedicato ai morti, il 02 novembre p.v. in Piazza Santi Apostoli, zona Montecitorio.

Sentiamo sempre parlare di memoria, dei camion di Bergamo e delle persone che su quei camion hanno pagato a prezzo della loro vita l’impreparazione dell’Italia ad affrontare la pandemia e la conseguente incapacità gestionale delle istituzioni le quali, nella fase iniziale, non hanno posto in essere provvedimenti drastici che, quantomeno in certe zone del Paese, avrebbero consentito di salvare parecchie vite umane.

Prendiamo atto che alle commemorazioni ufficiali delle vittime del covid nessun rappresentante istituzionale abbia mai ritenuto di far partecipare una delegazione dei familiari di quelle vittime.

Il 02 Novembre, una rappresentanza di questi familiari commemorerà i propri cari in Piazza Santi Apostoli, spazio concesso e autorizzato in zona Montecitorio, perché proprio il Parlamento è simbolicamente il luogo in cui le istituzioni stanno dimostrando di non volersi assumere la responsabilità di indagare sui motivi che hanno portato a contare un numero di vittime così elevato.

Sarà una manifestazione simbolica davanti a quel luogo in cui, almeno fino ad oggi, non si è ritenuto di istituire una commissione di inchiesta a 360 gradi, come è avvenuto in altri Paesi, senza limitazioni di tempo e luogo come alcuni emendamenti “trasversali” hanno tentato di porre, evidentemente nel tentativo di nascondere ogni eventuale responsabilità.

In queste settimane, gli stessi familiari delle vittime hanno lanciato una petizione proprio per una commissione d’inchiesta ad ampio raggio che ad oggi conta diecimila firme.

Saranno presenti anche Robert Lingard e una delegazione di avvocati del team legale che patrocina la causa civile pendente avanti il Tribunale Civile di Roma, nell’interesse di oltre 600 familiari di vittime COVID, volta a stabilire le responsabilità politiche ed istituzionali sia nella fase pre-pandemica che in quella iniziale e tendente ad ottenere un ristoro dei danni da perdita parentale, sulla quale anche molti organi di stampa non operano una puntuale e corretta informazione, come sarebbe doveroso.

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30/10/2021

Pasqualino Settebellezze (1975) di Lina Wertmüller - Minirece

Riforme oggi, e austerità dietro l’angolo

Anche stavolta, il tempo poteva essere galantuomo, ma non lo è stato. Mentre assistiamo ad un decisivo cambio di passo nel percorso di riforme in chiave neoliberista, le ultime notizie sul fronte dell’entità del sostegno pubblico all’economia non lasciano particolari dubbi su quale sarà l’atteggiamento dell’esecutivo Draghi in tema di politiche di bilancio per i prossimi anni. Come nostro solito, procediamo per gradi e cerchiamo di comprendere cosa sta accadendo in questi mesi concitati del primo, si spera, post-pandemia.

La crisi sanitaria ed economica generata dalla diffusione del Coronavirus e amplificata da un sistema sanitario a dir poco inadeguato a reggerne l’impatto, ha portato con sé la più grave perdita di reddito e di occupazione registrata negli ultimi 50 anni: una caduta del PIL di circa 10 punti nel 2020, associata a circa 1 milione di posti di lavoro persi nel nostro Paese (specialmente donne). Nei giorni più feroci del lockdown, ha iniziato ad aleggiare, in Italia e non solo, l’idea di un ritorno alla centralità dello Stato nell’economia, di un keynesismo non solo di facciata ma fatto di importanti, cospicui e rapidi interventi in campo economico volti a sostenere redditi e occupazione e a permettere al Paese di risollevarsi dalla crisi. Si è parlato di ‘sospensione del Patto di Stabilità’, ossia di qualche anno di accantonamento delle rigide regole europee che impongono ai Governi di spendere per garantire diritti, lavoro e reddito solo nella misura in cui incassano attraverso le tasse. Attenzione, però: le ferree regole di bilancio non sono state abrogate o cancellate, ma soltanto sospese. Come a dire: passata la festa, gabbato lo santo, un concetto già chiarito in estate dalla stessa Commissione europea (su questo torneremo in seguito).

Fiore all’occhiello di questi interventi che avrebbero riportato lo Stato interventista al centro del villaggio sarebbe dovuto essere il Recovery Plan, Recovery Fund e/o Next Generation EU, che si traduce a livello nazionale, nel caso italiano, nel PNRR. Purtroppo, all’abbondanza di nomi ed etichette non ha fatto seguito una gran quantità di risorse, oltre al fatto che diversi interventi finanziati dai fondi elargiti dalla beneamata Europa hanno avuto carattere sostitutivo rispetto a quanto il Governo avrebbe comunque speso facendo riferimento ad altre fonti di finanziamento. Sappiamo, tuttavia, che le risorse del PNRR hanno portato con loro una serie di condizioni capestro, ben peggiori di quelle del MES, e che l’Italia si è impegnata, sottoscrivendo con la Commissione europea l’accordo a monte del Next Generation EU, a rispettare ben 528 condizioni nei prossimi anni: in altre parole, ogni euro di risorse prestato o omaggiato dall’Europa nell’ambito del PNRR porta con sé una lista dettagliata e sconfinata di riforme del sistema economico che servono a ridurre ulteriormente il perimetro dei diritti delle classi meno abbienti per favorire l’espansione dei profitti dei ricchi.

Viene da chiedersi, allora, se accanto a questo spietato smantellamento dei residui di Stato sociale presenti nel nostro Paese vi sia, almeno, una politica di bilancio sufficientemente espansiva, volta a sostenere l’economia e a favorire uno sperato processo di ripresa post-pandemica. Sappiamo infatti che lo Stato potrebbe avere tutte le armi necessarie per favorire la crescita economica e occupazionale attraverso la leva della politica fiscale: immettendo nel sistema economico più risorse (attraverso spesa pubblica e investimenti) di quante ne preleva (riscuotendo le tasse), lo Stato può creare – senza particolari prezzi da pagare in termini di inflazione – reddito e lavoro. Si tratta, tuttavia, di una leva di crescita che trova un limite, del tutto artificioso e con precise finalità politiche, nei trattati europei, uno su tutti quel Patto di Stabilità e Crescita che impone il pareggio di bilancio e che era stato solo ‘sospeso’ agli albori dell’emergenza per evitare un completo tracollo dell’economia. E infatti, per gli anni in corso (2020 e 2021) il Governo – beneficiando di questa ‘sospensione’ – è ricorso alla spesa in deficit, seppur, come abbiamo visto in più occasioni, in misura largamente insufficiente ad evitare una copiosa crescita della disoccupazione, il crollo dei redditi, l’esplosione della povertà e dell’inattività, e l’aumento delle disuguaglianze.

Nonostante ciò, in questi giorni assistiamo a esternazioni che lasciano intendere come, per il prossimo futuro, il Governo sia intenzionato a ritornare pedissequamente sui binari dell’austero pareggio di bilancio previsto dai dettami europei. A conferma di ciò, intervenendo alla Giornata del Risparmio, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha rimarcato la necessità di ‘accelerare’ il percorso di rientro del debito. Le prese di posizione di Visco assumono i tratti di un vero programma politico. Il monito, che non lascia spazio ad interpretazioni, è chiaro: nel prossimo futuro, “sarà necessario accelerare il rientro, anche ricostituendo adeguati avanzi primari”. L’esatto contrario di quello che lo Stato dovrebbe fare per stimolare l’economia. Detto in maniera più immediata, perseguire adeguati avanzi primari significa che lo Stato dovrà tornare a spendere MENO di quello che incassa con le tasse. L’austerità nuda e cruda è alle porte. Non è tutto però, perché sostenere che “le misure di sostegno alla domanda non possono essere utilizzate per stimolare permanentemente l’attività economica” infatti, significa non solo preannunciare il “ritorno” pedissequo dell’austerità, ma anche di tutti suoi corollari. Ridurre il sostegno pubblico alla domanda aggregata infatti, significherà anche proseguire il percorso di politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro, le privatizzazioni dei servizi pubblici e la progressiva uscita dello Stato dall’economia, con la scusa, ormai smentita dai fatti, che ciò aiuti la crescita.

Si potrebbe pensare che siamo di fronte a delle suggestioni, a delle parole a cui, speranzosamente, non seguiranno dei fatti concreti. Tuttavia, l’ultima Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (NADEF) ci viene, purtroppo, in soccorso, e ci aiuta a sgombrare il campo da equivoci. Il documento, approvato ad inizio ottobre 2021, fotografa l’orientamento di bilancio che lo Stato intende perseguire per i prossimi anni. Ecco che le grigie parole di Visco si tramutano in dura realtà: il deficit (al netto della spesa per interessi) programmato per i prossimi anni, ossia l’ammontare di risorse che lo Stato effettivamente inietterà nell’economia per sostenere redditi e lavoro, si assottiglierà di anno in anno, fino a tornare ad una cifra prossima allo zero già nel 2024. In altre parole, non solo ogni euro di PNRR porta con sé un preciso decalogo di riforme dello Stato sociale, ma porta con sé, oggi o domani, decine di euro di tagli alla spesa sociale. Sullo sfondo, resta comunque la fine della sospensione del Patto di Stabilità e Crescita, che sancirà il rientro definitivo nello steccato dell’austerità di matrice europea.

La pandemia si esaurirà definitivamente, prima o poi. Quello che non cambierà, nemmeno dopo un’emergenza sanitaria ed economica della portata di una guerra, è l’attuale assetto politico-istituzionale in cui i Governi, tutt’altro che contro le proprie intenzioni, si trovano ad operare: un combinato disposto di austerità e riforme, in ossequio al neoliberismo incarnato dalle istituzioni europee, che non può far altro che alimentare la povertà e la precarietà di molti, a scapito degli interessi di pochi. Gli accadimenti degli ultimi mesi ci indicano, plasticamente, come il Governo Draghi (nonostante qualche fanatismo sensazionalista) sia perfettamente instradato su questo sentiero, con il pieno benestare delle istituzioni europee.

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BCE, Tesoro, Mercato: contrastanti attese

di Guido Salerno Aletta

Il 28 ottobre 2021 è una data che dovremo ricordare a lungo per la "non svolta" nella gestione della politica monetaria.

La BCE non è riuscita a rassicurare i mercati: nonostante abbia deciso di mantenere fermi i tassi di riferimento e di confermare la prosecuzione degli acquisti di titoli di Stato previsti dal PEPP fino a marzo 2022, e comunque quelli del QE, per la prima volta dal maggio scorso, il tasso di interesse sui Btp a 10 anni è tornato oltre la soglia dell'1%: i mercati scommettono su un rialzo dei tassi.

Si dice che sia stata una riunione interlocutoria, a Francoforte, in attesa dei nuovi dati sull'andamento dei prezzi e dell'economia europea nell'ultimo trimestre dell'anno: è ancora troppo presto sia per tirare su i tassi di interesse a causa dell'inflazione, sia di annunciare un prolungamento del sostegno monetario a causa del protrarsi della emergenza sanitaria e di un andamento ancora insoddisfacente della ripresa.

Il 2022 sarà un anno di estrema difficoltà: i governi europei stanno continuando a spingere sulla spesa e sul deficit, perché il recupero del crollo registrato a partire dal marzo del 2020 non è stato ancora completato.

Il fatto è che in Germania l'inflazione ha registrato un +4,5% annuo, un livello mai visto da 28 anni a questa parte: tassi di interesse ancora negativi sui Bund sono insostenibili, nonostante si tratti del safe asset per eccellenza nell'Eurozona. Il divario rispetto ai rendimenti dei Treasury statunitensi comincia a diventare eccessivo, con il rischio di generare un effetto perverso.

La liquidità immessa dalla BCE rischia infatti di riversarsi tutta Oltre Atlantico, rendendo asfittiche le richiesti di titoli pubblici europei, e quelli italiani saranno i primi a farne le spese.

Il Tesoro è invece apparentemente ottimista: nella Nota di Aggiornamento al Def 2021, ha aggiornato le previsioni programmatiche rettificando addirittura al ribasso gli oneri per interessi sul debito pubblico per gli anni 2022-2024: invece che assorbire il 3% del PIL, nel 2022 saranno del 2,9%; nel 2023 scenderanno dal 2,8% al 2,7%; e parimenti nel 2024 si prevede una riduzione dal 2,6% al 2,5% del PIL.

In valori nominali, gli interessi sul debito pubblico passerebbero dai 61 miliardi di euro pagati nel 2019 ai 50,6 miliardi previsti per il 2024.

L'ottimismo del Tesoro sull'andamento al ribasso dell'onere per interessi sul debito è ancora più evidente se si riflette sul fatto che i 61 miliardi di interessi pagati nel 2019 facevano riferimento ad uno stock di debito pari a 2.410 miliardi e che i 40,6 miliardi del 2024 sarebbero pagati a fronte di un debito lievitato di oltre 500 miliardi, giungendo a 2.959,3 miliardi.

Vero è che ci sono i favorevoli effetti di trascinamento derivanti dagli acquisti effettuati dalla BCE con il PEPP, ma l'ulteriore miglioramento previsto nella Nota di Aggiornamento è sicuramente un dato che non trova riscontro negli andamenti del mercato e nelle comuni aspettative.

Ci potrebbe essere dell'altro, che non viene anticipato.

Ci potrebbe essere, dietro le quinte, la costituzione di un Fondo a livello europeo per la gestione in comune dei debiti pubblici pandemici, facendovi confluire gli stock accumulati nel biennio 2020-2021: è una prospettiva che è stata rilanciata di recente dal Governatore della Banca d'Italia Visco, riprendendo quella che era stata formulata sin dal 2018 dall'allora Ministro per gli Affari Europei Savona.

Se fosse vera questa ipotesi, con una sorta di gestione comune a livello europeo del debito pandemico, verrebbero emessi eurobond a tassi estremamente convenienti, rastrellando dal mercato titoli dei diversi Stati per un importo corrispondente: sarebbero ceduti volentieri, anche a fronte di rendimenti inferiori, essendo titoli con una più elevata garanzia di solvibilità.

Si giustificherebbe così l'ottimismo del Tesoro nel rivedere al ribasso l'onere per interessi nei prossimi anni, visto che si riduce di un punto percentuale sul PIL in un quinquennio, passando dal 3,4% del 2019 al 2,5% del 2024 pur a fronte di 500 miliardi di euro di maggior debito pubblico.

Se intanto la BCE temporeggia, può essere che il Tesoro italiano tifi come la Banca d'Italia per costituzione di questo Fondo europeo per la gestione dei debiti pubblici pandemici: per l'Italia, si tratterebbe dei citati 500 miliardi di euro.

La BCE attende, timorosa: se conclude troppo presto la fase di espansione monetaria per contrastare l'inflazione rischia di affondare l'economia.

Il Tesoro attende, speranzoso: dopo il NGEU, a livello europeo si potrebbe fare un nuovo passo in avanti per la gestione in comune dei debiti pandemici.

Il Mercato attende, nervoso: i tassi devono aumentare, perché con l'attuale andamento dell'inflazione non ha senso continuare ad investire sui titoli europei.

Timorosa la BCE, Speranzoso il Tesoro, Nervoso il Mercato

BCE, Tesoro, Mercato: contrastanti attese

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Umberto D’Amato, «La spia intoccabile»

La storia di Federico Umberto D’Amato e dell’Ufficio Affari Riservati nel libro di Giacomo Pacini “La spia intoccabile”.

Nel corso di un incontro a Roma nel 1977 disse che non c’era da preoccuparsi del terrorismo nero. «Mi fa ridere», aggiunse. Ora il suo nome compare nell’atto di accusa della Procura generale di Bologna tra i mandanti e i finanziatori della strage del 2 agosto 1980, materialmente eseguita da neofascisti, la più grave di tutta la storia del Paese. Si tratta di Federico Umberto D’Amato, a fine anni Sessanta il «più potente funzionario degli apparati di sicurezza italiani». Così lo definisce Giacomo Pacini nel suo La spia intoccabile. Federico Umberto D’Amato e l’Ufficio Affari Riservati (Einaudi, pag. 265, 28 euro) che va a integrare e completare Il cuore occulto del potere: Storia dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale (1919-1984) uscito nel 2010.

D’Amato, nato nel 1919 a Marsiglia, dove il padre, commissario di polizia, si trovava per lavoro, riuscì in un arco di tempo assai breve a scalare i vertici degli Affari Riservati (Uar), il servizio segreto interno, nato nell’ottobre del 1948 nell’Italia repubblicana. La sua carriera ebbe inizio dopo l’8 settembre 1943, grazie ai buoni uffici di James Jesus Angleton, responsabile del controspionaggio statunitense, che lo reclutò per una missione (riuscita) nella Repubblica di Salò per entrare in possesso dell’archivio segreto dell’Ovra, la struttura spionistica fascista. Da qui in sequenza al comando dell’Ufficio politico della questura di Roma nel 1952 e nell’Uar a fine anni Cinquanta, dove assunse il coordinamento delle squadre periferiche già alla metà degli anni Sessanta, divenendo di fatto il capo del servizio, carica che assunse formalmente nel 1971. Non sempre chiare, sottolinea Pacini, furono «le ragioni della sua formidabile ascesa».

Modellato nell’immediato dopoguerra sulle base delle tecniche dell’Ovra, avvalendosi anche del personale precedentemente attivo in quella struttura, l’Uar – lautamente finanziato dai servizi americani – si specializzò principalmente in attività di controllo dei partiti di sinistra, progettando addirittura nell’aprile 1954, causa l’ostruzionismo in Parlamento, un piano per la «messa fuori legge del Pci». L’Uar assunse nel corso dei decenni diverse denominazioni, pur rimanendo inalterata la sua funzione. Ma è sotto la guida di D’Amato che assunse un ruolo centrale, entrando a far parte del Comitato di sicurezza della NATO, composto dai principali servizi segreti europei, e dando vita, per iniziativa dello stesso D’Amato, al cosiddetto “Club di Berna”, un coordinamento sovranazionale delle polizie.

D’Amato, documenta Pacini, nella sua veste di massimo dirigente del servizio segreto civile, operò per infiltrare i partiti di sinistra e le organizzazioni extraparlamentari; provocare con falsi manifesti inneggianti alla rivoluzione culturale cinese affissi in diverse città, un’operazione condotta grazie alle squadre di Avanguardia Nazionale; proteggere Freda e Ventura di Ordine Nuovo, fra i responsabili degli attentati sui treni nell’agosto del 1969 e della strage di piazza Fontana, depistando verso la «nuova sinistra»; accanirsi post-mortem su Giuseppe Pinelli, costruendo un «castello di carte» false «al fine di accusare un innocente».

L’ex generale dei servizi segreti Nicola Falde sostenne esplicitamente che «l’attentato di piazza Fontana era stato organizzato dall’Uar». D’Amato, tessera 554 della P2, morì il 1° agosto 1996. Alcuni funzionari testimoniarono che molte carte, con l’elenco delle spie del Viminale, furono nascoste in una «villa al mare», posseduta dall’“Intoccabile”. Un archivio segreto mai più rinvenuto.

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La paura al vertice, da Roma a Glasgow

Due vertici mondiali in due giorni danno la misura dei problemi che non trovano soluzione e che ogni potenza, o macroarea economica, vorrebbe risolvere a spese di qualcun altro.

Economia, rapporti internazionali, pandemia, ambiente… Non c’è un tema che non sia sorgente di crisi, e il peggio è che sono tutti globali e interconnessi.

Due vertici da paura, insomma, tra soggetti che ogni giorno perdono forza e presa sul mondo (Usa e Unione Europea, fondamentalmente) ed altri che salgono in forza e autostima (Cina su tutti, ma anche altri, con molte meno possibilità), altri che inseguono sogni regionali (la Turchia, in pieno delirio erdoganiano).

C’è una differenza sostanziale – al di là delle somiglianze esteriori (polizia nelle strade, “zone rosse” blindatissime, droni, elicotteri e carri armati) – con Genova 2001 e i G8 di quel tempo.

Allora si celebrava la vittoria del “pensiero unico” liberal-liberista, il comando Usa sul mondo, la “compattezza” del mondo occidentale che aveva da poco sconfitto il suo nemico storico (il “socialismo reale”) e aveva perciò il pianeta a sua completa disposizione.

Putin – a rappresentare la Russia, non l’Unione Sovietica – sembrava un trofeo esibito dal vincitore, più che un interlocutore di rilievo.

Oggi Putin neanche si presenta, interverrà in video, forse. E così Xi Jinping. Ossia i due “vincitori oggettivi”, senza muovere un dito, dopo l’ingloriosa fuga degli Usa dall’Afghanistan, appena due mesi fa.

Questo G20 romano ha proprio il destino talebano di Kabul tra i suoi temi principali. E le assenze segnalano che non c’è molto da discutere, se visto da un’altra angolazione (Russia e Cina hanno l’Afghanistan alle proprie frontiere, sono potenze asiatiche; gli Usa – e l’Europa asservita fin qui – sono di nuovo “l’estraneo” che si era intrufolato a forza in un territorio incompreso, dopo averne sollecitato e finanziato gli umori “anticomunisti”.

I sauditi e gli altri paesi musulmani di rilievo osservano ora silenziosi. Finito il tempo dall’alleanza blindata contro Mosca, finito anche il tempo della centralità assoluta del petrolio e del gas (il cambiamento climatico impone il cambio di paradigma o una fine lunga e dolorosa), impantanate nella savana le ambizioni di allargare all’Africa il segno dell’Islam, devono ancora trovare un’altra dimensione economica, finanziaria, strategica.

L’Unione Europea sogna di poter diventare in pochi anni un soggetto imperialista autonomo, dotandosi di un esercito continentale, oltre che di moneta unica e trattati comuni ancor più inflessibili.

Ma sconta un’arretratezza istituzionale proprio sul terreno che più conta in situazioni incerte: unicità del comando politico (e militare); catene di trasmissione delle decisioni operative snelle, veloci e funzionanti; unità di intenti e “patriottismo continentale” (in mancanza di altri valori “vendibili”, resta solo quello dei gaglioffi).

Due vertici con molti soggetti impauriti, dunque. Pieni di dubbi e con interessi contrastanti su ogni dossier.

Giustamente “i movimenti” – rappresentanti più o meno efficaci degli interessi esclusi da questi vertici – si organizzano per manifestare il proprio dissenso complessivo. Ma non hanno ancora colto quella differenza essenziale tra Genova 2001 e oggi: davanti non hanno UN nemico, ma diversi, in lotta fra loro. E non in grado di “fare muro” – come nel 2001 – contro chi chiede ascolto, rispetto, dignità, una vita migliore.

È una condizione strategica migliore, anche se meno facile da inquadrare, capire, interagire. La tentazione di prendere il G20 come un “tutt’uno” denota coazione a ripetere e pigrizia intellettuale, che inibisce sviluppi nel conflitto.

Sono due vertici da paura, e proprio questa coazione a ripetere è evidente nel modo di gestire la scadenza di oggi da parte dei “poteri italiani”. In assenza di soluzioni ai grandi problemi, si semina la paura e si criminalizza preventivamente ciò che si muove e occupa le piazze (e ovviamente non ci riferiamo al fuoco di paglia “no vax”).

Non c’è giornale e televisione che non si dilunghi soprattutto sui “pericoli” (gli eterni black bloc, gli “opposti estremismi”, gli “infiltrati violenti”, e via fantasticando), sorvolando allegramente sui “contenuti”.

Più un augurio, si può dire, che non una previsione. Si nota in superficie la “manina” governativa che suggerisce i servizi, in puro stile Minculpop. E in effetti, in assenza di soluzioni credibili per ognuno di quei problemi sistemici che tolgono il futuro alle nuove generazioni, poter gestire il previsto fallimento di entrambi i vertici in termini di “fermezza nella gestione dell’ordine pubblico” deve sembrare l’unica possibilità per distrarre ancora una volta “le masse”.

Ma è un gioco vecchio. Può servire a dilazionare il redde rationem. Non a invertire il declino di un potere capitalistico accecato dalla propria avidità.

Lo si vedrà, non paradossalmente, proprio a Glasgow, nel Cop26, più ancora che a Roma. Sull’ambiente e il cambiamento climatico, infatti, è ogni giorno più difficile nascondere che i governi occidentali – soprattutto – non sono in grado di decidere nulla.

Solo qualche ballon d’essai, qualche frase “green”, tipo la “transizione ecologica” del governo Draghi, che rinvia persino una misura propagandistica come la “plastic tax” per non disturbare il business di una filiera locale.

Ogni scelta in questo campo comporta infatti un rovesciamento completo del rapporto tra capitale privato e scelte politiche, una assoluta prevalenza della dimensione pubblica su qualsiasi interesse privato, di qualsiasi dimensione.

Un rovesciamento che sta cominciando ad avvenire in parte in Cina, oltre che in qualche altro paese socialista. Ma che resta tabù per chi fa della “logica del mercato” la propria guida verso un avvenire perso nei fumi tossici.

Ci state rovesciando addosso la vostra paura. La rispediremo al mittente, con gli interessi.

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29/10/2021

Il Miglio Verde (1999) di Frank Darabont - Minirece

Brancaccio: “Il ddl Zan affossato anche dal liberismo, che Letta finge di non vedere”

“Letta sostiene che in Italia il liberismo non c’è mai stato? È una sciocchezza che serve solo a evitare un’autocritica del suo partito sulle conseguenze delle politiche liberiste che ha condotto in questi anni. Detta a poche ore dalla fine che ha fatto il ddl Zan, mi sembra una perfetta fotografia della situazione: il nostro Paese è in ritardo non certo sul liberismo, ma sulle libertà”.

Dopo la dichiarazione del segretario del Pd Enrico Letta, secondo il quale “in Italia il liberismo non c’è mai stato”, e dopo l’affossamento del ddl Zan in Senato, Emiliano Brancaccio ci va giù duro in un post sui social che suggerisce un acuto legame tra i due episodi, e che sta facendo discutere. Economista e intellettuale di riferimento del pensiero progressista, approfondiamo con lui il tema in vista dell’uscita a gennaio del suo nuovo libro: Democrazia sotto assedio, frutto di un dibattito con Daron Acemoglu del MIT di Boston, tra i massimi esperti mondiali delle determinanti economiche della crisi democratica.

Professor Brancaccio, quando dice che in Italia non c’è stato “liberismo”, Letta si sbaglia?
È una sciocchezza che può esser facilmente smentita guardando i dati. Per esempio, l’OCSE ricorda che tra il 1990 e il 2000 l’Italia ha realizzato il record delle privatizzazioni di imprese a partecipazione statale, con introiti totali pari a 108 miliardi di dollari a fronte di 75 miliardi in Francia, 63 nel Regno Unito, 22 in Germania. Come segnalato dalla ricerca scientifica e dalla stessa Corte dei Conti, questa politica di liquidazione del capitale pubblico ha dato risultati molto deludenti in termini di aumento generale dell’efficienza del sistema.

Quali risultati?
Contrariamente alle attese, l’evidenza indica che le privatizzazioni hanno spesso sostituito monopoli pubblici con posizioni di sostanziale monopolio privato, con danni per la collettività e vantaggi solo per i nuovi proprietari. Inoltre, le privatizzazioni non hanno contribuito al contenimento del debito pubblico. Uno dei motivi è che da un lato lo Stato incassa dalla vendita, ma dall’altro subisce una perdita in termini di entrate future, visto che non dispone più dei profitti delle aziende privatizzate. Profitti che in molti casi c’erano, a dimostrazione che non si trattava solo di aziende decotte.

Può farci altri esempi italiani di quel liberismo che Letta nega sia mai esistito?
Tra i tanti, il più rilevante riguarda il mercato del lavoro. In un quarto di secolo segnato da una lunga sequenza di politiche di precarizzazione, l’indice generale di protezione del lavoro è crollato di circa il 45 percento in Italia, rispetto a una riduzione del 17 percento della media OCSE. Anche in tal caso, gli esiti di questa politica liberista sono stati ben diversi rispetto ai proclami: la precarizzazione ha indebolito le lavoratrici e i lavoratori e ha contribuito allo schiacciamento dei salari, mentre non ha avuto effetti sull’occupazione. Chiunque legga un po’ di letteratura scientifica in tema, non si meraviglia del risultato. Come ammesso persino da FMI, OCSE e Banca Mondiale, non ci sono evidenze empiriche a sostegno dell’idea che le politiche di precarizzazione aiutino a creare posti di lavoro.

Come si spiega, a questo punto, la cantonata di Letta?
Credo serva solo a evitare una necessaria autocritica. Se l’Italia è diventata uno dei laboratori del liberismo, lo si deve anche al suo partito e a tutte le forze politiche che si sono avvicendate al governo in questi anni. Sostenevano di svecchiare il paese, di modernizzarlo. In realtà hanno fatto danni, non solo all’economia ma anche al tessuto sociale e culturale.

In un post sui social che è stato molto discusso in queste ore, Lei ha collegato la frase di Letta al contemporaneo affossamento del ddl Zan in Parlamento. A Suo avviso, “l’Italia è in ritardo non certo sul liberismo, ma sulle libertà”.
Sì, la coincidenza tra i due episodi mi è sembrata “sintomatica”, per dirla con Althusser. Io insisto da anni su un punto: le cosiddette politiche liberiste tutelano soltanto la libertà del capitale, mentre creano una disgregazione sociale che porta a un tale arretramento civile e culturale da minacciare tutte le altre libertà. Se il nostro paese è in ritardo sulla tutela delle libertà individuali e sulla difesa contro le discriminazioni, dipende anche dal fatto che il liberismo ha lasciato macerie sociali e culturali, soprattutto nelle realtà più deboli e periferiche. Molti di coloro che vivono una vita materiale sempre più precaria, finiscono per aggrapparsi ai vincoli della famiglia tradizionale, ai suoi meccanismi di sostentamento, alle sue gerarchie interne, e agli antichi precetti su cui si è sempre basata. Si viene così a creare un terreno favorevole alla propaganda oscurantista delle peggiori destre reazionarie. Ecco perché il liberismo, in ultima istanza, non è libertario, è liberticida. È un tema ampiamente studiato in accademia ma al momento trova poco spazio nel dibattito politico, specialmente in Italia.

Che lezione si può trarre da questo collegamento?
Una sedicente “sinistra” che pretenda di tutelare le libertà individuali ma eviti ogni autocritica sui danni sociali e culturali del liberismo, porta avanti un progetto ipocrita che non farà molta strada, e lascerà praterie di consenso sempre più ampie alle forze reazionarie. Ho grande ammirazione per le comunità “lgbtqia”, per i movimenti anti-razzisti, per i gruppi che affrontano i problemi della disabilità e per tutto l’associazionismo che lotta contro ogni discriminazione, ma non ho molta fiducia nella generazione politica che oggi vorrebbe rappresentarli. I sedicenti “progressisti” che attualmente siedono in parlamento sembrano troppo legati agli interessi capitalistici prevalenti per cogliere l’enorme contraddizione che sussiste tra liberismo e libertà.

Per l’affossamento della legge Zan se l’è presa con i sovranisti. Avrebbe dovuto avercela anche con i liberisti?
Certo, anche per banali ragioni “contabili”, direi. Per quel che risulta, svariati liberisti hanno votato contro la norma.

Ci sono speranze per il futuro?
Contrariamente a quel che si dice, molti giovani iniziano a cogliere le ipocrisie dei “liberisti libertari” e danno segni di insofferenza verso l’associazionismo che si affida solo ad essi. Spero che le nuove generazioni combattano per affermare un fatto semplice e vero: se tu vuoi lottare contro le discriminazioni razziali, etniche, nazionali, religiose o fondate sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità, allora devi anche lottare contro le politiche del capitalismo liberista, che creano disgregazione sociale e arretramento culturale e così fomentano la più bieca vandea reazionaria e liberticida. Le due lotte vanno insieme e hanno successo, oppure restano separate e andranno incontro a ripetute sconfitte.

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Afghanistan - Pechino guida la possibile integrazione regionale

Al reiterato impasse delle cancellerie occidentali sull’Afghanistan, certificato dal vertice fallimentare del G20 svoltosi alcune settimane fa a Roma e voluto fortemente da Draghi, corrisponde una progressione evidente della diplomazia che non ha più i propri perni a Washington o in qualche capitale della “Vecchia Europa”.

Come riporta l’agenzia stampa russa Tass, Muhammad Suhail Shaheen – nominato dai talebani ambasciatore afghano all’ONU – venerdì ha twittato l’urgenza del versamento di 1,2 miliardi di dollari d’aiuti promessi al G20, scrivendo che l’Emirato è pronto a “cooperare completamente attraverso i canali delle agenzie e altre ONG sui terreno”, ribadendo la necessità che vengano sbloccati i circa 10 miliardi di fondi stanziati dalla “comunità internazionale” alla Conferenza di Ginevra del 2020.

Dopo la conclusione del secondo meeting dei Paesi confinanti con l’Afghanistan, tenutosi questo mercoledì a Teheran, Ahmadullah Vasik – un importante funzionario talebano – si è detto soddisfatto dell’incontro perché ora possono cercare di stabilire rapporti con i propri vicini e con la comunità internazionale.

Il funzionario degli “studenti di teologia” ha rilasciato un intervista esclusiva a China Media Group, in cui afferma che il governo ad interim spera di essere riconosciuto dalla comunità internazionale.

All’incontro, che ha visto la presenza virtuale dei ministri degli Esteri russo e cinese, e la presenza di quelli di Iran, Pakistan (che aveva ospitato l’incontro precedente a settembre), Tajikistan, Uzbekistan, Turkmenistan – nonché del vice-presidente iraniano Mohammed Mokhber – i sette paesi hanno posto di fatto le condizioni per un riconoscimento del governo transitorio: un taglio netto con la galassia jihadista, il tema dei diritti alle donne ed una maggiore inclusione nell’esecutivo provvisorio delle altri componenti della società afghana, ma dimostrando comunque una certa apertura nei confronti dei Talebani.

Anche il Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres è intervenuto all’incontro con un video-messaggio.

Iran e Cina si sono espressi contro le sanzioni che strangolano l’Afghanistan, che ha visto congelati i propri conti – aggiungiamo noi – nonostante la drammatica condizione umanitaria frutto dei disastri di un ventennio di occupazione militare, della corruzione dilagante negli apparati “collaborazionisti”, della palese incapacità di risollevare un Paese che ha di fatto vissuto per quasi quaranta anni in guerra.

Gli asset congelati depositati nella Federal Reserve ed in alcuni istituti bancari europei – tra cui mezzo miliardo in Germania ed una cifra ancora più considerevole in Svizzera – ammontano a 9,5 miliardi di dollari, mentre i prelievi ed i trasferimenti di denaro dall’estero non possono superare i 200 dollari.

Bisogna ricordare che gli USA, negli anni dell’occupazione, per una “ricostruzione” fallimentare hanno speso 146 miliardi di dollari, di cui ben più della metà – 89 miliardi – solo per le Forze Armate del paese, poi dissoltsi come neve al sole davanti all’avanzata talebana.

Come riporta Al Jazeera, gli USA sono fermamente determinati nel voler continuare la politica sanzionatoria contro i Talebani, come ha affermato Wally Adeyemo, Segretario al Tesoro statunitense, alla Commissione bancaria del Senato, ed allo stesso tempo – paradossalmente – contribuire al sostegno monetario del Paese.

Il portavoce ministeriale talebano Ahmad Wali Haqmal ha dichiarato alla Reuters: “I soldi appartengono alla nazione afghana, ridateci i nostri soldi. Congelare questi soldi è immorale e contro le leggi ed i valori internazionali”.

Tornando al vertice iraniano, in una dichiarazione finale congiunta, tutti i partecipanti hanno ribadito la necessità di aiuti umanitari al Paese, di supporto rispetto all’emergenza pandemica, di cui si deve far carico la comunità internazionale.

Bisogna ricordare che Russia e Cina, molto prima della caduta di Kabul questa estate, avevano avviato rapporti diplomatici con i talebani. L’intelligence iraniana che godeva di propri terminali sul terreno anche grazie alla numerosa comunità sciita hazara, aveva precedentemente certificato – escluse una dozzina di città – il sostanziale controllo del territorio da parte dei talebani, ripiegati fuori dalle zone urbane ma di fatto con la funzione di “governo ombra” nella vita quotidiana.

Ciò aveva spinto Mosca e Pechino ad un pragmatismo diplomatico verso i capi degli insorti, ben prima della precipitosa fuga occidentale.

Il vice-presidente iraniano, all’incontro di mercoledì, ha usato parole molto dure contro gli USA, accusati di utilizzare l’ISIS come “proxy force in region”, e fa di certo pensare l’intensa attività dell’ISIS-K nell’Emirato come principale fattore di destabilizzazione, insieme allo strangolamento economico che potrebbe portare nei prossimi mesi il Paese ad avere il 90% delle persone sotto la soglia di povertà.

Con gli USA ed i Paesi occidentali che non hanno ormai più i “gli scarponi sul terreno”, e pressoché nessuna influenza politica, i due maggiori “poli d’attrazione” per la diplomazia talebana sembrano essere da un lato l’asse Turchia/Qatar – che ha nel Turkmenistan un suo importante terminale – e l’asse euro-asiatico in via di consolidamento tra Russia, Cina ed Iran, con il Pakistan cooptato a vari livelli nella sfera di influenza di Pechino.

India ed Arabia Saudita, con la fuga dell’Occidente dal Paese, pagano un prezzo diplomatico altissimo, considerato il ruolo che avevano storicamente giocato.

I sauditi, infatti insieme ai nord-americani, dalla fine degli anni '70 ad inizio anni '90, sono stati i maggiori finanziatori della destabilizzazione del Paese insieme al Pakistan. Paesi che tra l’altro portano le maggiori responsabilità per l’incubazione dello jihad come fenomeno globale.

Questi due poli, Turchia-Qatar da un lato e Cina-Russia-Iran dall’altro, possono trovare punti di convergenza ma hanno notevoli punti d’attrito, e il profilo dell’Afghanistan del futuro sarà senz’altro anche un prodotto della bilancia di potenza tra questi attori, oltre che l’output della spinta della popolazione afghana stessa.

Significativo che, proprio il giorno prima del vertice a Teheran, ci sia stato in Qatar un incontro diplomatico ad alto livello tra Pechino e Doha, teso a rafforzare i già buoni livelli di collaborazione anche attraverso la cornice della “Nuova Via della Seta”. Uno scambio che ha avuto tra gli argomenti di discussione anche l’Afghanistan.

Il rappresentante cinese ha incontrato anche una delegazione di talebani, che hanno da tempo nel paese una rappresentanza diplomatica che ha gestito le trattative per il ritiro degli USA, conclusosi con l’accordo del febbraio del 2020.

Pechino sembra ora fare la parte del leone nei giochi diplomatici, agendo da “apripista” per una ridefinizione dei rapporti regionali dell’Afghanistan. In Cina, si svolgerà infatti nel 2022, il terzo incontro, dopo quello tenutosi in Pakistan e poi in Iran.

Il Consigliere di Stato e Ministero degli Esteri cinese, Wang Yi, ha fatto appello ai vicini del Paese perché aumentino i rapporti con Kabul al fine di integrarlo nello sviluppo regionale, promuovere la pace e accelerare la ricostruzione post-bellica.

Wang ha posto l’attenzione sullo sviluppo delle connessioni infrastrutturali tra i Paesi e sulla possibilità di includere l’Afghanistan nella cooperazione sviluppata grazie alla “Belt and Road”.

Così, mentre l’Occidente – dopo 20 anni di occupazione – vuole ridurre letteralmente alla fame il popolo afghano e sembra non proprio “infastidito” dall’attività jihadista dell’ISIS in loco, la diplomazia extra-europea lavora per porre le basi per una uscita del paese dalla sudditanza politica e dalla dipendenza economica, cercando di strappare condizioni migliori per le donne e alcune componenti della popolazione, che gli ex-occupanti – con la “strategia della fame” – non sembrano proprio poter assicurare.

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Taiwan - I militari Usa sono sull'isola da almeno un anno. Altissima tensione con la Cina

I militari statunitensi sono presenti a Taiwan da almeno un anno per addestrare le forze armate taiwanesi e supervisionarne le difese nel quadro delle crescenti tensioni con la Cina.

A renderlo noto è il Wall Street Journal, secondo cui la presenza Usa si compone di due dozzine di membri delle forze speciali e di un piccolo contingente di Marines.

Fonti militari anonime citate dal quotidiano statunitense riferiscono che gli agenti speciali hanno lavorato a fianco delle forze di terra taiwanesi, mentre i marines hanno affiancato le forze marittime dell’Isola nelle operazioni su imbarcazioni di piccole dimensioni.

Il dipartimento della Difesa Usa non ha confermato o smentito le indiscrezioni, mentre un portavoce del Pentagono ha ribadito che il sostegno degli Stati Uniti a Taiwan punta a garantire “la pace, la sicurezza e la stabilità dell’Indo-Pacifico, incluso lo Stretto di Taiwan”.

Di fronte alla rivelazione del WSJ, la presidente di Taiwan, Tsai Ing Wen, ha confermato che un contingente di militari statunitensi si trova sull’Isola per addestrare i militari taiwanesi. Intervistata dall’emittente televisiva CNN, Tsai ha affermato che Taiwan “ha in essere un’ampia gamma di attività di cooperazione con gli Stati Uniti tese ad aumentare le nostre capacità difensive”.

La presidente non ha fornito indicazioni precise in merito all’entità della presenza militare statunitense, limitandosi ad affermare che tale presenza “non è consistente quanto alcuni sembrano pensare”.

Il ministro della Difesa di Taiwan, Chiu Kuo-cheng, ha commentato le parole della presidente aggiungendo che gli scambi militari con gli Stati Uniti sono “piuttosto numerosi e frequenti”, e “interessano ogni tipo di argomento”. Il ministro ha precisato che dalla presidente non è giunta alcuna conferma di una presenza fissa o stanziale delle forze Usa a Taiwan.

Già ad agosto il problema della presenza militare Usa a Taiwan era venuto fuori a causa di un maldestro tweet del senatore statunitense John Cornyn, ma le cifre indicate nel tweet (30.000 militari) non corrispondono alla realtà odierna quanto alla situazione precedente all’accordo raggiunto da Cina e Usa negli anni Settanta.

Ciononostante il giornale cinese Global Times già ad agosto commentava che le truppe di stazionamento statunitensi nell’isola di Taiwan “violano gravemente gli accordi firmati quando Cina e Stati Uniti hanno stabilito le loro relazioni diplomatiche, nonché tutti i documenti politici tra i due paesi”.

Non solo, secondo il giornale cinese la presenza militare Usa a Taiwan “è equivalente a un’invasione militare e all’occupazione della provincia cinese di Taiwan. È un atto di dichiarazione di guerra alla Repubblica popolare cinese”.

Relativamente alla conferma di queste ore sulla presenza di militari statunitensi a Taiwan, sempre il Global Times scrive in un editoriale che: “il fatto che le truppe statunitensi siano di stanza a Taiwan ha superato il traguardo. È uno dei fattori più pericolosi che potrebbe scatenare una guerra nello Stretto”, e poi in un altro passaggio dedicato alle autorità politiche di Taiwan annuncia che “più queste persone colludono con le forze esterne, più velocemente arriverà la punizione”.

Insomma non proprio un messaggio rassicurante sulle possibili tensioni e conflitti nella regione.

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Polonia - Scattano le sanzioni per il mancato rispetto dei Trattati europei

Lo scontro tra Unione Europea e Polonia sulla prevalenza dei Trattati europei rispetto alle Costituzioni nazionali è salito di livello.

Dopo le minacce della Von der Leyen, il botta e risposta nel Parlamento e nel Consiglio europeo e la durissima intervista del premier polacco Morawiecki al Financial Times, la Corte europea di Giustizia è entrata a gamba tesa condannando Varsavia a pagare una sanzione di un milione di euro al giorno per non aver sospeso le disposizioni relative alla Camera disciplinare della Corte suprema, un organo che secondo l’Ue limita gravemente l’indipendenza dei magistrati, influenzandone l’operato.

Il rispetto delle misure provvisorie ordinate il 14 luglio 2021, si legge in una nota della Corte di Giustizia europea, “è necessario al fine di evitare un pregiudizio grave e irreparabile all’ordine giuridico dell’Unione europea nonché ai valori sui quali l’Unione è fondata, in particolare quello dello Stato di diritto”.

La sanzione deve essere calcolata a partire dalla data di notifica dell’ordinanza alla Polonia, restando in vigore finché Varsavia non si conformerà agli obblighi o fino alla data di una sentenza definitiva sulla controversia.

La Commissione europea aveva già chiesto le sanzioni il mese scorso, dopo che la Polonia aveva ignorato le richieste della Corte a luglio di sospendere subito il suo sistema di disciplina giudiziaria, ritenuto come un modo per mettere a tacere i giudici che non appoggiano il partito Legge e Giustizia al potere.

Secondo la risoluzione della Corte di Giustizia europea, il meccanismo disciplinare dei giudici “potrebbe essere usato per esercitare un controllo politico sulle decisioni giudiziarie o per esercitare pressioni sui giudici al fine di influenzare le loro decisioni”.

Il premier polacco Mateusz Morawiecki intervenendo al Parlamento Europeo, aveva annunciato che la sezione disciplinare sarebbe stata abolita, ma non aveva dato seguito all’annuncio né ad oggi risulta alcun provvedimento teso ad adempiere alle indicazioni della Corte europea. E il braccio di ferro sembra destinato a proseguire, anche se adesso ogni giorno che passa costa al bilancio statale della Polonia un milione di euro.

L’europarlamentare de La France Insoumise, Manon Aubry, anche votando a favore della risoluzione del Parlamento europeo contro la Polonia, ha inteso però tenere ben separate la difesa della democrazia e dei diritti, minacciati dal governo di destra in Polonia, dalla pretesa dell’Unione Europea di imporre la supremazia dei suoi Trattati sulle stesse Costituzioni nazionali.

A sostegno dell’inviolabilità delle Costituzioni nazionali Manon Aubry ha citato l’esempio della Corte costituzionale tedesca.

Ma oltre al caso tedesco, in questo scontro con la Polonia è difficile non rammentare il documento della banca d’affari JP Morgan contro le Costituzioni nazionali (soprattutto quelle dei paesi Pigs usciti dalle dittature tra il 1945 e il 1979) ritenute troppo “socialiste” e un intralcio alla governabilità liberale e alla competitività liberista.

Quello della Polonia è un caso ancora diverso. Si invoca la prevalenza dei Trattati europei sulla Costituzione in materia di stato di diritto e indipendenza della magistratura. Assistiamo così ad un paradosso con il quale occorrerà fare i conti: nel caso delle Costituzioni come quella italiana, essa è indubbiamente più avanzata, inclusiva e progressista dei Trattati europei.

Nel caso della Polonia, un paese con un dna reazionario conclamato dalla storia, non si può dire altrettanto, anzi.

Quindi torniamo a dire che la contraddizione è stata aperta da un paese sbagliato e su una questione sbagliata ma negare, o peggio ancora sopprimere con le sanzioni o la forza questa contraddizione, restituisce la cifra reazionaria e autoritaria dell’Unione Europea al pari della Polonia. Su questo è bene non avere dubbi.

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Tutta la manovra per le imprese, contro chi lavora

Potremmo accontentarci del titolo di un giornale qualsiasi: “Manovra, tutti contenti meno i sindacati”.

Se persino i “complici” di CgilCislUil trovano che questo piatto sia immangiabile, si intuisce subito che per i lavoratori italiani (e i disoccupati, i poveri, i pensionati, ecc) è un disastro.

E teniamo presente che, dopo molti anni, questa volta c’era lo spazio finanziario per una manovra che non fosse il solito “lacrime e sangue”, visto che si poteva mettere tra le entrate sia la prima rata del Recovery Fund (23 miliardi), sia quelle che arriveranno nel 2022 se saranno fatte tutte le “riforme” chieste e imposte dall’Unione Europea. Naturalmente “per i giovani”, ci mancherebbe...

Ma c’è stato spazio anche per un siparietto quasi berlusconiano, con il governo che “si applaude da solo” e lo dice pure in conferenza stampa…

Analizzare la “legge di stabilità” – la legge più importante dello Stato, quella che ogni anno decide su come si reperiscono le risorse pubbliche e come vengono impiegate – è sempre un esercizio complicato.

Le dichiarazioni di Draghi e dei due ministri al suo fianco (Daniele Franco per l’economia e Orlando per il lavoro) sono come tutte le dichiarazioni dei governanti italiani: menzognere e da verificare sul testo.

Ma il testo (Legge di stabilità 2022), a sua volta, è il solito guazzabuglio di frasi tolte e altre inserite in altri testi di legge, e ogni singola verifica richiede un tempo lungo, non ché la necessità (dopo aver finalmente tagliato e ricucito un testo definitivo) di proiettare quelle misure scritte sulla realtà fisica, economica e sociale del Paese.

Inevitabile dunque – a caldo – tagliare per campi e attenersi alle reazioni di quei soggetti che hanno avuto il tempo e gli specialisti per ricomporre il puzzle dei commi e dei codicilli che sostituiscono altri commi e codicilli.

Il segno di classe è evidente in ogni passaggio: tutto per le imprese, niente per lavoratori in servizio, passati e futuri.

Basta guardare il punto chiamato “taglio delle tasse”. Per ridurre il cuneo fiscale e l’Irap è previsto un intervento da complessivi 8 miliardi di euro, di cui 6 con un nuovo stanziamento di bilancio e 2 miliardi già assegnati in precedenza. Ma sarà il Parlamento, in sede di approvazione della manovra, a stabilire la distribuzione sociale di questi tagli.

Ricordiamo che il “cuneo fiscale” (la differenza tra busta paga lorda e netta, grosso modo) ha due facce: una parte dei contributi previdenziali è a carico dei lavoratori, l’altra parte è a carico dell’impresa. Si può insomma tagliare in qualsiasi modo: tutto da una parte, dall’altra, in diversa percentuale.

Stando alla composizione del Parlamento è sicuro che la fetta più grande andrà alle imprese, con Fratelli d’Italia che dall’opposizione “protesterà” dicendo che comunque “non è abbastanza, dategliene di più”.

Aggiungiamoci pure che l’altra voce da tagliare – l’Irap, l’imposta che serve a finanziare la sanità pubblica – è totalmente dal lato delle imprese. Dunque da questo taglio i lavoratori non possono guadagnarci nulla. Anzi, ci rimettono perché un minore introito per finanziare la sanità si traduce o in un taglio dei servizi di base o in un aumento dei ticket.

Ma non finisce certamente qui.

“Per la Cig e la pensione andranno 1,5 miliardi. Il fondo di garanzia per le piccole e medie imprese riceverà 3 miliardi.” Il doppio pulito pulito…

Le pensioni sono forse il capitolo più chiaro. Ha detto lo stesso Draghi che “Per quanto riguarda le pensioni, l’impegno del governo è tornare in pieno al contributivo. Quota 100 finisce alla fine di quest’anno, la legge di bilancio prevede una transizione a quota 102, con 38 anni di contributi e 64 anni di uscita”. La promessa è che di una “riforma complessiva” del sistema pensionistico si parlerà quest’altro anno.

Ma se la base è il calcolo dell’assegno con il solo “metodo contributivo” (tot hai versato durate la vita lavorativa, tot potrai ricevere) siamo in piena “legge Fornero”.

L’unico ostacolo al peggioramento – l’aumento dell’età di uscita dal lavoro, calcolata sull’aspettativa di vita – viene dalla pandemia, che ha per l’appunto ridotto l’aspettativa di vita di un anno e due mesi (ma naturalmente non è per questo prevista alcuna riduzione dell’età pensionabile, anzi…).

Non viene enfatizzata dai media – chissà perché? – la decisione presa con l’art. 28: “la funzione previdenziale svolta dall’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani (INPGI) ai sensi dell’articolo 1 della legge 20 dicembre 1951, n. 1564, in regime di sostitutività delle corrispondenti forme di previdenza obbligatoria, è trasferita, limitatamente alla gestione sostitutiva, all’Istituto nazionale di previdenza sociale (INPS) che succede nei relativi rapporti attivi e passivi.”

In pratica: l’Ingi sta rischiano da tempo il fallimento, perché anche nei giornali e tv avanza il precariato e i contratti “atipici”, che riducono sia gli stipendi che i contributi previdenziali. E quindi il governo viene in soccorso decidendo che questo onere deve passare all’Inps – ossia alla previdenza prevista per i lavoratori “normali”, aggravandone gli squilibri (era successo lo stesso con la cassa previdenziale dei dirigenti d’azienda, l’Inpdai, che era molto “generosa” nel distribuire assegni pensionistici ai manager).

Insomma: i giornalisti di regime vengono “rassicurati” sul loro futuro, di modo che possano continuare a servire con lo stesso zelo…

Stretta dura sul reddito di cittadinanza, che pure tanto abbiamo criticato per la sua insufficienza (581 euro, è il sussidio medio erogato pro capite). Un controllo più approfondito sui criteri patrimoniali di assegnazioe era in qualche modo atteso, dopo la lunga e carognesca campagna di stampa sui “furbetti” che lo intascavano senza essere affatto poveri, ma solo “evasori fiscali totali”.

Ma la botta sostanziale arriva con i “correttivi alle modalità di corresponsione, che prevedono una revisione della disciplina delle offerte di lavoro congrue, un decalage del beneficio mensile per i soggetti occupabili, sgravi contributivi per le imprese che assumono i percettori del reddito e benefici fiscali per gli intermediari.”

In pratica: perdi l’assegno se rifiuti due volte “offerte di lavoro congrue” (con un salario pari o poco sopra il reddito di cittadinanza). Ti verrà dato un assegno progressivamente più basso nel tempo, se un lavoro non lo trovi.

Ma la “ciliegina di classe” arriva con quei “benefici fiscali per gli intermediari.” Ossia le agenzie di collocamento private, che si vedranno così aumentare i profitti (fino a 2 miliardi, secondo Il Fatto quotidiano).

Di classe, inevitabilmente, anche la fortissima riduzione del bonus ristrutturazioni delle abitazioni . Che viene di fatto cancellato per i redditi Isee al di sopra dei 25.000 euro. In pratica per moltissimi lavoratori con un contratto “regolare” (tempo pieno e indeterminato).

C’è da dire, in proposito, che qui cade anche il velo “green” sparso su ogni scemenza che i ministri profferiscono: senza il bonus, infatti, ben pochi potranno permettersi di ristrutturare casa per aumentarne l’efficienza energetica (ricordiamo che i “proprietari” della casa di abitazione sono oltre il 70% della popolazione).

Tutto il resto sono investimenti infrastrutturali (che portano pochissima occupazione e grandi benefici per pochissime imprese di dimensioni multinazionali), oppure finanziamenti e/o defiscalizzazioni per le imprese.

Ed è una “sfortunata coincidenza” che una manovra così infame venga approvata proprio nel giorno in cui la Riello decide di chiudere lo stabilimento di Pescara per trasferirsi in Polonia. Non perché “in crisi”, ma solo per guadagnarci di più…

Ma ce ne occuperemo più in dettaglio molto presto.

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Il crollo dei salari in Italia, una “magia” del mercato

Quando entrai in Sip l’azienda era una partecipata statale che agiva in regime di monopolio.

Era una multinazionale che drenava profitti in giro per il mondo.

Distribuiva utili ai suoi padroni pubblici e privati, regolarmente ogni anno.

Gli ex sindacalisti finivano la loro carriera nel consiglio di amministrazione dell’azienda.

I ministri erano di casa, i politici decidevano le assunzioni, i sindacati trattavano e cogestivano, amministravano carriere e benefit.

La categoria era forte, altamente sindacalizzata, riusciva a imporre condizioni contrattuali invidiabili.

Gli stipendi erano fra i più alti in Italia, la cassa pensioni “separata” erogava pensioni superiori a quelle dell’inps.

Il posto di lavoro si lasciava in eredità ai figli.

Godevamo di una assicurazione sanitaria integrativa di eccellenza che ti rimborsava pure le cure … omeopatiche.

Perfino le vacanze ce le garantiva il cral, a prezzi politici rimborsabili in comode rate mensili.

E c’erano pure gli sconti sulle telefonate quando avere il telefono era un lusso.

Il conflitto era limitato a piccole questioni individuali o locali.

Non si ricordano dipendenti di quell’azienda licenziati a causa della loro attività sindacale o politica.

Al contrario quell’attivita era spesso la chiave per avanzamenti di carriera e passaggi ai livelli di direzione.

Era una aristocrazia che riusciva, per una serie di contingenze particolari, a vendersi bene.

Una aristocrazia corporativa sul piano sindacale che, per la legge che prevede che le idee progressiste allignano meglio nelle teste di chi ha la pancia piena, era fortemente avanzata sul piano politico.

Vivaio di comunisti, di progressisti, di sindacalisti di sinistra.

Quando il “virus” della privatizzazione la colpì, in forma grave, quella categoria non si rese conto che la ricreazione era finita.

Che proprio le libertà e i diritti di cui godeva gli imponevano la responsabilità di farsi carico della parte della classe che questi “privilegi” se li sognava.

E che bisognava adeguarsi alle mutate condizioni.

Si chiuse a riccio nella difesa di ciò che aveva, fottendosene di ciò che gli succedeva attorno.

Non ci fu un minuto di sciopero.

Caso forse unico nella storia del capitalismo di Stato italiano, la resistenza all’assalto alla diligenza da parte dei “capitani coraggiosi” fu sollecitata, senza risultato, dall’ultimo amministratore pubblico mentre i sindacati brindavano.

Un boiardo che aveva capito come sarebbe finita mentre operai e impiegati erano impegnati a acquistare azioni della “loro” azienda.

Tutti padroni, vivaddio.

La festa durò poco. Le azioni crollarono dopo un paio di anni, mentre i nuovi padroni saccheggiavano tutto quello che c’era da saccheggiare.

La categoria era vecchia dal punto di vista anagrafico e ormai interessata solo a monetizzare il monetizzabile e andarsi a godere una serena vecchiaia.

La prima operazione che il padrone fece fu sterilizzarla.

Il contratto che trasformò la Sip in Telecom è una delle eredità più vergognose che ci portiamo dietro.

Si ridussero drasticamente i salari, si diminuirono le ferie, si tagliarono i benefici.

Ma lo si fece “solo” per i nuovi assunti mentre si garantivano i “diritti acquisiti” ai vecchi.

Così assumeranno i giovani ci dicevano.

Poi ci penseranno loro a rimettere le cose a posto.

Ma l’azienda bloccava il turn over e i giovani lasciava che li assumessero le ditte appaltatrici e subappaltatrici.

Si esternalizzava e i lavoratori erano contenti.

Si esternalizzavano i lavori più fastidiosi e più pesanti.

Gli operai erano contenti perché non dovevano più scendere nei pozzetti, salire sui pali, lavorare nelle trincee.

Gli impiegati perché non dovevano più mettere la cuffia sostituti dalle ragazze e dai ragazzi dei call center.

Una categoria parallela che faceva lo stesso lavoro che facevi tu e che … costava meno.

Iniziarono gli esuberi, i prepensionamento, le chiusure di sedi, i demansionamenti, i trasferimenti.

Alla fine se vuoi rimanere in quell’azienda ci rimani da servo e non più da aristocratico.

Alle condizioni che il mercato impone.

... e il mercato è una livella che ti trascina inesorabilmente verso il basso.

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28/10/2021

Il 13° guerriero (1999) di John McTiernan - Minirece

Portogallo - La crisi politica in apre la strada ad elezioni anticipate

La crisi politica apertasi in Portogallo porterà con ogni probabilità al voto anticipato.

Il governo “di minoranza” del socialista di Antonio Costa non ha trovato la quadra con le formazioni che alla sua sinistra dovrebbero sostenerlo, cioè il Partito Comunista Portoghese (PCP) ed il Blocco di Sinistra (BE), rispetto alla “legge di bilancio” per il prossimo anno.

Una parte importante per il budget del prossimo anno del Portogallo, la cui discussione è iniziata questo martedì ed è terminata mercoledì sera senza un esito positivo, è costituita dalle sovvenzioni sborsate dai fondi della UE fino al 2026. Le due formazioni (PCP e BE) hanno dichiarato la propria contrarietà alla proposta ipotizzata dal governo che ha dimostrato sordità alle loro richieste.

La formazione di Costa uscita vincitrice dalle elezioni del 2019 non ha la maggioranza assoluta e necessitava dell’astensione del PC e del BE per l’approvazione del Piano Economico che recepisce appunto una parte dei soldi sborsati dalla UE, più di 1 miliardo di euro per il prossimo anno.

Bruxelles, riporta il quotidiano spagnolo El País, ha destinato al Portogallo 16,6 miliardi di Euro (13,9 in aiuti, il resto in prestiti con interesse) fino al 2026.

L’atteggiamento di Costa conferma come anche in Portogallo i margini di azione siano piuttosto limitati per i singoli esecutivi nazionali ed i paletti fissati a Bruxelles piuttosto rigidi, non importa se questo implica far saltare un esecutivo che aveva traghettato il Paese negli ultimi anni con un progetto anche solo parzialmente alternativo al neo-liberalismo che aveva portato il Portogallo sul lastrico.

Nonostante le consultazioni non si è giunti ad un accordo, Costa aveva detto che non chiudeva “la porta al dialogo” e ha aveva affermato che avrebbe fatto “tutto il possibile per ottenere un accordo, ma non a qualsiasi condizione”.

Il leader socialista aveva difeso il suo operato di fronte ai suoi interlocutori con un atteggiamento di maggiore ostilità verso il Blocco rispetto ai comunisti che l’altro anno si astennero dal votare il bilancio a differenza del Bloco che votò contro.

Comunisti che hanno affermato di non volere “lasciare il paese alla propria sorte”, dimostrandosi aperti ad una soluzione che sembra realisticamente introvabile.

Mercoledì sera il governo ha di fatto “gettato la spugna” aspettando l’esito delle votazioni parlamentari.

Ana Catarina, la leader parlamentare di socialisti, ha difeso l’operato del governo affermando: “abbiamo fatto quello che sanno tutti i portoghesi, abbiamo ribaltato le politiche di austerità”.

Ma questa inversione di tendenza non sembra avere accontentato la dirigenza dei due partiti (PCP e BE) e soprattutto la loro base elettorale che è andata risicandosi durante questi sei anni a causa del peggioramento delle condizioni complessive di esistenza esasperate dalla pandemia.

La maggioranza dei deputati (108 a favore, 117 contrari e 5 astenuti) ha votato contro proposta di bilancio presentata da João Leão. Il risultato è stato il rigetto di questa proposta di governo ha annunciato il presidente dell’Assemblea della repubblica, Eduardo Ferro Rodrigues.

“Il risultato del voto è storico – afferma il quotidiano portoghese Públicoè la prima volta che viene bocciato un Bilancio dello stato presentato da un governo eletto alle Urne”.

Il Presidente della Repubblica, Marcelo Rebelo de Sousa aveva avvertito lunedì che non ci sarebbero state alternative all’approvazione del bilancio per il prossimo anno che non fossero le elezioni anticipate – elezioni che avrebbero dovuto tenersi nel 2023 – e che quindi come è in sua piena facoltà scioglierebbe il Parlamento di fatto ponendo fine a questo inedito esperimento governativo.

Potrebbe farlo, senza concedere all’attuale esecutivo una seconda chance per riformulare una proposta di bilancio, dopo una formale consultazioni delle parti.

Le elezioni dovrebbero svolgersi entro due mesi al massimo dallo scioglimento del Parlamento.

Costa ha detto che non sarebbe lui a dare le dimissioni in caso il bilancio non venisse approvato, ma andrebbe avanti – se il Presidente non sciogliesse il Parlamento – mese per mese con un dodicesimo del budget annuale. Una ipotesi teoricamente possibile ma piuttosto improbabile e che non risolverebbe certo la crisi politica aperta. Mercoledì ha poi dichiarato che chiede “un maggioranza rafforzata e stabile” alle prossime elezioni.

Su 270 deputati, Costa avrebbe potuto contare su 108 voti, ma necessitava del nulla osta dei 12 deputati comunisti e dei 18 del Blocco, contro i 79 della destra che voterebbe compatta contro il governo insieme alla sinistra, in totale 117 voti.

Solo 3 parlamentari del PAN e altri due deputati di alcun gruppo parlamentare avevano annunciato la loro astensione.

La possibile defezione dentro l’opposizione, i voti dei 3 deputati del Partito Social-democratico – che nonostante il nome esprime un orientamento conservatore e neo-liberista – di Madeira che si asterrebbero se venissero destinati maggiori fondi alla regione, non sarebbero stati comunque sufficienti per andare oltre.

Il leader di questa fronda, Miguel Albuquerque, ha dichiarato al quotidiano Público: “se avessero bisogno di noi, sanno dove trovarmi”.

Segno di un certo sfarinamento anche nelle file dei conservatori.

Come ha affermato giustamente il leader comunista Jerónimo de Sousa prima di mercoledì: “la questione non è se ci saranno o meno elezioni, la questione non è la crisi politica, la questione sono i problemi di fondo della società portoghese”.

Una impostazione simile a quella del Blocco che ha visto rifiutate le 9 condizioni che aveva posto all’esecutivo all’interno delle consultazioni, riguardanti di fatto la redistribuzione complessiva della ricchezza.

Non aveva usato mezzi termini Catarina Martins martedì nei confronti di Costa: “Il governo ha sostituito la negoziazione con l’ultimatum. La sua intransigenza ha come obiettivo di consolidare le regole della troika.”

Ha rincarato la dose mercoledì “queste scelte non sono di sinistra, né sono una risposta ai problemi del Paese. E sono inspiegabili, perché il momento dovrebbe essere proprio quello del cambiamento”.

João Olivera che mercoledì è intervenuto come capogruppo per il PCP in Parlamento, senza fare riferimento al possibile voto contrario alla proposta, ha affermato che il Paese ha bisogno di una “risposta globale” e di una “visione d’insieme e non di un elenco da cui si possano evidenziare alcune misure isolatamente, soprattutto quando questa logica di considerazione distaccata si traduce nella sensazione delle persone di dare con una mano e di prendere con l’altra”.

Fine dell’anomalia portoghese

L’accordo politico raggiunto nel 2015 tra socialisti, comunisti e blocco – la “geringonça” come l’aveva ribattezzato la destra – che di fatto ribaltò l’ipotesi più probabile uscita dalle urne di un governo conservatore di Pedro Passos Coelho, uscito vincitore dalle urne, sembra essere giunta ad un binario morto.

Le elezioni del 2019 avevano portato i socialisti ad un passo dalla maggioranza assoluta (sarebbe stato sufficiente eleggere altri dieci deputati), con Costa che decise di governare “passo a passo” contrattando con le formazioni alla sua sinistra che avevano visto ridimensionato il proprio peso alle urne, ma di fatto dettando le regole.

Le elezioni amministrative del settembre del 2021 hanno in parte cambiato ulteriormente l’ordine dei fattori.

Lisbona, è caduta nelle mani della destra dopo 14 anni di governo del centro-sinistra, così come Coimbra.

Il Blocco ha visto un importante travaso dei suoi voti verso i socialisti e il PCP ha perso comuni importanti come Évora.

Un ennesimo segnale d’allarme dopo i non brillanti risultati del 2019.

Secondo il leader comunista Sousa il rifiuto dell’astensione della sua formazione che l’anno precedente nelle votazioni per la legge di bilancio si astenne, a differenza del blocco che votò contro, è determinata dalle promesse non mantenute di Costa: l’aumento del salario minimo e delle pensioni, il frenare la liberalizzazione del mercato del lavoro, rendere gratuite le scuole materne.

Durante il suo intervento in cui ha confermato in Parlamento i contenuti del discorso fatto all’interno del Partito, ha affermato che “l’aumento del salario è una emergenza nazionale” .

Catarina Martins, leader del Blocco pone l’accento sulle pensioni, l’IVA dell’energia o la lotta alla povertà.

Al centro del gioco politico in un contesto in cui la destra è rinvigorita sta anche la lotta per la leadership del Partito Social-Democratico con l’attuale leader che cerca di capitalizzare la crisi di governo e la scelta di Costa di escludere il PSD come possibile interlocutore dopo le elezioni di due anni fa.

La sfida a due, che avrà un vincitore ad inizio di dicembre, si gioca tra una opzione in continuità con ciò che sono stati i conservatori ed il suo establishment con Rui Rio, ex sindaco di Porto, veterano della formazione di cui è stato tre volte segretario generale con tre diversi presidenti, ed è l’attuale presidente, e l’euro-deputato Paulo Rangel che ha tra l’altro recentemente dichiarato pubblicamente la propria omosessualità. Un coming out decisamente inedito nella tradizione filo-cattolica dei conservatori lusitani.

Paulo Rangel che ha incontrato il Presidente della Repubblica trovando le critiche dell’attuale leader conservatore, per scongiurare l’ipotesi di andare elezioni anticipate senza avere cambiato la cupola del partito, sta raccogliendo le firme per un congresso straordinario che cercherà di capitalizzare la crisi di questa fallimentare alleanza tra l’ala progressista dei socialisti e la sinistra radicale.

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La guerra fredda dei microchip

Lotta di potere a Wolfsburg tra Herbert Diess, CEO di Volkswagen, e Daniela Cavallo, Capo del Consiglio di fabbrica di Volkswagen, una delle persone più potenti dell’enorme impero VW (taz.de).

Herbert Diess era pronto per partire per New York, dove aveva in programma un incontro con alcuni investitori e politici (Reuters).

Dopo l’annuncio di 30.000 esuberi, Diess è finito nel mirino dei lavoratori. Cavallo lo tiene sotto tiro. Lo accusa di scarso interesse per i lavoratori.

Nonostante gli Stati Uniti siano il maggiore mercato del Gruppo VW, Diess ha ceduto e ha rinviato la partenza. Voi siete più importanti degli investitori, ha detto sull’intranet aziendale (sueddeutsche.de).

La tregua non è stata un atto di generosità. In Germania vige il principio della codeterminazione. Attraverso il Consiglio, i lavoratori intervengono nelle scelte strategiche della società, possono anche esercitare il diritto di veto in materia di delocalizzazione, chiusure di impianti, fusioni e acquisizioni aziendali.

Come tutti gli altri produttori mondiali di automobili, anche VW soffre la carenza di materie prime e componentistica, in primis di microchip. Ma nel caso di VW ci sono anche gravi errori di programmazione, i quali hanno portato a blocchi continui della produzione.

In più, a Wolfsburg sentono l’alito sul collo di Tesla, che produrrebbe le sue auto in 15 ore, mentre alla VW impiegherebbero almeno il doppio del tempo (sueddeutsche.de). In questo scenario, l’annuncio dei 30.000 esuberi ha l’aria di un ricatto.

Il 23 gennaio, registrate le difficoltà dell’industria automobilistica tedesca, Peter Altmaier, ministro dell’economia, lanciò un appello a Taiwan per aumentare la produzione di microchip (Bloomberg).

Sull’isola asiatica si trova TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company Limited), il più grande produttore di microchip al mondo, con 13 milioni di wafer a 300nm prodotti nel 2020. L’italo-francese STMicroelectronics si piazza al 14esimo posto.

Nel frattempo il clima si è surriscaldato. Taiwan è diventata il centro di un conflitto, per adesso soltanto freddo, tra le due superpotenze mondiali. Sullo scacchiere si stanno muovendo molte pedine, non ultima l’arma dei prezzi delle materie prime.

Non ci sono ragioni, dal punto di vista della domanda e dell’offerta, che giustifichino l’aumento dei prezzi di alcune materie prime – gas, petrolio, grano, eccetera.

Il 27 ottobre Altmaier è tornato alla carica. Ha dichiarato che le industrie tedesche non possono accettare di subire la carenza di semiconduttori e che, se sarà necessario, il governo interverrà direttamente finanziando, per diversi miliardi, la costruzione di fonderie di chip in Germania.

Non siamo all’autarchia, e non siamo nemmeno a quel punto di non ritorno che, in Italia, è rappresentato plasticamente dal discorso che Pirelli fece all’Assemblea delle società «Anonime» il 20 Aprile 1938, nel quale espresse, a nome di tutti gli imprenditori italiani, l’imperativo categorico della «redistribuzione delle risorse mondiali» come conditio sine qua non per il mantenimento della pace – poi l’Italia dichiarò guerra agli Stati Uniti (agli Stati Uniti!).

Le aspettative di un peggioramento della situazione, di una carenza di materie prime, e di un conseguente aumento dei prezzi, sono fotografate dall’accoglienza di Wall Strett alla comunicazione di General Motors, mercoledì 27 ottobre, dei dati economici sul terzo trimestre.

Nonostante un utile superiore alle previsioni, le azioni GM sono crollate del 4%. Gli investitori (scommettitori) si aspettano un quarto trimestre in calo (Reuters).

Ma qui casca l’asino. La teoria delle Aspettative, promossa dai Chicago boys, e che decostruiva il tradeoff tra disoccupazione e inflazione, a parere di Emi Nakamura (e Paul Krugman), non è confortata dai dati.

Non spiega cosa sia successo negli anni Settanta, non spiega cosa sia successo in seguito, e, soprattutto, non spiega ciò che sta succedendo oggi ai prezzi. In tutti questi casi, dice Krugman, si tratta di uno shock dell’offerta che riguarda i prezzi del petrolio e di altre materie prime.

Prendiamo atto. Si tratta di uno shock energetico, di un elettroshock. Ma non c’è niente di spontaneo, niente di casuale. Si intravvede la solita manina maldestra.

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