Potremmo accontentarci del titolo di un giornale qualsiasi: “Manovra, tutti contenti meno i sindacati”.
Se persino i “complici” di CgilCislUil trovano che questo piatto sia immangiabile, si intuisce subito che per i lavoratori italiani (e i disoccupati, i poveri, i pensionati, ecc) è un disastro.
E teniamo presente che, dopo molti anni, questa volta c’era lo spazio finanziario per una manovra che non fosse il solito “lacrime e sangue”, visto che si poteva mettere tra le entrate sia la prima rata del Recovery Fund (23 miliardi), sia quelle che arriveranno nel 2022 se saranno fatte tutte le “riforme” chieste e imposte dall’Unione Europea. Naturalmente “per i giovani”, ci mancherebbe...
Ma c’è stato spazio anche per un siparietto quasi berlusconiano, con il governo che “si applaude da solo” e lo dice pure in conferenza stampa…
Analizzare la “legge di stabilità” – la legge più importante dello Stato, quella che ogni anno decide su come si reperiscono le risorse pubbliche e come vengono impiegate – è sempre un esercizio complicato.
Le dichiarazioni di Draghi e dei due ministri al suo fianco (Daniele Franco per l’economia e Orlando per il lavoro) sono come tutte le dichiarazioni dei governanti italiani: menzognere e da verificare sul testo.
Ma il testo (Legge di stabilità 2022), a sua volta, è il solito guazzabuglio di frasi tolte e altre inserite in altri testi di legge, e ogni singola verifica richiede un tempo lungo, non ché la necessità (dopo aver finalmente tagliato e ricucito un testo definitivo) di proiettare quelle misure scritte sulla realtà fisica, economica e sociale del Paese.
Inevitabile dunque – a caldo – tagliare per campi e attenersi alle reazioni di quei soggetti che hanno avuto il tempo e gli specialisti per ricomporre il puzzle dei commi e dei codicilli che sostituiscono altri commi e codicilli.
Il segno di classe è evidente in ogni passaggio: tutto per le imprese, niente per lavoratori in servizio, passati e futuri.
Basta guardare il punto chiamato “taglio delle tasse”. Per ridurre il cuneo fiscale e l’Irap è previsto un intervento da complessivi 8 miliardi di euro, di cui 6 con un nuovo stanziamento di bilancio e 2 miliardi già assegnati in precedenza. Ma sarà il Parlamento, in sede di approvazione della manovra, a stabilire la distribuzione sociale di questi tagli.
Ricordiamo che il “cuneo fiscale” (la differenza tra busta paga lorda e netta, grosso modo) ha due facce: una parte dei contributi previdenziali è a carico dei lavoratori, l’altra parte è a carico dell’impresa. Si può insomma tagliare in qualsiasi modo: tutto da una parte, dall’altra, in diversa percentuale.
Stando alla composizione del Parlamento è sicuro che la fetta più grande andrà alle imprese, con Fratelli d’Italia che dall’opposizione “protesterà” dicendo che comunque “non è abbastanza, dategliene di più”.
Aggiungiamoci pure che l’altra voce da tagliare – l’Irap, l’imposta che serve a finanziare la sanità pubblica – è totalmente dal lato delle imprese. Dunque da questo taglio i lavoratori non possono guadagnarci nulla. Anzi, ci rimettono perché un minore introito per finanziare la sanità si traduce o in un taglio dei servizi di base o in un aumento dei ticket.
Ma non finisce certamente qui.
“Per la Cig e la pensione andranno 1,5 miliardi. Il fondo di garanzia per le piccole e medie imprese riceverà 3 miliardi.” Il doppio pulito pulito…
Le pensioni sono forse il capitolo più chiaro. Ha detto lo stesso Draghi che “Per quanto riguarda le pensioni, l’impegno del governo è tornare in pieno al contributivo. Quota 100 finisce alla fine di quest’anno, la legge di bilancio prevede una transizione a quota 102, con 38 anni di contributi e 64 anni di uscita”. La promessa è che di una “riforma complessiva” del sistema pensionistico si parlerà quest’altro anno.
Ma se la base è il calcolo dell’assegno con il solo “metodo contributivo” (tot hai versato durate la vita lavorativa, tot potrai ricevere) siamo in piena “legge Fornero”.
L’unico ostacolo al peggioramento – l’aumento dell’età di uscita dal lavoro, calcolata sull’aspettativa di vita – viene dalla pandemia, che ha per l’appunto ridotto l’aspettativa di vita di un anno e due mesi (ma naturalmente non è per questo prevista alcuna riduzione dell’età pensionabile, anzi…).
Non viene enfatizzata dai media – chissà perché? – la decisione presa con l’art. 28: “la funzione previdenziale svolta dall’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani (INPGI) ai sensi dell’articolo 1 della legge 20 dicembre 1951, n. 1564, in regime di sostitutività delle corrispondenti forme di previdenza obbligatoria, è trasferita, limitatamente alla gestione sostitutiva, all’Istituto nazionale di previdenza sociale (INPS) che succede nei relativi rapporti attivi e passivi.”
In pratica: l’Ingi sta rischiano da tempo il fallimento, perché anche nei giornali e tv avanza il precariato e i contratti “atipici”, che riducono sia gli stipendi che i contributi previdenziali. E quindi il governo viene in soccorso decidendo che questo onere deve passare all’Inps – ossia alla previdenza prevista per i lavoratori “normali”, aggravandone gli squilibri (era successo lo stesso con la cassa previdenziale dei dirigenti d’azienda, l’Inpdai, che era molto “generosa” nel distribuire assegni pensionistici ai manager).
Insomma: i giornalisti di regime vengono “rassicurati” sul loro futuro, di modo che possano continuare a servire con lo stesso zelo…
Stretta dura sul reddito di cittadinanza, che pure tanto abbiamo criticato per la sua insufficienza (581 euro, è il sussidio medio erogato pro capite). Un controllo più approfondito sui criteri patrimoniali di assegnazioe era in qualche modo atteso, dopo la lunga e carognesca campagna di stampa sui “furbetti” che lo intascavano senza essere affatto poveri, ma solo “evasori fiscali totali”.
Ma la botta sostanziale arriva con i “correttivi alle modalità di corresponsione, che prevedono una revisione della disciplina delle offerte di lavoro congrue, un decalage del beneficio mensile per i soggetti occupabili, sgravi contributivi per le imprese che assumono i percettori del reddito e benefici fiscali per gli intermediari.”
In pratica: perdi l’assegno se rifiuti due volte “offerte di lavoro congrue” (con un salario pari o poco sopra il reddito di cittadinanza). Ti verrà dato un assegno progressivamente più basso nel tempo, se un lavoro non lo trovi.
Ma la “ciliegina di classe” arriva con quei “benefici fiscali per gli intermediari.” Ossia le agenzie di collocamento private, che si vedranno così aumentare i profitti (fino a 2 miliardi, secondo Il Fatto quotidiano).
Di classe, inevitabilmente, anche la fortissima riduzione del bonus ristrutturazioni delle abitazioni . Che viene di fatto cancellato per i redditi Isee al di sopra dei 25.000 euro. In pratica per moltissimi lavoratori con un contratto “regolare” (tempo pieno e indeterminato).
C’è da dire, in proposito, che qui cade anche il velo “green” sparso su ogni scemenza che i ministri profferiscono: senza il bonus, infatti, ben pochi potranno permettersi di ristrutturare casa per aumentarne l’efficienza energetica (ricordiamo che i “proprietari” della casa di abitazione sono oltre il 70% della popolazione).
Tutto il resto sono investimenti infrastrutturali (che portano pochissima occupazione e grandi benefici per pochissime imprese di dimensioni multinazionali), oppure finanziamenti e/o defiscalizzazioni per le imprese.
Ed è una “sfortunata coincidenza” che una manovra così infame venga approvata proprio nel giorno in cui la Riello decide di chiudere lo stabilimento di Pescara per trasferirsi in Polonia. Non perché “in crisi”, ma solo per guadagnarci di più…
Ma ce ne occuperemo più in dettaglio molto presto.
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