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30/09/2021

A Venezia... Un dicembre rosso shocking (1973) di N. Roeg - Minirece

Converge - 2001 - Jane Doe

Jane Doe è per il metal e in generale ogni forma di musica estrema amplificata l’entrata a gamba tesa nel terzo millennio, che coincide con l’inizio dell’era dell’inautentico: da allora in poi – a parte rarissime schegge impazzite – il risultato finale di dischi via via sempre più indistinguibili uno dall’altro sarà sempre inesorabilmente controllato e pianificato al millimetro, nessun margine di errore (grazie a costi di produzione sempre più alla portata di tutte le tasche e una conseguente standardizzazione di ogni tipo di suono), qualsiasi commistione una serie di accostamenti tra generi preesistenti, spesso antitetici, frutto di calcolo, copiaincolla e compromesso. L’ariete di sfondamento: un disco inattaccabile sotto ogni punto di vista, cesellato fin nel più infinitesimale dettaglio, fino a raggiungere la perfezione formale, unico e irripetibile e per questo replicato ben oltre lo sfinimento.

Frutto di autentico travaglio (la fine di una relazione) o di impeccabile recitazione è lo stesso: comunque sia andata davvero il risultato è spiazzante da un punto di vista emotivo, il meccanismo di identificazione scatta automatico, inesorabile. È anche un generatore di stupore universale di fronte all’ignoto, all’inaudito: niente prima di allora aveva suonato così, esattamente nel mezzo tra sconosciuto e familiare, il punto d’arrivo. Vocals ultrafiltrate fino a diventare urla incomprensibili se non a un livello basico, primordiale, a cui risponde il ricordo del dolore fisico più intenso mai provato; giri di chitarre che suonano come il catalogo di ogni riff mai registrato nella storia della musica elettrica occidentale, compresso e sintetizzato in un assalto frontale riconoscibile e memorizzabile dal primo ascolto, lo stesso per le linee di basso e fino all’ultima delle rullate di batteria.

Brani che sono catarsi in infinite declinazioni, ognuno altrettanto terminale e decisivo, ognuno allo stesso livello di ingestibile intensità, mai sperimentata su disco e soltanto poche volte nei rari momenti in cui la vita diventa importante; con un ultimo supremo scatto di volontà nella traccia finale, che porta il titolo dell’album, dove si arriva per un attimo a intravedere la bellezza assoluta, indiscutibile. Poi di nuovo a faccia in giù a rantolare nel fango; ma per un momento l’intera faccenda ha avuto un senso, immettere ossigeno nei polmoni diventa un gesto sensato, perfino onorevole. Jane Doe è il disco che non può non piacere per eccellenza, talmente perfetto da risultare addirittura frustrante perché irripetibile, irreplicabile. È la fine dell’innocenza e l’ingresso nell’età adulta, il rito di iniziazione che razionalizza la serie di traumi più laceranti subiti lungo la strada: una terapia, il punto fermo a cui tornare come un faro nella tempesta per chiunque abbia perso un affetto, un amore, sia stato segnato per la vita da qualcuno o qualcosa.

Gli effetti, su scala planetaria, sono immediati e irreversibili: il metal diventa una questione rispettabile anche nelle alte sfere, dove fino ad allora ne era stata negata la stessa esistenza, pienamente sdoganato nei circoli che contano, accolto a braccia aperte nelle parrocchiette che determinano il gusto comune, dove viene deciso cosa sia giusto ascoltare, come pensare. Nulla tornerà più a essere com’era, nemmeno per i Converge stessi: consapevoli di avere forgiato una pietra miliare, tempo il successivo You Fail Me, brutto quanto onesto, spietato nella sua imperfezione, e passeranno definitivamente alla cassa con dischi tutti uguali, tour autocelebrativi che sono l’equivalente di entrare in una chiesa durante le feste comandate per un cristiano, Jacob Bannon sempre più svociato, il chitarrista/produttore Kurt Ballou a registrare migliaia di gruppi intercambiabili, strettamente pilota automatico per generare venerazioni a prescindere. (Matteo Cortesi)

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Giappone, vince l’establishment

Il nuovissimo leader del Partito Liberal Democratico giapponese (LDP) e prossimo capo del governo di Tokyo, Fumio Kishida, nella conferenza stampa tenuta dopo essere stato proclamato vincitore ha annunciato la sua intenzione nientemeno che di “costruire una nuova forma di capitalismo”. Le concessioni retoriche al progressismo economico e fiscale dell’ex ministro degli Esteri la dicono lunga sulle preoccupazioni nel partito di centro-destra che domina la scena politica nipponica dal secondo dopoguerra. Se la necessità di promuovere “crescita” e “distribuzione” delle ricchezze appare in teoria indiscutibile, l’esistenza delle condizioni e della volontà per farlo realmente sono però quanto meno dubbie. Soprattutto se si considera che l’affermazione di Kishida viene quasi universalmente considerata come un successo della fazione conservatrice del LDP, influenzata ancora in larghissima misura dal potente ex premier Shinzo Abe, le cui manovre sono state decisive nell’orientare l’esito del voto all’interno del partito.

In estrema sintesi e secondo le ricostruzioni della stampa ufficiale, a giocarsi seriamente la leadership erano soltanto due candidati: Kishida, favorito dall’establishment del LDP, e il ministro delle Riforme Taro Kono, preferito dalla base del partito e dal pubblico giapponese in generale. Kono puntava sulla sua abilità nel comunicare e nel proiettare un’immagine di efficienza e modernità, soprattutto grazie a posizioni progressiste sui temi sociali, ma i centri di potere liberaldemocratici hanno scelto alla fine una soluzione meno “radicale”, anche se apparentemente meno popolare.

Il voto interno al LDP si era reso necessario dopo le dimissioni a inizio settembre del leader uscente e attuale primo ministro, l’oscuro Yoshihide Suga, penalizzato da una gestione giudicata pessima dell’emergenza pandemica e dalla decisione di far disputare le Olimpiadi estive nonostante l’aumento dei contagi e l’opposizione dei giapponesi. Con un’elezione alle porte e il rischio di un tracollo del partito, Suga si è trovato a subire fortissime pressioni per farsi da parte, così da lasciare la leadership a un successore meno compromesso.

Le elezioni per il rinnovo della camera bassa del parlamento giapponese (“Dieta”) dovranno tenersi non oltre il 28 di novembre, anche se è probabile che saranno indette con qualche settimana di anticipo. Essendo il LDP la forza dominante e, malgrado la tendenza al ribasso, con un vantaggio notevole in termini di consensi su un’opposizione poco meno che allo sbando, è quasi scontato che Kishida sarà il capo del governo di Tokyo dopo il voto. La carica di premier la otterrà però formalmente già lunedì prossimo, data in cui è previsto il voto di fiducia in parlamento che decreterà il passaggio di consegne dal gabinetto Suga.

Le procedure per la selezione del numero uno del LDP si sono tenute nella giornata di mercoledì, con un doppio voto che ha coinvolto i membri del parlamento e le sezioni locali di questo partito. Al primo scrutinio, nel quale i consensi degli iscritti, espressi tramite le rispettive sedi regionali, avevano maggior peso, Kono ha ottenuto un voto in più rispetto a Kishida ma senza raggiungere la maggioranza assoluta.

In corsa c’erano anche altre due candidate e almeno una di esse ha svolto un ruolo forse decisivo per l’esito della consultazione: l’ex ministra delle Comunicazioni Sanae Takaichi, ovvero la favorita dell’ex premier Abe e notoriamente su posizioni di ultra-destra. L’appoggio della fazione probabilmente più importante del LDP le ha garantito un numero consistente di voti al primo turno, sottraendoli a Taro Kono e rendendo inevitabile il ricorso al ballottaggio.

Poche ore più tardi c’è stato così il secondo turno, nel quale le regole del partito prevedono un sostanziale ritorno del potere decisionale nelle mani dei deputati. Nella fase decisiva, su 427 voti validi, Kishida ne ha incassati 257 contro i 170 di Kono. Quest’ultimo ha prevalso nuovamente e in maniera schiacciante tra i delegati regionali del LDP, ma nulla ha potuto contro il coalizzarsi dell’establishment del partito a favore del suo rivale.

Su Kishida sono stati dunque dirottati in maniera decisiva i voti dei sostenitori della candidata indicata inizialmente da Shinzo Abe. Questo fattore, secondo la maggior parte dei commentatori, rende il neo-leader e prossimo primo ministro dipendente dalla destra del partito, mettendo in forte dubbio da subito gli impegni a percorrere una strada diversa in ambito economico rispetto agli ultimi due governi. Kishida è considerato un moderato e una sorta di “colomba” in politica estera, anche se negli ambienti politici giapponesi gli viene riconosciuta un’inclinazione per lo più pragmatica.

In molti hanno fatto notare come i vertici del LDP abbiano scommesso su un nuovo leader tutt’altro che brillante e con scarso appeal tra gli elettori nonostante uno dei candidati fosse un politico, come Taro Kono, potenzialmente in grado di rilanciare l’immagine del partito. La scelta è stata fatta però proprio per favorire il mantenimento del controllo sul LDP delle fazioni conservatrici ed evitare di innescare forze centrifughe con un leader relativamente di rottura. Questa scelta è stata più semplice dopo la pubblicazione di alcuni recenti sondaggi di opinione che attorno alla metà di settembre indicavano un certo recupero dei consensi del LDP, fugando i dubbi residui sul possibile esito delle elezioni di novembre al di là dell’identità del nuovo leader.

Le promesse di Kishida sono ad ogni modo ambiziose, a cominciare da un pacchetto di rilancio dell’economia che alcuni stimano attorno ai 270 miliardi di dollari. Le politiche redistributive, come una tassa del 20% sui redditi finanziari, sono state al centro della sua campagna elettorale per la leadership del partito e saranno con ogni probabilità rilanciate anche in vista del voto per il rinnovo del parlamento. Vista l’attuale situazione economica, sociale e sanitaria del Giappone, questa strategia potrebbe risultare proficua in termini di consensi, anche se, una volta chiuse le urne, apparirà chiaro che non esistono le condizioni oggettive per abbracciare politiche espansive di ampio respiro.

Un altro aspetto importante è rappresentato dalla politica estera che Kishida intenderà perseguire. Negli oltre quattro anni in cui ha ricoperto la carica di ministro degli Esteri (2012-2017), il neo-leader del LDP ha cercato di bilanciare le relazioni internazionali del Giappone, consolidando il primato assoluto dell’alleanza con gli Stati Uniti ma evitando scosse eccessive nei rapporti con la Cina, primo partner commerciale del suo paese. Nelle scorse settimane, però, Kishida si è unito al coro anti-cinese degli altri candidati alla guida del partito, insistendo spesso su questioni scottanti per Pechino, come il rafforzamento delle capacità missilistiche di Tokyo o, ancor più, il cambiamento dello status quo a Taiwan.

Per qualcuno, l’atteggiamento di Kishida sarebbe da ricondurre alla necessità di ingraziarsi la destra del partito e di sollecitare gli istinti nazionalisti della popolazione giapponese in campagna elettorale. Anche secondo i commenti apparsi sulla stampa cinese, infatti, una volta al potere Kishida finirà per abbassare i toni e puntare su una politica estera equilibrata che tenga conto della realtà dei fatti. Ciò è del tutto possibile, ma allo stesso tempo non possono essere minimizzate le dinamiche internazionali in atto che vedono gli Stati Uniti intensificare le pressioni su Pechino e, a questo scopo, coinvolgere sempre più i propri alleati in Asia orientale.

Lungo quali linee si svolgerà la politica estera del governo giapponese sotto la guida di Fumio Kishida lo si vedrà a breve, verosimilmente dopo le elezioni di novembre, ma fin da ora sono abbastanza chiare le sfide e le questioni più esplosive con cui il nuovo leader del LDP dovrà fare i conti. Sotto forma di velato avvertimento, la testata on-line governativa cinese Global Times ha pubblicato mercoledì una sorta di elenco dei fattori da tenere in considerazione e che richiederanno estrema prudenza.

Per evitare una pericolosa crisi nei rapporti sino-giapponesi, con conseguenze disastrose anche sull’agenda domestica, Pechino invita ad esempio la nuova leadership del LDP ad abbandonare la strada del militarismo, perseguita negli ultimi anni soprattutto da Abe attraverso il tentativo di modificare la Costituzione pacifista del suo paese.

Inoltre, tra i temi caldi su cui la Cina mette l’accento, ci sono l’eventuale partecipazione del Giappone ad “alleanze militari multilaterali”, con un chiaro riferimento al cosiddetto “Quad” (USA, Giappone, Australia, India) promosso da Joe Biden, e il coordinamento con Washington nel condurre operazioni di “guerra tecnologica” o commerciale con l’intento di ostacolare la crescita economica di Pechino.

Particolare enfasi, infine, viene messa sulla questione di Taiwan, attorno alla quale è emerso un pericoloso dibattito negli ambienti di potere giapponesi negli ultimi mesi, senza dubbio in seguito a sollecitazioni esercitate da Washington. L’editoriale del Global Times invita Tokyo alla massima cautela in questo ambito, in modo da scongiurare iniziative che possano infiammare la situazione nello stretto di Taiwan, fino addirittura a “innescare una nuova guerra con la Cina”.

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Contro il Partito Unico degli Affari

Il presidente del consiglio Draghi ha buttato una caramella su Roma e subito i candidati dei principali partiti e schieramenti si sono gettati nella mischia per contendersela.

“Candidiamo Roma per l’EXPO del 2030“, ha promesso il banchiere capo. Sì, una grande fiera come quella del 2015 a Milano, che ha lasciato un deserto fatiscente là dove c’erano luminosi edifici esaltati come simboli di uno smagliante futuro, ma che ha agevolato una gigantesca speculazione edilizia.

Pochi giorni fa ho partecipato ad una enorme assemblea popolare sulla casa sotto la sede della Regione Lazio. Centinaia di persone senza casa o minacciate di sgombero per sfratto.

Ecco, l’annuncio di Draghi ha, sulla città dove la questione sociale sta esplodendo, lo stesso effetto delle brioches di Maria Antonietta. Eppure tutti i quattro principali candidati che fingono di scontrarsi, compresa la sindaca uscente, hanno esaltato il messaggio di Draghi, come Fantozzi di fronte al capoufficio.

A proposito di Milano, Greta Thunberg vi ha appena definito come “bla bla bla” tutte le promesse dei politici sulla crisi climatica. E il sindaco uscente ha risposto schierandosi fortemente con l’ambientalismo, affermando che la sua città sia all’avanguardia nella riconversione ecologica.

Sì, con i “boschi verticali”, piante sui balconi dei grattaceli che portano verde natura in abitazioni del valore minimo di 8.000 euro al metro quadro. E il finto antagonista di destra del sindaco uscente ha aggiunto che bisogna ridurre le tasse su tutte le case, quelle dei ricchi in primo luogo.

Intanto le periferie boccheggiano nei veleni dell’inquinamento.

A Torino in pompa magna si avviano i lavori per il Parco della Salute. Cioè una mega opera sanitaria che copre una gigantesco finanziamento alle aziende private della salute.

Come ha detto il presidente di destra della Regione, “il servizio sanitario pagato dallo Stato può anche essere affidato ai privati, l’importante è il risultato“. E Cinquestelle e centrosinistra approvano e sostengono.

A Bologna ci ha pensato La Repubblica a rafforzare il consenso bipartisan intorno ai grandi affari. Il quotidiano ha organizzato un confronto tra il candidato a sindaco del centrosinistra e quello del centrodestra, escludendo tutti gli altri (come a Roma, Torino, Milano, del resto).

Così, senza il disturbo di altre voci, i due candidati hanno potuto celebrare il loro totale accordo nel gestire la città nel nome di grandi opere, fiere e mercati, imprese e profitti.

Infine a Napoli il miraggio dei soldi del PNRR ha risvegliato gli appetiti e le promesse dei principali concorrenti alla guida della città. Sia quello di centrosinistra sia quello di centrodestra sono seguaci fanatici di Draghi, ma poi nella campagna elettorale finiscono per riproporre Achille Lauro.

“Io vi farò avere più soldi da Roma“, “no, sarò io il più bravo“... ecco l’essenza dello scontro. E naturalmente a chi vengono di comune accordo promessi questi soldi? Ma alle imprese, è ovvio!

Nelle cinque principali città dove si vota per il Comune, i principali candidati sembrano scontrarsi su tanto, ma in concreto sono d’accordo su tutto. Perché tutti appartengono al PUA, il Partito Unico degli Affari che comanda e decide la vita reale e le scelte politiche delle città.

Anche chi era nato ed aveva raccolto consenso per combattere quel partito nel nome del popolo, ha finito per adeguarsi ad esso. Stanno coi ricchi e dei ricchi vogliono prima di tutto la benedicente approvazione.

Per questo, se non volete lamentarvi poi di essere stati imbrogliati, provate ora a sostenere le candidate ed i candidati di #PoterealPopolo.

Se li farete entrare nei consigli comunali scoprirete che il PUA avrà finalmente trovato il suo antagonista. Nel nome del pubblico e dei servizi pubblici, delle periferie e dell’eguaglianza sociale, della salute ambientale per tutti e non solo per i ricchi.

Contro il PUA.

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Tensione tra Serbia e Kosovo. La Nato pattuglia i confini

Le forze Nato della missione K-For in Kosovo da lunedì hanno intensificato i pattugliamenti in Kosovo in seguito all’aumento delle tensioni ai confini con la Serbia.

Il governo di Belgrado ha inviato mezzi blindati al confine in risposta a quelle che ha definito le “provocazioni” di Pristina, ovvero il recente dispiegamento di forze speciali kosovare vicino due località di frontiera nel Nord della provincia, Jarinje e Brnjak, due province annesse al Kosovo dove la popolazione è in maggioranza serba e non accetta l’autorità del governo di Pristina.

Da giorni centinaia di serbi stanno bloccando per protesta le strade che portano ai due valichi di frontiera. Durante il fine settimana, due uffici di registrazione dei veicoli kosovari sono stati attaccati dai manifestanti e il primo ministro kosovaro, Albin Kurti, ha accusato la Serbia di voler “provocare un conflitto”.

Le unità speciali kosovare sono state inviate per supervisionare la decisione di Pristina di costringere i veicoli serbi ad apporre targhe kosovare temporanee all’ingresso nel suo territorio.

I veicoli immatricolati “Repubblica del Kosovo” – non riconosciuti da Belgrado – sono costretti da anni a portare provvisoriamente targhe serbe per entrare in Serbia e Pristina ha chiesto una misura di “reciprocità”.

Secondo la Nato, la situazione al confine è tranquilla. La comunità internazionale, a partire dall’Unione Europea, ha chiesto “de-escalation” e “dialogo” di fronte al riesplodere delle tensioni tra il Kosovo e la Serbia, che non ha mai riconosciuto l’indipendenza del territorio a maggioranza albanese, proclamata nel 2008. Il Kosovo, del resto,  non riconosciuto da tutti gli Stati europei né dalla Russia.

Ieri il rappresentante speciale dell’Unione europea, Miroslav Lajcak, per il dialogo tra Belgrado e Pristina ha avuto due incontri separati con i negoziatori dei due paesi.

La Russia si è detta “preoccupata per l’aumento delle tensioni nel nord del Kosovo”, ha affermato l’ambasciatore russo a Belgrado, Aleksandar Boca Harcenko, in un incontro con il presidente della Serbia Aleksandar Vucic. Harcenko ha dichiarato che la responsabilità della crisi attuale è delle istituzioni di Pristina, che non rispettano gli accordi firmati in precedenza.

L’ambasciatore ha anche sottolineato che la parte serba sta agendo con la massima responsabilità, mentre Pristina non mostra alcun segno di ricerca di una soluzione di compromesso.

Vucic ha infine ringraziato Harcenko per il sostegno della Russia all’integrità territoriale e alla sovranità nazionale della Serbia.

Oggi a Tirana inizia la missione nei Balcani della presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, che intende preparare il terreno per il vertice Ue-Balcani del prossimo 6 ottobre e che visiterà sia Pristina che Belgrado.

“È importante che le parti si siedano insieme, mettano fine all’escalation verbale nella regione e trovino rapidamente una soluzione“, ha affermato Diana Spinant, portavoce della Commissione.

Gli analisti sostengono però che il periodo non è favorevole al compromesso, in quanto sia il Kosovo sia la Serbia devono affrontare scadenze elettorali. A Pristina è previsto un voto amministrativo a ottobre, mentre l’anno prossimo in Serbia si terranno le elezioni politiche.

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Cina - Il PCC e gli algoritmi: un futuro digitale senza il capitalismo delle piattaforme

Alla fine scopriremo che la difesa della privacy in rete viene regolata meglio in Cina che nei paesi “liberali”. Non è una scoperta paradossale, a ben rifletterci. E questo articolo pubblicato da il manifesto chiarisce abbastanza bene sia le ragioni non economiche di questa decisione, sia le conseguenze economiche sull'”economia delle piattaforme”.

Materiale per meditare, prima di parlare.

Buona lettura.

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di Lucrezia Goldin - il manifesto

Una legge per domarli, una legge per gestirli, una legge per guidarli, e in Cina vincolarli. Pechino continua la campagna di normativizzazione dell’industria digitale e dopo la legge sulla sicurezza dati (Dsl) e la normativa sulla protezione della privacy (Pipl) allunga le mani sul cuore pulsante del capitalismo da piattaforma: l’algoritmo di raccomandazione.

Con una nuova bozza presentata a fine agosto (e soggetta a revisione fino al 26 settembre), la Cybersecurity Administration of China (Cac), propone di limitare l’utilizzo dei software di filtraggio dati alla base delle principali applicazioni di servizi internet.

Se implementata, la misura potrebbe scardinare il modello di business sul quale compagnie come ByteDance, Alibaba e Tencent hanno costruito il loro impero, rendendo la Cina il banco di prova per il futuro dell’economia digitale.

La normativa in 30 punti propone di “regolamentare le attività di internet che fanno uso di algoritmi di raccomandazione” e di dare agli utenti la possibilità di “trovare contenuti non indirizzati alle loro caratteristiche personali”.

Il bersaglio è il sistema di analisi dei big data che crea suggerimenti personalizzati e aggregazione di contenuti online, fornendo all’utente un’esperienza di navigazione in linea con le proprie preferenze.

Si tratta dell’utilizzo più proficuo del machine learning, pratica nella quale la Cina è sovrana grazie ai dati di quasi un miliardo di utenti Internet che macina ogni giorno, e che ha permesso ai 161 “unicorni” cinesi di arricchirsi tramite la loro compravendita.

Ma per il Partito Comunista Cinese è finito il tempo del “caotico accumulo di capitale” ed è giunto il momento di battere cassa.

Nel panorama delle piattaforme digitali in Cina, nessuno è al riparo. La proposta di legge si applica in modo trasversale a chiunque faccia uso dell’algoritmo per mostrare contenuti personalizzati.

Che si tratti di cibo sulle app di delivery (Meituan, Elema), di prodotti di lusso sulle piattaforme di e-commerce (Taobao, Jd), di suggerimenti musicali (QQMusic), o di contenuti informativi e di intrattenimento (Weibo, Douyin).

Tutti sono chiamati a rispondere alla Cac, e a presentare alle autorità una “dichiarazione dei servizi di raccomandazione” con informazioni sull’algoritmo.

A tutela degli utenti, poi, alle aziende è richiesto di “dare l’opzione di disattivare la modalità di raccomandazione”, così da contrastare la discriminazione da algoritmo e prevenire violazioni della privacy.

A poco più di un anno da quando il Partito difendeva a spada tratta Tik Tok (versione internazionale di Douyin) per aver rifiutato di consegnare il suo algoritmo all’amministrazione Trump, adesso è lo stesso governo cinese a bussare alla porta dei colossi tecnologici, chiedendo di registrare i codici più proficui dell’industria e sottoporli alla supervisione statale.

Solo nel 2020 Taobao (piattaforma e-commerce di Alibaba) ha fatturato 464 miliardi di dollari con il suo product placement, mentre Douyin (app di mini video di ByteDance) ha guadagnato 59 miliardi di dollari con le vendite in diretta streaming.

Porre limitazioni all’algoritmo di raccomandazione significa mettere in discussione queste cifre da capogiro. Ma per Pechino non è solo una questione economica.

A preoccupare il governo è soprattutto la possibilità delle piattaforme di dirigere i consumi e influenzare le masse. Nella bozza si legge infatti che le limitazioni sono rivolte alle aziende che hanno “la capacità di influenzare l’opinione pubblica” e che è loro dovere interrompere pratiche che “istigano alla dipendenza” o “inducono a spendere grandi quantità di denaro”.

Non è un caso che la bozza sia stata emessa in concomitanza con la campagna di rettificazione morale che ha portato al giro di vite nell’industria dell’intrattenimento.

Così come alle celebrities è richiesto di non ostentare ricchezza e di non alimentare l’idolatria tossica dei fan club, le piattaforme digitali sono invitate a portare avanti “valori morali tradizionali” e “diffondere energia positiva”.

E come dimostrato dalla vicenda di Zhao Wei, attrice miliardaria dichiarata persona non grata dal Pcc, l’accesso ai codici sorgente delle app può significare la completa rimozione di un personaggio (o di un contenuto) dalla sfera digitale.

Il messaggio che arriva dalle autorità centrali è chiaro: non le piattaforme, non le celebrities, l’unico influencer deve rimanere il Partito.

La triade di strumenti giuridici con cui l’ente regolatore di internet potrà modellare l’ecosistema digitale della Rpc è prossima al compimento. La stretta agli algoritmi andrà infatti ad accompagnare la Data Security Law (entrata in vigore il 1° settembre) e la Private Information Personal Information Protection Law (in arrivo il 1°novembre), nel sempre più robusto framework legislativo del cyberspazio cinese.

Rispettivamente, la legge sulla sicurezza dati centralizza i poteri statali sui dati elaborati nella Repubblica Popolare (inclusi quelli di aziende straniere) secondo il principio del sovranismo digitale, e previene il loro trasferimento transfrontaliero.

La legge sulla privacy dei dati invece, contrasta l’accumulo di informazioni personali degli utenti da parte delle aziende, rendendo più difficile e costoso per loro sfruttare i dati dei consumatori.

Dal canto loro, i campioni dell’high tech stanno cercando di prepararsi come meglio possono. C’è chi cerca di placare gli animi del Partito appoggiando le nuove iniziative presidenziali, come Alibaba, che ha di recente stanziato 16 miliardi di dollari a sostegno delle economie locali in nome della “prosperità comune”. E chi, come ByteDance, ha rinunciato all’Ipo per evitare interferenze statali.

La chiave di volta per le compagnie tecnologiche potrebbe trovarsi in una diversificazione dei prodotti, che consenta di esportare le innovazioni tecnologiche cinesi all’estero e allo stesso tempo soddisfi i bisogni di supervisione del Partito.

Un esempio in questo senso è arrivato da Tencent, che a inizio mese ha invitato gli utenti di Wechat registrati con un numero non cinese a utilizzare la versione “internazionale” dell’app. Con conseguente riduzione dei servizi.

Se la rete è il territorio, le big tech cercano un compromesso: Wechat all’esterno, Weixin all’interno. E così anche Tik Tok, che coesiste da tempo con il marchio madre Douyin.

Ci sono state però anche le prime vittime delle tre (dis)grazie giuridiche del tecnologico, come DidiChuxing, che è a luglio è stata rimossa temporaneamente dagli app store per presunta violazione della privacy degli utenti.

Mentre la Cina ingabbia i suoi colossi tech, l’Occidente osserva. Con il suo nuovo apparato normativo la Rpc potrebbe mostrare al mondo un futuro digitale libero dal capitalismo da piattaforma.

Limitare gli algoritmi rischia di portare perdite economiche alle aziende e costi aggiuntivi per l’utente, ma i benefici che le nuove regolamentazioni portano agli eternauti in termini di scelta di consumi e protezione dati sono senza precedenti.

L’Unione Europea, che nel campo della sicurezza informatica conta tra i suoi strumenti il Gdpr, è più concentrata a regolamentare il mercato delle app di intelligenza artificiale (con l’Artificial Intelligence Act) che a frenare la compravendita dei dati.

Negli Stati Uniti invece, continuano gli scandali legati alla violazione della privacy da parte dei colossi della Silicon Valley. Non ultimo quello divulgato dall’agenzia investigativa ProPublica, che ha denunciato WhatsApp per abuso delle informazioni private degli utenti.

Una volta affetta da gravi carenze normative, la Cina si appresta oggi a diventare il Paese più preparato dal punto di vista giuridico nella regolamentazione della sfera digitale, con un modello che nella sua intrusività potrebbe avere successo laddove le democrazie occidentali continuano a inceppare.

Più diritti per gli utenti, maggiori responsabilità per le piattaforme, verso la realizzazione di quella che la scorsa settimana il Consiglio di Stato ha chiamato la “civiltà del cyberspazio”.

Il tutto sotto l’attenta guida del Partito comunista: garante della privacy, educatore delle masse, e sovrintendente del progresso responsabile delle big tech.

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La condanna di Mimmo Lucano, roba di un altro mondo

Tredici anni e due mesi. Tanto un tribunale di questo disgraziatissimo Paese ha ritenuto di dover comminare a Mimmo Lucano, tre volte sindaco di Riace, ritenuto colpevole di “associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, truffa, peculato e abuso d’ufficio”.

Una sentenza così abnorme da sembrare scritta in trance dal Matteo Salvini di questi giorni – alle prese con la vicenda del suo “guru” dei social media, inchiodato a una sordida vicenda di festini gay e droghe varie (decisamente agli antipodi dell’immaginario trash idealizzato dalla sua creatura, “la Bestia”).

Il processo “Xenia” messo in piedi dalla procura di Locri – cui pure non dovrebbe mancare autentica “materia criminosa” da trattare – era partito fin dall’inizio con il piede sbagliato, mettendo al centro presunte “irregolarità nell’utilizzo dei finanziamenti governativi per la gestione dei migranti”, sotto la pressione dei ministri dell’interno d’allora (Marco Minniti, del Pd, anche lui calabrese, e poi Matteo Salvini, che non ha bisogno di ulteriori specificazioni).

Già allora, infatti, l’Italia ebbe modo di mostrare la propria indignazione per un arresto alquanto immotivabile, visto che il “modello Riace” era diventato in tutta Europa un parametro di riferimento per l’accoglienza e l’integrazione dei profughi di mille disavventure in altri continenti.

Un’accoglienza “spartana”, fatta con pochissime risorse, all’interno del “modello Sprar”, che i governi di quel periodo – di centrosinistra e a maggior ragione di centrodestra – andavano eliminando a favore di una prassi semi-carceraria degna della Gestapo.

Le “irregolarità” addebitate a Mimmo Lucano, fin dal primo momento, erano apparse per quel che erano: fantasiose improvvisazioni amministrative sul filo di leggi e regolamenti fatti per non funzionare, come gli affidamenti diretti (ad una cooperativa di profughi) di servizi comunali ben poco appetibili per una “gara d’appalto internazionale” – la raccolta rifiuti fatta con gli asini, per le vie scalinate del vecchio paese – o un paio di matrimoni celebrati per “sistemare” problemi di cittadinanza altrimenti irrisolvibili.

Una destinazione di fondi scarsi, per cui Lucano venne comunque accusato di “truffa aggravata per il conseguimento di erogazione pubbliche ai danni dello Stato e dell’Unione Europea”, oltre che di “concussione e abuso d’ufficio”.

Una prosopoea tribunalizia decisamente fuori misura per cose da far sorridere, in una regione infestata da ben altri “fenomeni criminosi”, dove persino il cartello di ingresso al Comune sede della Procura figura, ancor oggi, crivellato di proiettili. Mimmo sarebbe convenuto intavolare una “trattativa con la Mafia”, avrebbe rischiato certamente di meno...

Per Mimmo furono invece due anni di arresti domiciliari, seguiti da “divieto di dimora” nel Comune di residenza, di cui era stato sindaco, ma anche di manifestazioni di solidarietà nazionale e internazionale, di cortei e quasi “pellegrinaggi” per testimoniargli solidarietà.

Una popolarità immutata, da quattro anni a questa parte – tanti ne sono passati dal momento dell’arresto – che ne ha giustificato in qualche misura la candidatura nella lista di De Magistris per le elezioni regionali di domenica prossima. Al contrario della vicenda Morisi, però, questa “giustizia ad orologeria” avrà probabilmente effetti benefici, anziché invalidanti.

La pena erogata in primo grado appare talmente insensata, anche ad un primo sguardo, da sembrare proveniente da un altro pianeta. La Corte di Cassazione, nel 26 febbraio 2019, ritenne di dover revocare il divieto di dimora per l’assenza di indizi di “comportamenti fraudolenti” dello stesso Mimmo “per assegnare alcuni servizi”.

Ciò nonostante il Tribunale di Locri ci mise ben sette mesi per dar seguito a quella sentenza, applicando la decisione di revoca solo nel settembre dello stesso anno. Un segno evidente di contrarietà che non trovava giustificazione “nelle carte giudiziarie”, ma anticipava in qualche modo l’abnorme verdetto di oggi.

Peggio ancora. La sentenza supera di quasi il doppio la richiesta del Pubblico Ministero (ossia dell’accusa). Quest’ultimo aveva richiesto infatti una condanna a “soli” 7 anni e 11 mesi.

Inutile, per pura mancanza di spazio, dar conto di tutte le reazioni indignate esplose immediatamente in ogni ambito della società civile e persino dell’ignobile “classe politica” che vive sulle nostre spalle.

Vedremo appena possibile, come si dice, “le motivazioni della sentenza” (al momento abbiamo solo “il dispositivo”: 30EFE226-6C83-4B0B-9F78-1FEA078408BF-unito), ma già ora appare chiaro che l’eccesso di zelo persecutorio di questa Corte gioca a favore di una revisione radicale in sede di giudizio d’appello. Quando si esagera fino a questo punto, si può solo raggiungere un risultato opposto a quello voluto.

Gli avvocati Pisapia e Daqua hanno scritto in una nota:
«Una sentenza lunare e una condanna esorbitante che contrastano totalmente con le evidenze processuali: oltre tredici anni di carcere per un uomo come Mimmo Lucano che vive in povertà e che non ha avuto alcun vantaggio patrimoniale e non patrimoniale dalla sua azione di sindaco di Riace e, come è emerso nel corso del processo si è sempre impegnato per la sua comunità e per l’accoglienza e l’integrazione di bambini, donne e uomini che sono arrivati nel nostro Paese per scappare dalle guerra, dalle torture e dalla fame.

È difficile comprendere come il Tribunale di Locri non abbia preso nella giusta considerazione quanto emerso nel corso del dibattimento, durato oltre due anni, che aveva evidenziato una realtà dei fatti ben diversa da quella prospettata dalla pubblica accusa. Per ora purtroppo possiamo solo sottolineare che non solo la condanna, ma anche l’entità della pena inflitta a Mimmo Lucano sono totalmente incomprensibili e ingiustificate e aspettare le motivazioni della sentenza per poter immediatamente ricorrere in appello nella convinzione che i successivi gradi di giudizio modificheranno una decisione che ci lascia attoniti».
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Mosca dopo le elezioni, tra nostalgia del passato, tendenze nichiliste e incognite internazionali

La Federazione Russa si è appena lasciata alle spalle le elezioni del parlamento e un voto che ha segnato la conferma di “Russia Unita” come primo partito, seppur notevolmente ridimensionato nel suo livello di consenso.

I contorni disegnati dal voto – non esattamente trasparente – sono quelli di un paese con un asse politico spostato verso sinistra, con milioni di russi evidentemente poco entusiasti della propria condizione sociale – specie in certe regioni – e delle proprie prospettive di vita.

La principale novità del voto è infatti l’importante rafforzamento del secondo partito, il KPRF (Partito Comunista della Federazione Russa) attestatosi sulla soglia del 20% dei consensi. Un rafforzamento avvenuto nonostante le irregolarità che lo stesso partito ha denunciato.

Lo scenario politico sostanziatosi all’indomani del voto può portare ad evoluzioni di diverso genere: il rischio che i contrasti tra il KPRF, di cui Gennadij Zjuganov è segretario, e il blocco di potere di “Russia Unita” si facciano più aspri non è zero.

Ma se da una parte la verticale del potere del Cremlino cercherà di contenere il più possibile il ruolo dei comunisti, dall’altra si troverà a dover tener conto del favore di cui questi godono in seno alla società russa: un fatto che difficilmente porterà il Cremlino a sostenere politiche che creino una contrapposizione frontale tra le due principali forze del paese e che rischino di compromettere l’unità nazionale.

All’indomani del voto, Zjuganov ha dichiarato: «Nel paese ci sono due pilastri che si confrontano: quello patriottico, che si confronta con noi, e quello liberal-cosmopolita, sempre disposto a mentire e a svendere il Paese».

Benché la Federazione Russa sia tutt’altro che un fulgido esempio di democrazia liberale, l’elemento imprescindibile che su cui poggia l’equilibrio tra politica e società è quello del consenso.

Un elemento fondamentale, visto il numero di dipendenti di organismi e aziende pubbliche, forze militari e di polizia presenti in seno alla società russa. Fondamentale, a dispetto di una situazione in cui gli organi legislativi, esecutivi e giudiziari sono di fatto tutti sotto il controllo del medesimo blocco di potere.

Rispetto alla politica estera, ed in particolare al rapporto con l’Occidente, la stragrande maggioranza dell’opposizione russa sostiene orientamenti e posizioni ben più radicali di quelle di “Russia Unita” e assai meno propense al dialogo ed al compromesso.

Non di rado le opposizioni stigmatizzano l’azione del Cremlino come poco risoluta nei confronti dell’Occidente: se da una parte certe prese di posizione potrebbero essere considerate in larga misura volte alla ricerca del consenso, dall’altra questo atteggiamento implica che certi umori siano piuttosto diffusi in seno alla società russa.

“Russia Unita” e la Crimea

Il fatto che alcune pulsioni compongano il senso comune di ampie porzioni della società russa emerge in modo sistematico: ad esempio, il centro di ricerca sociale “Levada” rilevò il picco della popolarità di Vladimir Putin all’indomani dell’operazione che nel 2014 riportò la Crimea de facto sotto sovranità russa.

Dopotutto, il peso politico delle forze d’opposizione russe con un orientamento filooccidentale continua a risultare risibile.

La nostalgia del passato

Per stemperare una rilevante insofferenza nei confronti di “Russia Unita” sono state presentate le candidature del Ministro degli Esteri Sergej Lavrov e del Ministro della Difesa, Sergej Shoigu: due pilastri della politica estera del Cremlino e della sua politica militare.

Una scelta volta a polarizzare il consenso dei milioni di russi che guardano con nostalgia e favore al passato sovietico, al rinnovato prestigio internazionale di Mosca, così come alla figura di Vladimir Putin.

Al contempo, l’esposizione mediatica dell’ex primo ministro Dmitry Medvedev, anch’egli membro di “Russia Unita”, è stata ridotta al minimo. Il favore – ridimensionato – che il sistema “Russia Unita” si è dimostrato in grado di raccogliere è in larga misura legato alla popolarità di Vladimir Putin.

Se in occasione delle scorse presidenziali il presidente russo ha cercato di distanziare il più possibile la propria immagine da quella del partito, durante la campagna elettorale che ha preceduto le elezioni della Duma “Russia Unita” ha profuso ogni sforzo in direzione opposta.

Le incognite sul futuro della Russia post-putiniana e la successione alla presidenza restano aperte, così come quelle che riguardano la figura di Vladimir Putin: tra queste, un nuovo incarico da primo ministro (come tra il 2008 ed il 2012), la presidenza del Consiglio di Sicurezza – sulla falsa riga di quanto avvenuto in Kazakistan -, la presidenza di un’ipotetica Unione di Russia e Bielorussia e molte altre.

In ogni caso, la lenta uscita di scena di Vladimir Putin potrebbe ridimensionare ulteriormente “Russia Unita”, problematizzandone non poco le prospettive. Di questo, e della necessità di nuove “cinghie di trasmissione” il Cremlino sembra consapevole.

A questa consapevolezza si può ricondurre infatti la comparsa sulla scena politica del partito “Novij Liudi” (in italiano: gente nuova) – espressione prevalente dell’imprenditoria metropolitana –. partito che ha collezionato circa il 5% delle preferenze.

Paradossalmente le sanzioni ed il tentativo di isolare il Cremlino da parte dell’Unione Europea e degli Stati Uniti hanno finito per stimolare l’iniziativa industriale russa: parallelamente la Federazione Russa ha ridotto in modo significativo le proprie riserve valutarie in dollari ed aumentato quelle in oro.

Oltre a ciò, Mosca si è dimostrata in grado di assorbire meglio di molte economie occidentali l’impatto pandemico, istituendo recentemente un fondo statale che possa fungere da riserva in caso di bruschi cali dei prezzi degli idrocarburi, variabile decisiva per Mosca.

Gli attuali livelli sono favorevoli e, se si manterranno stabili, per Mosca far crescere gli investimenti pubblici e la spesa sociale sarà un compito meno arduo. La congiuntura piuttosto favorevole per il Cremlino è dovuta anche ai successi in politica estera e al completamento del raddoppio del gasdotto North Stream2.

Intanto, secondo il centro di ricerca sociale “Levada” il 62% dei russi propende per il protagonismo economico dello stato e per la pianificazione, solo il 24% per il libero mercato.

Le tendenze nichilistiche

Ma le problematiche con cui la Federazione Russa deve fare i conti non sono soltanto di natura economica o politica. All’indomani del voto si è consumata una strage costata la vita ad otto persone presso l’università di Perm (Urali), dove un giovane ha imbracciato un fucile, sparando all’impazzata contro chiunque fosse a tiro. Nel maggio scorso qualcosa di molto simile era successo a Kazan, con un bilancio di undici morti.

Quelli che si registrano ormai con una certa frequenza in Russia sono episodi che ricordano molto le stragi che si consumano negli Stati Uniti. Le modalità in cui questi fenomeni hanno luogo suggeriscono che le loro radici affondino nella disgregazione sociale e in quella ideologica e identitaria.

Tendenze nichiliste che si rintracciano anche nel fenomeno dei suicidi tra i giovanissimi, come nel caso di Blue Whale, gioco on line che negli scorsi anni ha indotto diversi adolescenti a uccidersi, e almeno in parte nelle situazioni connesse con la radicalizzazione islamica.

Se la Russia vuole rimanere veramente unita ha un imperativo categorico da rispettare: quello di scongiurare fratture nette nel proprio corpo sociale e di prevenire il dilagare di derive ideologiche nelle nuove generazioni.

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Le domande non poste a Draghi

Il Presidente del Consiglio ed il ministro dell’economia hanno fatto una conferenza stampa per esaltare la ripresa economica in atto e congratularsi con sé stessi.

I giornalisti presenti, oltre a produrre qualche scena fantozziana di fronte al capufficio, si sono concentrati su una sola domanda: “Draghi si degnerà di diventare Presidente della Repubblica?”

Invece non sono state rivolte domande che a noi sembravano le prime da porre, per questo le proponiamo qui.
“Signor Draghi le chiediamo, se – come lei dice – l’economia va così bene,

– perché i lavoratori di GKN, Alitalia e tanti altri sono in mezzo a strada?

– perché le multinazionali possono chiudere e delocalizzare impunemente?

– perché chi perde il lavoro, in particolare se è donna e ha più di cinquant’anni, può solo sperare di rubare un lavoro da schiavi a qualche giovane?

– perché non agisce subito contro la strage di lavoratori, invece di commemorare i morti?

– perché non riduce la precarietà delle assunzioni invece che aumentarla?

– perché non vuole la legge per il salario minimo a 9 euro all’ora e perché non fa qualcosa perché aumentino i salari, almeno quanto aumentano le bollette?

– perché vuol tornare alla legge Fornero, con tanti giovani ancora disoccupati o precarizzati?

E, infine, perché di fronte alla ripresa dei profitti e dei grandi affari, con i ricchi che diventano ancora più ricchi e i poveri ancora più poveri, lei promette ai ricchi altri soldi?”
Ecco, almeno una di queste domande avrebbe dovuto essere posta nella conferenza stampa di Mario Draghi, ma così non è stato.

Mentre sarebbe stato superfluo chiedere perché il capo del governo sia stato acclamato come “meraviglioso benefattore” dai padroni di Confindustria.

La risposta sta nelle domande non fatte.

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29/09/2021

La Conversazione (1974) di F.F. Coppola - Minirece

Tapi: da grimaldello statunitense a oggetto della contesa centro asiatica


Quando crollò l’Unione Sovietica, una delle zone che più si trovò a dover gestire le lacune di potere che si formarono in conseguenza a questo avvenimento fu l’Asia centrale.

Si formarono le cosiddette repubbliche centro-asiatiche che dovettero affrontare, all’interno di un quadro internazionale caratterizzato dall’unipolarismo rampante degli Stati Uniti, la gestione dei territori e delle relative risorse di loro competenza.

Nacque così, in questo contesto, l’idea di usufruire delle consistenti riserve di gas del Turkmenistan, che fino a poco tempo prima erano sotto la vigilanza delle autorità di Mosca.

L’attore internazionale che più si spese per questa “idea” furono gli Stati Uniti, attraverso uno degli innumerevoli strumenti che erano stati formati nell’area dal loro operare: l’Asian Development Bank.

Al tempo l’obiettivo strategico statunitense, e delle società più maggiormente coinvolte in questo disegno, si concentrava sul dirottamento dei flussi energetici turkmeni al di fuori dei corridoi che comprendevano la Russia e l’Iran.

Per questa ragione, nell’ottobre del 1995 una cordata di società statunitensi e saudite, guidate dalla UNOCAL, varò un progetto relativo ad un oleodotto che avrebbe dovuto collegare il Turkmenistan al Pakistan.

Un progetto del genere, che rappresentava plasticamente quelli che erano i rapporti di forza del tempo nella regione, in materia di influenza dei grandi attori della scena internazionale, doveva comunque fare i conti con delle situazioni regionali dinamiche, cosa che accadde immediatamente quando venne il momento, per i soggetti coinvolti, di confrontarsi con lo stato all’interno del quale il passaggio di questo fatidico oleodotto era obbligato: l’Afghanistan.

Al momento, siamo a cavallo tra 1995 e 1996 a Kabul i talebani, pur essendo variegati nel proprio fronte interno, si apprestavano a prendere il potere e ad instaurare per la prima volta il loro emirato.

Un qualcosa che di per sé, inizialmente, non costituì un problema relativamente a questo progetto, tanto che nel gennaio del ‘98 venne firmato un accordo tra la CentGas (cioè il consorzio delle società energetiche guidato dalla UNOCAL) e i rappresentati talebani.

Ma quando sembrò che i giochi diplomatici fossero chiusi e si potesse così finalmente partire con i lavori, nell’agosto dello stesso anno le ambasciate statunitensi vennero bombardate e l’azione venne rivendicata dai talebani facendo saltare il progetto.

Già da questa introduzione, che cerca didascalicamente di inquadrare ciò che sta avvenendo oggi da una prospettiva storica, si capiscono i termini generali della situazione e la dinamicità di questo teatro, due elementi di cui ogni potenza, regionale o sovraregionale che si confronta per questa questione,deve obbligatoriamente tenere conto.

Il progetto Tapi dopo l’11 settembre

Come tutti sappiamo, nel 2001 gli Stati Uniti invadono l’Afghanistan e ne assumono il controllo politico, quanto meno ne occupano i principali centri urbani, iniziando a formare una nuova classe dirigente predisposta a stabilire un contatto organico con l’ingombrante padrino internazionale e, nel mentre, relegano di fatto le milizie Taliban nelle periferie del paese centro asiatico.

Dopo l’assunzione di questa posizione di forza, quel progetto che era partito alla metà degli anni 90 e al quale abbiamo fatto riferimento nell’introduzione, conosce una rinascita dovuta dalla ghiotta occasione, da parte statunitense, sia di irradiare con parte delle risorse centro asiatiche l’Asia meridionale, facendo di fatto da raccordo tra le due zone, sia di bypassare le rotte russe per garantire le stesse risorse energetiche alle zone più occidentali che si affacciano verso l’Europa.

Per questa ragione nel 2002 si arriva alla firma di un pre-accordo che comprende Turkmenistan, Afghanistan e Pakistan, e viene supportato “tecnicamente” qualche anno dopo, nel 2005, grazie all’operare della Asian Development Bank che, con la mediazione della Penspen, società petrolifera con sede a Londra, presenta per la prima volta un progetto concreto di fattibilità dell’opera.

Per la seconda volta però, quando tutto sembrava pronto per far partire finalmente i lavori, la geografia politica dell’Afghanistan giocò ancora contro la realizzazione di detto progetto, poiché l’operare delle milizie talebane presenti nel sud del paese, non ne consentivano la realizzazione, decretando così l’ennesimo stallo.

Si deve arrivare al 2010 per veder concretizzarsi un altro faticoso passo in avanti, grazie all’intesa governativa tra Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan ed India – nel frattempo entrata a fare parte del progetto – relativa all’acquisto di gas naturale dalle riserve turkmene che si interfacciano all’affare attraverso la società nazionale energetica Türkmengaz, in accordo con le rispettive società energetiche nazionali dei paesi coinvolti: Afghan Gas Enterprise per l’Afghanistan, Inter State Gas Systems per il Pakistan e GAIL per l’India.

Prima di arrivare all’inizio effettivo della realizzazione del gasdotto c’è tempo per l’ennesimo ritardo, che fa capire ancora di più la difficoltà relativa alle dinamiche regionali tra stati, concretizzatosi tra 2011 e 2012, quando Afghanistan ed India non riescono ad accordarsi riguardo alle tariffe di passaggio, un qualcosa che spinge anche Islamabad ad entrare nella questione al fianco di Kabul.

Dobbiamo aspettare quindi il 2015 per vedere l’inizio dei lavori, lato turkmeno, ed il 2018, lato afghano.

Caratteristiche tecniche del gasdotto

Arriviamo quindi a parlare degli ultimi anni, non prima però di aver dato qualche specifica relativa al gasdotto.

Il TAPI partirebbe dalle riserve di Galkynysh,nella parte meridionale del Turkmenistan, e arriverebbe alla città di Fazilka, al confine indo-pakistano nella regione del Punjab, in India.

Percorrerebbe quindi 1814 km attraversando anche Afghanistan e Pakistan, che vedrebbero tratte nei loro territori rispettivamente di 774 e 826 km, con le rimanenti tratte turkmene e indiane di 214 km.

Strutturalmente il gasdotto avrebbe un diametro di 56 pollici e una pressione di esercizio di circa 10.000 kilopascal (kPa).

Garantirebbe l’afflusso di 11 miliardi di metri cubi all’anno con due stazioni di compressione in Turkmenistan in una prima fase di sviluppo del progetto, per poi passare ad una seconda, che dipende dalla costruzione di altre stazioni di compressione in Afghanistan e Pakistan, nella quale si arriverebbe a 33 miliardi di metri cubi all’anno.

Il progetto tra interessi contrapposti e instabilità territoriale

Come si può notare da questo veloce excursus storico, questo progetto giace su una visione strategica ben precisa da parte degli statunitensi.

Come dicevamo precedentemente, per Washington l’occasione di inserirsi nei flussi energetici della zona, entrando in competizione con le influenze russe e cinesi, caratterizza l’obiettivo primario per poter spostare gli equilibri politico economici della zona.

Contiamo anche poi quelle che sono le mire del Turkmenistan.

Ashgabat ha intenzioni di differenziare ulteriormente il proprio portfolio clienti relativo alle risorse energetiche, sia per non essere eccessivamente legata al consumo cinese, per il quale il potere contrattuale di Ashgabat sta vacillando sempre più, per via della differenziazione ulteriore in materia di fonti energetiche che la Cina sta realizzando – sia grazie al gas kazako, sia soprattutto alle riserve russe giacenti in Siberia, vero cruccio di Ashgabat in questo ambito – sia per riuscire a sfruttare nella maniera più adeguata le riserve enormi che giacciono nel campo di Galkynysh, sito da cui partirebbe il TAPI.

Ovviamente gli obiettivi di questo genere di interessi non sono solo legati al gas, ma hanno un più ampio spettro economico politico.

Lo si evince soprattutto dal fatto che Ashgabat ha mantenuto ottimi rapporti sia con il governo filo-occidentale di Kabul durante l’occupazione statunitense, sia con i talebani.

Nonostante le insicurezze relative all’instabilità della zona, il Turkmenistan è tra gli attori che più si è speso per realizzare il progetto e funge in un certo qual modo da mediatore tra i differenti interessi delle nazioni coinvolte.

Questo atteggiamento che, come prima menzionato, ha visto i turkmeni mantenere buoni rapporti con entrambi i fronti interni all’Afghanistan, lo notiamo anche sulla breve distanza, come avvenuto tra febbraio e maggio di quest’anno, quando il ministero degli esteri turkmeno ha incontrato in due tranches separate sia il governo del presidente Ghani, sia le delegazioni talebane.

Degno di nota è anche l’impegno speso dallo stato centro-asiatico nel ricercare investitori internazionali; sia con la sponda statunitense, attraverso un continuo rapporto con la banca mondiale che ha avuto il suo ultimo incontro ufficiale il 7 gennaio 2021, sia con investitori europei, in particolar modo tedeschi, come confermato dall’incontro tra il ministero degli esteri turkmeno e l’inviato speciale tedesco nelle repubbliche di Afghanistan e Pakistan, Martin Potzel.

Il traino del TAPI per il Turkmenistan rappresenta inoltre la possibilità di sviluppare ulteriori progetti infrastrutturali in Afghanistan, relativi sia alla circolazione su ferro sia alle infrastrutture elettriche, oltre che il progetto relativo alla fibra ottica, che dovrebbe accompagnare il corso del gasdotto.

Ashgabat è fortemente interessata alla logistica relativa all’Afghanistan per almeno due motivi.

Il primo è che ciò consentirebbe una maggiore fluidità nel percorso energetico e relativo a tutto l’indotto,che porterebbe le risorse turkmene negli Stati del Sud dell’Asia.

Il secondo è che questa fluidità di circolazione sarebbe propedeutica anche per arrivare ai porti pakistani, in particolar modo quello di Gwadar, che proietterebbe commercialmente la quota relativa alle merci e ai servizi turkmeni verso le rotte più occidentali.

Abbiamo però anche visto che l’instabilità della zona non ha mai consentito uno sviluppo sicuro e veloce del progetto.

Le ragioni sono ovviamente molteplici ma possiamo dividerle in tre macro questioni.

La prima ha a che fare con l’instabilità storica dell’Afghanistan, dovuta sia alla differenziazione interna delle milizie afghane – che non sempre lungo il corso degli anni hanno avuto un atteggiamento coerente tra comandi centrali e comandi periferici, soprattutto per quanto riguarda le visioni tattiche da adottare nei distretti nei quali passerebbe il gasdotto – sia col fatto che l’occupazione statunitense, che avrebbe dovuto garantire questa stabilità, si è risolta nei vent’anni di permanenza in Afghanistan.

Ma nel solito atteggiamento coloniale degli stati occidentali, quasi un pattern storico di certe occupazioni, che puntavano alla formazione di un’élite autoctona stabile nelle zone maggiormente urbanizzate, coperte da una maggiore presenza in quelle aree delle forze di occupazione, contemporaneamente ad una presenza lieve se non praticamente nulla nelle zone periferiche che nell’orografia di un paese come l’Afghanistan costituiscono la percentuale maggiore e più difficilmente controllabile del territorio.

Non a caso le zone dove i talebani, nei vent’anni di presenza USA, hanno sviluppato una presenza capillare ed organizzata, seppur tribalmente, tanto da fondare “de facto” un governo ombra, un doppione dei vari governi filo-occidentali insediati a Kabul.

La seconda questione importante da ricordare, riguardo le difficoltà relative alla realizzazione dell’opera, ha a che fare con le rivalità regionali fra gli Stati coinvolti nel progetto, e in particolar modo tra Pakistan ed India.

Se infatti entrambe entrano nella realizzazione del gasdotto per differenziare ulteriormente le proprie forniture energetiche, le stesse non rinunciano ad ostacolarsi a vicenda per spuntare migliori condizioni di approvvigionamento ai danni dei diretti competitor.

Basti pensare alla questione dei costi di passaggio prima menzionati, senza contare poi la questione relativa ai disordini interni, soprattutto relativi al Pakistan, dove sia le milizie separatiste del Baluchistan, sia quelle fondamentaliste del Tehrik-i-Taliban Pakistan, rappresentano un fattore di instabilità per qualsiasi progetto intrapreso dal governo centrale.

Soprattutto per quanto riguardo i talebani pakistani, Islamabad non perde occasione di incolparli di collusione con Nuova Delhi per le varie destabilizzazioni della zona. Al di là della veridicità di tale asserzione, vale il discorso relativo ai talebani afghani, cioè che l’autonomia della quale godono queste milizie è tale da rappresentare di per sé un pericolo per la sicurezza di qualsiasi investitore, istituzionale o privato che sia.

L’ultimo fattore di instabilità ha a che fare con la cronaca più attuale.

Dopo che gli Stati Uniti hanno deciso di evacuare l’Afghanistan, e il contemporaneo riconoscimento di Pechino e Mosca del fronte talebano, la posizione dei diretti competitor strategici di Washington si è fatta molto più forte.

Questo significa che, al di là dei problemi relativi alla stabilità della zona, e quindi alla sicurezza degli investitori (che permangono), questo progetto potrebbe – sì – realizzarsi, ma sotto una più forte egida cinese, paese che già ha confermato di voler investire nelle future infrastrutture afghane.

Questo ovviamente deteriorerebbe ulteriormente la posizione di Washington nella zona.

Ma anche per i cinesi la realizzazione potrebbe non essere facile.

Primo perché l’instabilità regionale rimane, soprattutto riguardo le tribù talebane del sud dell’Afghanistan, decretando contemporaneamente un banco di prova per il nuovo emirato e una variabile poco rassicurante per Pechino.

Secondo perché i costi dell’opera, come avremo modo di vedere successivamente, sarebbero ben più alti di quelli prospettati sin dall’inizio.

Al di là di queste obiettive difficoltà, i talebani, ben prima della riconquista del territorio afghano, hanno avuto un atteggiamento molto conciliante riguardo questo progetto.

Sembrano infatti essersi accorti fin da subito dal traino rappresentato dal TAPI, tanto che fin dal 2018 si sono spesi in incontri bilaterali, in particolar modo con Ashgabat, che come prima menzionato è lo sponsor principale del progetto, per garantire la sicurezza della realizzazione della opera.

Secondo alcuni analisti australiani, una parte degli accordi di Doha tra i talebani e l’amministrazione Trump faceva riferimento proprio alla realizzazione di questo gasdotto anche dopo la dipartita statunitense da Kabul, in modo che – nonostante la mancanza di presenza fisica delle truppe a stelle e strisce – Washington avrebbe mantenuto un solido baluardo strategico nella zona.

Una prospettiva che passava anche attraverso il coinvolgimento di società statunitensi come cofinanziartici, che avrebbe garantito una diversificazione chiara rispetto ai corridoi energetici rivali,in particolar modo quelli più agganciati a Pechino.

Una controprova di questo “rumors” starebbe proprio nell’atteggiamento talebano, che è rivolto alla massima apertura per quanto riguarda i finanziamenti del TAPI, così come lo era il governo filo occidentale di Kabul prima della sua capitolazione.

Ma ad onor del vero, la questione sembra più legata alla attuale situazione infrastrutturale dell’Afghanistan.

Il paese intero, infatti, al di là della guida politica, ha un interesse capitale per quanto riguarda questo progetto.

Le motivazioni non sono solamente relative all’approvvigionamento energetico, che senza ombra di dubbio è importante per ogni paese e che per Kabul costituirebbe un ottimo affare, soprattutto per quanto riguarda i costi di transito – che farebbero fare un salto quantitativo alle casse del governo centrale e dei vari governi provinciali, ma ha a che fare anche con tutta l’infrastrutturazione di un paese che non ha sviluppato ancora alcuna rete viaria degna di questo nome o che possa dirsi, nei fatti, moderna.

Senza contare poi che un altro problema strutturale della logistica in Afghanistan risiede nel fatto che non vi è una distribuzione sufficiente di elettricità nel paese, e un progetto del genere attirerebbe una buona mole di investitori in grado di garantire finanziamenti anche per questo genere di infrastrutture.

Come peraltro confermato dai progetti turkmeni ed indiani, che già da alcuni anni hanno iniziato a circolare prima nelle stanze del governo Ghani ed ora, almeno per quanto riguarda i turkmeni, in quelle dell’emirato talebano.

In questa maniera Kabul entrerebbe anche più organicamente nella politica degli stati della zona, avrebbe una chance ulteriore di fare parte, da una posizione migliore, degli accordi multilaterali alla base dei meeting delle potenze regionali.

Ma oltre le varie assicurazioni lato talebano e gli altri problemi relativi alla stabilità della zona, permangono altri dubbi relativi alla realizzazione dell’opera.

Innanzitutto: la decisione di mantenere un’organizzazione che comprenda tutte e 4 le società energetiche dei paesi centro asiatici, optando contro una centralizzazione dell’organizzazione e della manutenzione del gasdotto, secondo certi analisti rallenterebbe ulteriormente i lavori.

Secondo: in Occidente, alcuni osservatori fanno notare che il prezzo previsto dell’opera continua a lievitare, disincentivando gli investitori stranieri.

Se ufficialmente i costi sono previsti entro i 10 miliardi di dollari, infatti, questi potrebbero lievitare fino a raggiungere i 40.

C’è poi anche da menzionare, come ultima questione, che Ashgabat – la quale, come prima ricordavamo, produce la maggior spinta per la realizzazione – potrebbe, sotto pressione degli investitori occidentali, ed europei in particolar modo, dirottare le proprie attenzioni verso le rotte energetiche del mar Caspio.

Zona, quest’ultima, dove menzioniamo l’importante presenza turca, che entra indirettamente anche nella questione qui dibattuta ma che non sviluppiamo in questa sede.

Questa diversa rotta garantirebbe affari con l’Europa, bypassando il blocco russo, storicamente guardingo riguardo questo progetto, raggiungendo comunque l’obiettivo di diversificare il proprio portfolio, considerando anche che il Turkmenistan sta comunque varando altri progetti via Uzbekistan e Kazakistan diretti verso la Cina, garantendosi così una clientela accresciuta senza il problema storico dell’instabilità afghana e pakistana.

Conclusioni

Per concludere: il destino di questo progetto sembra segnato, se guardassimo al solo lato economico.

Ma forse l’opportunità aperta dall’uscita statunitense dall’Afghanistan potrebbe fare sì che questo progetto veda la luce, per questioni di rafforzamento politico – un obiettivo cercato sia dai player regionali, che hanno comunque la necessità energetica di spingere per la risoluzione della questione, che da quelli più propriamente impegnati su fronti internazionali, come Pechin, impegnata nella ridefinizione delle regole internazionali grazie alla spinta infrastrutturale che sta producendo nelle zone storicamente colpite dal colonialismo prima e dall’imperialismo poi.

Sicuramente attorno a questo progetto si gioca buona parte della partita inerente alle rotte energetico commerciali del centro dell’Asia.

Una zona di capitale importanza per quanto riguarda i volumi complessivi di produzione e circolazione delle materie prime dell’intero pianeta; un fattore, questo, che fa pensare che le difficoltà legate al progetto potrebbero non bastare a fare desistere i vari attori dal cercare una soluzione.

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Le bollette di gas e luce aumenteranno ancora, ma “solo” del 30% e del 14,4%

Ormai è ufficiale che a partire da venerdi 1 ottobre, ci sarà una nuova stangata sulle bollette di luce e gas che aumenteranno, rispettivamente, del 29,8% e del 14,4%. Ma si tratta del terzo aumento consecutivo delle tariffe in soli sei mesi, mentre i salari sono rimasti sostanzialmente al palo.

Il decreto del Governo, ha infatti costretto l’Arera (l’Authority di Regolazione per Energia Reti e Ambiente, ndr ) a intervenire sugli aumenti di ottobre annullando fino a fine anno gli oneri generali di sistema in bolletta, consentendo di attutire l’impatto su 29 milioni di famiglie e 6 milioni di imprese. Ma, appunto, solo fino al 31 dicembre, poi nel 2022 il problema si ripresenterà,

La stessa Arera però già a luglio scorso aveva aumentato le tariffe di luce e gas salatamente: del 15,3% sul gas e del 9,9% sull’energia elettrica.

Non solo. Per chi ha la memoria corta ricordiamo che le tariffe di gas e luce erano già state aumentate dall’Arera ad aprile scorso, rispettivamente del 3,9% in più per la luce e il 3,8% in più per il gas.

Dunque in solo sei mesi le tariffe di beni di prima necessità hanno subito aumenti crescenti che incidono pesantemente sul potere d’acquisto dei salari e delle pensioni.

Mentre aumentano pesantemente luce e gas, sul fronte delle retribuzioni l’Istat certifica che a giugno 2021 la retribuzione oraria media, rispetto al secondo trimestre del 2020, è cresciuta dello 0,6% (sic!).

L’indice delle retribuzioni contrattuali orarie ha registrato un aumento dello 0,2% rispetto a maggio 2021 e dello 0,6% rispetto a giugno 2020.

In particolare, l’aumento tendenziale è stato dell’1,2% per i lavoratori dell’industria, dello 0,7% per quelli dei servizi privati ed è stato nullo per quelli della pubblica amministrazione.

Il tema dell’emergenza carovita e del vergognoso aumento delle tariffe di luce, gas, benzina con le loro pesanti conseguenze sulle condizioni di vita di milioni di famiglie, entra ormai di prepotenza nell’agenda politica, a cominciare dallo sciopero generale dell’11 ottobre.

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Chi ha paura del salario minimo?

Se parliamo di introdurre un salario minimo per legge in Italia non è per realizzare una legge che non abbia alcun effetto concreto sulla realtà, cioè che non riesca a produrre un rialzo sui salari più bassi e da fame, che sono purtroppo i salari percepiti da milioni di lavoratori.

La risposta di Confindustria all’idea di introdurre una legge sul salario minimo, che istituisca una soglia di almeno 9 euro sotto la quale diventi illegale scendere, è che in questo modo si incentiverebbe il lavoro nero e si colpirebbe la contrattazione collettiva. Cgil, Cisl e Uil hanno utilizzato finora grosso modo gli stessi argomenti per contestare l’ipotesi della legge. Ora però la Cgil furbescamente si dice d’accordo con l’introduzione di una legge che non dovrebbe far altro, però, che rimandare ai minimi salariali stabiliti dalla contrattazione collettiva.

Purtroppo, anche la direttiva della Commissione Europea in materia di minimi salariali, a cui spesso rimandano molti di quelli che intervengono sul tema, lascia aperta la possibilità di optare tra le due strade, soglia minima per legge o riconoscimento dei minimi contrattuali. Si tratta però di due strade che avrebbero un impatto, in Italia, completamente diverso.

Mentre la prima ipotesi, quella della soglia minima, se ben formulata, facendo esplicito riferimento ai Minimi Tabellari presenti in ogni contratto nazionale, e fissata ad un livello non inferiore ai 9 euro, avrebbe il merito di costringere tutto il sistema della contrattazione a riadeguarsi in funzione dei nuovi minimi, con un effetto positivo inevitabile verso tutta la scala salariale, l’altra ipotesi, di mero riferimento ai minimi dei contratti siglati dai sindacati maggiormente rappresentativi, lascerebbe pressoché immutata la situazione.

È vero, infatti, che i bassi salari, ben sotto i 9 euro l’ora, sono fissati dai 10 CCNL più rappresentativi, che coinvolgono cioè complessivamente il 53% della forza lavoro del paese, e sono stati tutti firmati da Cgil, Cisl e Uil, come ha spiegato bene il presidente dell’INPS Pasquale Tridico con una tabella presentata alle commissioni parlamentari durante il governo Conte 2. Non è vero quindi che i bassi salari siano il frutto della proliferazione di contratti pirata e sindacati di comodo, anche se è vero che questi fenomeni contribuiscono a peggiorare la situazione.

Se vogliamo semplicemente rafforzare il principio secondo il quale vanno rispettati dai datori di lavoro i CCNL firmati dai sindacati maggiormente rappresentativi ed eliminare dalla scena i circa 600 contratti pirata allora non è di salario minimo che stiamo parlando ma semplicemente di lotta alla giungla contrattuale che si è fortemente diffusa ed alla quale peraltro non si sono sottratte neanche Cgil, Cisl e Uil. Queste ultime, infatti, hanno comunque firmato quasi 300 dei 900 contratti nazionali attualmente in vigore e compartecipano a pieno titolo alla proliferazione contrattuale in corso in moltissimi settori.

Bisognerebbe in primo luogo stabilire che ogni settore merceologico debba far riferimento ad un solo contratto (eliminando la logica per cui ogni azienda stabilisce arbitrariamente il contratto che le conviene applicare) e garantire a tutti i lavoratori il diritto ad eleggere i propri rappresentanti in ogni settore e attività (nel mondo delle piccole e piccolissime aziende i lavoratori oggi non hanno diritto ad alcuna rappresentanza).

La questione della giungla contrattuale è concreta ma non può rappresentare un alibi per impedire di intervenire sulla piaga dei bassi salari. La soglia a 9 euro produrrebbe una spinta verso l’alto in tutti i contratti, pirata o no, e costringerebbe tutti ad adeguarsi alle nuove condizioni di legge. E questo non impedirebbe certo di intervenire con un altro provvedimento di legge per mettere ordine nel sistema dei contratti ed affrontare il nodo della rappresentanza.

Lo sciopero generale del prossimo 11 ottobre è l’occasione giusta per rimettere al centro la lotta contro i bassi salari e per l’introduzione di una soglia minima che dia una spinta verso l’alto a tutte le retribuzioni.

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28/09/2021

Dune - 2021 - Denis Villeneuve

Assange e gli assassini della CIA

La persecuzione decennale di Julian Assange si è arricchita qualche giorno fa di nuovi sconvolgenti particolari grazie a un’indagine pubblicata dal sito web Yahoo News. Sulla base delle informazioni fornite da una trentina di anonimi ex funzionari governativi, si è avuta la conferma di come la CIA e l’amministrazione Trump avessero preparato piani operativi per mettere in atto il rapimento o addirittura l’assassinio del fondatore di WikiLeaks mentre si trovava in qualità di rifugiato politico nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra.

Le rivelazioni, anche se tutt’altro che sorprendenti, chiariscono come il governo degli Stati Uniti, in collaborazione con quello britannico, abbia preso seriamente in considerazione e, anzi, si sia adoperato in modo concreto per uccidere un giornalista riconosciuto a livello internazionale, perché responsabile di avere diffuso documenti autentici e di estremo interesse pubblico che certificavano i crimini su scala planetaria dello stesso governo di Washington.

Le operazioni contro Assange erano iniziate significativamente durante l’amministrazione Obama, con la decisione di attivare procedure di sorveglianza ultra-invasive ai danni del giornalista australiano e dei membri del progetto WikiLeaks. L’obiettivo principale era quello di impedire ad Assange di lasciare il Regno Unito e trovare rifugio in un paese disposto a garantirgli asilo. A livello pubblico e in privato, esponenti di vertice dell’amministrazione democratica si erano d’altra parte lasciati andare a commenti inquietanti, che facevano intravedere una chiara volontà di liquidare drasticamente il “problema” Assange. Hillary Clinton aveva ad esempio chiesto al suo staff se, semplicemente, fosse stato possibile ucciderlo con un drone, mentre l’allora vice-presidente Joe Biden lo aveva definito un “terrorista hi-tech”.

Fu però nella primavera del 2017 che le cose ebbero una drastica accelerazione. La pubblicazione da parte di WikiLeaks di documenti esplosivi sulle operazioni della CIA e la presenza di falchi di estrema destra alla Casa Bianca (Trump) e alla direzione della stessa agenzia di Langley (Mike Pompeo) furono decisivi nel mettere in moto un meccanismo criminale diretto contro Assange.

Le informazioni messe a disposizione da WikiLeaks sotto il nome di “Vault 7” rivelavano una lunga serie di attività illegali e oggettivamente criminali in cui la CIA era impegnata. Oltre a documentare come l’intelligence USA sfruttava le proprie capacità informatiche per penetrare, tra l’altro, i sistemi computerizzati delle automobili o delle “smart TV”, WikiLeaks dimostrava che la CIA conduceva cyber attacchi contro determinati obiettivi lasciando tracce tali che avrebbero invece condotto a governi rivali, come Russia, Cina, Iran o Corea del Nord.

Soprattutto quest’ultimo aspetto di “Vault 7” rischiava di far crollare uno dei pilastri della propaganda di Washington contro i propri nemici, che garantiva cioè una giustificazione davanti all’opinione pubblica delle politiche aggressive messe in atto nei loro confronti perché appunto impegnati in attività di terrorismo informatico. Questa e le altre rivelazioni avevano quindi fatto ancor più di Assange un nemico giurato del governo americano, tanto che nell’aprile dello stesso anno Pompeo tenne un discorso presso la sede della CIA per annunciare la designazione ufficiale di WikiLeaks come “entità ostile non statale di intelligence”, con tutte le implicazioni del caso.

Gli ex agenti della CIA sentiti dai reporter di Yahoo News hanno raccontato come Pompeo avesse invitato i vertici dell’agenzia a fornire ipotesi “operative” su come contrastare WikiLeaks, senza preoccuparsi degli “avvocati di Washington” e ricordando loro che nulla era “off-limits” né dovevano “auto-censurarsi” nel proporre iniziative per questo obiettivo. Le “stazioni” della CIA in tutto il mondo vennero così sollecitate a intensificare le attività contro WikiLeaks, incluse operazioni di sorveglianza illegali in paesi europei e al fine di provocare divisioni all’interno dell’organizzazione giornalistica.

Sempre secondo le fonti di Yahoo News, Pompeo iniziò a considerare l’ipotesi del rapimento di Assange nel corso di una riunione tra esponenti dell’amministrazione Trump poco dopo la pubblicazione di “Vault 7”. Nella stessa primavera del 2017 emerse anche la possibilità di un assassinio mirato contro il numero uno di WikiLeaks. A testimoniarlo è un anonimo ex funzionario della CIA che venne informato della richiesta del presidente Trump di avere dall’agenzia di intelligence una serie di “opzioni” sulle modalità con cui portare a termine l’omicidio.

I piani e le discussioni in questo senso diventarono ancora più urgenti dopo che il governo ecuadoriano aveva iniziato a considerare l’evacuazione di Assange dall’ambasciata di Londra, prima verso la Russia e, dopo il rifiuto del giornalista australiano, in un altro paese ancora da individuare. Di queste discussioni il governo USA venne tempestivamente a conoscenza, sia attraverso le attività di sorveglianza della CIA sia tramite il lavoro della compagnia di “sicurezza privata” spagnola UC Global, reclutata da Langley per questo scopo e oggi al centro di un procedimento legale nel paese iberico.

Le idee che circolavano a Washington per impedire ad Assange di lasciare il Regno Unito sconfinavano nell’assurdo e includevano la possibilità di speronare l’auto diplomatica russa che avrebbe portato il giornalista australiano all’aeroporto, così come una sparatoria nelle strade di Londra e colpi di arma da fuoco diretti contro le ruote dell’aeromobile russo su cui si sarebbe imbarcato per raggiungere Mosca.

Il governo americano aveva anche discusso con le autorità britanniche l’ipotesi di un’irruzione pura e semplice nell’edificio dell’ambasciata ecuadoriana per prelevare Assange e spedirlo negli Stati Uniti. Londra, tuttavia, bocciò un’operazione che, evidentemente, avrebbe messo in serio imbarazzo il governo di sua maestà.

Sconvolgenti almeno quanto i progetti di rapimento e assassinio sono anche le ragioni che portarono ad abbandonare queste ipotesi. Non ci fu in sostanza alcun ripensamento dovuto alla presa d’atto della natura criminale delle operazioni allo studio. Piuttosto, a risultare determinanti furono le considerazioni sulle conseguenze in termini di immagine per gli USA, visto che, nelle parole di una delle fonti di Yahoo News, azioni di questo genere erano più consone a paesi come “Pakistan o Egitto”.

Soprattutto, dentro l’amministrazione Trump prevalsero le voci che fecero notare come l’eventuale fallimento di un’operazione palesemente illegale contro Assange avrebbe compromesso in maniera irreparabile il caso costruito contro il fondatore di WikiLeaks. Nell’articolo di Yahoo News si legge a questo proposito: “Allarmato all’idea che i piani della CIA avrebbero messo a rischio un potenziale procedimento criminale, il dipartimento di Giustizia accelerò la formulazione delle accuse contro Assange, così da garantire che tutto risultasse pronto nel caso fosse stato trasferito negli Stati Uniti”.

In altre parole, l’intero caso non è altro che il tentativo di operare una “rendition” nei confronti di Assange e il procedimento di estradizione in corso a Londra rappresenta l’altra faccia della medaglia dei piani commissionati da Trump e Pompeo per rapirlo o assassinarlo. La richiesta di estradizione, viste le gigantesche violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale che hanno caratterizzato la vicenda Assange, è in definitiva il tentativo di ottenere tramite un procedimento pseudo-legale quanto non è riuscito con la violenza. Per questa ragione, ciò che sta accadendo a Londra è un’autentica farsa o, più precisamente, un complotto che coinvolge governi e magistrature di vari paesi, così come la gran parte dei media ufficiali, totalmente insostenibile e destinato a crollare istantaneamente se solo fossero rispettati i più basilari principi democratici.

Queste ultime rivelazioni e l’indifferenza quasi generale con cui la stampa “mainstream” le ha accolte soprattutto negli USA portano nuovamente alla luce anche la condotta criminale dei governi occidentali e la normalizzazione di essa, diretta conseguenza dell’avanzato stato di deterioramento delle strutture democratiche.

Se assassinii e operazioni clandestine illegali in genere non sono merce inedita per la CIA e le altre agenzie di intelligence, ciò che fa oggi la differenza è appunto il ricorso sempre più aperto a simili pratiche per la promozione di determinati interessi strategici e, in parallelo, il silenzio della stampa o, quanto meno, il considerare questi fatti gravissimi come un normale strumento per la conduzione della politica estera di un determinato governo, soprattutto quando si tratta di quello americano.

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La riforma del Fiscal Compact è possibile e a chi gioverà?

di Domenico Moro

Nel recente incontro dell’Eurogruppo, l’organismo informale che riunisce i ministri delle finanze dell’area euro, è ripresa la discussione sulla possibile modifica delle regole europee che stabiliscono la gestione del deficit e del debito pubblico, in particolare quelle del Patto di stabilità e del Fiscal compact. Si era cominciato ad affrontare il tema nel 2019, ma lo scoppio della pandemia ha interrotto la discussione, anche perché le regole di bilancio europee sono state sospese per permettere agli Stati nazionali e alla Ue di mettere in campo robuste misure di stimolo fiscale, cioè di spesa statale, per contrastare la crisi. La questione della ridefinizione del Patto di stabilità e soprattutto del Fiscal compact si pone anche perché alla fine del 2022 saranno reintrodotte le regole che impongono agli Stati di tenere sotto controllo il debito pubblico e c’è la preoccupazione che la reintroduzione dei vincoli possa minare la ripresa economica.

Il Fiscal compact fu introdotto nel 2012, all’epoca della crisi dei debiti sovrani, per rendere più stringenti le regole europee, che prevedono il mantenimento del rapporto tra deficit pubblico e Pil ad un livello non superiore al 3% e del rapporto tra debito pubblico e Pil a un livello non superiore al 60%. Questi vincoli non sono il frutto di precise analisi economiche, ma il risultato di calcoli politici. Il limite del 3% al deficit fu adottato sulla falsariga dell’esperienza della Francia, dove era stato frutto di semplice convenienza politica. Si pensava che un deficit non superiore al 3% e una inflazione non superiore al 2% (obiettivo statutario della Bce) in presenza di una crescita del 2,5% annuo avrebbe consentito di convergere verso l’obiettivo del debito pubblico al 60%. Ma, come si è visto negli ultimi decenni, la crescita del 2,5% si è dimostrata un obiettivo illusorio nell’area euro. Lo stesso limite del 60% nasce sulla base di calcoli bizzarri che nulla hanno a che fare con una analisi economica seria.

Su questo sono significative le parole di Gentiloni, ex premier italiano e attuale commissario all’economia della Commissione europea, un politico non certo sospettabile di avversione all’euro o alla Ue. Gentiloni ha affermato nell’ultima riunione dell’Eurogruppo che bisogna “fare i conti con la realtà” e che il vincolo del 60% rappresenta “un livello che non ha giustificazioni economiche. Fu stabilito perché la media dei debiti dei 12 Paesi, 30 anni fa, all’epoca di Maastricht era intorno al 60%.” Gentiloni ha poi preso di mira la regola secondo cui chi supera il 60% del Pil dovrebbe ridurre di un ventesimo all’anno la quota eccedente, affermando che “Pensare di mantenere la stessa regola significherebbe ipotizzare percorsi di riduzione del debito irrealistici, 30 anni di avanzi primari inimmaginabili; passare i prossimi anni a cercare di aggirarla.”

Sui vincoli al debito si sono espresse criticamente anche due figure che nel 1991 prepararono il vertice di Maastricht, che per la prima volta definì le regole europee sul bilancio degli stati, Marco Buti, ora capo di gabinetto di Gentiloni, e Vitor Gaspar, già ministro delle finanze portoghese e ora direttore del Fondo monetario internazionale per le questioni di bilancio. I due economisti hanno scritto recentemente su Vox Eu: “Le regole e le procedure di Maastricht, insieme al patto di stabilità non hanno evitato le crisi dei debiti sovrani e le ricadute sulla stabilità finanziaria nell’area euro. Si verificarono entrambe all’indomani della crisi finanziaria globale: la disciplina di bilancio non funzionò, troppo lenta e troppo debole prima, troppo improvvisa e dirompente dopo.”

Quello che si vuol dire è che l’Ue non può permettersi che si ripeta quanto accaduto nella crisi dei debiti sovrani tra 2010 e 2013 quando si realizzò il crollo degli investimenti pubblici netti nell’Eurozona. I vari Stati, per rispettare il limite del 3% al deficit statale, scelsero di tagliare gli investimenti piuttosto che la spesa corrente. In questo modo, si è favorita la disciplina di bilancio, ma non la creazione di stimoli in grado di contrastare la crisi. Il risultato di queste scelte è stato l’approfondimento della crisi e il ristagno della crescita, specialmente in Italia. Ora, ci troviamo in una situazione diversa. La crisi attuale è stata affrontata non con la disciplina di bilancio ma con l’espansione della spesa pubblica, che ha fatto lievitare il deficit e il debito pubblico di tutti gli Stati europei. Nel 2020 il debito pubblico italiano è salito dal 134% dell’anno precedente al 155,8% e il deficit dall’1,6% al 9,5%. Quest’anno, il debito medio dell’area euro è salito al 102% sul Pil con punte del 160%, come nel caso dell’Italia. Il pericolo è, quindi, che il ripristino delle regole europee a fine 2022 provochi una nuova ricaduta nella crisi come durante il periodo della crisi dei debiti sovrani, in un contesto, per di più, in cui l’evoluzione della pandemia non è ancora certa e le economie non si sono ancora riprese completamente, senza contare che, per la verità, in molti Paesi come l’Italia la crescita è stata asfittica anche prima dell’emergere della pandemia.

In questo quadro, si delinea una contraddizione tra la necessità di mantenere lo stimolo fiscale, unitamente allo stimolo monetario (di competenza della Bce), e la volontà di comprimere i debiti pubblici. Per questa ragione si sta definendo uno scontro tra due gruppi di Paesi all’interno dell’area euro. Uno di questi raggruppamenti è costituito dai cosiddetti “frugali”, otto Paesi, tra cui l’Olanda, l’Austria e la Finlandia, che il giorno prima della riunione dell’Eurogruppo hanno resa pubblica una lettera in cui mettono le mani avanti rispetto alla volontà di modificare le regole europee, che serpeggia all’interno dell’area euro: “Le semplificazioni e gli adattamenti che promuovono una migliore applicazione delle regole di bilancio valgono la pena di essere discussi, ma solo se le proposte non mettono a rischio la sostenibilità di bilancio.” Dall’altra parte, troviamo altri Paesi, come l’Italia, la Spagna e la Francia, che vogliono modificare le regole sulla disciplina di bilancio. In pratica, mentre i primi chiedono che nel 2022 si torni alle regole attuali, prima di eventualmente cambiarle, i secondi chiedono invece di utilizzare quest’anno per cambiarle. I primi fanno riferimento al vicepresidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, i secondi a Gentiloni.

A questo punto bisogna capire come i “riformatori” intendono modificare le regole di bilancio europee. Gentiloni a tal proposito si è espresso nel modo seguente: “Dobbiamo trovare il modo per una diversa contabilità degli investimenti nelle due grandi transizioni, climatica e digitale.” La proposta dei “riformatori” sarebbe quella di introdurre più gradualità nella riduzione del debito e soprattutto una cosiddetta golden rule, una regola d’oro basata sull’esclusione degli investimenti dal calcolo del deficit pubblico. In questo modo, gli Stati potrebbero spendere per sostenere l’economia. Per convincere i “frugali” ad accettare la modifica i “riformatori” offrirebbero in cambio maggiore certezza nell’applicazione delle regole di bilancio, ovvero garanzie reali e vincolanti di rispetto degli impegni sui conti pubblici. Innanzi tutto bisogna capire se una tale “riforma” è possibile e se sì a chi porterà giovamento. Le modificazioni alle regole sul bilancio pubblico possono essere attuate solamente se la Germania e la Francia sono d’accordo. Molto importante è la posizione della Francia. Alla riunione dell’Eurogruppo, il ministro delle finanze francese, Bruno Le Maire, ha caldeggiato la “riforma”, dicendo che “dobbiamo riflettere fuori dagli schemi”. La Germania invece è molto cauta. Pur non avendo firmato la lettera dei “frugali”, il ministro delle finanze tedesco, Olaf Scholz, ha detto: “Abbiamo un buon quadro di bilancio per la stabilità in Europa e quest’ultimo ha dimostrato, soprattutto durante la crisi, di avere passato il test riguardante la pandemia.” Il ministro Le Maire ha risposto al suo omologo tedesco: “La cooperazione franco-tedesca è stata finora eccezionale. Non ho dubbi che grazie ai nostri scambi giungeremo a una posizione comune”. A quanto sembra, la Germania propenderebbe per mantenere lo status quo, sostenendo che le regole vigenti funzionano e mandando avanti, senza esporsi direttamente, i Paesi Bassi e gli altri “frugali”, come accaduto nel passato. D’altro canto, è importante la presa di posizione della Francia, l’unico attore europeo che può spingere la Germania verso un compromesso. Del resto, l’obiettivo dei frugali e della Germania è quello di avere una regola di riduzione del debito credibile, visto che quella attuale è chiaramente inattuabile per diversi stati (e capitali) nazionali. Le parole del “falco” Valdis Dombrovskis sono significative: “Poiché i livelli di debito sono aumentati e le divergenze si sono ampliate ulteriormente, dobbiamo avere una regola di riduzione del debito credibile e che funzioni per tutti gli stati membri.” Dunque, lo scambio tra scorporo degli investimenti dal calcolo del deficit e una maggiore garanzia sulla riduzione del debito ha buone probabilità di essere portato a compimento.

Apparentemente quella dei “riformatori” sembra essere una soluzione valida, ma in realtà nasconde un chiaro interesse di classe. Infatti, se gli investimenti venissero scorporati dal computo del debito e del deficit, a essere compresse, per determinare una riduzione del deficit e del debito, sarebbero le spese correnti. Del resto, a livello di spesa pubblica il peso infinitamente maggiore è esercitato dalle spese correnti, che sono passate dal 45,2% sul Pil del 2019 al 51,8% del 2020 (al netto degli interessi sono il 48,4%), mentre le spese in conto capitale, che comprendono gli investimenti, ammontano appena al 5,5%, in crescita rispetto al 2019 (3,5%). In termini più chiari, a essere aumentate sarebbero le spese che vanno al capitale, mentre a essere ridotte sarebbero le sole spese che vanno alla classe lavoratrice e ai disoccupati. Le spese per investimenti (mezzi di produzione e trasporto, macchinari, infrastrutture, armamenti, ricerca e sviluppo, ecc.) riguardano sia gli investimenti diretti sia quelli indiretti. Gli investimenti diretti riguardano gli acquisti dalle imprese di beni durevoli acquisiti dalla Pubblica amministrazione per essere utilizzati in processi produttivi per un periodo superiore all’anno. Gli investimenti indiretti sono le sovvenzioni dalla Pubblica amministrazione alle imprese. Invece, le spese correnti riguardano solo in parte acquisti di beni e servizi dalle imprese e comprendono le spese che vanno ai salari (in specie quelli dei dipendenti pubblici), alle pensioni e al welfare cioè al salario differito e indiretto di tutti i lavoratori. Gli investimenti diretti e indiretti oggi riguardano il “grande reset” del capitalismo, che ha a che fare con la digitalizzazione e con la transizione verde, come prevede il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Infatti, rientrano negli investimenti anche i sussidi e i trasferimenti alle imprese per il loro ammodernamento sia dal punto di vista dei mezzi di produzione e dei metodi di produzione sia dal punto di vista dei beni prodotti, soprattutto per quanto riguarda la digitalizzazione e la sostenibilità ecologica. È significativa, a questo proposito, la presa di posizione della Francia, il cui ministro delle finanze, Le Maire, ha notato come gli investimenti siano necessari per rafforzare la stessa autonomia strategica dell’Europa. Ad esempio, la Francia sta premendo, attraverso Renault e Stellantis (il megagruppo nato dalla fusione di Fca e Peugeot) per la costruzione di impianti di batterie per auto situati sul territorio europeo e un impianto di Stellantis è previsto che sia costruito proprio in Italia.

Per leggere la riforma del funzionamento della Ue dobbiamo leggere la fase che attraversa il modo di produzione capitalistico. La crisi attuale, infatti, non può essere ascritta unicamente alla pandemia ma ha origine più antica ed è causata, in ultima istanza, dalla tendenza di lungo periodo alla caduta del saggio di profitto, a sua volta originata dall’aumento della composizione organica, cioè da un eccesso di investimenti in capitale costante (macchinari, materie prime, ecc.) rispetto al capitale variabile, cioè alla forza lavoro occupata. Una tale “sovraccumulazione di capitale” si è manifestata soprattutto in Europa, in Giappone e negli Usa, cioè nei Paesi di più antico sviluppo capitalistico. In Europa la crisi si è manifestata con maggiore forza. Qui, la caduta della redditività del capitale ha prodotto una contrazione degli investimenti privati che, sommata alla riduzione degli investimenti pubblici, ha determinato l’obsolescenza relativa del sistema produttivo e un arretramento delle economie di diversi Paesi e della Ue nel suo complesso nei confronti dei concorrenti più immediati, gli Usa e soprattutto la Cina, che stanno lottando per il predominio in molti settori industriali, specie quelli posti alla frontiera tecnologica, che richiedono massicci investimenti iniziali. La riforma delle regole europee manterrà intatta e anzi accentuerà la natura anti-lavoro salariato e funzionale all’accumulazione capitalistica della Ue e dell’euro. Da una parte, il salario complessivo (soprattutto quello indiretto e differito) verrà ridotto e, dall’altra parte, l’investimento di capitale a spese degli Stati e della Ue nel suo complesso ridurrà la spesa a carico delle imprese. In questo modo, cioè riducendo, da una parte, il costo dell’accumulazione di nuovo capitale fisso e, dall’altra parte, il costo del lavoro, si tenterà di rialzare il saggio di profitto. Nello stesso tempo, con gli investimenti in settori innovativi, si darà respiro alle imprese e al capitale europeo nel suo complesso fornendogli sostegno nella competizione interimperialista, cercando di inserire la Ue come terzo attore tra Usa e Cina. In pratica, è evidente che il capitale, come rapporto di produzione complessivo, non può sussistere senza l’aiuto dello Stato.

L’introduzione delle regole europee sul bilancio rispondeva a una logica molto precisa e razionale dal punto di vista capitalistico: mantenere la classe lavoratrice sotto scacco e privatizzare massicciamente il sistema produttivo favorendo le tendenze antagonistiche alla caduta del saggio di profitto e la realizzazione di una maggiore centralizzazione di capitale che porti alla creazione di imprese di dimensioni mondiali. La riforma delle regole di bilancio, per come si sta configurando, sarebbe soltanto una ridefinizione dei rapporti di forza tra frazioni nazionali di capitale. Una tale riforma, promossa dal capitale europeo, non può che essere in linea con la logica iniziale che ha portato alla formazione dell’Ue e dell’euro, portando anzi – come abbiamo cercato di dimostrare – un peggioramento per tutti i lavoratori, sia quelli pubblici sia quelli privati. L’unica proposta realistica, per quanto complessa e difficile sia la sua attuazione, è l’eliminazione dell’intera architettura dell’Ue e dell’euro. La “questione europea”, passata in secondo piano con l’acuirsi della pandemia, deve ritornare a ricoprire il ruolo che merita nel dibattito politico nazionale e internazionale e soprattutto all’interno di una strategia politica di lotta contro il capitale e per il socialismo.

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