Ancora una bolla immobiliare, ancora la speculazione sull’“asset più sicuro”, a minacciare di far esplodere le borse mondiali. Solo che stavolta il demonio scassatutto è cinese.
Detta così, sembra la solita accusa scaricata su Pechino, come è successo per il Covid-19 (di cui l’unica cosa certa è l’incertezza dell’origine). E invece il problema, molto serio, riguarda entrambi i sistemi economici – quello iper-liberista occidentale e quello relativamente pianificato-programmato cinese – proprio nel punto di intersezione più pericoloso: quello finanziario.
Da giorni i mercati stanno scontando la corsa al ribasso di Evergrande, secondo maggiore gruppo immobiliare di Pechino, che è arrivato a perdere quasi il 90% del suo valore azionario.
Stiamo parlando di imprese di dimensioni insolite, in questo caso con 305 miliardi di debiti (pari al Pil della Finlandia), messe in difficoltà dalle restrizioni decise dal governo di Xi Jinping, proprio per combattere il pericolo che fossero i colossi finanziari a determinare le scelte strategiche della Repubblica Popolare, stravolgendo il percorso verso “una società moderatamente prospera” prevista dal “socialismo con caratteristiche cinesi”.
I giornali occidentali si sono commossi per giorni sulla sorte di Jack Ma, vulcanico imprenditore addirittura iscritto al Partito comunista, fondatore di Alibaba (l’Amazon asiatica) e Tencent (servizi per intrattenimento, mass media, internet e telefoni cellulari), il cui tentativo di quotare in borsa Ant (divisione finanziaria del suo gruppo) è stato alcuni mesi fa stoppato definitivamente dal governo.
Per dirla in breve, questa mossa veniva dopo le pubbliche critiche di Jack Ma al sistema bancario cinese, descritto spregiativamente come “un sistema da banco dei pegni”. Fin troppo chiaro, a quel punto, che la funzione pensata per Ant era quella di stravolgere dall’interno il sistema finanziario cinese, rendendolo più simile a quello occidentale, ultra-speculativo e sostanzialmente senza regole.
È seguita la “scomparsa” di Jack Ma, rientrato nel suo villaggio natio, a meditare su suoi errori fino ad offrire 13 miliardi di dollari per “lo sviluppo sociale” del paese.
Questo aneddoto serve per illustrare in pochi tratti il passaggio che Xi Jinping e le autorità di Pechino hanno imposto all’economia cinese negli ultimi anni, almeno a partire dalla crisi del 2007-2008 (iniziata proprio nel settore immobiliare, con la crisi dei mutui subprime e il crollo di Lehmann Brothers), accentuando la programmazione centralizzata, lo sviluppo dell’economia reale (industria, servizi, ecc.) rispetto a quella finanziaria, il mercato interno – i consumi, trainati dalla fortissima crescita dei salari – rispetto alle esportazioni.
Il segreto della crescita cinese sta proprio in queste scelte, diametralmente opposte a quelle occidentali. Ma le interconnessioni tra le economie mondiali non sono per questo cessate, e il settore finanziario – le sue diverse caratteristiche nei diversi “continenti” o aree di influenza – è certamente quello centrale per questo tipo di legami.
Evergrande è diventata così la società che non poteva continuare ad operare come prima (era cambiato “l’ambiente regolativo”), ma non ha saputo o potuto cambiare modello di business. Il mattone, in questo senso, non consente grandi “riconversioni” a tappe forzate.
Aggiungiamoci alcuni clamorosi errori anche di pianificazione (intere città costruite e rimaste di fatto disabitate) e abbiamo il contesto di una crisi inevitabile.
Ma perché la crisi di un’enorme società immobiliare cinese rischia di essere lo spillo che “buca il pallone” della speculazione finanziaria mondiale?
La consueta, eccellente, disamina di Guido Salerno Aletta, questa volta su TeleBorsa, fornisce le chiavi per capire l’essenziale.
Abbiamo da questa parte i “mercati” euro-atlantici, gonfiati e sostenuti da anni di immissioni di liquidità da parte delle banche centrali (Federal Reserve, Bce, Bank of England), per sostenerli a dispetto delle crisi successive dal 2008 ad oggi, esaltate infine dalla pandemia e dalle drastiche diminuzioni del Pil sui due lati dell’Atlantico.
E abbiamo il momento delicatissimo in cui queste economie occidentali provano a ritrovare “la via della crescita” – nella speranza che la pandemia sia in fase calante – seguendo strade anche molto diverse tra Europa e Usa.
Qui si prova a usare la crisi pandemica e gli investimenti necessari per imporre “riforme” che consolidino lo strapotere delle imprese, diminuendo salari, diritti e servizi sociali pubblici. Negli Usa si prova a raggiungere lo stesso obbiettivo con quasi 4.000 miliardi di dollari di investimenti pubblici e aumento del salario minimo (qualcuno deve pur comprare quello che viene prodotto, o no?).
Perché l’operazione ripresa possa avere possibilità di successo il sistema finanziario deve restare in condizioni di tranquillità, evitando nuove crisi di grandi dimensioni.
Di tutto hanno bisogno, “i mercati” occidentali, tranne che dell’esplosione di una supernova delle dimensioni di Evergrande. Ma non possono farci nulla. È fuori della loro area di competenza. E hanno anche finito gli strumenti di contenimento delle crisi finanziarie (il denaro è a costo zero da anni, e prestarlo significa regalarne una parte).
Buona lettura.
Detta così, sembra la solita accusa scaricata su Pechino, come è successo per il Covid-19 (di cui l’unica cosa certa è l’incertezza dell’origine). E invece il problema, molto serio, riguarda entrambi i sistemi economici – quello iper-liberista occidentale e quello relativamente pianificato-programmato cinese – proprio nel punto di intersezione più pericoloso: quello finanziario.
Da giorni i mercati stanno scontando la corsa al ribasso di Evergrande, secondo maggiore gruppo immobiliare di Pechino, che è arrivato a perdere quasi il 90% del suo valore azionario.
Stiamo parlando di imprese di dimensioni insolite, in questo caso con 305 miliardi di debiti (pari al Pil della Finlandia), messe in difficoltà dalle restrizioni decise dal governo di Xi Jinping, proprio per combattere il pericolo che fossero i colossi finanziari a determinare le scelte strategiche della Repubblica Popolare, stravolgendo il percorso verso “una società moderatamente prospera” prevista dal “socialismo con caratteristiche cinesi”.
I giornali occidentali si sono commossi per giorni sulla sorte di Jack Ma, vulcanico imprenditore addirittura iscritto al Partito comunista, fondatore di Alibaba (l’Amazon asiatica) e Tencent (servizi per intrattenimento, mass media, internet e telefoni cellulari), il cui tentativo di quotare in borsa Ant (divisione finanziaria del suo gruppo) è stato alcuni mesi fa stoppato definitivamente dal governo.
Per dirla in breve, questa mossa veniva dopo le pubbliche critiche di Jack Ma al sistema bancario cinese, descritto spregiativamente come “un sistema da banco dei pegni”. Fin troppo chiaro, a quel punto, che la funzione pensata per Ant era quella di stravolgere dall’interno il sistema finanziario cinese, rendendolo più simile a quello occidentale, ultra-speculativo e sostanzialmente senza regole.
È seguita la “scomparsa” di Jack Ma, rientrato nel suo villaggio natio, a meditare su suoi errori fino ad offrire 13 miliardi di dollari per “lo sviluppo sociale” del paese.
Questo aneddoto serve per illustrare in pochi tratti il passaggio che Xi Jinping e le autorità di Pechino hanno imposto all’economia cinese negli ultimi anni, almeno a partire dalla crisi del 2007-2008 (iniziata proprio nel settore immobiliare, con la crisi dei mutui subprime e il crollo di Lehmann Brothers), accentuando la programmazione centralizzata, lo sviluppo dell’economia reale (industria, servizi, ecc.) rispetto a quella finanziaria, il mercato interno – i consumi, trainati dalla fortissima crescita dei salari – rispetto alle esportazioni.
Il segreto della crescita cinese sta proprio in queste scelte, diametralmente opposte a quelle occidentali. Ma le interconnessioni tra le economie mondiali non sono per questo cessate, e il settore finanziario – le sue diverse caratteristiche nei diversi “continenti” o aree di influenza – è certamente quello centrale per questo tipo di legami.
Evergrande è diventata così la società che non poteva continuare ad operare come prima (era cambiato “l’ambiente regolativo”), ma non ha saputo o potuto cambiare modello di business. Il mattone, in questo senso, non consente grandi “riconversioni” a tappe forzate.
Aggiungiamoci alcuni clamorosi errori anche di pianificazione (intere città costruite e rimaste di fatto disabitate) e abbiamo il contesto di una crisi inevitabile.
Ma perché la crisi di un’enorme società immobiliare cinese rischia di essere lo spillo che “buca il pallone” della speculazione finanziaria mondiale?
La consueta, eccellente, disamina di Guido Salerno Aletta, questa volta su TeleBorsa, fornisce le chiavi per capire l’essenziale.
Abbiamo da questa parte i “mercati” euro-atlantici, gonfiati e sostenuti da anni di immissioni di liquidità da parte delle banche centrali (Federal Reserve, Bce, Bank of England), per sostenerli a dispetto delle crisi successive dal 2008 ad oggi, esaltate infine dalla pandemia e dalle drastiche diminuzioni del Pil sui due lati dell’Atlantico.
E abbiamo il momento delicatissimo in cui queste economie occidentali provano a ritrovare “la via della crescita” – nella speranza che la pandemia sia in fase calante – seguendo strade anche molto diverse tra Europa e Usa.
Qui si prova a usare la crisi pandemica e gli investimenti necessari per imporre “riforme” che consolidino lo strapotere delle imprese, diminuendo salari, diritti e servizi sociali pubblici. Negli Usa si prova a raggiungere lo stesso obbiettivo con quasi 4.000 miliardi di dollari di investimenti pubblici e aumento del salario minimo (qualcuno deve pur comprare quello che viene prodotto, o no?).
Perché l’operazione ripresa possa avere possibilità di successo il sistema finanziario deve restare in condizioni di tranquillità, evitando nuove crisi di grandi dimensioni.
Di tutto hanno bisogno, “i mercati” occidentali, tranne che dell’esplosione di una supernova delle dimensioni di Evergrande. Ma non possono farci nulla. È fuori della loro area di competenza. E hanno anche finito gli strumenti di contenimento delle crisi finanziarie (il denaro è a costo zero da anni, e prestarlo significa regalarne una parte).
Buona lettura.
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Se Pechino buca il Pallone a Wall Street
Se Pechino buca il Pallone a Wall Street
Guido Salerno Aletta – TeleBorsa
Siamo su un crinale sottilissimo: la ripresa economica è sostenuta solo dalla fiducia che i cittadini, le imprese ed ancor di più gli investitori ripongono nella capacità dei Governi e delle Banche di sostenerli nel superare le difficoltà e le complessità di una situazione davvero senza precedenti a memoria d’uomo.
Negli Usa ed in Europa si assiste, ormai da oltre un anno e mezzo, da quando è iniziata una crisi sanitaria e poi economica, al completo disaccoppiamento tra gli andamenti dell’economia reale e quelli del sistema finanziario: le immense iniezioni di liquidità immesse dalle banche centrali hanno sostenuto e gonfiato le quotazioni azionarie ed evitato che i tassi di interesse sui debiti crescessero esponenzialmente per via dell’aumento dei rischi per la stabilità delle imprese.
I massicci interventi di spesa in deficit dei governi e le garanzie apprestate sui nuovi debiti delle imprese, hanno consentito di superare le fasi più critiche.
Prosegue intanto il riposizionamento strategico statunitense nei confronti della Cina, che ormai viene vista come il principale competitore sul piano geopolitico e non solo su quello economico.
Di converso, a Pechino si stanno regolando i conti pesantissimi di un intero decennio di iniziative economiche d’emergenza che furono assunte, in particolare nel settore immobiliare ed infrastrutturale, per contrastare gli effetti straordinariamente gravi, gli spill-over, della crisi americana del 2008 che aveva fatto collassare il commercio mondiale.
Un intero sistema economico basato sulla produzione di merci destinate all’esportazione si trovò improvvisamente di fronte ad un blocco della domanda internazionale: lo Stato, le Autorità politiche locali, il sistema bancario lanciarono una serie di iniziative senza precedenti per la costruzione di immobili ad uso abitativo e per la realizzazione di ogni genere di infrastrutture, dalle autostrade alle ferrovie ad alta velocità.
Questa nuova domanda interna, destinata ad assorbire la disoccupazione, ha messo in moto una serie di vettori difficilmente controllabili: la scelta delle aree su cui costruire gli immobili o delle infrastrutture pubbliche era decisa a livello locale dagli stessi dirigenti politici che avevano anche la possibilità di spingere le banche a finanziarne la realizzazione.
Tutto questo ha assorbito enormi capitali, anche speculativi, così come è stato effettuato spesso a fini speculativi l’acquisto di immobili. Si è creata una bolla immobiliare, sia in termini di nuove costruzioni fisiche che di maggior valore delle case, tutto finanziato a debito da parte delle banche e degli “sviluppatori”.
Le banche usavano per queste iniziative parecchio del risparmio depositato, sottoscrivendo i titoli di debito emessi dagli “sviluppatori”, entità finanziarie che facevano da intermediari con i costruttori degli immobili e poi con i compratori di questi.
E molti cinesi, soprattutto gli imprenditori benestanti, non solo hanno usato i propri risparmi per comprare una prima casa, ma ne hanno comprato anche una seconda e a volte altre ancora, magari indebitandosi, contando sul fatto che i prezzi salivano in continuazione: si erano indebitati per una casa che inizialmente valeva cento, ma questa cresceva rapidamente di valore.
Arricchimento facile e speculazione, a tutti i livelli: un po’ come accadde negli Usa fino alla crisi dei sub-prime.
Anche in Cina si sentono gli effetti indiretti della recessione causata dalla crisi sanitaria: sono cominciati a venir meno sia i presupposti di solidità finanziaria e di crescita economica che erano stati riacquistati dopo gli interventi straordinari di cui si è detto, considerando soprattutto la ripresa della domanda mondiale.
Mentre gli spill-over della crisi americana del 2008 erano stati superati, la gran parte dei debiti contratti per superarli era rimasti ancora da pagare: la nuova crisi sanitaria del 2020 ha fatto da detonatore. Ecco da dove nasce la crisi potenzialmente sistemica che viene affrontata in questi mesi dalle autorità cinesi, a livello sia politico che di sorveglianza finanziaria: gli speculatori che si sono arricchiti non riescono a far fronte ai propri impegni, il valore di carico degli asset immobiliari che avevano dato come garanzia agli investitori che avevano comprato i loro bond è troppo alto per il mercato.
Non riescono dunque a vendere e ad incassare per onorare gli impegni: questo è il pericolo di default sistemico che si intravede.
Le autorità politiche di Pechino e la sorveglianza finanziaria non hanno nessuna intenzione di dare un colpo di spugna, con un intervento di salvataggio pubblico: farebbero un regalo agli speculatori, che sarebbe socialmente indigeribile.
È in corso un regolamento di conti interno, una sorta di processo politico, che taglia le unghie ai tanti, forse troppi, che si sono arricchiti in questa maniera. Non solo, ma diversamente dagli Usa e dall’Europa, in Cina non c’è stata l'immane immissione di liquidità che ha fatto salire enormemente i valori azionari delle imprese, nonostante la profonda recessione: c’era già troppo debito in giro, e la nuova liquidità avrebbe fatto da acceleratore, se non da detonatore, di una crisi finanziaria davvero devastante.
Le quotazioni del sistema finanziario ed industriale cinese non sono gonfiate come quelle americane e gran parte di quelle europee: tendono anzi al ribasso, a mano a mano che la crisi di assestamento si prolunga.
È dunque Pechino che ora ha in mano la tenuta del sistema finanziario globale: se lascia fallire un operatore finanziario sistemico, come Evergrande, sa di scatenare delle reazioni incontrollabili soprattutto in Occidente, ed in particolare a Wall Street: crollerebbe innanzitutto il valore delle centinaia di imprese cinesi che sono quotate anche negli Usa, e questa caduta si porterebbe appresso il resto del listino.
Sono tanti gli investitori globali, americani in primo luogo, che hanno in portafoglio titoli di emittenti cinesi: hanno un portafoglio a rischio di write-down e sono assai avari di notizie al riguardo, nessuno sa con esattezza su chi e che cosa abbiano puntato.
Questa opacità, questa riservatezza che finora ha protetto affari assai lucrosi in Cina, rischia ora di trasformarsi in un boomerang: se i Fondi di investimento dichiarano le singole esposizioni in Cina devono immediatamente dichiarare le eventuali perdite; ma se non le dichiarano è peggio, perché alimenterebbero i peggiori sospetti, anche se ingiustificati.
Visto che i valori azionari negli Usa ed in Europa sono arrivati molto in alto, il rischio di una forte correzione può venire dalla Cina.
Pechino ha in mano una intera scatola di fiammiferi, e sa di avere il potere di controllare all’interno della Cina gran parte delle conseguenze che sarebbero provocate dalle sue decisioni.
Rischi di spill-over sistemici, mentre Fed e Treasury hanno poche munizioni.
Fonte
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