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22/09/2021

Le diseguaglianze alla base della lunga crisi del debito

Neanche il tempo di tirare un sospiro di sollievo per i venti di “ripresa” che sembrano soffiare, anche se la pandemia è ben lontana dall’esser stata messa sotto controllo, che subito “i mercati” debbono ricominciare a preoccuparsi per l’esplosione di “bolle” speculative.

Neanche il tempo di chiedere – lo fanno gli “austeri” di Bundesbank e altri neoliberisti altrettanto feroci – di “tornare alla normalità”, mettendo fine alle iniezioni di liquidità, gli acquisti di titoli da parte delle banche centrali e i tassi di interesse a zero (o sotto), che ecco sorgere la necessità di non toccare nulla di queste misure “non convenzionali” (definizione di Draghi, oltre 10 anni fa) per non bucare il palloncino delle quotazioni azionarie gonfiate.

Il capitalismo contemporaneo, specie la sua parte finanziaria, non se la passa per nulla bene, pare.

Abbiamo detto delle preoccupazioni e dei rischi derivanti dalla crisi del colosso immobiliare cinese Evergrande. Dopo un crollo e il classico “rimbalzino” delle borse, gli analisti hanno preso ad elaborare gli scenari.

Prevale al momento la tranquillità sospettosa, basata su considerazioni davvero paradossali. In pratica si scommette che il governo o la Banca centrale cinesi interverranno per evitare il collasso del gruppo, atteso alla distribuzione di (appena) 80 milioni di dollari di interessi sui bond emessi, ma con l’incubo di 300 miliardi di debiti.

L’apparente paradosso sta in questo: i mercati ultraliberisti si attendono questo intervento perché la Cina non è un paese liberista, ovvero dove lo Stato ha un ruolo molto attivo nell’economia.

Come scrive su Milano Finanza Angelo De Mattia (ex direttore generale di Banca d’Italia, ex “testa finanziaria” del Pci negli anni ’80, non un osservatore qualsiasi), “Sarebbe strano se un paese non certo liberista qual’è la Cina oggi si manifestasse contro una tale necessità, ferma restando, naturalmente, l’esigenza di far chiarezza fino in fondo sulle cause del dissesto”.

In fondo, viene detto da più parti, nell’Occidente liberista si fece proprio questo, dal 2007 fino al crack di Lehmann Brothers, a fine 2008, contravvenendo alle chiacchiere ideologiche sul “lasciar fare al mercato”.

Anche i dirigenti di quella banca, in effetti, furono molto sorpresi dal fatto che la Federal Reserve avesse fin lì salvato tutti e loro no.

Si chiama “limite”, che può essere grandemente variabile ma non infinito. Un capitalismo finanziario speculativo assistito stabilmente dalle finanze pubbliche non è neanche immaginabile (per un problema brutalmente quantitativo, non certo ideologico o teorico).

E i cinesi, in questi ultimi anni, stanno facendo esattamente sentire ai propri grandi gruppi privati (da Alibaba in giù) il “senso del limite” che spontaneamente sono sempre propensi a superare. Possibile, insomma, che Pechino lasci andare Evergrande al suo destino, “punendone uno per educarne cento” (come è avvenuto con Jack Ma).

Al di là di questo possibile “incidente”, che non avrebbe comunque dimensioni e conseguenze sistemiche paragonabili al crack di Lehmann Brothers, la crisi di Evergrande arriva a fagiolo per togliere le castagne dal fuoco alle banche centrali occidentali, ormai alle prese da mesi con le pressioni per “tornare alla normalità”. Ossia: fine del quantitative easing e tassi di interesse positivi (più di zero, insomma), per mettere la mordacchia a un’inflazione non altissima, ma ormai sensibile in alcuni comparti (materie prime, grano, semiconduttori, ecc).

Il ragionamento è semplice: se “i rischi” tornano a superare la soglia di guardia, meglio mantenere la linea fin qui attuata, che – pur senza risolvere un tubo – ha almeno evitato l’esplosione del sistema.

Contemporaneamente, però, un vecchio leone tra gli analisti – Martin Wolf, editorialista di punta del Financial Times – è andato a spulciare tra i documenti prodotti a Jackson Hole (teatro della riunione annuale tra i presidenti delle principali banche centrali del pianeta) trovando uno studio che individua le cause del lunghissimo periodo (ormai oltre dieci anni!) di tassi di interesse bassissimi o addirittura sottozero.

L’opinione corrente – spacciata per “verità scientifica” dai neoliberisti – segnala che il problema deriverebbe da problemi demografici, ossia dall’eccessivo peso dei boomers. Generazione “maledetta” che ha contestato il sistema con una certa efficacia perché scolarizzata in massa, prodotto movimenti antagonisti e tentativi di rivoluzione, ottenuto diritti sul lavoro, raggiunto la pensione e, non contenta, sarebbe anche “eccessivamente propensa al risparmio”.

Opinione infame che sta dietro le “riforme Fornero” in tutto l’Occidente neoliberista, con conseguente aumento dell’età pensionabile e tutte le altre “riforme” che ci piovono in testa da oltre 30 anni.

Spirito di vendetta a parte, quale sarebbe la causa reale dei tassi zero, dei “rendimenti negativi” del denaro e dello “sciopero degli investimenti”?

“Un documento di Atif Mian, Ludwig Straub e Amir Sufi”, scrive Martin Wolf, arriva alla seguente conclusione: “la principale spiegazione del declino dei tassi di interesse reali è stata l’alta e crescente disuguaglianza”.

Andando a vedere i dati, “Le differenze sono anche enormi: negli Stati Uniti, il primo 10 per cento delle famiglie per reddito ha un tasso di risparmio tra i 10 e i 20 punti percentuali più alto del 90 per cento più basso. Data questa divergenza, lo spostamento della distribuzione del reddito verso l’alto ha inevitabilmente aumentato la propensione complessiva al risparmio.”

Qual è il problema che si crea, se i super-ricchi “trattengono” i loro risparmi invece di spenderli o investirli?

“A livello aggregato, il risparmio deve corrispondere all’investimento. Quindi cosa succede quando i ricchi diventano più ricchi e quindi cercano di risparmiare di più? I tassi di interesse devono scendere.”

È importante seguire il ragionamento di Wolf (e del documento citato):

“Si scopre che l’impatto di questo sugli investimenti delle imprese è piuttosto debole. Infatti, la propensione a investire è stata cronicamente debole, in parte per ragioni demografiche. Quindi le compensazioni sono dovute venire o da persistenti deficit fiscali o da una maggiore spesa del 90 per cento più basso.

Entrambi sono alimentati dal debito, mentre il secondo è anche alimentato dalle bolle dei prezzi degli asset, specialmente nei prezzi delle case. Quando le banche centrali perseguono il tasso naturale verso il basso, guidano entrambi questi processi. Ma, man mano che i rapporti di indebitamento aumentano, i tassi naturali scendono ancora di più, dato che le persone altamente indebitate diventano sempre meno meritevoli di credito.”


L’enorme bolla del credito – sia pubblico chesia privato (molto più alto nei paesi anglosassoni, storicamente) – deriva insomma dalle crescenti disuguaglianze di reddito che si sono imposte a partire dalla Thatcher e da Reagan, dall’inizio degli anni ‘80 in poi. Dall’impianto neoliberista, detto esplicitamente.

Una bolla che ha frenato gli investimenti privati e poi anche quelli pubblici, grazie anche alla “giustificazione teorica” offerta dai monetaristi alla Friedman o von Hayek, secondo cui lo Stato doveva solo stare a guardare e garantire le migliori condizione per l’operare del capitale.

Ossia la politica economica che sta facendo ripartire, con ben poche varianti ma con una durezza maggiore, l’Unione Europea grazie alle 528 condizioni contenute nel PNRR.

Sia chiaro. Tutte queste considerazioni sono ancora interne al funzionamento standard del modo di produzione capitalistico. Ma sono decisive nel dimostrare che questo modo di funzionare è tendenzialmente suicida, anche se – come abbiamo sperimentato – prima di morire fa strage intorno a sé...

Buona lettura.

*****

Le diseguaglianze sono dietro il dilemma delle banche centralità

Martin Wolf – Financial Times

Perché le banche centrali trovano il loro lavoro così difficile da fare? Un’opinione comune è che questo sia dovuto al fatto che sono imbecilli. Le persone che affermano questo insistono che le banche centrali devono mantenere i tassi di interesse in linea con le loro norme storiche. Questo è sbagliato, perché le norme storiche sono irrilevanti. Le domande sono perché e cosa implica questo per le nostre economie.

Un documento di Atif Mian, Ludwig Straub e Amir Sufi alla conferenza monetaria di Jackson Hole del 27 agosto illumina questa questione. Arriva a una conclusione, già suggerita nel loro lavoro precedente: la principale spiegazione del declino dei tassi di interesse reali è stata l’alta e crescente disuguaglianza e non i fattori demografici, come il comportamento di risparmio della generazione “baby-boom” durante la loro vita, come alcuni hanno sostenuto.

L’analisi parte dalle stime del “tasso naturale” reale di interesse, un concetto che risale all’economista svedese Knut Wicksell. Il tasso naturale, spiegava, equilibra la domanda e l’offerta nell’economia, il che si manifesta in prezzi stabili. La moderna dottrina dell’inflation targeting discende da questa idea.

In modo cruciale, tuttavia, le stime di questo tasso per gli Stati Uniti mostrano un calo da circa il 4% quattro decenni fa a circa zero ora. Questo declino è corrisposto in altri paesi ad alto reddito, come ci si aspetterebbe: in un’economia mondiale aperta, i tassi di interesse reali di equilibrio dovrebbero convergere.

Come nota anche il documento, il declino “solleva preoccupazioni sulla stagnazione secolare, minaccia le bolle dei prezzi delle attività e complica la politica monetaria”. Infatti, è una grande parte della ragione per cui le banche centrali hanno dovuto fare enormi acquisti di asset in situazioni di crisi, come ora.

Il loro punto principale è che i tassi di risparmio variano molto di più in base al reddito all’interno delle coorti di età che non tra le coorti di età. Le differenze sono anche enormi: negli Stati Uniti, il primo 10 per cento delle famiglie per reddito ha un tasso di risparmio tra i 10 e i 20 punti percentuali più alto del 90 per cento più basso. Data questa divergenza, lo spostamento della distribuzione del reddito verso l’alto ha inevitabilmente aumentato la propensione complessiva al risparmio.

Come spiegazione dell’aumento della propensione al risparmio e del calo del tasso d’interesse reale, lo spostamento della generazione del baby-boom nella mezza età non funziona, perché l’aumento del risparmio è stato continuo, mentre l’impatto dello spostamento demografico sul comportamento di risparmio non lo è stato.

A livello aggregato, il risparmio deve corrispondere all’investimento. Quindi cosa succede quando i ricchi diventano più ricchi e quindi cercano di risparmiare di più? I tassi di interesse devono scendere.

Si scopre che l’impatto di questo sugli investimenti delle imprese è piuttosto debole. Infatti, la propensione a investire è stata cronicamente debole, in parte per ragioni demografiche. Quindi le compensazioni sono dovute venire o da persistenti deficit fiscali o da una maggiore spesa del 90 per cento più basso. Entrambi sono alimentati dal debito, mentre il secondo è anche alimentato dalle bolle dei prezzi degli asset, specialmente nei prezzi delle case. Quando le banche centrali perseguono il tasso naturale verso il basso, guidano entrambi questi processi. Ma, man mano che i rapporti di indebitamento aumentano, i tassi naturali scendono ancora di più, dato che le persone altamente indebitate diventano sempre meno meritevoli di credito.

Un’obiezione a questo argomento è che riguarda solo un paese, per quanto importante. Ma la tendenza verso una maggiore disuguaglianza di reddito è condivisa da quasi tutte le grandi economie, compresa in particolare la Cina.

In effetti, l’eccesso di risparmio del resto del mondo si è manifestato anche nei persistenti deficit delle partite correnti degli Stati Uniti. La necessità di compensare questi ultimi ha reso il compito della Federal Reserve ancora più difficile.

La crisi finanziaria del 2007-12 dovrebbe essere vista come un risultato di questi processi, risolti all’epoca salvando il sistema finanziario, inasprendo la regolamentazione e raddoppiando i tassi bassi lungo la curva dei rendimenti. La crisi di Covid è stata un fulmine a ciel sereno, ma la risposta è stata più o meno la stessa, ma su una scala ancora più grande.

Questa volta, inoltre, gli enormi aumenti delle riserve delle banche centrali hanno effettivamente aumentato gli aggregati monetari più ampi. Non è una grande sorpresa, quindi, che la combinazione di interruzioni dal lato dell’offerta con la forte domanda di oggi stia generando un’inflazione “a sorpresa”.

Quindi come potrebbe evolvere la storia? Non c’è una ragione valida per aspettarsi che la disuguaglianza di reddito, il motore fondamentale dell’eccesso di risparmio di oggi, si inverta, anche se potrebbe stabilizzarsi.

C’è un’ottima ragione per un enorme boom degli investimenti, in particolare la transizione climatica. Ma questo non avverrà senza una politica coerente, determinata, intelligente e consapevole a livello globale, cosa che non possiamo aspettarci, anche se possiamo sperare.

Quindi, nel medio e lungo termine, è probabile che la stagnazione secolare ritorni, a meno che la disuguaglianza di reddito non diminuisca.

Il breve termine è più difficile da leggere, ma se va male, è inquietante, forse anche per il medio termine. Nel suo discorso a Jackson Hole, Jay Powell, presidente della Federal Reserve, ha insistito che tutto è sotto controllo. Ma avrebbe detto questo. L’impennata dell’inflazione ha infatti sorpreso quasi tutti.

La preoccupazione deve essere che gli shock dei prezzi persistano e poi si impanino nelle aspettative, che saranno poi invertite solo da un periodo di tassi a breve termine significativamente più alti.

Questo causerebbe una stagflazione, che creerebbe dilemmi dolorosi per le banche centrali e sicuramente causerebbe problemi devastanti per i debitori più deboli, in particolare, ma non esclusivamente, le economie emergenti fortemente indebitate.

Le politiche eccezionali del 2020 non possono più essere giustificate. Dati i tassi d’interesse a breve termine super-bassi di oggi e le politiche fiscali di sostegno, è difficile vedere perché gli acquisti di asset di grandi dimensioni dovrebbero continuare.

Oggi abbiamo denaro più che sufficiente e i rendimenti delle obbligazioni dovrebbero salire un po’. Quando i fatti cambiano, le banche centrali dovrebbero cambiare idea. Quel momento è ora.

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