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25/09/2021

Kreator - 2001 - Violent Revolution

Come descritto da Roberto nel suo pezzo su Darkness and Hope, molti gruppi affermati, se non addirittura storici, a inizio Duemila si ritrovarono ad accantonare ogni accenno di creatività per poter restituire l’immagine più fedele a quella a cui il pubblico s’era affezionato. Fu una truffa, non la scatola di un videoregistratore con dentro dei mattoni forati ma comunque una truffa.

Nel 2001 il thrash metal era una risorsa pressoché esaurita e credevo che non ne avrei più rivisto. O almeno, non così spesso. E invece il processo che aveva portato i Testament sino a The Gathering stava già rompendo gli argini: il thrash metal fu di fatto soppiantato da un suo succedaneo, o surrogato, e, dato che ne sentivamo tanto la mancanza, accettammo di buon grado che ciò accadesse. Non fu dissimile da quando, in una scuola a prevalenza maschile, ti arrendi all’evidenza che l’unica camionista coi baffi non sia poi così male: fuor di metafora, ci convincemmo che quegli album, così distanti nell’attitudine, nella forma e nei suoni dal thrash metal amato e conosciuto, erano comunque dei begli album. Ma non c’entravano quasi niente con quel che ormai debolmente desideravamo.

Violent Revolution fu come se i dischi immediatamente precedenti dei Kreator si mascherassero da album thrash metal, e questo a Mille Petrozza riuscì benissimo. Perso qualche anno a fare il gerarca nazista che gioca a tirare gli schiaffoni sulle mele col guanto in pelle ad arrendevoli gothic lolitas d’ogni sorta, Petrozza riabbracciò il suo vecchio pubblico e immediatamente si tradì nel presentarci il nuovo chitarrista sostituto di Tommy Vetterli.

Ora, Dio Cristo, sostituire Tommy Vetterli non è come sostituire le pasticche ai freni, che lasci l’auto in carrozzeria e t’allontani senza voltarti indietro cinquecento volte come quando temi che qualunque bicicletta di passaggio possa investire l’innamorata di turno. Te ne vai e basta, se è per i freni. La sostituzione di Tommy Vetterli, per quanto farlo in un gruppo come i Kreator potesse comportare danni tendenti allo zero, mi diede tuttavia dei pensieri. E infatti Mille Petrozza si presentò con un tale privo del benché minimo physique du role, un biondo di nome Sami (l’unico Sami che ho conosciuto in vita mia era un sardo che tifava Fiorentina e che vomitò mentre io e un amico sventravamo un cinghiale, proprio davanti ai suoi occhi, poco sopra Scandicci). Sami Yli-Sirnio, tuttora nei Kreator, musicalmente non aveva chissà quali connotati tali da giustificarne la scelta: era il classico chitarrista a cui impartisci un ordine e porterà a termine il compito. Prima che nei Kreator, Sami Yli-Sirnio militava nei Waltari di cui vi suggerisco di recuperare al più presto le foto promozionali invece degli album.

Violent Revolution mi diede una botta d’adrenalina assurda. Mi parve d’essere al cospetto di un ulteriore ammodernamento del già moderno e melodico Coma of Souls, ma sbagliavo. Il piglio era solo sottilmente quello dei Kreator seduti su divanetti di pelle, che scrutano calze a rete, latex e capelli corvini decidendo su quale pelle candida avrebbero schioccato il guanto e quale altra natica avrebbero risparmiato, ma era mutato in una percentuale ben minore di quanto potessimo pensare. C’era la Svezia dentro, nelle melodie, nei riff, nei modi di fare. Lì risiedeva la ragione della scelta di Sami in luogo d’un volto rivolto al decennio precedente. Titoli e testi erano nuovamente un assalto all’arma bianca, niente più tetro pessimismo alla Leave This World Behind, piuttosto, la classica attitudine alla Enrico Montesano che sbrocca e forma una band per protestare sui social contro il Green Pass o contro qualunque altra cosa gli sia capitata a tiro. Mille Petrozza voleva convincerci, con presupposti del genere, che i Kreator fossero tornati al thrash. Noi, del tutto narcotizzati, abboccammo alla golosa esca.

Violent Revolution è tuttavia il miglior album della band oltre l’anno Duemila. Supera di gran lunga Enemy of God, di cui salvo l’ottima opener e title track, e supera di gran lunga il violento ma prevedibile Hordes of Chaos. Supera per forza di cose gli ultimi e indicibili due album della band tedesca, i quali hanno generato in me un odio verso i Kreator che mai, neanche all’epoca del buon Endorama, arrivai a provare in preda all’astio o alla furia di giudicare. Violent Revolution ha le sue sane sparate, su tutte Reconquering the Throne e il mio assoluto e insano pallino, Bitter Sweet Revenge, la mia prediletta a fianco di All of the Same Blood; ha le mid-tempo di roccia, come la title-track; ha una parte centrale leggermente in calo ma poi se la cava ugualmente sia con Second Awakening, sia con quella Replicas of Life che parte come un brano dedicato alla morte del canarino Gloucester, per poi ingranare la marcia e partire.

I Kreator, che ancora non si erano scrollati di dosso le sperimentazioni degli anni Novanta, e che, anzi, le tenevano ben impresse nel proprio DNA, confezionarono così il loro ultimo album sentito e importante: facendolo da cima a fondo completamente a tavolino, per i fan, per i dati di vendita, per rinnovare la scaletta dei concerti con qualcosa che si potesse abbinare a Flag of Hate senza scontentare più di metà dei presenti. Ma nemmeno a freddo riesco a pensare che questa cosa fosse il thrash metal, o un suo diretto aggiornamento. Amo troppo il thrash metal per ridurmi a ciò. (Marco Belardi)


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