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31/10/2020

A Star Wars Story (2018) di Ron Howard - Minirece


 

Il frutto marcio del Recovery Fund

La situazione dei contagi in Italia e in Europa peggiora di giorno in giorno. Il sistema sanitario, sfiancato da anni di austerità, mostra, oggi come durante la scorsa primavera, tutte le sue difficoltà nel gestire la nuova fase dell’emergenza. Nuove chiusure hanno riguardato alcune attività commerciali e alcuni sciacalli continuano opportunisticamente a tirare in ballo il MES, affermando con franchezza che sarebbe la via per legare le mani alla politica economica. La cronaca politica, tuttavia, con un afflato messianico, è da mesi impegnata a cantare le magnifiche sorti e progressive del Recovery Fund. Di questo strumento ci siamo già occupati, mostrandone tutte le criticità. Ora, tuttavia, sembra che sia la sua stessa impalcatura a scricchiolare. È infatti arrivata dalla Spagna, seguita a ruota dal Portogallo e forse dalla Francia, la notizia che il governo di Pedro Sanchez vuole rinunciare ai circa 70 miliardi di prestiti che le spetterebbero dal Recovery Fund pur rimanendo interessato ad ottenere i circa 72 miliardi di contributi a fondo perduto. Anche alla luce di ciò, riteniamo opportuno ripassare quale sia la struttura di questo programma, quali le insidie e a quale punto sia la sua implementazione.

Come abbiamo già avuto modo di raccontarvi, il Recovery Fund è un programma di finanziamento di 750 miliardi di cui 360 miliardi di prestiti e 390 di contributi a fondo perduto, da spalmare nel triennio 2021-2023. Tuttavia, come sappiamo, il diavolo si annida nei dettagli. Nonostante le cifre roboanti, il Recovery Fund, da un lato, rappresenta un programma di rilancio economico del tutto inadeguato rispetto alla gravissima crisi e dall’altro, invece, si qualifica come un efficace lubrificante dei meccanismi di controllo europeo sulle politiche nazionali portando con sé un pesante e certo carico di austerità e riforme. Come se ciò non bastasse, e in barba all’impietoso incalzare della crisi economica e sociale, la sua attivazione sta diventando sempre meno certa, essendo stata progressivamente rimandata e, probabilmente, destinata a slittare all’estate 2021.

È in questo quadro, dunque, che vanno inserite e valutate sia le posizioni di Spagna e Portogallo, anche alla luce dell’interpretazione che ne viene data da media e commentatori, sia cosa questo programma significherebbe per l’Italia e la sua politica economica.

Come detto, i prestiti del Recovery Fund ammontano a 360 miliardi, di cui più di un terzo destinati all’Italia (127 miliardi). Come la posizione di Spagna e Portogallo dimostra, essi sono considerati la parte meno interessante del programma poiché, al pari di una qualsiasi nuova emissione di titoli di Stato, concorrono ad aumentare il debito pubblico. Date le regole europee sull’equilibrio dei conti pubblici, ciò erode i già risicati spazi per le politiche economiche espansive e quindi non è particolarmente attraente per gli Stati, soprattutto fino a che la BCE dovesse continuare ad attuare una politica monetaria accomodante e favorire un basso livello dei tassi di interesse sul nuovo debito pubblico, anche per i paesi periferici. È comprensibile, in questo senso, la posizione dei paesi iberici.

Più scivolosa e meno evidente, e per questo merita un approfondimento, è la questione dell’altro pilastro del programma: i famigerati contributi a fondo perduto. Si tratta di 390 miliardi, di cui circa 80 spetterebbero all’Italia. Tuttavia, la loro erogazione non è così scontata e, anche nel migliore dei casi, come chiaramente sottolineato dalla presidente della commissione Europea, avverrebbe passo dopo passo. L’iter infatti è particolarmente complesso e seguirebbe le articolate e frammentate regole dell’Unione che caratterizzano i processi di spesa. Tant’è che, come affermato dal ministro agli affari europei Vincenzo Amendola, dalla presentazione formale del piano «potrebbero passare mesi per l’approvazione che poi darà la possibilità di accedere subito (solo) al 10% del finanziamento globale». Nulla che abbia a che vedere con l’urgenza e la mole di risorse che servirebbero agli Stati per arginare la situazione drammatica che milioni di lavoratori e famiglie stanno vivendo.

Il quadro, insomma, è ben più fosco di quello che sembra ed è per questo che ci pare doveroso ridimensionare i facili entusiasmi. Se è vero che i contributi cui l’Italia ha diritto dovranno essere restituiti solo in parte (nell’ordine di 50 miliardi su un totale di 80) e, in maniera diluita, a partire dal 2028 fino al 2058, anche se considerassimo i contributi lordi – ossia senza considerare la restituzione – stiamo parlando di una cifra corrispondente a circa il 4,5% del Pil nazionale spalmata in tre anni, che si riduce dunque a uno stimolo addizionale corrispondente all’1,5% del Pil su base annua, ipotizzando di distribuire la spesa in modo omogeneo. Per darvi un’idea delle proporzioni in campo, per contenere gli effetti della pandemia il Governo ha stanziato 100 miliardi di euro di deficit aggiuntivo (5,5% del Pil) solo per il 2020 e gli effetti sono stati comunque modesti, a fronte di una crisi senza precedenti.

Prendendo invece in considerazione i contributi netti, che rappresentano una misura più adeguata dello stimolo messo in campo, stiamo parlando di misure corrispondenti a meno del 2% del Pil, secondo i calcoli della stessa BCE: pochissima roba. Non a caso anche il governo italiano ha certificato lo scarso impatto che possiamo attenderci dall’utilizzo di tali fondi nel triennio 2021-2023: secondo la NADEF i fondi europei del Recovery Fund avranno un impatto sul Pil dello 0,3% nel 2021, dello 0,4% e dello 0,8% negli anni successivi. Briciole.

Con le terapie intensive che si riempiono e le attività economiche che rischiano di chiudere i battenti definitivamente, in particolare se dovesse presentarsi l’esigenza sanitaria di un nuovo lockdown, le lungaggini dei negoziati tra il Parlamento europeo e il Consiglio UE e i meccanismi di controllo dei piani di investimento nazionali assumono caratteristiche grottesche. Altro che rinascita europea.

Inoltre, l’entità delle risorse e le diatribe burocratiche rappresentano soltanto una parte degli aspetti più tetri del programma. Per quanto ci si affanni a parlare di contributi a fondo perduto, infatti, essi non sono affatto privi di condizionalità. Tanti in questi giorni hanno ipotizzato che una delle ragioni per cui i governi nazionali guardano con maggiore interesse ai contributi sia una minore condizionalità rispetto ai prestiti. In realtà, questa interpretazione ci pare priva di fondamento. Come abbiamo già evidenziato, il Recovery Fund rappresenta la sistematizzazione definitiva della condizionalità su base europea. A dimostrarlo sono le parole della Presidentessa della Commissione Europea che ha apertamente ammesso che, con il Recovery Fund, le raccomandazioni della Commissione contenute nel cosiddetto Semestre Europeo diventano cogenti. La sua dichiarazione, in questo senso, è illuminante: “Il Recovery and Resilience Facility è stabilito in una maniera molto chiara: è volontario, ma chi vi accede deve allinearsi con il Semestre europeo e le raccomandazioni ai Paesi... finora dipendeva solo dai Paesi rispettarle o meno ma ora le raccomandazioni sono legate a sussidi e potenziali prestiti”.

Ricorrendo al Recovery Fund, dunque, l’esborso dei fondi sarà vincolato alla fedele applicazione di tali raccomandazioni, oltre al raggiungimento di obiettivi intermedi in relazione all’implementazione dei singoli progetti presentati. In questo senso, ci vengono in aiuto le dichiarazioni di influenti economisti liberisti che, a differenza di diverse anime belle apparentemente progressiste, hanno ben chiaro il ruolo degli aiuti che arriverebbero dall’UE. Lucrezia Reichlin, ad esempio, con apprezzabile candore sottolinea dalle pagine del Corriere, non solo che il rubinetto della BCE non è incondizionato, che gli interventi della BCE non sono gratis e che anche i sussidi non sono gratis e andranno finanziati con tasse europee, ma soprattutto che la condizione per accedere a queste misure è la pedissequa e cieca condivisione del progetto politico europeo. Senza ciò, a venire meno sarebbe lo stesso sostegno della BCE che in questi mesi sta favorendo il contenimento dei tassi di interesse sui titoli pubblici.

A ben vedere, dunque, il governo italiano ha colto il punto e ci si è impegnato con solerzia. Esso, infatti, sembra avvantaggiarsi ancor prima del tempo, iniziando a discutere di una stretta del sistema pensionistico in parallelo alla scadenza di Quota 100 e di una possibile revisione del Reddito di Cittadinanza. Come abbiamo più volte evidenziato, la revisione della spesa pubblica e la riforma della tassazione, così come la riduzione della  spesa pensionistica, sono in cima alle raccomandazioni della Commissione all’Italia, come riconosciuto nel Piano Nazionale di Riforma 2020. In altre parole, il Recovery Fund configura un vero e proprio meccanismo disciplinante ancor prima di esistere in forma compiuta, avendo già iniziato a impartire austerità in tutti quei paesi che contano di farvi ricorso: un vero disastro per tutti coloro che sono schiacciati tra disoccupazione e precarietà.

In questa drammatica fase dunque, gli effetti di decenni di integrazione europea e le lame spuntate della politica economica nazionale che ne conseguono, con gli Stati privi di una banca centrale politicamente orientabile e limitati nell’azione dai reazionari vincoli di spesa europei, si fanno sentire con tutta la loro gravità, anche quando celata dietro proclami o azioni benefiche straordinarie. Il cappio, tuttavia, è pronto a stringersi e le condizioni per l’asfissia sono scritte nere su bianco. Per questo è importante essere preparati sull’oggi: per essere pronti a reagire domani.

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Come l’Ucraina vuole influenzare il processo a Vitaly Markiv

I primi di novembre si concluderà il processo di secondo grado sull’assassinio del fotoreporter Andrea Rocchelli, ucciso nel 2014 insieme a Andrei Mironov, un altro giornalista russo, durante la guerra del Donbass nell’Ucraina orientale.

Il condannato a 24 anni di carcere in primo grado è un nazionalista e sergente ucraino Vitaly Markiv, accusato di aver concorso nell’omicidio del fotoreporter, il quale sarebbe stato bombardato con l’artiglieria da una base posta sopra una collina presidiata dalle truppe filo-governative.

Dall’assassinio, avvenuto il 24 maggio 2014, fino all’arresto dell’ucraino nel luglio 2017, per tre anni, il caso è rimasto lontano dai riflettori della stampa. Pochi, oltre la famiglia del fotoreporter, sembravano occuparsi della vicenda.

Solo quando i carabinieri hanno arrestato Markiv mentre rientrava in Italia per le vacanze, tutta una serie di personaggi e organizzazioni filo-ucraine in Italia e nella stessa Ucraina hanno cominciato ad attivarsi per raccontare la propria verità sul caso.

Procediamo con ordine, partendo dall’imputato. Vitaly Markiv, cittadino italiano (oltre che ucraino) che viveva a Tolentino con la famiglia. Ha deciso di arruolarsi volontariamente nella Guardia nazionale dell’Ucraina nel momento stesso in cui il governo di Kiev ha dato il via alle azioni repressive nel Donbass, contro la rivolta indipendentiste della popolazione locale, russofona.

Markiv è un frequentatore del Porter Pub di Kiev, un locale neonazista dove vengono esposte croci celtiche e simboli nazisti delle formazioni militari ucraine di estrema destra.

Sui dispositivi che aveva addosso al momento dell’arresto gli sono state ritrovate alcune fotografie che testimoniano crimini di guerra delle truppe filo-governative, come il maltrattamento e l’uccisione di prigionieri, e figurano anche i suoi commilitoni mentre fanno saluti romani sventolando una bandiera nazista.

Fra i primi a muoversi in Ucraina per chiedere la scarcerazione del soldato Markiv ci sono alcune organizzazioni neonaziste, come il gruppo S14, e il “Corpo Nazionale”, ovvero il progetto politico del Battaglione Azov, che organizzano delle proteste di fronte all’ambasciata d’Italia a Kiev.

Oltre a loro c’è tutto lo Stato ucraino, con il ministro degli interni Arsen Avakov in prima linea, personaggio noto per aver messo in mano ai neonazisti la gestione di alcuni dipartimenti di polizia, impegnato con una grande campagna nazionale e internazionale per salvare il soldato Markiv dalle grinfie della giustizia italiana.

Le acque in Italia hanno cominciato a smuoversi intorno al 2019, quando – dopo la sentenza di condanna emessa dalla corte di Assise di Pavia nei confronti di Markiv – un gruppo di giornalisti tra cui Cristiano Tinazzi, non accettando il verdetto, decide di produrre un documentario chiamato The Wrong Place.

Dichiarandosi “assolutamente super partes”, il gruppo si prefigge – sulla carta – l’obiettivo di ricostruire l’assassinio di Andrea Rocchelli e Andrey Mironov da un punto di vista indipendente.

Il titolo non avrà molto successo, l’allusione palese al fatto che quei giornalisti si trovassero nel “posto sbagliato”, ovvero a documentare una guerra, si è rivoltata subito contro la stessa produzione, scatenando le ire sia della famiglia Rocchelli, sia della nipote del giornalista russo ucciso.

Il titolo è stato cambiato da qualche giorno in “Crossfire”, fuoco incrociato.

Passiamo al regista: Tinazzi nel 1999 è stato candidato nelle liste del Fronte Nazionale, partito neofascista di Adriano Tilgher (ex di Avanguardia Nazionale, con Stefano Delle Chiaie e altri fascisti più volte inquisiti negli anni ’70).

Negli anni successivi le frequentazioni neofasciste o ambigue sembrano essere andate avanti, come testimoniano le interviste fatte alla band ZetaZeroAlfa (del giro CasaPound) o la collaborazione col giornale Rinascita.

20 anni fa frequentava ambienti di estrema destra, ora nel suo documentario lo ritroviamo in un poligono di tiro della Guardia nazionale Ucraina, una formazione militare nella quale sono integrate persino formazioni neonaziste come il Battaglione Azov.

Che ci fa Tinazzi in un poligono di tiro insieme al corpo militare accusato di aver assassinato Rocchelli?

Da quello che si nota dal trailer del documentario, starebbe producendo le “prove” utili a dimostrare che dalla collina dove erano asserragliate le truppe filo-governative non era possibile vedere né colpire con armi da fuoco il gruppo di giornalisti.

Non mi soffermerò molto sulle obiezioni dal punto di vista tecnico, anche perché ne sono già state sollevate abbastanza sui test compiuti nel documentario. A ogni modo, secondo le ricostruzioni della sentenza di primo grado, confermate dal procuratore generale in Corte d’assise d’appello, l’assassinio sarebbe avvenuto per mezzo di mortai e non si capisce quindi per quale ragione si facciano test balistici con armi da fuoco.

Inoltre è lo stesso ministro degli esteri Avakov a dichiarare che, dalla collina dove erano posizionate le truppe filo-governative, i loro cecchini avevano “ripulito” la zona intorno alle carrozze del treno, luogo dove è avvenuto l’omicidio di Rocchelli, ed è perciò certificato che dalla collina era possibile colpire a quella distanza persino con armi da fuoco, oltre che con i mortai.

Sarà sempre Avakov a dichiarare che un gruppo di giornalisti si è rivolto a lui per occuparsi del caso Rocchelli, e che gli fornirà tutta l’assistenza necessaria.

Nel documentario, gli autori non hanno mancato di ringraziare la Guardia nazionale Ucraina per la collaborazione. Però solo nella versione ucraina, nella versione italiana il ringraziamento è stato curiosamente rimosso. Un documentario, come dire, veramente “indipendente” e che non ha nulla da nascondere.

Tra gli altri collaboratori del progetto c’è Olga Tokariuk, una giornalista ucraina che gira molto per l’Italia, che ha lavorato anche per Hromadske Tv, anch’esso inserito fra i ringraziamenti del documentario, un giornale online ucraino schierato sulla linea filo-governativa che vanta anche qualche piccolo scandalo, come l’aver tagliato l’intervista in diretta a Tanya Lokshina, membro di Human Rights Watch, perché si rifiutava di accusare la Russia per i morti civili nel conflitto del Donbass.

La Tokariuk, durante una presentazione del documentario afferma: “Nel nostro team italo-ucraino non abbiamo divergenze ideologiche […] Tinazzi sa molto bene che i separatisti sono criminali, che commettevano crimini nel Donbass […] lui sa bene chi è l’aggressore in Ucraina e chi è la vittima”.

Quindi pare di trovarsi di fronte, più che a un gruppo di giornalisti a caccia della verità, a una task-force coesa dal punto di vista ideologico che cerca di avvalorare la tesi secondo cui i separatisti sono criminali e sui quali bisogna far ricadere la colpa dell’assassinio per scagionare il nazionalista ucraino.

“Markiv è un esempio di dignità per me”, dice la Tokariuk durante le fasi del processo nel 2018, “tiene la testa alta nonostante le assurde accuse”. Il documentario non era ancora stato girato e già aveva preso una posizione netta, curioso modo di approcciare la vicenda da un punto di vista “indipendente”.

Un altro collaboratore del documentario è il giornalista Danilo Elia, che si è occupato delle vicende ucraine sin da Euromaidan da una posizione certo non antipatizzante. Risulta chiaro negli articoli dove, in una certa maniera, cerca di “umanizzare” le formazioni estremiste ucraine, come in occasione di una birra con i neonazisti di Pravy Sektor. Mentre non esita a descrivere i ribelli come “uomini armati che scorrazzano per le strade […] Rubano, bevono, sparano. Terrorizzano la popolazione”. La Tokariuk lo ha detto, nessuna divergenza ideologica nel team.

A livello internazionale arriva supporto e riconoscimento al progetto da diversi singoli e organizzazioni.

Leggendo la lista dei patrocinanti si nota la Open Dialogue Foundation, una ONG che ha base in Polonia e che opera anche in Ucraina. Nel 2013 appoggiò Euromaidan e tutt’ora supporta apertamente l’esercito ucraino.

Abbiamo poi la fondazione Justice for Journalists, che ha assegnato 40.000 euro per la produzione del documentario, una ONG fondata dell’ex oligarca russo Mikhail Khodorkovsky, ora milionario, che vive a Londra. Proprio quel milionario che durante Euromaidan incitava la folla per un’Ucraina democratica, la stessa Ucraina che qualche mese dopo avvierà una guerra civile in Europa, bombardando la propria popolazione con l’aviazione.

In Italia, tra i sostenitori del progetto ci sono soprattutto i Radicali Italiani di Emma Bonino, che dietro la condanna di Vitaly Markiv vedono il “condizionamento del regime russo sulla politica e sulla società italiana”. Lo scorso anno un gruppo di nazionalisti ucraini si è iscritto al partito grazie a questa convergenza di vedute.

Tra questi c’è Oles Horodetskyy, la stessa persona che venne espulsa dall’aula durante il processo perché da dietro l’avvocato ucraino, per tre volte, suggeriva le risposte ai commilitoni di Markiv chiamati a testimoniare. Tra parentesi, si sono contraddetti molteplici volte.

Si uniscono all’operazione “salvate il soldato Markiv”, promuovendo sui social il documentario, anche altre organizzazioni, non strettamente collegate con la produzione. Per esempio c’è Fabio Prevedello, presidente dell’Associazione Europea Italia-Ucraina Maidan, che definisceamico” Cristiano Tinazzi e “amica” Olga Tokariuk.

Questa associazione nel 2019 è finita in uno scandalo nella provincia di Reggio Emilia, che gli è valso l’allontanamento dai progetti culturali dell’Istituto antifascista Alcide Cervi.

Cosa avevano fatto? L’organizzazione di Prevedello, oltre a raccogliere fondi e comprare equipaggiamento da inviare ai battaglioni filo-governativi, era stata scoperta a vendere nei propri banchetti, qui in Italia, libri e gadget riconducibili ai neonazisti di Pravy Sektor.

E ancora, a fare da supporto mediatico per il documentario, arriva anche l’organizzazione ucraina StopFake.org, che lavora a stretto giro con Facebook ed esegue il fact-checking per gli articoli caricati dagli utenti sul social network.

Questa organizzazione è finita in uno scandalo internazionale nel momento in cui una giornalista, Katerina Sergatskova, tutt’altro che orientata verso il mondo russo, ha deciso di compiere un’indagine sui vertici dell’organizzazione, rivelando un torbido intreccio di conoscenze tra StopFake e l’area neonazista ucraina.

Una volta pubblica la sua inchiesta, la giornalista è stata minacciata di morte da una folla di utenti di estrema destra che l’accusavano di essere un agente del Cremlino e che hanno poi diffuso online l’indirizzo, foto di casa, e persino la foto del figlio 5 anni. Katerina a quel punto è stata così costretta a fuggire dal Paese.

La filiale italiana di StopFake è gestita da Mauro Voerzio, un reporter di guerra che viene ospitato volentieri dai Radicali Italiani. Come si può osservare dal materiale da lui rilasciato, ha dato copertura mediatica alle operazioni del gruppo neonazista S14, e ricondivide la candidatura degli esponenti politici del Battaglione Azov.

Senza sorprese, ovviamente sul caso Markiv è perfettamente allineato con le argomentazioni del team “privo di divergenze ideologiche”.

Oles Horodetskyy, il suggeritore espulso dall’aula di cui parlavamo prima, è il presidente dell’Associazione cristiana degli ucraini in Italia e membro del comitato nazionale dei Radicali Italiani. Sempre presente dentro e fuori le aule del tribunale, ha organizzato presidi insieme a gruppi della comunità ucraina per manifestare il loro dissenso per l’arresto di Markiv.

Oles è fra quelli che più si sta spendendo per promuovere questo documentario, ed è la persona che sembra avere contatti con Anton Gerashchenko, il consigliere del ministro Avakov, che partecipa anche alle presentazioni del documentario sia in Italia, con i Radicali Italiani, sia in Ucraina. Quindi, una delle parti in causa sponsorizza il “documentario indipendente”, ennesimo aspetto curioso di questa vicenda.

Oles Horodetskyy, Mauro Voerzio e Fabio Prevedello, che si conoscevano da Euromaidan quando organizzavano o partecipavano ai presidi di supporto dall’Italia, continueranno a incontrarsi agli eventi dei Radicali Italiani o durante il processo a Vitaly Markiv.

Stando a quanto scritto e riportato, credo si possa con molta difficoltà parlare di questo documentario come un progetto indipendente e super partes. Diversi autori, le organizzazioni che gravitano loro intorno e quelle che gli danno supporto mediatico, sembrerebbero essere già schierati dalla parte dell’imputato e della Guardia nazionale Ucraina, per non parlare dei contatti che alcuni di questi hanno con lo Stato ucraino.

Non ci sono i requisiti minimi per poter condurre una ricerca della verità, ammesso che ve ne sia un’altra rispetto a quella emersa dalla precisa ricostruzione esposta nella sentenza di primo grado e ribadita dalla procura generale e dalle parti civili in corte di assise di Appello.

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Gli “spezzabraccia” di Genova 2001 promossi da Lamorgese

Questori “spezzabraccia”, condannati per il G8: Polizia, le vergognose nomine di Lamorgese e Gabrielli

Tra i dirigenti della Polizia di Stato promossi ieri dal Ministro dell’interno Luciana Lamorgese e dal Capo della Polizia Franco Gabrielli, ci sono anche due condannati in via definitiva per i falsi e gli abusi del G8 di Genova del 2001, nonché il responsabile di una serie di cruenti episodi di ordine pubblico, assurti alla ribalta della cronaca tra il 2012 e il 2017 per le loro nefaste conseguenze su credibilità e affidabilità di chi dirige le Forze dell’ordine nella gestione delle piazze.

Ma queste sono solo le ultime di una serie di promozioni che appaiono ‘devianti’ rispetto ai canoni di integrità, capacità e sangue freddo che dovrebbero caratterizzare questori e vice questori, da cui spesso dipendono i diritti fondamentali e l’incolumità di tutti.

Sembra come se, in vista delle crescenti tensioni socio-economiche, si volesse infiltrare la pubblica sicurezza con una radice a carattere reazionario-repressivo, “vulnus” rintracciabile “in nuce” dal mancato “spoil system” causato dalla cosiddetta amnistia Togliatti, che ha consentito a chi era stato iscritto al partito fascista di permanere negli incarichi dirigenziali al ministero dell’Interno.

Così condizionando “ab initio” la selezione di una classe dirigente protagonista in tempi più vicini di una stagione intorbidita da vicende che hanno lasciato il segno nel DNA della Polizia di Stato: la morte dell’anarchico Pinelli a Milano (1969); i depistaggi nelle indagini per il rapimento di Aldo Moro a Roma (1978); il blitz dei NOCS a Padova per la liberazione del generale USA Dozier e relative torture (1982); la Uno bianca di Bologna (1987-1994); l’archivio segreto dell’Ufficio affari riservati del Viminale (1996); la morte per fuoco amico dell’Isp. Donatoni dei NOCS durante il sequestro Soffiantini e relativo depistaggio (1997).

Negli ultimi anni, in continuità con tale logica, sono stati posti ai vertici di questure e uffici cruciali del Dipartimento della pubblica sicurezza, dirigenti condannati o sotto processo per gravi reati e/o protagonisti di episodi censurabili, che hanno destato indignazione se non anche ribellismo nell’opinione pubblica.

Ciò che non pare certo di buon auspicio alla luce delle attuali tensioni socio-economiche, destinate ad amplificarsi in tutto il Paese, se non saranno gestite nell’adempimento dei doveri inderogabili, soprattutto da parte di chi rappresenta un’Autorità di pubblica sicurezza “super partes”.

Ieri sono stati promossi Pietro Troiani e Salvatore Gava, protagonisti dei fatti del G8 di Genova e condannati in via definitiva a 3 anni e 8 mesi, più 5 anni di interdizione dai pubblici uffici, il primo per aver portato materialmente le due bombe molotov nella scuola Diaz e il secondo per averne falsamente attestato il rinvenimento all’interno; ciò che giustificò abusivamente le perquisizioni e gli arresti in massa dei manifestanti, in gran parte picchiati e torturati tanto da spingere la Corte dei Conti a definire “quella notte sonno della ragione”, nella quale per la Corte di Cassazione “le forze dell’ordine hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero”.

Nonostante Gabrielli avesse fatto ammenda sui fatti del G8, dichiarando pubblicamente che a Genova nel 2001 “ci fu tortura” e che nei panni dell’allora Capo della Polizia Gianni De Gennaro “mi sarei dimesso”, in realtà già nel 2017 fu proprio lui che, anziché magari adeguatamente sanzionarli come previsto dall’ordinamento, ha reintegrato i dirigenti condannati in via definitiva – ieri pure promossi – attribuendogli per di più posti di responsabilità apicale e/o ben remunerati incarichi all’estero.

Troiani divenne il Dirigente del Centro operativo autostrade di Roma e Lazio (il più grande d’Italia) e Gava il Responsabile dell’Ufficio di Collegamento Interforze del Servizio per la Cooperazione Internazionale di Polizia (SCIP) in Albania.

All’epoca anche Gilberto Caldarozzi e Fabio Ciccimarra, pure loro condannati a 3 anni e 8 mesi più 5 anni di interdizione per i falsi del G8 furono reintegrati “tout court”, il primo con il prestigioso e strategico incarico di Vice direttore operativo della DIA (Direzione investigativa antimafia) e il secondo – condannato anche a 2 anni e 8 mesi (poi prescritti) per il sequestro dei manifestanti nella caserma Rainero durante il G7 di Napoli – recentemente promosso, sempre da Gabrielli, come Resident espert in Montenegro.

Ma oltre ai dirigenti condannati per il G8, ieri è stato promosso anche Francesco Zerilli, salito alla ribalta della cronaca innanzitutto come autore di una serie di cruente cariche ‘a freddo’, a partire da quella del 2012 in pieno centro a Livorno nei confronti di antagonisti, anarchici e no-TAV, con gravi ricadute in termini di tensioni sociali nei giorni successivi.

Ma l’inadeguata aggressività di Zerilli si è evidenziata soprattutto tra il 2014 e il 2017 quando era in forza alla Questura di Roma in qualità di responsabile dei servizi di ordine e sicurezza pubblica nel centro della Capitale, molto spesso conclusi con manganellate e trauma cranici: prima nei confronti dei movimenti per la casa che manifestavano davanti al Campidoglio; poi dei tassisti davanti a Montecitorio; infine degli operai della ThyssenKrupp a rischio licenziamento nei pressi della Stazione Termini, accompagnati da Maurizio Landini, allora leader della FIOM e attuale Segretario generale della CGIL, che ricevette pure lui la sua dose manganellate in testa, all’urlo di Zerilli: “Caricate!”.

Ma l’episodio che più è rimasto impresso nell’opinione pubblica fu quello verificato a margine dello sgombero di un gruppo di etiopi ed eritrei richiedenti asilo o protezione sussidiaria da un edificio di via Curatone, accampati in piazza Indipendenza, cacciati con gli idranti e poi caricati e inseguiti dai reparti antisommossa guidati da un Zerilli urlante “levatevi dai coglioni, carica, forza”, che incitava i poliziotti “se tirano qualcosa spaccategli un braccio”.

Frasi e contesto che fecero molto scalpore nell’opinione pubblica, tanto da costringere Gabrielli a rimuovere il dirigente, ma non per punirlo o trasferirlo per incompatibilità, bensì per ‘parcheggiarlo’ in un ufficio più comodo e defilato, in attesa che passasse il clamore, fino a ieri quando è stato promosso, magari pronto per la gestione di nuove emergenze.

Modalità attuate anche con i responsabili del sequestro Shalabayeva, per 7 anni intoccabili, nonostante pendessero sulle loro teste accuse gravissime da parte delle due Procure che li hanno indagati, del GIP che li ha rinviati a giudizio e del Tribunale che li ha recentemente condannati a 5 anni con interdizione perpetua dai pubblici.

Basti scorrere le loro fulminanti carriere: Renato Cortese, all’epoca dei fatti capo della Squadra mobile della Questura di Roma, poi direttore dello SCO (Servizio centrale operativo) ed infine Questore di Palermo promosso Dirigente generale, apice della carriera in Polizia; Maurizio Improta, all’epoca dirigente dell’Ufficio immigrazione della Questura di Roma, poi Questore di Rimini ed infine il Capo della Polfer a livello nazionale.

Solo la recente, grave condanna ha costretto Gabrielli a destinarli ad altri incarichi, magari anche loro in attesa di riappropriarsi della gestione delle piazze, passato il clamore.

C’è poi il caso ancor più emblematico di Massimo Improta (fratello minore del suddetto Maurizio) che nel 2012 era in forza alla Questura di Roma come responsabile dei servizi di ordine pubblico presso lo Stadio Olimpico e venne promosso nonostante fosse stato appena indagato per la falsificazione del verbale di arresto nell’ambito del cosiddetto pestaggio Gugliotta, preso a calci e pugni sino alla vistosa perdita di un dente incisivo.

Così proseguendo per anni l’attività di gestione della piazza, anche al sopraggiungere nel 2017 della condanna ad 1 anno e 3 mesi, visto che è tuttora in servizio alla Questura di Roma, come capo dell’Ufficio prevenzione e soccorso pubblico da cui dipendono tutti gli equipaggi operativi della Capitale.

Tutto ciò aggravato dal fatto che nel suo fascicolo personale è stato annotato il coinvolgimento in due pregressi procedimenti penali, a suo tempo archiviati, ma che avrebbero dovuto essere premonitori: 2003 – denunciato per abuso d’ufficio da un manifestante, da lui tratto in arresto poi però non convalidato dall’autorità giudiziaria, quando era Vicedirigente del Commissariato di PS – Trevi Campo Marzio; 2008 – denunciato-querelato per lesioni, minacce e violenza sessuale da una propria dipendente quando era Dirigente del Commissariato di PS – Castro Pretorio, a seguito di un “incontro realmente accaduto tra i due la sera del 28.2.2008”, per cui comunque “il Questore di Roma non ha ritenuto di dover procedere disciplinarmente”, così contribuendo ad un’“escalation” che si sarebbe potuta prevenire.

Ma buon sangue non mente, considerato che Maurizio e Massimo sono i figli del famoso Prefetto Umberto Improta, per decenni uomo di punta del Viminale, noto anche per essere stato coinvolto nelle torture dei brigatisti prima e dopo la liberazione del generale USA Dozier; in concorso con il famigerato “dottor De Tormentis” e i “quattro dell’Ave Maria”, specializzati in “waterboarding” o “interrogatorio duro dell’acqua e sale: legavano la vittima a un tavolo e, con un imbuto o con un tubo, gli facevano ingurgitare grandi quantità di acqua salata” (si veda l’inchiesta de l’Espresso del 6 aprile 2012).

di Filippo Bertolami, avvocato e Dottore di ricerca in diritto amministrativo. Già Vice questore aggiunto della Polizia di Stato, Docente di diritto costituzionale italiano e comparato e Cultore di diritto regionale europeo.

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“Prima delle rose vogliamo il pane!”


Giornata di lotta, venerdì 30, per i lavoratori della cultura e dello spettacolo, presenti in molte piazze d'Italia.

Da Milano a Roma, da Torino a Bologna, da Pescara a Palermo, da Catania a Napoli, la voce del teatro, del cinema, della danza, del circo, dello spettacolo dal vivo tutto, si è levata alta ancora una volta, da Marzo scorso, per protestare contro l’incongrua e nuova chiusura degli spazi dell’arte, a fronte della persistente insufficienza di contributi e risorse da destinare al settore.

Un comparto che, già in crisi strutturale prima della pandemia, a causa dei costanti tagli al Fus (Fondo Unico per lo Spettacolo) e alla spesa prevista per le attività culturali – tagli determinati, anch’essi, dallo scellerato Patto di Stabilità e dalle politiche di austerità imposte dalla Unione Europea – ha finito per essere colpito quasi mortalmente dal diffondersi, nella primavera scorsa, della Sars-Cov-2.

Bersaglio principale delle contestazioni e delle sacrosante rivendicazioni è, logicamente, insieme al Governo, il Ministro Dem Dario Franceschini. Titolare del Mibact e autore di una sciagurata riforma, che aveva già inferto, con le sue logiche aziendalistiche e produttivistiche, un colpo di grazia alle piccole imprese teatrali, alle produzioni cinematografiche indipendenti e, conseguentemente, a tutte quelle lavoratrici e a quei lavoratori che, ad esse, legano la loro sopravvivenza, artistica ed esistenziale.

Favorendo, di contro, teatri stabili, grandi compagnie, circuiti che hanno finito per detenere il monopolio della distribuzione, ricche case di produzione e nomi di prestigio, che ben si prestano ad una concezione mercantile della cultura e dell’arte.

Nomi e aziende che, d’altronde, poco o niente si sono viste in piazza!

D’altra parte, tanto il Premier Giuseppe Conte quanto il Ministro della Cultura, nulla fanno per farsi amare da una categoria che, in troppi casi, annovera lavoratori le cui condizioni economiche sono, frequentemente, sotto la soglia di povertà.

I quali però, sarebbero anche disposti – spesso commettendo un’ingenuità imperdonabile e rovinosa per sé stessi – a rinunciare a più giusti guadagni pur di tenere vivo il sacro fuoco della loro arte. E se solo fossero tenuti nella considerazione che si deve a chi, con il proprio lavoro, si suppone dovrebbe accrescere l’interesse e la vivacità culturale di un popolo.

Invece Conte, in primavera, durante una delle sue conferenze stampa, legate alla promulgazione dei tanti e arzigogolati Dpcm, ebbe a definire artisti e intellettuali alla stregua di divertenti intrattenitori.

Mentre il ministro Franceschini, qualche giorno fa, ha addirittura liquidato le proteste dei lavoratori della cultura, come stucchevoli e prive di comprensione per il delicato momento che il paese si trova ad affrontare.

Sancendo così, ad horas, la chiusura di Teatri, Cinema, Sale d’opera, Circhi. Nonché la sospensione, a tempo indeterminato, dei concerti dal vivo.

Spazi d’arte, insomma, di cui il Ministro e il Governo non sembrano comprendere la vera ragione economica.

Questi, infatti, al netto della loro valenza culturale, altro non sono se non luoghi di lavoro – atipico e intermittente, ancorché creativo, e spesso sottopagato – per tante lavoratrici e lavoratori che, con la loro dedizione, forniscono o dovrebbero fornire, ai cittadini della Polis, quel nutrimento per l’intelligenza che consentisse, nella migliore delle ipotesi, la formazione di una coscienza e di un pensiero critico.

Male che vada, ci si potrebbe accontentare comunque di un meno triviale senso estetico e del gusto. Un fattore che in un universo comunicativo dominato dai social, dalle D’Urso, dalla coppia Ferragni-Fedez, da giornalistucoli-conduttori o da maître à penser sedicenti liberal (da Lucia Annunziata in giù), non sarebbe certo da trascurare.

E invece, il primo comparto a chiudere, ancora una volta, dopo una falsa ripartenza – per di più nella stagione estiva che, di solito, corrisponde a quella di chiusura di cinema e teatri – è stato proprio quello dello spettacolo.

Falsa ripartenza, che aveva altresì illuso le categorie, impegnate lavorativamente nel settore, su una possibile ripresa economica. Che, a questo punto, ci sembra quantomai improbabile.

Ciò, nonostante un rapporto dell’Agis abbia documentato che, da Luglio – momento della ripresa degli spettacoli dopo il lockdown – ad oggi, si sia verificato un solo contagio tra sale cinematografiche e teatrali.

Che avevano, a loro spese e con enormi sacrifici economici, adottato tutte le misure imposte dai regolamenti in materia. Sacrifici, di fatto, resi vani dalle nuove disposizioni e dalla ripresa della diffusione dei contagi.

Ma c’è di più. La summenzionata chiusura sta avvenendo a fronte di insufficienti misure di sostegno, di scarse risorse di emergenza e di ammortizzatori assolutamente inadeguati, predisposti da un Governo la cui unica preoccupazione è, ancora una volta, tutelare esclusivamente il profitto e gli interessi dell’oligarchia confindustriale.

Dalla cui orbita sono esclusi, chiaramente, quei settori la cui catena del valore è agganciata all’economia della conoscenza e dell’immateriale.

Con un danno, specie su piccole aziende e lavoratori non baciati dalle calde luci della fama, che rischia di annichilire per sempre il mondo della cultura e dello spettacolo.

Sembra quasi superfluo, su questo giornale, dalle pagine del quale portiamo avanti, da tempo, una battaglia per le idee e la formazione di un pensiero critico e di una controcultura, che sappia opporsi all’ideologia del neoliberismo dominante – anche e soprattutto con le sue dinamiche di colonizzazione dell’immaginario – ricordare che un simile annichilimento porterebbe a compimento una strage sul terreno della coscienza civile e critica del Paese.

Ma necessita ricordarlo. Anzi, gridarlo. Come un urlo disperato su un precipizio. Perché l’Italia – e con essa l’intero occidente – vive un passaggio delicato della sua Storia. E, infondo al tunnel, la luce che si intravede sembra più quella di una fiaccola a Norimberga che quella di un Sol dell’avvenire.

Per questo, dobbiamo tutelare il nostro patrimonio culturale. Anche se già depauperato da quarant’anni di dittatura del Mercato.

Per questo dobbiamo lottare affianco dei lavoratori del settore. Per questo si devono unire le lotte. E operai, studenti, mondo della cultura, partite iva, nuovi ceti proletarizzati, devono tornare a riempire le piazze insieme. Senza distinguo e senza paura.

Com’è successo venerdì e come, si spera, tornerà a succedere ancora.

A Napoli, per esempio, in Piazza del Gesù, si sono ritrovati, insieme, lavoratori della cultura e operai della Whirlpool.

E, pur con le loro insanabili differenze, Cobas, Federazione del Sociale Usb, e Confederali. La Cgil, pur nella sua inconsistenza pluri-trentennale, ha voluto battere un timido colpo.

Ma le rivendicazioni importanti sono quelle che, in questi mesi, hanno elaborato piattaforme e associazioni, costituitesi sui social e online, autonomamente e fuori dai circuiti sindacali, e che hanno visto l’ adesione di tante lavoratrici e lavoratori.

Quelle rivendicazioni hanno rappresentato la piattaforma di partenza per la giornata di lotta di venerdì.

Reddito di emergenza; risorse certe per la ripartenza; registro di categoria; riconoscimento giuridico delle diverse figure professionali; creazione dell’Intermittenza come in Francia, in modo da tutelare la fisiologica discontinuità di una forma di lavoro che, per sua stessa specificità, risulta essere atipico; tavolo permanente tra parti sociali e ministeri; stabilizzazione dei lavoratori precari delle fondazioni lirico sinfoniche; reddito per tutti; sospensione degli affitti e delle utenze.

Sono queste, dunque, alcune delle istanze che la voce dei lavoratori ha fatto riecheggiare nelle piazze.

Intanto, la lotta continua. Per la tutela dei diritti. Per un’esistenza che non sia invisibile agli occhi della società. Per la sussistenza. Per la resistenza culturale. Per il diritto al dissenso e al pensiero critico.

Ma come recitava uno striscione in piazza: Prima delle rose vogliamo il pane!

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Non c’è niente da festeggiare


La crescita del PIL del 16% per il periodo luglio-agosto, superiore alle previsioni, ha scatenato commenti positivi e ottimistici. Il fatto è che non solo l’Italia, ma anche la Francia e la Spagna hanno avuto una crescita economica alta per quel periodo, quello nel quale in Europa erano saltate tutte le regole di controllo e contenimento del Covid-19.

Oggi tutti noi paghiamo, con il dilagare incontrollato del contagio, quella ripresina senza regole, quando si dimenticarono i 35.000 morti appena registrati.

A giugno si è deciso che l’economia veniva prima della salute, anche perché tanti esperti che non erano tali annunciavano la fine della pandemia. Così è ripresa la crescita del PIL prima e quella del virus subito dopo.

Ora, con il disastro sanitario in arrivo, e in alcuni territori già in corso, non solo avremo tante nuove vittime, ma una nuova caduta dell’economia.

Questo anche se le pubbliche autorità per opportunismo e viltà continueranno e rinviare il necessario lockdown. Perché siamo entrati in un circolo vizioso nel quale ci sono il contagio acuto, poi il rilassamento e la ripresa economica, che a sua volta provoca una pandemia più grave e una nuova depressione economica.

È il fallimento del modello liberista sia della gestione della salute sia di quella dell’economia. Perché se non si mette la salute al primo posto e non si pianifica l’economia in funzione di essa, alla fine saltano tutte e due.

Non c’è quindi nulla da festeggiare per i numeri del PIL di settembre: li pagheremo con gli interessi sia nella salute e nella vita delle persone, sia nello sviluppo economico.

Senza salute non c’è economia.

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Gli USA? Stanno ancora in piedi grazie alla Cina

Pompeo può parlare quanto vuole e incontrare Premier e Ministri degli Esteri di tutto il mondo per dirgli di boicottare la Cina. Sta di fatto che in economia, e in politica, parlano i numeri e questi dicono che la Cina sta sostenendo fortemente l’economia degli Stati Uniti, così come della Germania, indirettamente la rete di subfornitura italiana ad essa collegata, e lo stesso nostro Paese.

La campagna mediatica mondiale contro Pechino non la scalfisce, vedono avanti. La loro saggezza, e anche la loro pazienza, in confronto alle fibrillazioni occidentali, sembra davvero infinita.

Ora, facciamo parlare i numeri.

E a darli non è Sputnik o China Daily, ma l’americanissima Bloomberg, che il 27 ottobre ha pubblicato un articolo in cui afferma che a settembre c’è stato un import cinese di merci americane record, 10 miliardi.

Gli acquisti di beni energetici sono aumentati a settembre del 75%, con import record di petrolio. Il valore dei prodotti agricoli è aumentato del 60%, mentre l’import della soia, cuore nevralgico degli Stati agricoli americani, è aumentato del 600%.

Sono aumentati enormemente anche gli acquisti di auto e cotone, ma Bloomberg fa sapere che le spedizioni, e le prenotazioni di merci americane, a settembre, che arriveranno a ottobre o novembre, sono da record.

Ricordiamo che a settembre l’import totale di merci dal mondo è aumentato del 14%, i dati delle merci americane ci dicono che gli Usa in Cina stanno enormemente sovraperfomando rispetto a rivali commerciali storici come la Germania.

La strategia di Trump di reindustrializzazione degli Usa attraverso pressioni per un fair trade trova riscontro, dopo due anni burrascosi, in Cina (anche se esportano soprattutto prodotti agricoli, come un paese del terzo mondo...), che riconoscono la legittimità delle sue richieste. Forse in Cina non vedono di buon occhio un democratico, magari burattino dei guerrafondai alla Hillary Clinton, alla Casa Bianca.

Preferiscono un ruvido uomo d’affari. Cosa combina all’interno del proprio paese non è affar loro, ma sono pronti a sfruttarne le debolezze.

Certo, Trump strepita contro il “virus cinese” nella campagna elettorale, ma loro non ne fanno un dramma, sono solo parole. Sotto sotto si va avanti con gli accordi.

Perché loro possono e noi no? Perché non siamo un Paese sovrano e la classe dirigente, da decenni, è espressione di quella che altrove – in America Latina, per esempio – viene chiamata borghesia compradora. Letteralmente in vendita, subordinata oltre ogni limite, che assume le istanze delle potenze estere come espressione della propria politica (vedi Di Maio...).

Trump dimostra che la politica è tutt’altro, e gli affari internazionali non c’entrano niente con le sparate propagandistiche.

Forse, se non crolla, dopo il 4 novembre farà una telefonata a Xi Jinping e Putin...

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La Whirlpool chiude, è ora di nazionalizzare!

La decisione della multinazionale Whirlpool di chiudere lo stabilimento di Napoli è un gravissimo crimine sociale, da tempo annunciato, per fermare il quale nessuna autorità, nessun potere, ha fatto nulla.

Da tempo i lavoratori denunciavano la decisione aziendale, che avrebbe lasciato 400 famiglie (1000 con tutte le attività indotte), in mezzo ad una strada. Il governo, la regione, tutti i poteri pubblici hanno fatto solo montagne di chiacchiere, mentre tutto il mondo imprenditoriale, sempre sollecito a chiedere aiuti per sé e sacrifici per gli altri, nemmeno quelle.

Ora il padrone mette i lucchetti alla fabbrica e lascia fuori tutti, disprezzando anche l’incontro con un governo debole e inutile, che, di fronte all’arroganza di una multinazionale che rompe tutti gli accordi, è stato capace solo di prendere atto del proprio fallimento.

Quanto è avvenuto alla Whirlpool è solo l’ultimo e più grave anello di una catena che vede il potere politico rendersi totalmente servo del mercato e degli affari, che fanno quello che vogliono senza regole e senza limiti. Anche le organizzazioni sindacali hanno sottovalutato la gravità dell’attacco a tutto il lavoro e non hanno messo in campo tutto quanto era necessario per fermarlo.

Ora si deve dire basta a tutto questo e i comportamenti e le scelte di fronte alla chiusura della Whirlpool di Napoli diventano una verifica di fondo della capacità delle forze e delle istituzioni democratiche del paese di reagire alla violenza della sopraffazione sociale.

Non si facciano imbrogli e promesse di reindustrializzazione, che sono fallite in zone ben più sviluppate del paese e che a Napoli e in Campania sarebbero ridicole truffe. Non si lasci l’impunità alla multinazionale che chiude per profitto.

Ora è il momento di agire con misure straordinarie almeno su tre punti:

1) La pubblica requisizione e nazionalizzazione dello stabilimento con tutti i costi a carico della multinazionale.

2) La garanzia completa e senza scadenze del salario e del lavoro per tutti i dipendenti.

3) Un piano industriale di sviluppo della realtà produttiva guidato dallo Stato e concordato con i lavoratori.

Questa è la sola soluzione positiva in campo, le altre sono tutte forme di abbandono delle lavoratrici e dei lavoratori alla disoccupazione.

Esprimiamo tutto il nostro sostegno e solidarietà alle lavoratrici e ai lavoratori della Whirlpool, condividiamo e facciamo nostra la loro giusta rabbia e con Potere al Popolo saremo al loro fianco in tutte le lotte che riterranno opportuno intraprendere, comprese quelle fuori da quelle regole che il padrone ha rotto e che il governo non ha fatto rispettare.

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Altro che euroscetticismo. In Italia ormai la Ue è concepita come nemico

Gli italiani ormai non si fidano più dell’Unione Europea. Nei mesi della pandemia la fiducia verso le istituzioni comunitarie è crollata al 28%, raggiungendo il livello più basso in Europa. È quanto emerge dall’ultimo Eurobarometro della Commissione Ue.

Rispetto alla precedente rilevazione nell’autunno 2019, la fiducia degli italiani è crollata ulteriormente di quasi dieci punti percentuali.

Interpellati sulla propria soddisfazione per le misure Ue contro la pandemia, il 58% degli italiani si è detto insoddisfatto, facendo segnare il quarto risultato peggiore nell’Unione. Dopo gli italiani, i livelli di fiducia più bassi si registrano in Francia (30%) e Grecia (32%). I picchi si osservano invece in Irlanda (73%) e Danimarca (63%).

Si conferma e peggiora il sentimento eurocontrario – definirlo euroscetticismo diventa una banalità – già rilevato a dicembre dello scorso anno e in situazione pre-pandemia.

A dicembre 2019 soltanto il 37 per cento degli intervistati in Italia riteneva infatti che l’appartenenza all’Unione europea fosse una cosa positiva. È la percentuale più bassa insieme a quella registrata in Repubblica Ceca (dove però le persone che ritengono negativa l’appartenenza all’Ue sono di meno).

L’Italia, che fino a dieci anni fa era il campione dell’europeismo acritico, negli ultimi anni ha invece virato verso quello che viene chiamato euroscetticismo. Nel 2019 è stata la prima volta in cui ha occupato l’ultimo posto da quando nel Parlemeter viene rilevata la popolarità dell’Unione. Nel sondaggio del 2018, quando nel resto del continente questo indicatore raggiungeva i livelli più elevati dal 1989, attestandosi al 62 per cento, Italia era risultata penultima.

Nel 2019 la percentuale di intervistati europei che riteneva positiva l’appartenenza all’Ue era scesa di 3 punti al 59 per cento. Ma in Italia era andata ancora peggio, passando dal 42 al 37 per cento. Ed oggi, nel 2020 e dentro la pandemia, questa percentuale è scesa ancora, anzi è crollata, al 28%.

La contraddizione apertasi nel 2011 – e che ha cominciato a incrinare lo stolido e suicida europeismo liberale – è diventata voragine. Il dramma è che la “sinistra” in Italia o si appiattisce su un europeismo che la gente non capisce più, anzi vede con ostilità, oppure si gingilla su un internazionalismo indefinito e indefinibile che non produce proposte alternative. Fortuna che la destra italiana è troppo stupida per approfittarne seriamente. Il che non significa lasciargli il campo aperto e facile da tracciare.

L’Unione Europea è un nemico del popolo e dei popoli, per questo va smantellata indicando, semmai, altre ipotesi di integrazione regionale fondate su parametri del tutto alternativi.

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2020: l’Anno del Dragone


Due giorni dopo l’Election Day negli Stati Uniti, in due borse cinesi inizierà contemporaneamente il più grande collocamento di una new entry – IPO, Initial Pubblic Offering – mai vista sul mercato mondiale.

Si tratta di Ant Group, il “braccio finanziario” di Alibaba, fondata dal miliardario cinese Jack Ma poco meno di 20 fa. Si è recentemente ritirato dal management di Alibaba (non dal’azionariato), e possiede ora anche Alipay, la maggiore azienda di pagamento digitale della Repubblica Popolare.

Insieme a WeChat, controllata da Tencent Holdings che detiene il 40% del mercato, Alipay è il leader – con il 55% – del pagamento “senza contanti” attraverso la lettura di un codice QR dal proprio smartphone.

Si possono fare acquisti che alle nostre latitudini solitamente vengono effettuati in contante strisciando il proprio cellulare su un quadrato bianco-nero stampato su un semplice pezzo di carta. Il sistema di pagamento attraverso le carte di credito è stato “saltato” dalla Cina, che è passata direttamente al digitale e ai relativi servizi, divenendone per quantità e qualità il leader mondiale.

Si può pagare con questa modalità un taxi, un pasto, l’affitto o le bollette...

Ant, attraverso le app da lei sviluppate, offre anche la possibilità di acquisti online, l’elargizione di prestiti ed investimenti “a basso rischio” – attentamente monitorati dalle istituzioni – e, dal 2018, anche servizi assicurativi.

Il suo bacino di utenza è attualmente di 730 milioni di persone al mese; ha creato in pratica un “ecosistema” economico per i beni di consumo affiancando il sistema bancario cinese a controllo pubblico, tendenzialmente indirizzato prevalentemente al finanziamento dell’industria statale e di progetti infrastrutturali.

Ripetiamo: 730 milioni di persone, cioè più del doppio di PayPal, che con 346 milioni pure gestisce “big data” di dimensioni impressionanti.

Durante l’ultima festa nazionale dell’acquisto – l’11 novembre – l’app è stata in grado di processare 459 mila pagamenti al secondo, mentre il picco di quelli possibili con Visa è di 65 mila. Non c’è partita.

Il valore dell’azienda, dopo l’IPO, probabilmente permetterà al colosso cinese di raggiungere la taglia di giganti finanziari come Mastercard e JPMorganChase, entrambe oltre i 300 miliardi di dollari.

Questo per dare una idea dell’ordine di grandezza di cui stiamo parlando.

Contemporaneamente, il 5 novembre, a Shanghai – nello Star Market specializzato in titoli tecnologici – ed ad Hong Kong inizieranno ad essere vendute tra il 10-15% delle azioni di Ant Financial Service Group, per un valore che potrebbe sfiorare i 40 miliardi di dollari se, come sembra, la richiesta andasse oltre le previsioni, “costringendo” ad aumentare l’offerta – annunciata a fine agosto – per 34 miliardi di dollari.

A livello retail la raccolta avviene tramite 5 fondi che operano attraverso la app, un metodo innovativo quanto discusso. Gli addetti ai lavori parlano in termini entusiastici di questo evento finanziario, in cui si stima che la quota “base” per potere sperare di aggiudicarsi le azioni è pari a 129.000 dollari, con “piccoli investitori” che fanno di tutto per indebitarsi e raccogliere prestiti per assicurarsi i titoli.

A cosa saranno destinati questi soldi che aumentano la capitalizzazione?

Il 40% in ricerca e sviluppo, il 30% per espandere la base di utilizzo e l’offerta di prodotto, ed un 10% per espandere il business internazionale, considerato che il giro d’affari per ora è concentrato al 95% in Cina, anche se, come sembra, pure il mercato indiano offre ottime prospettive nel settore.

Ci troviamo di fronte ad una operazione non meramente speculativa, perché mira a potenziare i margini di investimento, controllata fermamente da Alibaba, che mantiene 1/3 delle azioni.

Per avere un ordine di grandezza, il record precedente per una IPO era stato stabilito dalla quotazione alla borsa di New York dell’azienda della corona saudita Aramco, nel dicembre scorso, per un valore che sfiorava i 30 miliardi di dollari.

Prima dell’azienda saudita, il record apparteneva ad Alibaba, con i 25 miliardi di dollari di offerta che rappresentarono la migliore performance nel 2014.

Si tratta di un avvenimento in qualche misura “epocale” perché mostra come l’epicentro della finanzia mondiale si stia spostando sempre più verso la Cina, ora in grado di attirare gli investimenti dei big di Wall Street – Citigroup, JP Morgan e Morgan Stanley saranno tra i maggiori beneficiari dell’offerta – e di mettere direttamente sul mercato, ad Hong Kong o nella Cina continentale, alcuni “fiori all’occhiello” della propria economia, mettendo al riparo giganti digitali delle dimensioni di Netease o JD.com da eventuali ritorsioni sui mercati nord-americani.

Se, per la Repubblica Popolare, Hong Kong rimane uno degli hub finanziari strategici per drenare gli investimenti internazionali e la “seconda scelta” per molti titoli quotati anche a New York, lo Star Market diviene il fiore all’occhiello per quelle aziende tecnologiche destinate ad essere uno degli assi del futuro sviluppo economico cinese.

Dalla sfida per l’auto elettrica agli investimenti per colmare il gap nella produzione di semi-conduttori, la Cina si prepara ad avere un ruolo di leadership, nel mentre sta sperimentando su vasta scala la prima cripto-valuta digitale gestita da uno Stato, sviluppata anche sul modello di “portafogli digitali” di cui Alibaba e WeChat sono stati anticipatori.

È la quarta volta che il record mondiale per una IPO viene stabilito in Cina (4 sulle ultime sette volte).

Ma un altro “evento”, da lì a pochi giorni, potrebbe avere valore epocale. Si tratta del già citato 11 novembre, che sarà un banco di prova per comprendere la fiducia nei consumatori in un quadro di ripresa economica complessiva, che riguardo ai consumi interni ha già avuto un primo test positivo con la settimana di vacanza di inizio ottobre.

Insieme allo sviluppo tecnologico, e alla “transizione ecologica”, proprio i consumi interni dovrebbero essere uno dei perni dell’economia cinese.

L’11 novembre era già la più grande giornata di shopping on line al mondo – ha superato il Black Friday già nel 2013 – ed una fonte di guadagno per i due principali attori del commercio in linea: Alibaba che l’ha lanciata nel 2009 e JD.com che l’ha ripresa insieme ad altri attori, nel solco della tradizione di una giornata dedicata a “farsi un regalo”, “shuangshiyi”.

In 24 ore ha fatto guadagnare alla sola Alibaba 27 miliardi di euro. La giornata è una “vetrina” per quelli che sono stati definiti i “villaggi Taobao”, dal nome dei 4.000 centri situati prevalentemente nella Cina “rurale”, che hanno sviluppato una precisa specializzazione produttiva in seguito alla possibilità di vendere i propri prodotti on-line, senza ulteriori intermediazioni nella catena del valore.

Una caratteristica molto simile a quello che è il mercato agricolo, dove sono i piccoli produttori a vendere direttamente – su mercati giganteschi – a ristoratori o rivenditori, oppure attraverso una serie di “gruppi d’acquisto solidale”, in cui i lavoratori migranti delle campagne fanno da cerniera con gruppi di consumatori urbani. Tra l’altro in questo ambito di rapporti si va sviluppando un sistema di agriturismi e di fiere di campagna che contribuiscono a connettere questi due mondi.

Così, mentre gli USA saranno alle prese con un passaggio di poteri che si annuncia tutto meno che pacifico, e una disastrosa situazione sanitaria in via di peggioramento (81.457 nuovi contagi il 28 ottobre, 1.016 morti ed un sistema sanitario prossimo al collasso); con la “seconda ondata” di contagio che investe il Vecchio Continente senza che vi sia un minimo segnale di inversione di tendenza, con inevitabili conseguenze economiche catastrofiche a medio termine. la Cina ha invece sconfitto il virus, è in piena ripresa economica, ha raggiunto i suoi obiettivi di “società moderatamente prospera” e si candida ad essere il centro del mondo che sorgerà dopo il flagello pandemico.

Il 2020 rimarrà nella Storia come l’Anno del Dragone.

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30/10/2020

Terminator - Destino Oscuro (2019) di Tim Miller - Minirece



Un proseguo molto debole rispetto alle aspettative secondo me. Forzato sui temi socio-economici e con degli effetti speciali un po' troppo gonfiati e surreali (le scene in volo).

Il loro piano contro il Covid-19: l’eugenetica soft

Il primario di rianimazione dell’ospedale Papa Giovanni di Bergamo ha detto che bisogna “isolare gli over 65 anni [...] uscire per una passeggiata si, andare al supermercato, no”.

Probabilmente vive sul pianeta Papalla e non sa che, grazie alla famigerata Legge Fornero (ancora in pieno e “brillantissimo” vigore), in Italia, molti continuano a lavorare – spesso in condizioni di salute e di sicurezza assai precarie – fino a 70 anni ed oltre.

Gli anziani, qui da noi, mica vanno solo al supermercato o ai giardini.

“Si è allungata la speranza di vita”, dicevano quelli che fortissimamente vollero la (contro)riforma Fornero. Fu il governo guidato da Mario Monti, nel 2011, durante la così detta “crisi dello spread”, ad approvare quella norma sciagurata che sancì il passaggio definitivo al sistema contributivo; codificò il meccanismo che lega l’aumento della speranza di vita alla pensione di vecchiaia; eliminò la pensione di anzianità (quella con 40 anni di contributi a qualsiasi età).

Dunque, a 65 anni sei vecchio per il Covid-19, ma sei ancora giovane ed in forma smagliante per il sistema pensionistico vigente. E poi, dato il sistema di calcolo contributivo, se non vuoi morire di fame, continui a lavorare, anche in nero, tutta la vita.

E per non farci mancare nulla, ancora il governo Monti, approvò un piano pluriennale di tagli alla sanità pubblica che, in 8 anni, ha sottratto al nostro Servizio Sanitario Nazionale circa 37 miliardi di euro finiti in tagli lineari, ovvero, posti letto, ambulatori, personale e medicina territoriale.

Pari pari, quel che ora vorrebbero ridarci (il MES) ma solo a condizione di applicare nuovi tagli al welfare. Un giropesca da perderci la testa.

D’altronde Christine Lagarde (ora a capo della BCE), nel 2012, da direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, nel lanciare il suo “allarme longevità”, lo aveva detto chiaro e tondo: “se la vita media nel 2050 si allungherà di 3 anni in più di quanto previsto oggi, il già ampio costo dell’invecchiamento della popolazione aumenterà del 50%“.

Un dirigente medico del San Raffaele alcuni giorni fa, ha dichiarato : “il coronavirus esige un suo tributo di decessi... falcidiando una fascia suscettibile e fragile e poi si acquieta con una coda di casi più lievi, via via che nella popolazione residuano soggetti meno suscettibili e più reattivi all’infezione, sostanzialmente l’immunità di gregge”.

L’immunità di gregge? Si, quella che verrebbe raggiunta quando all’incirca il 70-90% della popolazione si infetta, causando, dunque, la morte certa di milioni di persone... anziane, per lo più. Secondo i dati dell’Istat, “al 1° gennaio 2019 gli over 65enni sono 13,8 milioni (rappresentano il 22,8% della popolazione totale)“.

La Svezia ci ha provato, ma il tentativo è fallito e il Paese scandinavo, ad agosto, contava già oltre 5.000 vittime mentre solo il 15% della popolazione risultava avere acquisiti gli anticorpi. Nello stesso periodo paesi comparabili come la Norvegia e la Finlandia, hanno registrato un decimo dei decessi causati dal Covid-19 della Svezia.

E allora che si fa? L’esempio viene dalla vicinissima et civilissima Svizzera (confina a sud con la Lombardia) che già nega la rianimazione agli anziani malati di coronavirus applicando un super-protocollo per le cure in caso di sovraffollamento delle terapie intensive. Il presidente dei medici svizzeri ha ammesso che "si, è pesantissimo” ma, poi ha aggiunto fiero: “così le regole sono chiare" (!).

Vuoi mettere un essere umano ancora “produttivo” con uno vecchio, acciaccato, per di più, a carico dell’INPS? Vista da questo lato, la pandemia di Covid-19, è una manna per lorsignori: con quanti “vecchi” in meno si arriva a quel 50% di “risparmi sulla spesa sociale” auspicato, anni or sono, da Cristine Lagarde?

Insomma, tanto il primario di Bergamo quanto il dirigente del San Raffaele di Milano ci dicono, in altre parole, quelle stesse indicibili cose che Confindustria non dice – ma sotto intende – e che paralizzano il governo: non possiamo fermare l’economia (o i profitti?) soltanto per evitare che muoia di coronavirus qualche milione di vecchi poveri e per di più malati, dunque, già prossimi alla dipartita.

E poi, di mandare in pensione la gente ad un’età decente, non se ne parla proprio: parola di Unione Europea e della BCE.

Siamo, dunque ad un passo da una nuova eugenetica soft: mentre i nazisti i deboli, i malati ed i “vecchi” li gasavano, ora, invece, li si lascia morire di Covid-19. Oppure di lavoro ad oltranza, o di tutt’e due...

“Arbeit macht frei”, no?

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Sulla GERD, Trump si schiera con l'Egitto, rabbia in Etiopia

di Michele Giorgio – il Manifesto

C’è la volontà di affermare una posizione unita del Cairo e Khartum dietro l’incontro che ieri mattina il presidente Abdel Fattah El Sisi ha tenuto al Cairo con il capo del Consiglio sudanese Abdel Fattah al Burhan. Una prova di forza prima della videoconferenza che qualche ora dopo ha segnato la ripresa dei negoziati tra Egitto, Etiopia e Sudan sulle operazioni di riempimento della Grand Ethiopian Renaissance Dam (Gerd), l’imponente diga che Addis Abeba sta costruendo sul Nilo tra le preoccupazioni del Cairo e di Khartum.

L’Unione africana insiste affinché si arrivi a un compromesso. Ma il clima è più cupo dopo la sortita di Donald Trump. Venerdì scorso il presidente americano, parlando a un gruppo di giornalisti, ha detto che la Gerd è una questione «veramente pericolosa perché l’Egitto non sarà in grado di vivere così... finirà che loro faranno saltare in aria la diga». E in una telefonata con il primo ministro sudanese Abdalla Hamdok ha aggiunto che gli etiopi «hanno costruito una diga che impedisce all’acqua del Nilo di scorrere. Non puoi incolpare l’Egitto perché è un po’ sconvolto, giusto?». Parole al quale l’ufficio del premier etiope Abiy Ahmed ha risposto sostenendo che Addis Abeba «non cederà ad aggressioni di alcun tipo». Per l’Etiopia, Trump ha dato una giustificazione in anticipo a un possibile attacco militare egiziano alla diga. E il ministro degli esteri Gedu Andargachew ha subito convocato l’ambasciatore statunitense, Michael Raynor, per avere chiarimenti.

La tensione tra Washington e Addis Abeba è alta già da un mese, da quando l’Amministrazione Usa ha annunciato la sospensione di parte degli aiuti finanziari all’Etiopia per la mancanza di progressi nei negoziati sulla Gerd. Secondo Rashid Abdi, analista del Corno d’Africa, la scelta a favore dell’Egitto operata da Trump ha avuto l’effetto di una violenta picconata sul fragile negoziato in corso sulla diga. «L’Etiopia sta rafforzando la sicurezza intorno alla diga», riferisce Abdi «le sue misure difensive includono la dichiarazione della regione di Benishangul-Gumuz, dove si trova la Gerd, come di uno spazio aereo interdetto e ci sono anche notizie secondo cui (l’Etiopia) sta installando batterie antiaeree intorno alla diga». L’Etiopia, aggiunge Abdi, «si sente tradita dall’America e Trump ora è una figura odiosa per molti etiopi che sperano in una vittoria di Joe Biden il 3 novembre».

Che il Nilo sia la linfa vitale dell’Egitto non è un mistero, è così da migliaia di anni. Il paese delle piramidi ottiene dal fiume più lungo al mondo circa il 97% della sua acqua e vede nella Gerd – alta 170 metri e lunga 1,8 km, dal costo di 4,5 miliardi di dollari, partecipa alla sua costruzione anche la italiana Impregilo – una minaccia alla propria esistenza. Soprattutto per la velocità con cui Addis Abeba vorrebbe riempirla, un paio di anni al massimo contro i 10-15 che propone il Cairo per continuare ad assicurarsi un flusso adeguato di acqua per i bisogni della sua popolazione di oltre 100 milioni di abitanti che vive quasi interamente lungo le rive del Nilo. Il Sudan è meno preoccupato ma guarda ugualmente con sospetto e timore alle intenzioni degli etiopi che potrebbero danneggiarlo non poco se saranno realizzate unilateralmente. Ma la diga è vitale anche per lo sviluppo dell’Etiopia. Rappresenta il più grande progetto idroelettrico dell’Africa e servirà a distribuire energia elettrica a 70 milioni di etiopi attualmente senza corrente.

Addis Abeba ha perduto l’appoggio di Washington ma pare aver portato dalla sua parte gli ex nemici eritrei che sulla Gerd avevano sempre appoggiato l’Egitto. Durante la sua visita, il 13 ottobre, al sito della diga, il presidente dell’Eritrea Isaias Afwerki ha espresso posizioni oltremodo concilianti. Si vocifera che in cambio del sostegno eritreo al riempimento della Gerd, l’Etiopia darà una mano ad Asmara contro il Fronte di liberazione del popolo del Tigray.

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Francia - Avignone. Se il terrorista è nazista, non fa notizia…

Ieri mattina, la Cattedrale Notre-Dame di Nizza è stata teatro di un attacco terrorista durante il quale un uomo ha aggredito con un coltello diverse persone, causando tre morti e diversi feriti. La Procura Nazionale Anti-Terrorismo ha subito aperto un’indagine per “omicidio in relazione a un atto terroristico” e “associazione criminale terroristica”.

Il Primo Ministro, Jean Castex, ha annunciato all’Assemblée Nationale che il piano di sicurezza Vigipirate è stato elevato al livello di “attacco d’emergenza”, per garantire un’eccezionale mobilitazione di tutte le risorse.

Lo stesso che ci vorrebbe per la sanità pubblica, piegata dalla seconda ondata di contagi...

L’autore dell’attacco è stato arrestato dalla polizia ed è subito partito l’identikit, ripreso da tutti i quotidiani nazionali francesi e poi internazionali. Nella sua conferenza stampa, il procuratore antiterrorismo Jean-François Ricard ha dichiarato che l’attentatore aveva con sé “un documento della Croce Rossa Italiana”, ma che l’uomo era sconosciuto ai servizi di informazione francesi e le sue impronte digitali non erano nello schedario dei ricercati.

Subito i media mainstream hanno cominciato a titolare che “il killer è sbarcato a Lampedusa”, facendo scattare la reazione disperata di Matteo Salvini, in cerca di massima capitalizzazione della circostanza, che ha prontamente affermato di voler chiedere “le dimissioni del Ministro degli Interni Lamorgese, se per l’attentatore di Nizza sono confermati lo sbarco a Lampedusa a settembre, il passaggio da Bari e poi la fuga” in Francia.

Non ci vogliamo soffermare ulteriormente sui tragici fatti di ieri e per quanto riguarda un’analisi della recrudescenza dell’estremismo islamista, specialmente contro la Francia, in relazione alla crisi dei regimi secolaristi alleati dell’Occidente e alle guerre degli USA e dei loro alleati in Medio Oriente, rinviamo all’articolo di Alberto Negri.

Invece, vogliamo riportare un altro fatto, accaduto ad Avignone, sempre nella mattinata di ieri, ritenuto inizialmente collegato all’attacco terrorista di Nizza, ma subito dopo sparito dall’attenzione di quasi tutti i media francesi.

In Italia, alcuni hanno inizialmente riferito di un “doppio attentato”, senza andare alla verifica dei fatti, puntando solo sull’effetto del rimbombo mediatico.

Le prime indiscrezioni parlavano infatti di un altro attacco islamista ad Avignone. Niente di tutto ciò. Secondo le informazioni di Mediapart, e quanto riportato successivamente anche dal quotidiano Le Monde, un uomo di 33 anni è stato ucciso dalla polizia dopo aver minacciato con una pistola un commerciante maghrebino.

L’uomo indossava una giacca blu, con il logo “Defend Europe” del gruppo di estrema destra Génération identitaire, al quale lo stesso assalitore ha affermato di appartenere.

Nell’aprile 2018, equipaggiati con le loro giacche blu “Defend Europe”, i militanti di Génération identitaire avevano bloccato il passo del Col de l’Échelle (Hautes-Alpes) utilizzato dai migranti per giungere in Francia passando per l’Italia.

Questi soggetti fascisti da anni godono di tutto lo spazio di agibilità e visibilità desiderato, senza alcuna ripercussione giudiziaria o amministrativa, confermandosi come sempre al servizio delle logiche dominanti e del potere.

La Procura Nazionale Anti-Terrorismo ha deciso che non intende aprire alcun dossier a riguardo, così come accaduto nel caso dell’attacco alla moschea di Bayonne da parte di un ex candidato del Front National nell’ottobre 2019.

“Abbiamo più a che fare con una persona squilibrata, che sembra vicina all’estrema destra e che ha seguito delle cure psichiatriche. Non ci sono rivendicazioni”, ha detto il procuratore Philippe Guemas. Sarà dunque polizia giudiziaria ad occuparsi del caso.

Le aggressioni e le violenze da parte di individui e gruppi fascisti non sono degne di attenzione nei media mainstream, i quali intendono concentrare l’intera opinione pubblica sugli attacchi dell’integralismo islamico, con l’intento di fomentare l’idea del “nemico” della sicurezza interna e di rafforzare gli appelli alla “unità nazionale” contro la “minaccia islamista”.

E soprattutto guai ad accostare le due notizie: a Nizza, come a Conflans, si è trattato di pericolosi estremisti islamici che vogliono creare e diffondere paura; i fascisti di Génération identitaire, per il governo francese, sono “bravi ragazzi” che ogni tanto “sbroccano”.

Come in Italia, insomma...

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Brancaccio - Non fateli scappare

RAI radio uno, Eresie, 30 ottobre 2020 – Anche il gotha della finanza invoca “libertà!” e chiede alla BCE di abolire il divieto per le banche di distribuire i dividendi e restituire il capitale agli azionisti privati. In pratica, come hanno sempre fatto, i grandi azionisti vogliono prendere i soldi e scappare prima che crolli tutto, scaricando così i costi della crisi sul resto della collettività. Quando decideranno se rimuovere o meno il divieto, Andrea Enria e gli altri membri della vigilanza BCE ricordino che non ci sono soltanto gli interessi del mondo finanziario, c’è anche una collettività sempre più inquieta che osserva e giudica le istituzioni. Il commento dell’economista Emiliano Brancaccio dell’Università del Sannio.


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Gran Bretagna - Jeremy Corbin sospeso dal Labour perché filopalestinese

Un atto vergognoso e inaccettabile. Il Labur Party ha deciso di sospendere l’ex segretario Jeremy Corbyn per “antisemitismo”, un’accusa assurda soprattutto se motivata con la partecipazione di Corbyn a manifestazioni di solidarietà verso il popolo palestinese. Un atto gravissimo e inquietante che conferma il clima maccartista che la lobby sionista e i circoli filosiraeliani stanno diffondendo in Europa.

Jeremy Corbyn ha promesso di combattere la sua sospensione dal Partito Laburista in attesa della sua risposta ad un rapporto sull’antisemitismo riguardante il partito sotto la sua guida. La vergognosa decisione dei vertici del Labour è arrivata in risposta al rifiuto di Corbyn di accettare i risultati della Commissione per l’uguaglianza e i diritti umani e la sua continua insistenza sul fatto che le accuse di antisemitismo erano “drammaticamente esagerate per ragioni politiche”.

Si palesa una profonda spaccatura all’interno del partito, con l’ex cancelliere ombra John McDonnell che ha definito il provvedimento “profondamente sbagliato” e la campagna di sinistra Momentum che ha denunciato “un massiccio attacco a sinistra da parte della nuova leadership”.

Il leader sindacale di Unite Len McCluskey ha chiesto la reintegrazione del suo alleato Corbyn, marchiando la sospensione come “un atto di grave ingiustizia che, se non annullato, creerà il caos all’interno del partito e così facendo comprometterà le possibilità laburiste di una vittoria elettorale generale”.

Il rapporto sulla base del quale il Labour ha sospeso Cirbyn, ha rilevato che sotto la sua leadership, il partito avrebbe infranto la legge violando l’Equality Act che comporta molestie, interferenze politiche nelle denunce di antisemitismo e formazione inadeguata per coloro che si occupano di questi casi.

Il nuovo leader laburista Sir Keir Starmer ha detto che la pubblicazione del rapporto è stata “un giorno di vergogna” per il partito ed ha offerto le proprie scuse alla comunità ebraica. In una conferenza stampa ha affermato che chiunque consideri esagerato il problema dell’antisemitismo è “parte del problema ... e non dovrebbe essere neanche lontanamente vicino al Partito Laburista”.

Starmer inizialmente ha evitato un’azione disciplinare contro il suo predecessore, insistendo sul fatto che il rapporto non aveva rilevato illeciti da parte di individui, ma solo su “un fallimento collettivo di leadership”.

Ma poi ha preso a pretesto una affermazione di Corbyn secondo cui “un antisemita è uno di troppo, ma la portata del problema è stata anche drammaticamente sopravvalutata per ragioni politiche dai nostri oppositori all’interno e all’esterno del partito, come da gran parte dei media".

La destra del Labour ha preso la palla al balzo ed ha annunciato che: “alla luce dei suoi commenti fatti oggi e del suo fallimento nel ritirarli successivamente, il Partito laburista ha sospeso Jeremy Corbyn in attesa delle indagini”.

La decisione del Labour fa il paio con alcune ipotesi in circolazione negli USA e nella stessa Casa Bianca, dove l’amministrazione Trump avrebbe intenzione di inserire nella black list delle organizzazioni antisemite anche ong come Amnesty International, Oxfam e Human Rights Watch.

Un’ombra cupa si sta posando sull’Europa e questa volta non è quella con la camicia nera o bruna.

A Jeremy Corbyn va la nostra piena solidarietà.

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La quarantena della sicurezza sul lavoro

Quella appena passata è stata una giornata nera per quanto riguarda i morti sul lavoro.

Una piaga sociale troppo spesso ridimensionata nel dibattito pubblico, con numeri da capogiro – più di mille morti all’anno solo nell’ultimo decennio – figlia di un menefreghismo (e impunità) padronale, che corrisponde fedelmente al “grado di civiltà” espresso dal “modello occidentale”; quello che produce, per esempio, un’infinità di varianti di spazzolini, ma non è in grado di offrire prospettive di vita degne alla maggioranza dei suoi abitanti.

La varietà e la dislocazione delle ultime tragedie offrono tuttavia un quadro esaustivo della rilevanza e della gravità della questione.

Giovedì 29 ottobre, alla Cifa, una ditta che produce betoniere in provincia di Mantova, un operaio di 45 anni è deceduto schiacciato dalla caduta di un grosso peso mentre operava all’interno dello stabilimento, mansione commissionata da un’impresa esterna alla ditta.

Sempre giovedì, stavolta in provincia di La Spezia, un operaio di 36 anni è morto nel pomeriggio mentre stava lavorando, travolto da un silos in una segheria di marmo dismessa, mentre effettuava operazioni di smantellamento. Anche qui, il contratto era in subappalto.

A Caserta, invece, la tragica sorte è toccata a due ragazzi maliani ventenni privi di documenti, travolti di mattina presto in scooter mentre si recavano sui campi per lavorare – per somma malasorte, da un altro lavoratore, anch’egli in viaggio per raggiungere il luogo di lavoro.

Scendendo fino a Catanzaro, il Covid ha spento invece la vita di un’infermiera che lavorava presso la Brest unit del Pugliese-Ciaccio, segnando il quarantatreesimo decesso nel paese tra gli operatori sanitari a causa del coronavirus. A detta del fratello, l’infermeria avrebbe atteso addirittura nove giorni prima effettuare il tampone!

Contratti in subappalto, lavoratori esternalizzati, sfruttamento della manodopera straniera nella filiera agricola, insufficienze fatali nel sistema sanitario nazionale. Lavoro grigio quando non nero, spesso malpagato, quasi sempre non tutelato.

Tutto questo è emerso con forza nella sola giornata di ieri, nella maniera più terribile, con le vittime di un sistema sociale e produttivo incapace di proteggere i suoi membri.

Nel quadro attuale, se lockdown sarà, questo avviene con grave ritardo rispetto agli sviluppi della seconda ondata, quella che già nella primavera scorsa veniva prospettava da alcuni virologi.

Tuttavia, nel mondo del lavoro, la sicurezza sul posto del lavoro è stata messa in quarantena molti, troppi, anni or sono.

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Scontro di civiltà, all’amo di Erdogan abboccano tutti

di Alberto Negri

Con la febbre da Covid anche la politica internazionale è entrata in terapia intensiva. Il grafico della febbre si è impennato con il duello verbale tra Macron ed Erdogan, allargandosi all’Europa e a tutto il mondo arabo-musulmano.

La febbre potrebbe passare con un’aspirina se in gioco non ci fossero poste geopolitiche importanti, come il controllo del Mediterraneo, delle rotte del gas e del petrolio, delle influenze dal Nord Africa al Caucaso e gli stessi equilibri appena stabiliti dagli accordi di Abramo, la finta pace del mondo arabo con Israele voluta da Trump e dagli emiri del Golfo.

Erdogan questa volta non ha mosso truppe o mercenari jihadisti come ha fatto in Siria, in Libia e in Nagorno Karabakh ma ha mobilitato l’argomento preferito dalle destre americane, europee e musulmane: lo scontro di civiltà. E siccome – come cantava 40 anni fa Franco Battiato in Up patriots to arms – abbocchiamo sempre all’amo, questa volta il “reiss” turco, Sultano della Nato con missili russi e ambizioni neo-ottomane, ha fatto pesca grossa: nella sua rete sono caduti gli Emirati, il Pakistan, il Marocco, l’Arabia Saudita, l’Iran.

Tutti più o meno solidali, con sfumature assai diverse, con l’attacco di Erdogan alla Francia di Macron, compreso il boicottaggio delle merci transalpine. Poi se costoro non compreranno più da Parigi i caccia Rafale, le navi da guerra e le bombe è ancora tutto da vedere.

Ma è evidente che all’amo dobbiamo abboccare soprattutto noi, l’opinione pubblica, quella occidentale e musulmana, infilata dentro a uno scontro in cui tutti hanno da perdere tranne i padroni del vapore, che annaspano nella crisi dovuta alla pandemia e in quelle economiche-finanziarie, quindi hanno bisogno come non mai di distrarci con un duello rusticano sull’asse Parigi-Ankara e magari su quello ancora più ampio tra cristiani e musulmani.

L’importante è che tutto resti nell’ambito dei supermercati. Il Qatar ha annunciato di avere rinviato sine die la settimana della cultura francese, in Kuwait una catena governativa boicotterà i prodotti francesi, in Giordania nei negozi sono apparsi cartelli con il divieto di vendere prodotti transalpini. E in Turchia naturalmente Erdogan ha invitato la popolazione a non stappare più champagne. Vedete bene che l’affare si ingrossa in dimensioni che fanno dimenticare mascherine, tamponi e terapie intensive.

La realtà è ben diversa. Nessuno chiuderà con gli acquisti di armi provenienti da Stati Uniti ed Europa, nessuno penserà neppure per un momento di fermare le fabbriche che in Turchia producono gli elicotteri d’assalto dell’Agusta che vendiamo anche al Pakistan. Come neppure l’Arabia Saudita annullerà l’intesa con la Francia per la costruzione di due centrali nucleari per un valore di 12 miliardi di euro.

Ma Erdogan ha ottenuto un risultato, forse ben calcolato: la sua propaganda anti-francese e anti-occidentale ha costretto persino i suoi nemici come emiratini e sauditi a schierarsi con lui nella «difesa» del mondo musulmano.

Ma Erdogan non è un «mostro». È soltanto un abile manipolatore che gli stessi europei e americani hanno contribuito a tenere in sella, additandolo persino come «modello» per il mondo musulmano. Basti pensare alla Siria.

Quando nel novembre 2011 Bashar Assad sembrava travolto dalla sollevazione anti-baathista, il ministro degli Esteri francese Védrine e il suo collega turco Davutoglu si incontrarono a Iskenderum per decidere come spartirsi l’influenza in Siria nel caso di caduta del rais di Damasco, ed eravamo nel pieno della rottura tra Parigi e Ankara perché la Francia aveva definito come un olocausto il massacro degli armeni.

Entrambi fecero allora un calcolo sbagliato: i francesi lasciarono arrivare in Turchia i jihadisti dalla Francia che servirono a Erdogan, come quelli di molte altre molte nazionalità, a combattere il regime siriano, poi salvato da iraniani e russi. I francesi volevano persino bombardare Damasco nel settembre del 2013. O ce lo siamo dimenticato?

Insomma turchi e francesi erano d’accordo, con ogni mezzo, a defenestrare Assad con il sostegno degli Stati Uniti seguendo la politica dello stay behind del segretario di stato Hillary Clinton, mentre gli stessi francesi, con americani e inglesi, avevano già fatto fuori Gheddafi. Poi americani e francesi si sono tirati indietro, la Francia ha avuto in casa gli attentati jihadisti e tutto è cambiato. Ed Erdogan non deve essersi dimenticato neppure del sostegno occidentale e americano ai Fratelli musulmani al Cairo, prima che venissero eliminati nel 2013 dal colpo di stato del generale Al Sisi.

Insomma abbiamo fatto credere a Erdogan di essere un campione del rinnovamento musulmano durante le primavere arabe e ora non ci possiamo lamentare che si creda il nuovo Sultano. Tanto più che gli abbiamo lasciato massacrare i curdi, alleati contro il Califfato, e appaltato il «lavoro sporco» sui profughi sulle rotte dell’Egeo, nei Balcani e ora anche in Libia. Ma all’esca dello «scontro di civiltà», in tempi duri come questi, siamo tutti pronti da abboccare.

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Il Covid delle “moltitudini”. La situazione in India e Africa

Non se ne parla mai nei tg o nei reportage. Eppure si tratta di porzioni rilevanti del mondo e della popolazione mondiale. Sappiamo quasi tutto della Francia o del Belgio (poco più di settanta milioni di abitanti in due), sappiamo degli Usa (328 milioni), ma non sappiamo o ci fanno sapere nulla della situazione in paesi come l’India (1miliardo e 353milioni) e dell’intero continente africano (più di 1 miliardo e duecento milioni). Nel primo caso stiamo assistendo ad un’impennata dei contagi a causa della priorità affidata all’economia e alle feste religiose, nel secondo si conferma invece un andamento molto più blando sul piano del Covid ma molto più pesante sul piano delle sue conseguenze indirette.

Proprio in questi giorni l’India ha superato gli otto milioni di casi di coronavirus, ed è il secondo paese al mondo, dopo gli Stati Uniti, ad aver superato questa soglia, crescono inoltre i timori di una nuova possibile ondata legata alla stagione delle festività induiste (una appena conclusa, l’altra in arrivo tra quindici giorni).

Hanno riaperto infatti negozi, trasporti, cinema e la vita sembra quasi tornata alla normalità nel Paese. Ma gli esperti hanno avvertito che la mancanza di distanziamento interpersonale e l’uso raro delle mascherine potrebbe portare a un nuovo balzo delle infezioni.

In India i casi sono aumentati di due milioni a luglio e tre milioni a settembre, ma dalla metà del mese scorso il tasso di contagi sembra aver rallentato, scendendo via via dal picco di 97.894 infezioni e 1.275 morti al giorno.

Secondo molti medici indiani, i politici del Paese starebbero anteponendo la paura di scontentare il sentimento religioso del Paese alla salute pubblica.

Il governo non ha infatti imposto restrizioni durante le festività passate (Durga Puja dal 22 al 26 ottobre) e in arrivo (Diwali il 14 novembre prossimo) per non limitare la circolazione economica che solitamente generano. Le due ricorrenze vengono celebrate con riunioni familiari e scambi di regali, facendo aumentare gli acquisti dei consumatori in più settori, vitali per le entrate di molte persone.

Durante le celebrazioni di Durga Puja, i devoti sono soliti radunarsi, anche in gruppi numerosi, e pregare di fronte a rappresentazioni della dea Durga. A tal proposito, il ministro della Salute indiano, Harsh Vardhan, ha raccomandato alla popolazione di mantenere il distanziamento sociale, senza il quale la situazione del Paese potrebbe notevolmente peggiorare, e ha affermato che non vi sia alcun bisogno di radunarsi in gran numero per provare la propria fede religiosa.

Uno tra i ministri dello Stato del Bengala Occidentale, il territorio più colpito dal coronavirus in India, nonché uno tra gli Stati più poveri del Paese, Subrata Mukherjee, ha affermato, invece, che: “Avremo probabilmente più morti di fame che di coronavirus se priviamo dell’opportunità di guadagnare denaro in occasione delle festività la popolazione migrante che dalle campagne si riversa nelle città, in occasione di Durga Puja”. Il ministro ha poi sottolineato che, al momento, data la fine delle operazioni di semina e trapianto nelle risaie, gran parte della popolazione rurale si è ritrovata senza un lavoro e, allo stesso modo, anche i piccoli commercianti stanno aspettando con ansia i guadagni portati dalle festività. Lo Stato del Bengala Occidentale ha deciso di incrementare del 42% rispetto al 2019 le celebrazioni a livello delle comunità per Durga Puja e ha raddoppiato il finanziamento statale ad esse rivolto.

Paradossalmente, la situazione appare diversa in Africa, dove i casi di coronavirus confermati sono 1.707.74. A documentarlo è l’Africa Centres for Disease Control and Prevention (Africa CDC). L’Africa CDC ha comunicato che il bilancio delle vittime legate alla pandemia ha raggiunto quota 41.145. Sono 1.399.238, invece, le persone guarite. I paesi africani più colpiti in termini di numero di casi positivi sono Sudafrica, Egitto, Marocco, Etiopia e Nigeria.

Nonostante l’Africa resti il continente meno colpito dalla pandemia – sono 1 milione e 700mila i casi di Covid e circa 40mila i morti registrati – crescono molto altre difficoltà, non solo dal punto di vista sanitario, nei Paesi colpiti dal virus.

Il paradosso di un basso numero di contagi registrati in Africa, lo spiega a Vatican News il dottor Giovanni Putoto, responsabile di Programmazione delle emergenze per Medici con l’Africa (Cuamm): “In Africa, in questo momento, c’è una scarsa disponibilità di capacità diagnostiche, quindi un numero di tamponi non elevato. Inoltre, la classifica dei decessi non poggia su sistemi anagrafici simili a quelli di altri Paesi, quindi molte persone muoiono nell’oblio. Ci sono probabilmente anche altri motivi che spiegano il ridotto impatto diretto dell’epidemia. Uno è l’età mediana della popolazione, intorno ai 20 anni. C’è poi la dispersione della popolazione rurale, che rappresenta la maggioranza della popolazione africana e che agisce come barriera geografica al virus. La terza ragione potrebbe essere anche un intervento delle capacità immunitarie della popolazione, sia in termini di immunità innata, che acquisita”. Ma questi, per il medico di Cuamm, sono solo gli aspetti più superficiali dell’epidemia, che in realtà sta avendo affetti indiretti più gravi.

A preoccupare Cuamm sono, dunque, gli effetti secondari della diffusione del Covid-19, che si stanno dimostrando più letali del virus. “Da un lato – dice ancora il dottor Putoto – abbiamo una popolazione spaventata dal virus, le donne non vanno a partorire nelle strutture sanitarie e non portano i bambini a vaccinarsi, ci sono crisi di approvvigionamento di farmaci per pazienti affetti da tubercolosi, malaria e malattie croniche come il diabete”. Questo crollo degli ingressi nelle strutture sanitarie, sottolinea ancora il medico, aumenta quella che viene definita “mortalità evitabile”. Tali difficoltà, poi, si aggiungono alla situazione economica alla base in Africa, con l’assenza dei sussidi e aiuti economici alla popolazione. Ecco che a pagare il prezzo più alto, in termini sociali, economici e di riflesso sulla salute, è proprio l’Africa sub-sahariana.

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