I Pixies hanno
rappresentato una delle esperienze più influenti della scena alternative rock
a stelle e strisce. Dalla loro originale mistura di garage-rock, hardcore e
power-pop hanno palesemente attinto i
Nirvana, come
ammesso dallo stesso Kurt Cobain ("Stavo cercando di scrivere per i Nirvana la
canzone pop definitiva, ma in realtà devo ammettere che stavo derubando i
Pixies; abbiamo usato il loro stesso tipo di dinamica sonora: prima morbidi e
tranquilli, poi rumorosi e duri"), ma anche svariate altre formazioni del
decennio successivo (e non solo). E le loro composizioni, solo apparentemente
lineari, hanno segnato un significativo passo avanti nell'uso della
forma-canzone nella storia del rock.
Nati nel 1986 a Porto Rico
dall'incontro tra il cantante Black Francis (alias Charles Thompson) e il
chitarrista Joey Santiago, i Pixies si formano definitivamente a Boston, dove
al duo originario si uniscono la talentuosa Kim Deal e l'amico batterista,
David Lovering. Il peculiare noise-pop ("due terzi rumore, un terzo pop") del
quartetto è appena abbozzato nell'Ep d'esordio "Come On Pilgrim", pubblicato
per la 4AD.
Ma è il 1988 l'anno della definitiva consacrazione con
"Surfer Rosa", prodotto da un mago degli studios come Steve Albini, qui ancora
alle prime armi. Il geniale produttore - che quattro anni dopo avrebbe formato
gli Shellac -
aggiunge alcune brillanti intuizioni al materiale del gruppo, applicando
filtri alle voci ed effettuando registrazioni in location non convenzionali,
all'insegna di uno spirito irriverente e icastico perfettamente in linea con
la filosofia di Black e compagni. Nel complesso, l'approccio live in the room
di Albini amplifica l'esuberanza naif del gruppo, donandole un tocco più duro
e muscolare, ma al tempo stesso ne rifinisce e ridefinisce i contorni.
Ciò
che esce dagli altoparlanti gracchianti degli studi Q Division di Boston è
un'autentica bomba sonora: un magma sonoro palpitante, eccentrico, acido,
nevrotico, pervaso da un'inesauribile energia. Tutto è in primo piano: le
melodie vocali, le linee di chitarra, le contromelodie del basso, e anche gli
hook restano evidenti, nonostante tutta la ferocia di un caos strumentale,
guidato dalle chitarre di Joey Santiago.
I riferimenti sono tra i
più vari: le pantomime nevrotiche dei
Pere Ubu, la
frenesia esagitata dei
Violent Femmes, le cavalcate elettriche di
Neil Young, ma
anche i raga lisergici dei
Velvet Underground
e il rock abrasivo degli
Stooges e del
primo
David Bowie. Un background vastissimo, frullato e condensato in canzoni acide e
violente, nelle quali, tuttavia, è sempre riconoscibile un nucleo melodico,
con tanto di ritornelli a presa rapida.
Il garage-rock è
l'architrave sonora, la direttrice principale di "Surfer Rosa", ma tutto è
stravolto in un susseguirsi di riff distorti e ritmi sincopati, ritornelli
contagiosi e urla isteriche. Una sequenza di brani brevi (anche di un minuto e
mezzo) scherzosi, taglienti, epici e paradossali, che mettono ko già al primo
ascolto, grazie a una freschezza irresistibile e a una sezione ritmica
massiccia e tumultuosa. In questo, non si può non cogliere l'impronta dei
maestri Clash.
Ad aggiungere un tocco di stravaganza in più a una pietanza già così
pepata, i testi surreali, cantati talvolta in gergo "Spanglish". In questa
occasione, la scrittura di Francis appare sinistramente ossessionata da tabù,
incesto e violenze sessuali (“Bone Machine”, “Break My Body”, “Gigantic”), con
immagini e metafore influenzate anche - a suo dire - dalla simbologia
cristiana che ha segnato la sua formazione.
Si parte subito
fortissimo con "Bone Machine", feroce incursione tra dissonanze ed effetti
ossessivi, con il suo attacco di batteria e la strofa ben cadenzati, che si
stemperano in un refrain al ralenti, scandito da un basso pulsante e dai cori,
con le voci che farfugliano desolate “Your bones got a little machine”, per
celare l'angoscia di una storiaccia di molestie in un parcheggio.
Ma
la tensione, nei Pixies, degenera spesso in parodia, se non in puro delirio.
Basti pensare a due gag farneticanti come "River Euphrates" - trip psicotico
in Medio Oriente ("Stuck here out of gas/ Out here on the Gaza Strip") a tempo
di boogie, con il canto appena sussurrato di Kim - e la demenziale "Oh My
Golly" in spanglish, strimpellata da una chitarra acustica folk-rock alla
Violent Femmes, che sfocia nello sconcertante monito finale di Black: "She said don't
touch-anybody touch, this is my stuff/ And I said you fucking die".
La foga si fa sempre più esagitata. "Break My Body" è
un'irresistibile esplosione di due minuti di chitarra lacerante e di una voce
ruvida sputata nel microfono senza filtri, per narrare un'altra storia di
violenza (reale o metaforica). L'incedere forsennato e quasi ska di "Something
Against You" cela un'altra metamorfosi in corsa, con la canzone che parte
quasi melodica e rapidamente deflagra in un'orgia di chitarre garage e urla
distorte stile
Husker Du.
"Broken Face" pare quasi un omaggio agli anni ruggenti del punk,
con i falsetti nevrastenici di Francis a emulare
Johnny Rotten. Il voodoobilly deviato della fumettistica "Tony's Theme" suggella il più
improbabile ritratto di supereroe della storia del rock, mentre nel mantra
"pow-wow" di "Cactus" (con il riff di "Groover" dei
T. Rex) la chitarra ritmica di Santiago e il drumming di Lovering imbastiscono
un'andatura sfibrata e alienante che lascia attoniti (ne realizzerà una
imprevedibile cover
David Bowie
sul suo "Heathen", 2002).
È una Kim Deal ispiratissima nei panni di "songwriter" a
firmare invece la ballata solenne di "Gigantic", uno dei vertici pop
dell'album nonché l'unica traccia cantata interamente dalla futura chitarrista
e voce principale delle
Breeders: su una
semplice linea di basso, irrobustita dalla batteria, si innestano le chitarre,
mentre la litania di Mrs. John Murphy cesella una delicata linea melodica su
un vortice di distorsioni. Epica e sensuale fin dall'incipit ("And this I
know, his teeth as white as snow"), seppur col minimo degli orpelli.
Ma
l'inno più travolgente del disco è naturalmente la sempiterna hit "Where Is My
Mind", ispirata a Francis dalle immersioni subacquee nei Caraibi: una melodia
acida, un giro di chitarra da cardiopalmo, un ritmo inesorabile e un testo
surreale concorrono a comporre una rock-song praticamente perfetta, destinata
a diventare il cavallo di battaglia della band. Da ricordare anche la curiosa
intuizione di Albini, che fece registrare gli “ooh-ooh” di Deal che connotano
il brano dentro a un bagno (!), aumentando l'effetto straniante di quei suoni
pop-rock in accordi maggiori dall'incedere bislacco e trasognato. “Ad Albini
non piaceva il suono dello studio, quindi hanno preso tutti i Marshall e tutti
i cavi e li hanno portati in questo bagno che era completamente fatto di
cemento, ed è da lì che esce il suono dell'eco. Non voleva usare l'eco da
studio, voleva usare l'eco reale", racconterà Kim.
Pochi brani sono
riusciti a diventare iconici e classici per ogni stagione musicale come "Where
Is My Mind". Ne è la riprova anche la sfilza di cover (da quella dei
Placebo ai
campionamenti di
M.I.A.) e la teoria
infinita di colonne sonore che l'hanno inclusa o riciclata, dall'ultima scena
del cult-movie "Fight Club" di David Fincher alla versione-piano del thriller
italiano "The Nest" e della serie di Damon Lindelof "The Leftovers".
In un contesto
così eterogeneo, possono risultare azzeccate anche le cosiddette "interazioni"
presenti tra i solchi dell'album, come quella dell'ipnotica "Vamos" - lunga
conversazione fra Black Francis e Kim Deal inframezzata dalle scosse
elettriche della chitarra di Joey Santiago - o quella che precede l'attacco
della blueseggiante "I'm Amazed", con Francis che scoppia a ridere durante un
monologo della bassista.
A conclusione della tracklist, giunge la
più pacata "Brick Is Red", impreziosita da tremolanti fraseggi melodici di
chitarre, quasi a voler rasserenare il congedo da questa allucinazione
collettiva. Anche se in realtà l'intero album è un'esaltazione del concetto di
“quiet and loud”, sviluppata attraverso una costante altalena emotiva tra
noise e pop, nella quale c'è anche chi ha intravisto analogie con
l'altrettanto pionieristica operazione compiuta dai
Led Zeppelin
delle varie "Babe I’m Gonna Leave You", "Ramble On", "No Quarter" etc. (cfr.
Michael Hann,
The Quietus).
Nella versione europea dell'album, sarà aggiunta una traccia
importante come "Caribou" (tratta dal precedente Ep "Come On Pilgrim"), con la
sua andatura caracollante a oscillare tra le asprezze del punk e le sfumature
lisergiche della psichedelia.
Realizzato con un budget di soli
10.000 dollari messo a disposizione dalla 4AD di uno scettico Ivo
Watts-Russell e griffato da una conturbante copertina in bianco e nero con una
ballerina di flamenco in topless davanti a una tenda strappata e a un
crocifisso, "Surfer Rosa" è un'opera sorprendente, dalle infinite
sfaccettature e sfumature. Pochi altri album sono riusciti a comprimere in
ritornelli power-pop questa palpitante tensione di fondo, a vestire di forme
melodiche il fervore allucinato e la violenza brada dell'hardcore.
Grazie a questa prodezza (e al successivo "Doolittle"), i Pixies
hanno coniato un nuovo linguaggio rock, destinato a diventare, insieme a
quello dei
Sonic Youth, una gigantesca miniera di idee per tutti i gruppi della scena "alternative"
degli anni Novanta. Grazie a loro, l'energia primitiva del garage-rock è stata
rielaborata in chiave postmoderna, con un dosato miscuglio di eccentricità
intellettuale e alienazione metropolitana, esuberanza da teenager e lirismo
epico, anarchia latina e humour tipicamente anglosassone.
"Surfer
Rosa" sfonderà nelle college-radio americane, raggiungerà il primo posto delle
classifiche indipendenti britanniche e sarà celebrato dalla critica come uno
degli ultimi capolavori del "post-punk" o come il manifesto di un nuovo
"art-punk".
Paradossale che sia stato proprio il suo produttore Steve
Albini a zavorrarlo subito dopo la sua uscita con parole ben poco lusinghiere,
definendolo "il polpettone di una band che al massimo delle sue possibilità sa
fare del divertente college-rock". Salvo poi cambiare idea qualche anno dopo,
come conferma anche
questa intervista
per il trentennale del disco.
Ma non sarà l'unico ostacolo sulla
strada di "Surfer Rosa", che resterà spesso sospeso in una pericolosa via di
mezzo: troppo oltranzista per i puristi del rock, troppo pop e conservatore
per i fanatici delle dissonanze underground. E in tante occasioni, negli anni
successivi, saranno altri a prendersi gli elogi al posto dei bostoniani,
attingendo impunemente alla loro spiazzante babele rock.
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