Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

21/10/2020

Pixies - 1988 - Surfer Rosa

I Pixies hanno rappresentato una delle esperienze più influenti della scena alternative rock a stelle e strisce. Dalla loro originale mistura di garage-rock, hardcore e power-pop hanno palesemente attinto i Nirvana, come ammesso dallo stesso Kurt Cobain ("Stavo cercando di scrivere per i Nirvana la canzone pop definitiva, ma in realtà devo ammettere che stavo derubando i Pixies; abbiamo usato il loro stesso tipo di dinamica sonora: prima morbidi e tranquilli, poi rumorosi e duri"), ma anche svariate altre formazioni del decennio successivo (e non solo). E le loro composizioni, solo apparentemente lineari, hanno segnato un significativo passo avanti nell'uso della forma-canzone nella storia del rock.

Nati nel 1986 a Porto Rico dall'incontro tra il cantante Black Francis (alias Charles Thompson) e il chitarrista Joey Santiago, i Pixies si formano definitivamente a Boston, dove al duo originario si uniscono la talentuosa Kim Deal e l'amico batterista, David Lovering. Il peculiare noise-pop ("due terzi rumore, un terzo pop") del quartetto è appena abbozzato nell'Ep d'esordio "Come On Pilgrim", pubblicato per la 4AD.

Ma è il 1988 l'anno della definitiva consacrazione con "Surfer Rosa", prodotto da un mago degli studios come Steve Albini, qui ancora alle prime armi. Il geniale produttore - che quattro anni dopo avrebbe formato gli Shellac - aggiunge alcune brillanti intuizioni al materiale del gruppo, applicando filtri alle voci ed effettuando registrazioni in location non convenzionali, all'insegna di uno spirito irriverente e icastico perfettamente in linea con la filosofia di Black e compagni. Nel complesso, l'approccio live in the room di Albini amplifica l'esuberanza naif del gruppo, donandole un tocco più duro e muscolare, ma al tempo stesso ne rifinisce e ridefinisce i contorni.

Ciò che esce dagli altoparlanti gracchianti degli studi Q Division di Boston è un'autentica bomba sonora: un magma sonoro palpitante, eccentrico, acido, nevrotico, pervaso da un'inesauribile energia. Tutto è in primo piano: le melodie vocali, le linee di chitarra, le contromelodie del basso, e anche gli hook restano evidenti, nonostante tutta la ferocia di un caos strumentale, guidato dalle chitarre di Joey Santiago.

I riferimenti sono tra i più vari: le pantomime nevrotiche dei Pere Ubu, la frenesia esagitata dei Violent Femmes, le cavalcate elettriche di Neil Young, ma anche i raga lisergici dei Velvet Underground e il rock abrasivo degli Stooges e del primo David Bowie. Un background vastissimo, frullato e condensato in canzoni acide e violente, nelle quali, tuttavia, è sempre riconoscibile un nucleo melodico, con tanto di ritornelli a presa rapida.

Il garage-rock è l'architrave sonora, la direttrice principale di "Surfer Rosa", ma tutto è stravolto in un susseguirsi di riff distorti e ritmi sincopati, ritornelli contagiosi e urla isteriche. Una sequenza di brani brevi (anche di un minuto e mezzo) scherzosi, taglienti, epici e paradossali, che mettono ko già al primo ascolto, grazie a una freschezza irresistibile e a una sezione ritmica massiccia e tumultuosa. In questo, non si può non cogliere l'impronta dei maestri Clash.

Ad aggiungere un tocco di stravaganza in più a una pietanza già così pepata, i testi surreali, cantati talvolta in gergo "Spanglish". In questa occasione, la scrittura di Francis appare sinistramente ossessionata da tabù, incesto e violenze sessuali (“Bone Machine”, “Break My Body”, “Gigantic”), con immagini e metafore influenzate anche - a suo dire - dalla simbologia cristiana che ha segnato la sua formazione.

Si parte subito fortissimo con "Bone Machine", feroce incursione tra dissonanze ed effetti ossessivi, con il suo attacco di batteria e la strofa ben cadenzati, che si stemperano in un refrain al ralenti, scandito da un basso pulsante e dai cori, con le voci che farfugliano desolate “Your bones got a little machine”, per celare l'angoscia di una storiaccia di molestie in un parcheggio.

Ma la tensione, nei Pixies, degenera spesso in parodia, se non in puro delirio. Basti pensare a due gag farneticanti come "River Euphrates" - trip psicotico in Medio Oriente ("Stuck here out of gas/ Out here on the Gaza Strip") a tempo di boogie, con il canto appena sussurrato di Kim - e la demenziale "Oh My Golly" in spanglish, strimpellata da una chitarra acustica folk-rock alla Violent Femmes, che sfocia nello sconcertante monito finale di Black: "She said don't touch-anybody touch, this is my stuff/ And I said you fucking die".

La foga si fa sempre più esagitata. "Break My Body" è un'irresistibile esplosione di due minuti di chitarra lacerante e di una voce ruvida sputata nel microfono senza filtri, per narrare un'altra storia di violenza (reale o metaforica). L'incedere forsennato e quasi ska di "Something Against You" cela un'altra metamorfosi in corsa, con la canzone che parte quasi melodica e rapidamente deflagra in un'orgia di chitarre garage e urla distorte stile Husker Du.

"Broken Face" pare quasi un omaggio agli anni ruggenti del punk, con i falsetti nevrastenici di Francis a emulare Johnny Rotten. Il voodoobilly deviato della fumettistica "Tony's Theme" suggella il più improbabile ritratto di supereroe della storia del rock, mentre nel mantra "pow-wow" di "Cactus" (con il riff di "Groover" dei T. Rex) la chitarra ritmica di Santiago e il drumming di Lovering imbastiscono un'andatura sfibrata e alienante che lascia attoniti (ne realizzerà una imprevedibile cover David Bowie sul suo "Heathen", 2002).

È una Kim Deal ispiratissima nei panni di "songwriter" a firmare invece la ballata solenne di "Gigantic", uno dei vertici pop dell'album nonché l'unica traccia cantata interamente dalla futura chitarrista e voce principale delle Breeders: su una semplice linea di basso, irrobustita dalla batteria, si innestano le chitarre, mentre la litania di Mrs. John Murphy cesella una delicata linea melodica su un vortice di distorsioni. Epica e sensuale fin dall'incipit ("And this I know, his teeth as white as snow"), seppur col minimo degli orpelli.

Ma l'inno più travolgente del disco è naturalmente la sempiterna hit "Where Is My Mind", ispirata a Francis dalle immersioni subacquee nei Caraibi: una melodia acida, un giro di chitarra da cardiopalmo, un ritmo inesorabile e un testo surreale concorrono a comporre una rock-song praticamente perfetta, destinata a diventare il cavallo di battaglia della band. Da ricordare anche la curiosa intuizione di Albini, che fece registrare gli “ooh-ooh” di Deal che connotano il brano dentro a un bagno (!), aumentando l'effetto straniante di quei suoni pop-rock in accordi maggiori dall'incedere bislacco e trasognato. “Ad Albini non piaceva il suono dello studio, quindi hanno preso tutti i Marshall e tutti i cavi e li hanno portati in questo bagno che era completamente fatto di cemento, ed è da lì che esce il suono dell'eco. Non voleva usare l'eco da studio, voleva usare l'eco reale", racconterà Kim.

Pochi brani sono riusciti a diventare iconici e classici per ogni stagione musicale come "Where Is My Mind". Ne è la riprova anche la sfilza di cover (da quella dei Placebo ai campionamenti di M.I.A.) e la teoria infinita di colonne sonore che l'hanno inclusa o riciclata, dall'ultima scena del cult-movie "Fight Club" di David Fincher alla versione-piano del thriller italiano "The Nest" e della serie di Damon Lindelof "The Leftovers".

In un contesto così eterogeneo, possono risultare azzeccate anche le cosiddette "interazioni" presenti tra i solchi dell'album, come quella dell'ipnotica "Vamos" - lunga conversazione fra Black Francis e Kim Deal inframezzata dalle scosse elettriche della chitarra di Joey Santiago - o quella che precede l'attacco della blueseggiante "I'm Amazed", con Francis che scoppia a ridere durante un monologo della bassista.

A conclusione della tracklist, giunge la più pacata "Brick Is Red", impreziosita da tremolanti fraseggi melodici di chitarre, quasi a voler rasserenare il congedo da questa allucinazione collettiva. Anche se in realtà l'intero album è un'esaltazione del concetto di “quiet and loud”, sviluppata attraverso una costante altalena emotiva tra noise e pop, nella quale c'è anche chi ha intravisto analogie con l'altrettanto pionieristica operazione compiuta dai Led Zeppelin delle varie "Babe I’m Gonna Leave You", "Ramble On", "No Quarter" etc. (cfr. Michael Hann, The Quietus).

Nella versione europea dell'album, sarà aggiunta una traccia importante come "Caribou" (tratta dal precedente Ep "Come On Pilgrim"), con la sua andatura caracollante a oscillare tra le asprezze del punk e le sfumature lisergiche della psichedelia.

Realizzato con un budget di soli 10.000 dollari messo a disposizione dalla 4AD di uno scettico Ivo Watts-Russell e griffato da una conturbante copertina in bianco e nero con una ballerina di flamenco in topless davanti a una tenda strappata e a un crocifisso, "Surfer Rosa" è un'opera sorprendente, dalle infinite sfaccettature e sfumature. Pochi altri album sono riusciti a comprimere in ritornelli power-pop questa palpitante tensione di fondo, a vestire di forme melodiche il fervore allucinato e la violenza brada dell'hardcore.

Grazie a questa prodezza (e al successivo "Doolittle"), i Pixies hanno coniato un nuovo linguaggio rock, destinato a diventare, insieme a quello dei Sonic Youth, una gigantesca miniera di idee per tutti i gruppi della scena "alternative" degli anni Novanta. Grazie a loro, l'energia primitiva del garage-rock è stata rielaborata in chiave postmoderna, con un dosato miscuglio di eccentricità intellettuale e alienazione metropolitana, esuberanza da teenager e lirismo epico, anarchia latina e humour tipicamente anglosassone.

"Surfer Rosa" sfonderà nelle college-radio americane, raggiungerà il primo posto delle classifiche indipendenti britanniche e sarà celebrato dalla critica come uno degli ultimi capolavori del "post-punk" o come il manifesto di un nuovo "art-punk".
Paradossale che sia stato proprio il suo produttore Steve Albini a zavorrarlo subito dopo la sua uscita con parole ben poco lusinghiere, definendolo "il polpettone di una band che al massimo delle sue possibilità sa fare del divertente college-rock". Salvo poi cambiare idea qualche anno dopo, come conferma anche questa intervista per il trentennale del disco.

Ma non sarà l'unico ostacolo sulla strada di "Surfer Rosa", che resterà spesso sospeso in una pericolosa via di mezzo: troppo oltranzista per i puristi del rock, troppo pop e conservatore per i fanatici delle dissonanze underground. E in tante occasioni, negli anni successivi, saranno altri a prendersi gli elogi al posto dei bostoniani, attingendo impunemente alla loro spiazzante babele rock.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento