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28/02/2013

Beppe Grillo, i media e le «reti di fiducia»

Il fatto che Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle rifiutassero la stampa ieri a San Giovanni per il trionfo romano, è stato stigmatizzato in tutte le salse. Nella migliore delle ipotesi è stato considerato poco democratico, nella peggiore è stato dato loro del fascista. Da critico di Grillo non solo non condivido tali accuse ma ritengo indispensabile dire la mia in merito.

1) I media mainstream, quelli italiani nel 99% dei casi, rappresentano plasticamente quello che Noam Chomsky chiama «la fabbrica del consenso» e vivono in osmosi con il mondo politico e le classi dirigenti. Per compiere il loro lavoro di squadrismo mediatico (basti pensare a quello che hanno fatto con i movimenti, a Genova, con i NoTav o, allargando il campo, con la sistematica diffamazione dei governi progressisti latinoamericani) credono di poter demonizzare sistematicamente personaggi, movimenti, sistemi culturali per poi pretendere, con un cinismo senza pari, che chi hanno messo alla berlina fino a 30 secondi prima debba subito dopo comportarsi con fair play nei loro confronti. Non funziona così. Non stringerò la mano a chi mi avrà riempito di calci per tutta la partita o colpito sistematicamente sotto la cintura, con l’arbitro che fa finta di non vedere. Non siete neutrali, non siete più il quarto potere, la spina dorsale della democrazia, siete i tutori di un sistema informativo oligopolico chiuso a riccio nella difesa di un sistema di privilegi. Se giocate sporco nei miei confronti - ha detto Grillo - non è scritto da nessuna parte che debba porgere l’altra guancia anche e soprattutto perché con le nuove tecnologie - ed è il secondo punto - siamo usciti dalla dittatura mediatica per la quale o sono vostro sodale o siete in grado di condannarmi al silenzio. La società, la democrazia, l’opinione pubblica non può fare a meno di comunicare ma, oggi, può fare a meno di voi.

2) Quando l’11 marzo 2004 l’intero complesso mediatico spagnolo, destra e sinistra unite nella lotta, collaborarono a diffondere la menzogna di José María Aznar, che aveva interesse a raccontare che gli attentati di Madrid fossero stati commessi dall’ETA invece che da Al Qaeda, i cittadini si ribellarono ribaltando il risultato delle elezioni politiche della domenica successiva. Lo fecero con i «media personali di comunicazione di massa», utilizzando Internet, i blog, le reti sociali per informarsi, ma soprattutto facendo rete con il più diffuso e semplice di tali media, il telefonino. Lo fecero, secondo Manuel Castells, attivando quelle «reti di fiducia» per le quali «se io mando un SMS a dieci persone e ognuno di loro lo gira a dieci amici, nel giro di pochi minuti potremmo avere lo stesso o addirittura più impatto di quanto ne può avere la televisione perché tali reti sono selettive, si dirigono a persone che si conoscono». Rispetto alla pretesa dei disinformatori di professione di orientare a loro fini l’opinione pubblica, i cittadini spagnoli furono in grado di replicare spostando in poche ore il voto del 21% degli elettori sdegnati dalla manipolazione del governo e della stampa. Quella dell’11-14 marzo 2004, continua Castells «è stata una specie di rivolta etica che ha sorpreso tutti, inclusi gli stessi media. Non è stata una rivolta contro un partito o a favore di un altro. È stata una rivolta per la verità e contro la menzogna».

Quando vengono toccati i loro interessi i media tradizionali aggrediscono con la logica del branco il nemico accerchiandolo e colpendolo tutti insieme. Pensano che il loro grande potere sia tuttora in grado di ridurre al silenzio chiunque. Pensano di non essere il filtro tra notizia e opinione pubblica ma ritengono di incarnare essi stessi l’opinione pubblica. Demonizzano Grillo, reo di voler eliminare i contributi pubblici ai media commerciali, come demonizzano la Legge dei media di Cristina Fernández in Argentina, rea di voler disegnare un futuro nel quale diverse istanze sociali, e non solo le corporazioni commerciali, abbiano spazi di comunicazione e possibilità di disegnare una società meno dominata dal mercato. La «fabbrica del consenso» aggredisce, diffama, schiaccia chi tocca i suoi privilegi per renderlo in condizione di non nuocere. Ma le «reti di fiducia» dei cittadini organizzati, in grado di agire contemporaneamente da recettori critici d’informazione e diffusori, sono già oggi un potere altrettanto grande.

La cyber guerra tra Usa e Cina

La crescente rivalità tra la Cina e gli Stati Uniti si è da tempo allargata fino ad includere svariate operazioni di pirateria informatica condotte da entrambe le parti. Le accuse rivolte negli ultimi giorni dalle autorità americane al governo di Pechino hanno segnato però una netta escalation del confronto tra le due più grandi economie del pianeta, i cui rapporti sono già caratterizzati da tensioni sempre più marcate a causa della rinvigorita aggressività statunitense nel continente asiatico.

Ad aumentare le pressioni sulla Cina avevano inizialmente contribuito a fine gennaio le rivelazioni del New York Times, secondo il quale degli hacker cinesi si erano più volte introdotti nel sistema informatico del noto giornale americano. Subito dopo, identiche violazioni erano state denunciate anche dal Washington Post e dal Wall Street Journal, scatenando un coro di richieste indirizzate verso la Casa Bianca per adottare iniziative più incisive per contrastare il cyber-crimine internazionale di matrice cinese.

Lo stesso New York Times, qualche giorno fa, ha poi rincarato la dose, pubblicando un lungo articolo nel quale vengono presentate dubbie prove di operazioni di hackeraggio ai danni di aziende private e di uffici governativi americani, messe in atto da una struttura legata direttamente alle forze armate cinesi.

L’indagine del Times è il risultato del lavoro della compagnia americana Mandiant che si occupa di sicurezza informatica sia per il settore privato che per il governo. Nel rapporto di 60 pagine su cui si basano le accuse alla Cina vengono analizzati 141 attacchi informatici ai danni degli Stati Uniti a partire dal 2006, tutti attribuiti allo stesso gruppo di hacker, conosciuto negli USA con il nome di “Comment Crew” o “Shanghai Group”.

Utilizzando verosimilmente gli stessi metodi di quest’ultimo, i tecnici di Mandiant hanno individuato in maniera approssimativa la provenienza dei cyber-attacchi, partiti quasi interamente da una località che si trova in un quartiere nell’area di Pudong, alla periferia di Shanghai.

Qui si troverebbe un edificio che ospita l’Unità 61398 dell’Esercito Popolare di Liberazione, cioè le forze armate cinesi, il cui operato rimane avvolto nel mistero e forse anche per questo indicato con quasi assoluta certezza dal Times e dal rapporto di Mandiant come responsabile delle intrusioni nei sistemi informatici americani. Lo stesso giornale, tuttavia, afferma chiaramente come Mandiant non sia stata in grado di localizzare esattamente la provenienza degli attacchi.

Secondo quanto affermato dall’amministratore delegato di Mandiant, Kevin Mandia, o i cyber-attacchi hanno avuto origine “dall’Unità 61398 oppure le persone che gestiscono le reti internet più controllate e monitorate del mondo [il governo e i vertici militari cinesi] non sono a conoscenza dell’esistenza di centinaia di hacker in questo quartiere”.

In realtà, le parole del consulente informatico del New York Times rivelano la mancanza di prove indiscutibili delle responsabilità dell’esercito cinese, come ha successivamente confermato alla testata Christian Science Monitor anche un esperto di sicurezza informatica della compagnia Dell Secureworks. Secondo quest’ultimo, “ancora non ci sono prove schiaccianti” che le attività di hackeraggio in questione abbiano avuto origine dall’edificio che ospita l’Unità 61398, dal momento che quanto è stato messo assieme da Mandiant sono solo “una serie di coincidenze che puntano in questa direzione”.

Da parte sua, il governo cinese ha risposto duramente alle accuse, affermando che esse “mancano di prove certe” e, soprattutto, facendo notare come gli indirizzi dei provider rintracciati da Mandiant non forniscano indicazioni precise circa l’origine degli attacchi, visto che gli hacker se ne appropriano frequentemente per non essere localizzati. Il Ministero degli Esteri di Pechino, inoltre, ha ricordato che i sistemi informatici cinesi sono il costante bersaglio degli hacker, gran parte dei quali operano negli Stati Uniti.

Un editoriale pubblicato mercoledì dell’agenzia di stampa cinese Xinhua ha poi accusato la compagnia Mandiant di volere soltanto promuovere i propri interessi commerciali, accennando anche alla possibilità che “politici e uomini d’affari americani stiano come al solito cercando di utilizzare la Cina per perseguire i propri interessi personali, specialmente in un momento in cui il Congresso USA sta per approvare il bilancio del prossimo anno fiscale”.

I motivi principali dietro a questa nuova polemica scatenata dagli Stati Uniti sono infatti da ricercare principalmente nell’atteggiamento sempre più bellicoso dell’amministrazione Obama nei confronti della Cina e, in secondo luogo, nel tentativo di sfruttare le minacce tecnologiche provenienti da paesi ostili per rafforzare il controllo sulle comunicazioni web e fornire alle agenzie governative preposte strumenti più incisivi per lanciare eventuali cyber-attacchi contro i propri nemici.

Come era ampiamente prevedibile, subito dopo l’articolo del New York Times, la Casa Bianca ha annunciato una serie di iniziative per contrastare la presunta cyber-guerra scatenata dalla Cina. Le misure che sarebbero in preparazione vanno dalle pressioni diplomatiche su Pechino a nuove e più severe leggi per punire i colpevoli degli attacchi informatici, ma anche sanzioni e restrizioni in ambito commerciale.

Questo nuovo fronte della campagna anti-cinese era già stato preannunciato dallo stesso presidente Obama la scorsa settimana durante il suo discorso sullo stato dell’Unione, nel quale aveva fatto insolitamente riferimento proprio alla minaccia di sabotaggio a cui i sistemi informatici dei settori nevralgici dell’economia e della sicurezza USA sarebbero esposti.

In precedenza, Obama aveva invece firmato un decreto esecutivo per consentire ai militari di condurre attacchi informatici per prevenire possibili minacce contro gli Stati Uniti, ovviamente ridefinendoli come “operazioni difensive”, mentre il Pentagono aveva approvato un sensibile aumento del personale da impiegare nel proprio comando deputato alle operazioni informatiche.

Uno dei più recenti esempi della propaganda di Washington in questo ambito è stato infine registrato mercoledì, quando alla Casa Bianca è stata organizzata una speciale conferenza sul cyber-crimine che ha avuto al centro dell’attenzione le attività degli hacker cinesi, secondo il governo impegnati, con il sostegno delle autorità di Pechino, ad infiltrare le corporation americane per rubare preziose informazioni commerciali, ma anche a violare i sistemi informatici di agenzie federali e delle compagnie che gestiscono i servizi pubblici.

Dai commenti apparsi in questi giorni sui media “mainstream” d’oltreoceano e dalle dichiarazioni allarmate di politici e top manager americani è rimasta invece puntualmente fuori qualsiasi critica delle stesse attività di guerra tecnologica condotte in maniera del tutto illegale dal governo di Washington.

Solo per citare una delle operazioni più note tra le pochissime diventate di dominio pubblico, gli Stati Uniti, in collaborazione con Israele, nel 2010 infiltrarono un’installazione nucleare iraniana con il malware successivamente denominato “Stuxnet”, distruggendo centinaia di centrifughe usate per l’arricchimento dell’uranio.

Questa iniziativa, da considerare un vero e proprio atto di guerra secondo i parametri dello stesso governo americano e, oltretutto, accompagnata da una campagna di assassini di scienziati nucleari in territorio iraniano, non ha rappresentato peraltro un episodio isolato, dal momento che le autorità di Teheran nella primavera del 2012 avrebbero poi scoperto un nuovo virus - “Flame” - riconducibile a “Stuxnet” ma utilizzato principalmente per sottrarre dati classificati relativi al programma nucleare dell’Iran.

Aldo GIannuli - Commento ai risultati elettorali

C’è poco da commentare: sono risultati che si commentano da soli. I calcoli sono fatti sui risultati provvisori, per cui possono rivelarsi un po’ imprecisi, ma il senso politico rimane.

Pd: il “vincitore” perde 4.760.877 voti rispetto alle elezioni del 2008 (più di un voto su tre di quelli che raccolse 5 anni fa) e, pur avendo pronostici largamente favorevoli, scende al 25% contro gli oltre 30 punti attribuitigli da tutti i sondaggi, ottenendo 64.165 voti in meno del M5s che è una lista che si presenta per la prima volta e che non ha neppure un decimo dell’apparato organizzativo e delle risorse del Pd. Grazie all’ortopedia del sistema elettorale ottiene la maggioranza dei seggi alla Camera, ma non se ne fa nulla perché al Senato non fa maggioranza neppure con Monti. La chiamiamo vittoria? Se è così, somiglia molto ad una catastrofe.

Sel: nelle regionali del 2010 insieme al Psi ottenne 950.926 voti nelle 14 regioni in cui si votava. Oggi ne ha 1.090.802 su tutto il territorio nazionale, raggiungendo il 3,2%, con una perdita dello 0.45% rispetto a quelle regionali, nonostante pronostici molto più favorevoli che, nel periodo 2010-2011 avevano sfiorato l’8% e che, in questa campagna elettorale, oscillavano fra il 4 ed il 6%.
E’ una vittoria? Non direi.

Rivoluzione Civile: cosa c’è da dire? Nelle Europee di 4 anni fa, la sola Federazione della Sinistra ebbe 1.035.190 voti pari al 3.05% e l’Idv l’8% con quasi 2 milioni e mezzo di voti. Oggi Rc prende 765.054 voti cioè 270.000 in meno di quelli che prendeva la sola Federazione della Sinistra. Un fallimento annunciato, previsto, ma soprattutto, meritatissimo. Ma su Rc torneremo con un  pezzo ad hoc.

Monti: la coalizione ottiene 3.591.560 voti pari a un risicatissimo 10,54% che “salva” una striminzita Udc ridotta all’1,78%. Nel 2008 la sola Udc aveva avuto 2.050.319 voti. Considerato che questa era la lista del Presidente del Consiglio uscente, che aggiungeva i quattro gatti di Fli, che si giovava dell’apporto di Italia Futura (Cordero di Montezemolo), della Comunità di Sant’Egidio (Riccardi), di un mezzo appoggio della curia vaticana e che i primi sondaggi oscillavano fra il 16 ed il 19%, mi sembra che possiamo parlare di una completa débacle.

Pdl: attirandomi commenti sprezzanti, avevo segnalato come il Cavaliere stesse facendo una pericolosa rimonta, dovuta in larga parte alle sue non comuni doti comunicative. Beninteso: lo so che ha seminato fumo, che ha promesso cose irrealizzabili, che la sua lettera sul rimborso dell’Imu è una cosa da codice penale e che è un bandito. Non ripetiamoci cose che sappiamo benissimo, questo non toglie che si tratta di una belva molto pericolosa e che è sempre costantemente sottovalutato dai suoi avversari. Lo ammetto: anche io a dicembre lo avevo dato per definitivamente spacciato e mi accorgo di averlo fortemente sottovalutato. Bisogna riconoscere che ha fatto un miracolo cogliendo il massimo dei risultati per lui possibili (ingovernabilità al Senato e scarto di soli 120.000 voti alla Camera rispetto alla favoritissima coalizione avversaria). A dicembre aveva un partito ridotto al 15% nei sondaggi, dal quale stavano prendendo il largo decine di dirigenti di primo piano, non aveva nessun alleato –la Lega giurava di non volerne sapere- e sembrava destinato a prendere meno voti di Monti.

Detto questo, va considerato che, pur trattandosi di un  recupero strepitoso, il risultato resta molto, molto al di sotto di quello di 5 anni fa, rispetto al quale il Pdl perde 6.296.744 voti (quasi la metà di quelli raccolti), per cui parleremmo di un “mezzo successo”: cioè di una sconfitta secca rispetto a cinque anni fa, ma di un fortissimo recupero rispetto alla situazione di tre mesi fa.

Lega: altro grande sconfitto, si riduce al 4% e vedremo se conquista almeno la Lombardia.

M5s: anche se di un soffio, è il primo partito italiano, con un quarto dei voti del totale, e tiene in scacco l’intero sistema politico. Ha succhiato voti a tutti ma in particolare alla sinistra. Sappiamo tutti benissimo quali siano le fragilità di questo movimento, sappiamo che più che voti alla sua proposta si è trattato di voti contro tutti gli altri partiti. Questo non toglie che sia l’unico a poter dire di aver vinto ed io direi anche stravinto. E c’è molto da imparare…

CHE SI FA?

Più avanti cercheremo di spiegarci perché è andata così ed in cosa hanno sbagliato Bersani, Vendola, Ingroia e Monti e perché Grillo abbia avuto questo strepitoso successo. Ma prima ancora di fare questa analisi (vedremo anche quali sono stati i flussi elettorali), chiediamoci che situazione si è determinata. In un pezzo precedente avevo detto che era una partita a tre uscite ed avevo ipotizzato una situazione in cui la somma dei voti Pdl-M5s rendesse impossibile ogni maggioranza al Senato. Anche se ritenevo questo l’esito meno probabile, credo di essere stato uno dei pochi ad ipotizzarlo come possibile. Ora ci siamo.

Cosa può fare il Pd che, avendo la maggioranza assoluta alla Camera è quello che decide cosa si può fare? Ci sono tre possibili scenari:

-immediate nuove elezioni con questo sistema elettorale.

-accordo Pd-M5s

-accordo Pd-Pdl

Non ci sono altre uscite e nel frattempo occorre eleggere anche il Presidente della Repubblica.

Le nuove elezioni (intendiamo entro giugno) sarebbero affrontate da un Pd in pieno marasma: crollo psicologico per la mancata vittoria, leadership di Bersani più che traballante ecc. Vice versa, il Cavaliere avrebbe chance migliori di quelle della partita appena conclusa, ma anche grossi problemi da risolvere, a cominciare dal fatto che la Lega, uscita con le ossa rotte dalla competizione e non più interessata a concludere accordi con lui (comunque vada oggi pomeriggio, la Lombardia non sarebbe più in discussione) molto probabilmente si sfilerebbe. Ovviamente Monti ne uscirebbe ulteriormente bastonato mentre scomparirebbero del tutto Fid e Rc.

Unico a poter guardare con fiducia ad un nuovo successo è il M5s che, stante questo sistema elettorale, potrebbe pensare di raggiungere la maggioranza relativa e portare a casa il premio di maggioranza alla Camera.

Il Pd potrebbe avere una grossa tentazione: andare alle elezioni allargando la coalizione a Monti e magari presentare come candidato Presidente Renzi. Sulla carta potrebbe anche funzionare: Vendola, con il suo 3 e spicci per cento, non avrebbe possibilità di impedirlo e la sommatoria sarebbe intorno al 40%. Ma queste sommatorie sulla carta non funzionano quasi mai: in primo luogo l’emorragia di consensi al Pd è avvenuta verso il M5s e non verso il centro, per cui un nome come Renzi ed un alleato come Monti causerebbero un nuovo esodo verso il M5s e verso l’astensione. Anche gli elettori del centro non è detto che seguano Monti in questa direzione ed anzi è ragionevolissimo che una parte di essi si riversi verso il Cavaliere. Infine, la cosa avrebbe una pessima immagine: il cartello degli sconfitti che si mettono insieme all’insegna dei limoni spremuti. Sarebbe una alleanza all’insegna del “rigore” che è proprio quello che gli italiani hanno appena bocciato. Se tutto andasse a gonfie vele, potrebbero pensare di portare a casa un 32-34%, ma potrebbe anche venire fuori un risultato decisamente al di sotto.

Vice versa, Grillo sa di avere diversi terreni di espansione: risucchiare le spoglie di Rivoluzione Civile e forse anche di Fid, attirare altri delusi del Pd, mordicchiare la destra, ma soprattutto sperare in un forte flusso dall’area dell’astensione.

Se gli va bene può sperare in una maggioranza relativa che, grazie al sistema elettorale, gli regala il 54% dei seggi alla Camera. Se gli va male può pensare al ripetersi di una situazione di stallo al Senato simile a quella attuale, ma con un maggiore potere contrattuale dato dall’ ingrossamento delle sue fila.

Dunque, non è difficile prevedere che il Pd guardi con molto sfavore a questa ipotesi.

L’accordo Pd-M5s, basato su un’intesa di programma anche limitata nel tempo, sarebbe sicuramente la cosa più auspicabile, ma è anche quella meno probabile, soprattutto perché Grillo non ha molto interesse a farlo, avendo, invece, tutto l’interesse a nuove elezioni. Ma anche perché questo esigerebbe una duttilità di cui non crediamo capaci i dirigenti del Pd. La cosa potrebbe prender quota se il Pd offrisse un pacchetto di misure da realizzare in un anno (legge sul conflitto di interesse, legge sulla corruzione, riduzione drastica degli stipendi dei manager pubblici e dei parlamentari, abolizione secca dell’Imu ecc.) e, nello stesso tempo, offrisse una candidatura di gradimento comune al Quirinale. Ovviamente, questo esclude in partenza qualsiasi esponente politico o intellettuale legato al Pd; occorrerebbe orientarsi verso una personalità della società civile che abbia titoli  morali tali da essere presentato come un vero garante super partes. Butto lì un nome come quello di Don Gallo (salvo il fatto che dovrebbe chiedere la dispensa ecclesiastica). Ve l’immaginate Bersani che dimostra tanta agilità intellettuale? Neanche a parlarne.

Resta l’intesa con Berlusconi in nome della salvezza economica del paese mentre lo spread impazza ecce cc. Non so, poi, quanto l’ “Europa” ed i “mercati” possano sentirsi rassicurati da un governo di coalizione con il Cavaliere, ma ci si può sempre provare. La cosa dovrebbe passare per la cruna dell’ago del Quirinale ed, in questo quadro, i due candidati più quotati sarebbero Berlusconi e Dalema.
Fate voi…

Poi, però, fra un anno vengono le elezioni europee e, con una intesa Pd-Pdl, possiamo scommettere sul fatto che Grillo schizzerebbe al 45%.
Insomma la cosa non mi pare messa bene per il Pd.
Ed allora che fare?

Intanto occorrerebbe eleggere comunque il nuovo capo dello Stato (anche qui la sommatoria Pd-Monti non credo che basti, quindi occorre intendersi o con il Cavaliere o con Grillo) anche perché dubito fortemente che questo Presidente possa costituzionalmente sciogliere le Camere ed indire nuove elezioni.

Fatto questo, la cosa più auspicabile è che il nuovo inquilino del Quirinale convochi al colle il Presidente della Corte Costituzionale, come suprema autorità di garanzia costituzionale, e gli affidi l’incarico di comporre un governo a termine con l’unico punto di programma di approvare una nuova legge elettorale per procedere  a nuove elezioni, con regole più accettabili di questo schifo di legge elettorale che il Pd ha scelleratamente impedito che si cambiasse.. Una legge che non potrebbe essere che puramente proporzionale e con voto di preferenza.

Insomma: il centro sinistra, con i suoi 10 milioni di voti rappresenta il 21,42% del corpo elettorale e si vede attribuito il 54% dei seggi, vi sembra una cosa decente? Beninteso, sarebbe lo stesso uno schifo se al posto del Centro sinistra ci fosse il centro destra o il M5s: non si può falsare la rappresentanza sino a questo punto. Per di più, gli “eletti” sono poi nominati dalle segreterie di partito o sono passati per discutibilissime elezioni primarie o, peggio ancora, “parlamentarie”. Siamo seri: rifacciamo le regole elettorali (anche per evitare questa assurdità di camere a maggioranza alterna) e rimodelliamo i partiti in modo più aderente alla società italiana e con personale politico meno sclerotico ed impresentabile. Ci vorrà tempo, dovremo passare per governi di coalizione, per maggioranze funamboliche, quello che vi pare, ma inizieremo ad uscire da questo pantano in cui il preteso bipolarismo (oggi fallitissimo) ci ha precipitati.

Fonte

Permission To Land


Per la serie sia dato a Cesare quel ch'è di Cesare, oggi butto giù due righe su un disco ri-capitatomi in cuffia come una bomba.

Correva l'anno 2003 e sul mercato irrompevano i The Darkness. Se avete fatto i dovuto collegamenti spazio - tempo vi sarà chiaro che non sto scrivendo della derivativa e sopravvalutata band thrash tedesca, ma del gruppo dei fratelli Hawkins, gente inglese. A mia memoria quella fu la prima riuscita operazione di revival degli anni 2000.

In un mercato ammorbato dal filone boy/girl band ormai alla canna del gas e da un hip hop lanciato verso il dominio - purtroppo non ancora conclusosi - la Atlantic uscì con un album rock smaccatamente ispirato ai classici del genere di 30 anni prima, AC/DC in testa. Il risultato è un lavoro ruffiano quanto ben riuscito che musicalmente non presenta punti deboli - a parte il fatto di non dire nulla di nuovo pur facendolo benissimo - a iniziare dalle chitarre eccezionalmente incisive sia in fase ritmica sia solista, passando per suoni che riconducono la memoria a pietre miliari del calibro di Highway to Hell, per arrivare a melodie e ritornelli che trascinano e sì stampano in testa con facilità disarmante - Growing on me miglior pezzo rock dello scorso decennio! -. I testi, va da se, sono quanto di più superficiale ci si possa attendere, ma non poteva essere diversamente, i temi impegnati meglio lasciarli a gente che non sì monta la testa al primo tour mandando a puttane la carriera infarinandosi il naso un giorno si e l'altro pure...

A fronte di quanto scritto fin'ora sarà chiaro che questo è un lavoro che vive di singoli e - con qualche eccezione come nel caso di Friday night - pezzi più deboli ma non rovinosi, come capita di trovare in quasi tutte le uscite costruite per certe operazioni commerciali.

Chi è tignoso ascriverà ai punti deboli il già citato fatto che il gruppo non propose assolutamente nulla d'originale - si tratta di una questione relativa come ho già avuto modo di precisare - e per chi ha orecchie come le mie, la voce del cantante Justin Hawkins, che col suo falsetto diventa spesso irritante e in alcune occasioni limita brani che si avvantaggerebbero del supporto di un'ugola meno acuta e più cattiva.

Un lavoro da avere dunque? Sì, soprattutto per gli amanti del genere e per tutti quelli convinti che Angus Young abbia avuto il suono di chitarra più bello della storia del rock insieme a un paio di altri colleghi - a voi l'onere di scoprire quali - ma anche perché, ogni tanto, le ciambelle da esposizione così ben riuscite meritano d'essere riconosciute per il valore che hanno.


La crisi dell'Euro non è finita

Diciassette anni fa, Bernard Connolly predisse la miseria che attendeva l'Unione europea. Allora rivestiva una figura fondamentale nella burocrazia europea e per aver pubblicamente espresso i suoi dubbi in un libro intitolato "The Rotten Heart of Europe" (il cuore marcio dell’Europa) , fu prontamente licenziato. Connolly non ha piacere di aver visto avverarsi la sua predizione. E non è confortato dall’opinione comune per cui l'Ue abbia attraversato il momento peggiore della sua crisi e sia sul punto di rinascita.

Per Connolly, come spiega in questa intervista rilasciata al The Wall Street Journal, il cuore dell'Europa sta ancora marcendo.

La classe politica europea, dice, ritiene che la crisi "abbia raggiunto il suo punto più alto" la scorsa estate, "perché c’era un pericolo imminente, dal loro punto di vista, che il loro sogno meraviglioso scomparisse." Ma dal punto di vista "delle persone in carne e ossa, le famiglie, le imprese e le economie", dice, la situazione "è sempre peggio." La scorsa settimana, l'UE ha riferito che l’economia della zona euro si è ridotta dello 0,9% nel quarto trimestre del 2012. Per l'intero anno, il prodotto interno lordo è sceso dello 0,5%.

Due sono le soluzioni che si prospettano, sostiene Connolly, nessuna delle quali appetitosa. O la Germania paga "qualcosa come il 10% del suo Pil ogni anno, per sempre" ai paesi colpiti dalla crisi per tenerli nell’euro. O l'economia peggiorerà talmente in Grecia o in Spagna o altrove che gli elettori alla fine diranno: "Beh, ora andatevene tutti al diavolo”, prospettiva non molto piacevole, come dimostra la crescita di movimenti come i neofascisti di Alba Dorata in Grecia.

Connolly non è solo una Cassandra. Quando aveva previsto il disastro, presiedeva il comitato affari monetari della Comunità europea, la parte della burocrazia di Bruxelles incaricata di innescare il processo dell’euro. La sua confessione pubblica, per cui l'unione monetaria avrebbe provocato inevitabilmente una crisi economica, non soltanto gli è costata il suo lavoro, dice, ma anche la pensione: il suo accesso all’ufficio gli fu negato ancora prima che il suo licenziamento fosse ufficializzato. Nell'introduzione all'edizione paperback di "The Rotten Heart of Europe", Connolly ricorda che la sua fotografia fosse stata pubblicata agli ingressi degli uffici della Commissione, come quella di un criminale ricercato.

Connolly ha continuato la sua carriera di economista nel settore privato. La sua ricerca, svolta nella divisione commerciale della American International Group (NYSE: AIG - notizie), ha continuato a essere senza compromessi. Nel 2003, quando l’ allora presidente della Federal Reserve Alan Greenspan portò i tassi di interesse a un 1% senza precedenti, Connolly descrisse l'economia degli Stati Uniti come una catena di sant’Antonio del debito e previde che i tassi di interesse sarebbero scesi ancora di più per mantenere in vita il sistema.

Oggi Connolly fornisce i suoi appunti di ricerca a clienti che presumibilmente li pagano profumatamente. Generalmente non ama parlare con la stampa. E non fa dichiarazioni pubbliche o di mercato, perché non vuole "agitare" i suoi clienti.
Ma con il suo libro nuovo in stampa, Connolly ha accettato di sedersi nell'ufficio del suo editore a spiegare perché l'euro è andato storto, perché nulla è stato risolto, e che cosa si aspetta che succederà.

A un prima impressione, vi è un certo fondamento nell’opinione ufficiale che il peggio della crisi sia alle spalle: spread, disavanzi delle partite correnti e deficit di bilancio sono in calo. L’uscita della Grecia dalla moneta unica non sembra più imminente.

Eppure la disoccupazione è vicina al 27% in Spagna e Grecia. L'economia dell’euro-zona si è ridotta sempre più velocemente per tutto il 2012. E, più importante per Connolly, i fondamentali economici in Francia stanno peggiorando. La scorsa settimana la Francia ha annunciato di mancare il suo obiettivo di riduzione del deficit per l'anno in corso a causa dell’oscuramento delle prospettive di crescita.

“Una cosa è salvare la Grecia o l'Irlanda” afferma Connolly, ma "se i tedeschi a un certo punto pensassero: ci tocca salvare la Francia, e su base continuata, che faranno? Io non lo so, ma questa è la domanda a cui rispondere".

Il punto di vista ufficiale è che i salvataggi di Grecia, Irlanda e Portogallo, e forse presto della Spagna, sono aberrazioni, e non appena questi paesi rimetteranno i bilanci in sesto, le loro economie seguiranno e il cerotto resterebbe un ricordo. Connolly la definisce propaganda.

E qui arriviamo al nocciolo del concetto del cuore marcio di Connolly contro la moneta unica: secondo la propaganda, la causa della crisi è stata "l’indisciplina fiscale in paesi come la Grecia e l’indisciplina finanziaria di paesi come l'Irlanda. " Di (KSE: 003160.KS - notizie) conseguenza, "la risposta si è concentrata sulle regole di bilancio, sui salvataggi di bilancio e sulle regole per il settore finanziario, con la prospettiva di salvataggi finanziari attraverso l’unione bancaria, anche se non è chiaro."

Ma anche se i Greci erano indisciplinati, dice, "sia la crisi del debito sovrano sia la crisi bancaria sono sintomi, non le cause. La causa è la bolla enorme generata in tutto il mondo dalle politiche monetarie, in particolare nella zona euro" da parte della Bce (Toronto: BCE.TO - notizie) .

La bolla si è formata così: quando paesi come l'Irlanda, la Grecia e la Spagna aderirono all'euro, i tassi di interesse immediatamente scesero a livelli quasi tedeschi, in alcuni casi da livelli a doppia cifra. "L'ottimismo creato in questi paesi, quando scoprirono che potevano avere bassi tassi di interesse senza far crollare le loro monete come in passato, ha portato la gente a pensare che ci fosse una vera e propria rivoluzione dei rendimenti", dice .

C'era stato un aumento dei tassi di rendimento in Irlanda "e in una certa misura in Spagna" nel periodo che precedette l'adesione all'euro, grazie alle riforme strutturali nei paesi in quel periodo. Ma dal momento in cui arrivò l’euro, il denaro cominciò ad arrivare massicciamente in questi paesi, ben oltre le opportunità disponibili.

"Ciò che favoriva questo grande afflusso," dice Connolly, "era essenzialmente la credenza che vi fosse un forte rendimento nel settore delle costruzioni, che a sua volta dipendeva dalle aspettative di apprezzamento del mercato della casa, in qualche modo non dissimile da quello che stava accadendo negli Stati Uniti a metà del decennio scorso, ma molto più grande. "

Quanto più grande? "Se si guarda al rapporto tra costruzioni e popolazione, il boom del mercato immobiliare in Spagna e in Irlanda è stato qualcosa come tre o quattro volte più intenso rispetto al picco del boom negli Stati Uniti. Sconvolgente."

Questo fiume di denaro ha favorito un aumento dei salari molto più veloce del miglioramento della produttività, mentre l'indebitamento a basso costo ha portato a maggiori deficit di bilancio. Dopo il panico finanziario del 2008, la bolla è inevitabilmente scoppiata.

Quindi, ciò che è necessario ora non è semplicemente un irrigidimento fiscale, o anche un ridimensionamento con una riforma bancaria. Per rendere queste economie di nuovo competitive, salari e prezzi devono semplicemente tornare a qualcosa di simile a dove erano nel pre-bolla , sostiene Connolly. “Un modo per raggiungere questo obiettivo sarebbe una massiccia svalutazione dell'euro, davvero massiccia".

Se questo non è possibile, dice, l'Europa può cercare di "ricreare la bolla" riportando le condizioni che hanno consentito alla Spagna di prendere denaro in prestito così a buon mercato. Questo è "essenzialmente ciò che Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, sembra stia tentando di fare: ricreare una bolla". Draghi, con la minaccia di intervenire sui mercati del debito sovrano, ha spinto i tassi di interesse in Spagna notevolmente all’ingiù. Ma poiché il sistema bancario è in difficoltà, e poiché i prezzi delle case continuano a scendere, anche questi tassi bassi non sono sufficienti per stimolare gli investimenti nel paese come in precedenza. E anche se Draghi dovesse avere successo, dice Connolly, il presidente della BCE starebbe soltanto "ricreando esattamente la pericolosa insostenibile situazione che abbiamo avuto a metà del decennio scorso."

Il che lascia l'Europa con l'ultima opzione: paga la Germania. Connolly la mette così: "Si può dire a un paese come la Spagna: 'Non avete bisogno che miglioriate la competitività, non c'è bisogno di avere una bilancia commerciale da piena occupazione. Potete ancora avere una bilancia delle partite correnti da piena occupazione perché vi trasferiremo noi il denaro”. E se si vuole evitare di riaggiustare la situazione, questi trasferimenti monetari devono essere compiuti per l'anno in corso, per il prossimo, per quello dopo ancora, e così per sempre."

Questo non è il modo in cui la vedono Bruxelles e Francoforte. A loro parere, un piccolo aiuto attuale si limiterà a facilitare la transizione verso un futuro stabile, dopodiché i trasferimenti cesseranno. Di tutti i paesi che sono stati salvati finora, l'Irlanda si avvicina alla realizzazione di questo obiettivo. Ma l'Irlanda, nota Connolly, "è un’economia molto più flessibile e molto più aperta di Spagna, Grecia, Portogallo, Francia, Italia." Le (Parigi: FR0000072399 - notizie) economie meno flessibili sono state più lente a fare le riforme, con la conseguenza che i salari, invece di cadere a un livello sostenibile post-bolla, restano alti, e fanno crescere la disoccupazione di massa.

Il che ci riporta alle politiche della crisi dell'euro. A un certo punto, la gente dei paesi colpiti presumibilmente pretenderà di porre fine al dolore e affidarsi a un governo disposto a pensare l'impossibile: per esempio lasciare l'euro.

Per evitare questa situazione, la Germania potrebbe accettare di finanziare i trasferimenti, sperando che non siano permanenti, o che siano meno costosi della frantumazione dell’euro. Ma, avverte Connolly, una volta che il meccanismo di trasferimento di denaro dalla Germania al conto corrente dei paesi in deficit sarà in atto, sarà solo questione di tempo prima che la Germania si trovi di fronte la Francia da aggiungere alla lista delle nazioni a carico, cosa che neanche Berlino vorrebbe o potrebbe permettersi.

La riunificazione tedesca è costata all'ex Germania occidentale circa il 5% del Pil l'anno e ancora a tempo illimitato. La spesa si è rivelata politicamente tollerabile, per Connolly, perché c'era un forte senso che "stavano riunendo il loro paese." Ma questa solidarietà non esiste all’interno dell’Europa.

"Non c’è un popolo europeo, e non si riuscirà a creare un unico popolo attraverso la creazione di un sistema in cui si dice, 'Noi vi diamo i soldi, voi seguite queste regole'", dice Connolly. "Semplicemente, non funziona".

tratto da http://it.finance.yahoo.com/

24 febbraio 2013

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Rivoluzione Civile: un suicidio in 8 mosse

Rivoluzione Civile ha fatto flop, in maniera forse inattesa visto che i sondaggi pre-elettorali davano pronostici diversi che parlavano di percentuali basse ma comunque sufficienti per entrare almeno in Parlamento. L'apparato politico che componeva il cartello elettorale a sostegno di Ingroia cercherà colpe ovunque al di fuori delle proprie stanze (proprio l'ex magistrato ha già dichiarato che "è colpa di Bersani che non si è voluto alleare con noi"...), ma la sostanza è che le responsabilità sono tutte da addebitare proprio alla proposta politica messa in campo da Rivoluzione Civile. Un'offerta elettorale pessima per tanti motivi, racchiudibili in 8 punti principali. Vediamoli.

1 - Progetto di emergenza elettorale calato dall'alto
Dopo il fallimento dell'Arcobaleno nel 2008, la sinistra aveva una sola cosa da fare: iniziare a lavorare alla creazione di un nuovo soggetto politico, con facce diverse, parole d'ordine diverse, progettualità e prospettive diverse. Doveva farlo subito, il giorno dopo le elezioni (visto che fra l'altro non aveva neanche impegni istituzionali). Invece non solo non l'ha fatto subito, ma si è ritrovata a ridosso delle elezioni di cinque anni dopo a mettere in piedi un progetto che è apparso a tutti solo come un cartello elettorale di raccattati messi insieme per entrare in Parlamento. Progetto che poteva anche essere sensato nella sua idea di fondo (offrire una alternativa a chi voleva dare un voto di rottura mantenendo un'identità di sinistra che Grillo non dava) ma appunto se costruito nel tempo e dal basso. Invece, anziché nel tempo e dal basso, è stato messo in piedi ad appena un mese dalle elezioni e calato dall'alto dalle segreterie di 4 partitini, risultando incomprensibile e quasi sconosciuto all'elettorato.

2 - Disponibilità alla sottomissione
Quando i giornalisti ponevano ad Ingroia la fatidica domanda "ma così non portate via i voti al Pd?", lui rispondeva che era il contrario, perché Rivoluzione Civile avrebbe portato in Parlamento i voti necessari affinché, quando Bersani avesse avuto bisogno dei numeri per governare, anziché guardare a Monti avrebbe guardato a sinistra. Un autogol strategico e comunicativo pazzesco: perché io elettore di sinistra anti-Pd dovrei votare per una lista che si dichiara già in partenza disponibile alla sottomissione? Magari in cambio di qualche puzzolente poltrona fra l'altro. Se voto per una lista alternativa al Pd, è chiaro che NON voglio che governi il Pd. E Grillo in questo senso dava maggiori garanzie (se saranno certezze lo vedremo già dai prossimi giorni). In quella scienza impietosa che è la politica, la disponibilità alla sottomissione emana debolezza e allontana l'elettore.

3 - Impronta fortemente legalitaria
Magistrati e poliziotti. Questo l'impatto, secco, tranciante, che ha avuto Rivoluzione Civile sull'elettorato. Ci vuole poco a capire che sono categorie che a sinistra piacciono a pochi. Che poi effettivamente non c'erano solo loro, ma chi studia comunicazione politica sa bene che il gossip amplifica la portata di cose che da marginali diventano caratterizzanti: in Rivoluzione Civile c'è un poliziotto che è contrario ai numeri identificativi sui caschi e sulle divise, quindi per l'impatto complessivo sulla gente, Rivoluzione Civile è il movimento che è per la repressione poliziesca. Non è così in verità, ma è così per i media e la rete che trasmettono il concetto in maniera virale. Quindi, anche se non è verità, lo diventa. L'impronta legalitaria era stata pensata per sfondare almeno nelle regioni del sud tipo Campania e Sicilia, ma alla prova dei numeri è stato un fallimento anche lì.

4 - Assenza di idee nuove e mancanza di parole contro la Casta
L'approssimazione dal punto di vista della comunicazione politica si è vista anche dall'assenza di proposte nuove, d'impatto, rivoluzionarie ma per davvero. Berlusconi si è inventato la restituzione dell'Imu, ben sapendo che in campagna elettorale vale tutto e che tanto gli italiani hanno la memoria corta. Ad Ingroia bastava anche una sola proposta rumorosa, ma non l'ha trovata. Paradossalmente sarebbe bastato copiarne alcune di Grillo sull'antipolitica, magari personalizzandole con un vestito di sinistra, invece niente. Bastava dire che anche Rivoluzione Civile è per la restituzione dei rimborsi elettorali e per il limite a due mandati in Parlamento, magari aggiungendoci idee sulla partecipazione diretta e non solo virtuale della gente alle decisioni da prendere nel corso della legislatura. Invece nulla, tabula rasa.

5 - Nome debole
Rivoluzione Civile è un ossimoro. Puntigliosità linguistica dei rivoluzionari duri e puri? No, verità assoluta che a livello di comunicazione politica ha un effetto latente, inconscio, penetrante nelle menti delle persone. La Rivoluzione non è un pranzo di gala, diceva Mao. Ingroia e compagni hanno dato invece l'idea che volevano andare al buffet di Montecitorio a farsi una bella mangiata. L'impatto del brand "Rivoluzione Civile" è praticamente lo stesso del "metteremo dei fiori nei vostri cannoni", il proseguimento del noioso filone arcobalenista. Perdente.

6 - Candidature di dinosauri impresentabili
Diliberto, Di Pietro, Ferrero, Bonelli. Pensavano forse che gli elettori non si sarebbero accorti che dietro ad Ingroia c'erano comunque loro? Diliberto è quello della scissione cossuttiana voluta perché i "comunisti-italiani" ci tenevano un sacco a fare le guerre in giro per il mondo insieme al governo D'Alema. Ma è anche quello del sostegno ufficiale a Bersani nella campagna per le primarie (!), che poi quando lui non li ha ringraziati dopo la vittoria si è anche offeso (incredibile, ma vero). Come può un elettore pensare che appena seduto sul seggiolone parlamentare Diliberto non avrebbe iniziato subito ad elemosinare un posto da alleato di Bersani? Di Pietro, dopo la famosa inchiesta di Report, è diventato il simbolo dei privilegi della Casta. E in quanto tale destinato ad essere polverizzato in un momento come questo in cui la congiuntura politica parla il linguaggio di Grillo.

7 - Assenza di carisma e di una rappresentazione della rabbia sociale
Ingroia è Crozza che fa Ingroia. Giusto? Sbagliato? Non importa, è così. In una campagna elettorale contano (molto più di quanto si pensi) anche le caricature, la satira, le prese in giro. Crozza ha fatto l'imitazione di tutti i leader tranne Grillo (perché lui è già la caricatura di sé stesso, o forse più semplicemente perché non lo sappiamo ma Crozza parteggia per Grillo). Berlusconi era lo strafottente, Monti era il robot, Bersani era l'uomo delle metafore di provincia. E Ingroia? Era lo svogliato. Sì, lo svogliato. Cioè, il leader della parte politica che doveva rappresentare la rabbia sociale, la rivoluzione, il grido di opposizione, non ne aveva voglia. Parodia ingenerosa quella di Crozza? Forse un po' sì, ma è innegabile che il carisma Ingroia o non ce l'ha o l'ha lasciato a casa durante tutta la campagna elettorale. Ci voleva un leader che parla alla pancia della gente, che fa sussultare il cuore e fa vibrare le emozioni. Una mente appassionata e che appassiona. Invece no, candidano l'addormentato.

8 - Mancanza di un rapporto diretto con i movimenti e col mondo del lavoro
E questo è il punto che viene per ultimo ma probabilmente è il più importante. Da una proposta politica di sinistra vorremmo aspettarci tutto ciò che il Pd non offre. In primis una riforma strutturale, organica, nuova, coraggiosa, del diritto del lavoro e del welfare. Una prospettiva per i giovani disoccupati, per i licenziati che non trovano più lavoro, per i precari, gli atipici, i sottopagati. Ma una proposta vera, credibile, concreta, con cui identificarsi per anni fino al suo ottenimento. Possibile che non siano riusciti a partorire niente in questo senso? A pensarci bene è incredibile. Non basta parlare in termini generici su quell'argomento, ti devi differenziare con proposte che non produce nessun altro. Deve essere quello il cambio di passo, altrimenti perché la gente ti dovrebbe votare? E andando al di là del lavoro, su tutti gli altri temi fondamentali come l'ambiente, le battaglie contro le grandi opere inutili tipo la Tav, contro le privatizzazioni dei beni comuni (acqua, scuola, sanità, trasporti), contro le guerre, contro l'emergenza abitativa, perché non è stata percepita la vicinanza da parte dei movimenti? Non era difficile fra l'altro, perché la piattaforma politica era già scritta da chi ogni giorno combatte nelle trincee dei luoghi di lavoro e dei territori.
Da domani avranno cinque anni di tempo per costruire tutto questo. Scommettiamo che non lo faranno?

redazione

26 febbraio 2013

I mercati puntano sul "governissimo", Mediobanca ci vede in Grecia

Il rschio-Italia, per i mercati finanziari, internazionali, è tornato esattamente al punto di partenza. Là dove era arrivato il giorno in cui Berlusconi dovette uscire con le mani alzate da palazzo Chigi. Non si deve guardare solo o tanto al livello dello spread – ci vorrà più tempo e molte altre sciocchezze, perché torni a 575 punti – quanto il crollo immediato delle borse globali, che già stavano in allarme per molte e buone ragioni (tra 48 ore, se repubblicani e democratici non troveranno un accordo sul bilancio federale Usa, tornerà vivo e mordace lo spettro del fiscal cliff), ma ora vedono materializzarsi improvvisamente un quadro che nessuno aveva saputo prevedere. Una delle principali economie europee, anche se in declino, non può essere in questo momento governata in modo chiaro, con una direzione prevedibile (“i mercati” odiano l'incertezza) e soprattutto in tempi certi.

Anche per questo, stamattina, Mario Monti, il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco e il ministro del Tesoro Vittorio Grilli si sono incontrati per valutare le reazioni dei mercati al risultato elettorale.

Non è possibile che un governo uscente chieda alla Bce di mettere in azione lo “scudo anti-spread” (la stessa firma sotto il previsto memorandum, in tal caso, impegnerebbe poco credibilmente un paese che non si sa dove andrà), vincolando il prossimo esecutivo che potrebbe a quel punto rifiutarlo. In ogni caso, i tempi istituzionali di formazione di un governo, anche provvisorio, sono troppo lunghi rispetto alle attese dei mercati. Quindi, per alcune settimane, assisteremo probabilmente a cadute continue dei valori borsistici italiani (con fiammate speculative al rialzo, che sono la sostanza dell'attività finanziaria) e all'aumento dello spread.

Lo scenario meno gradito è infatti un ritorno alle urne, che allungherebbe a dismisura i tempi di “governabilità” dell'Italia senza alcuna garanzia che poi questo risultato sarebbe raggiunto.

Già alcune grandi banche diramano valutazioni secondo cui l'aumento dell'instabilità politica influirà sul giudizio dell'Italia da parte delle agenzie di rating (chi potrà mai fare, in queste condizioni politiche, quelle “riforme strutturali che “i mercati” indicano?).

Il governissimo, con tutti i suoi orrori, diventa così un obiettivo “meno peggio” di altri. Chi aveva puntato tutto su Monti, in effetti, non poteva far altro.

Mediobanca, invece, fa previsioni molto più tragiche. “La commedia italiana si trasforma in una tragedia greca". Il suo report indica come "inevitabile una Grosse Koalition Pd-Pdl", cui assegna un probabilità del 70% rispetto ad altri scenari. Anche se, naturalmente, "L'Italia non è la Germania".

Come si vede, non smettono di cercare di "governarci dall'alto", ma ora sembrano non possedere più la sicumera strafottente di un anno fa.

Fonte

27/02/2013

Elezioni 2013: Grillo e il M5S irrompono nel degrado italiano e nell’austerità

Il dato numerico e politico di un’Italia alla deriva fra voto di protesta, astensione e ingovernabilità

Fumata nera. Come era ampiamente prevedibile gli italiani e il porcellum regalano una tornata elettorale che potrà risolversi solo in due maniere: un ritorno repentino alle urne o un governassimo Pd-PdL-Monti come quello che ci ha accompagnato fino ad oggi. Tertium non datur, non ci sono terze vie. Il Movimento 5 Stelle è il simbolo più votato alla Camera dove vince per una manciata di voti la coalizione di Bersani, come nel 2006 quando i voti di vantaggio per accaparrarsi il premio di maggioranza furono 24.000 mentre a questo giro sono circa 100.000. Monti passa per il rotto della cuffia a Camera e Senato ma non è un fattore decisivo. Ingroia sprofonda sotto il successo di Grillo. L’astensionismo fa registrare un +7%, dato importante e frenato solo dalla presenza del M5S che ha catalizzato tutto il malcontento per le politiche di austerità, altrimenti avrebbe raggiunto punte impensabili.

I numeri. La situazione è di semplice lettura numerica e di complessa lettura politica. Alla Camera il Pd ha la maggioranza relativa con poco meno del 30% delle preferenze che gli garantiscono circa il 55% dei deputati. Al Senato invece è parità con i premi di maggioranza regionali che premiano Berlusconi al Sud e al Nord e Bersani al centro e in Piemonte. Il M5S nonostante le alte percentuali in ogni regione rimane penalizzato dal porcellum e in rapporto alle due coalizioni maggiori prende molti meno seggi al senato ma sufficienti per essere decisivi. Al senato quindi può governare solo un governo appoggiato dalle stesse forze di quello attualmente in carica o un fantascientifico e improbabile Pd-Sel-M5S.

Il dato politico. Cresce l’astensione che in questo caso è numericamente inferiore a quello che sarebbe stata solo perché il sentimento di rabbia e sfiducia verso istituzioni e partiti che le hanno occupate in questi anni è stato intercettato dal movimento di Grillo. Era chiaro che dopo quasi 20 anni di seconda repubblica sarebbe arrivata la tornata elettorale della punizione e così è stato. Molti non si aspettavano che il M5S si attestasse intorno al 25%. Poteva essere prevedibile invece che la coalizione di Berlusconi si avvicinasse al 30%, ma con il crollo delle ultime settimane del Pd e della coalizione di Bersani nessuno avrebbe potuto prevedere che con quelle cifre potesse rischiare di vincere. La campagna aggressiva di Berlusconi ha spazzato via un Bersani che ha giocato di rimessa appiattendosi su un’accettazione di fondo dei diktat europei e sulla linea montiana dell’austerity con qualche spruzzata di giustizia sociale nemmeno poi tanto spiegata agli elettori. Una vittoria di Pirro quindi, che solo poche settimane fa sembrava invece una formalità. L’anima conservatrice, moderata e cattofascista dei quasi 2/3 dell’elettorato italiano è rivenuta fuori anche in questa tornata elettorale come è sempre stato dal dopoguerra ad oggi, ma è chiaro che in questi anni per questa parte di elettorato gli sforzi del Pd di moderarsi sempre di più sono stati visti come una brutta copia di qualcosa che esisteva già a destra e nel centro ex democristiano.

Il giaguaro. Da caimano a giaguaro, Berlusconi è sempre vivo e come sempre smentisce cassandre e sondaggi. Molti si chiedono come fanno un leader e un partito sempre al centro di scandali, con proposte strampalate, che hanno difeso Dell'Utri e Cosentino, che incitano all'evasione fiscale, con un prestigio internazionale ormai crollato, che strizza l'occhio alla malavita e offende le istituzioni, a riscuotere sempre un discreto successo elettorale e fare recuperi impensabili. Forse questi che s'interrogano non hanno ancora capito che i voti li prende proprio per questo. L'elettorato di centrodestra non è tutto stolto, non è fatto da milioni di persone che da oggi andranno in fila a farsi rimborsare l'Imu. Questo elettorato sa benissimo chi vota, e gli va bene così perché cerca solamente qualcuno a cui delegare il paese e che gli lasci fare cosa gli pare.

Gli scomparsi. A proposito di democristiani e cattofascisti, la grande competizione nel campo dei moderati ha partorito la quasi estinzione dei partiti di Casini e Fini soffocati da Monti, ma il crollo più clamoroso è quello di Rivoluzione Civile e di Ingroia che merita un’analisi più profonda. Non ci sorprende il poco appeal elettorale di questa lista ma nessuno si aspettava un dato intorno al 2%. I motivi sono molteplici ma alcuni sono più marcati. Ne sottolineiamo due: per prima cosa, così come accadde con la sinistra arcobaleno, è stato presentato un cartello elettorale senza progetto politico e senza un lavoro a monte. Di volta in volta i vari partiti della ex sinistra radicale hanno creato accordi sempre più allargati, a fronte della perdita di voti sempre maggiore, per riuscire a superare le soglie elettorali, ma queste operazioni agli occhi dell’elettorato hanno sempre puzzato di riciclo e di volontà di accedere ai rimborsi elettorali, specialmente in un periodo in cui un movimento che raggiunge il 25% ci rinuncia. E ciò viene accentuato se poi a livello di immagine si cerca di presentarsi come la società civile che scende in campo, lasciando però il dubbio all'elettorato che che in fondo l’operazione sia mossa dai vecchi partiti. L’elettorato l'ha interpretata così ed ha punito. Senza considerare che la presenza di magistrati e anche poliziotti nelle liste ha fatto storcere molte bocche a sinistra.
Ma c’è anche un secondo punto determinante: appare chiaro che una vasta parte di persone che in questi ultimi tre anni si sono riconosciute in quei movimenti che sono stati i veri protagonisti dal basso delle lotte per i beni comuni, i comitati referendari per l’acqua pubblica e contro il nucleare che hanno vinto clamorosamente il referendum, quelli contro gli inceneritori, i comitati No Tav e tutto l’immaginario e le persone che ci hanno girato intorno da tutta Italia, hanno scelto in prevalenza il Movimento 5 Stelle rispetto a Sinistra e Libertà o Rivoluzione Civile. E oltre a questi settori legati all'attivismo politico, ambientale e civico, appare chiaro che a questi partiti abbia votato le spalle anche una buona parte di mondo del lavoro, sia nella sua parte sindacale sia una sostanziosa parte di operai, disoccupati e precari che in questo ultimo quinquennio sono stati al centro di battaglie, ristrutturazioni e drammi sul posto di lavoro.
Con questa tornata elettorale si conclude definitivamente un percorso per una classe dirigente che dallo scioglimento del Pci, passando per il G8 di Genova e la presidenza della Camera ha visto assottigliarsi sempre di più il proprio peso elettorale e la propria incidenza nella società fra scelte tattiche sbagliate e poca comprensione dei cambiamenti in atto. Solo se, loro come molti altri fuori dal Parlamento e nelle piazze, sapranno mettersi in discussione nelle analisi e nei metodi, potranno risollevarsi. Ma ad oggi tutto ciò non è scontato e può darsi che da domani inizieranno a lavorare per un altro cartello elettorale accozzaglia privo di progettualità politica.

Scenari. In campagna elettorale ogni coalizione ha lasciato fuori dal dibattito tutte le più grandi questioni internazionali. Fra demagogia e promesse, potremmo ritrovarci nell'ennesima fase del ricatto fra spread, default e attacchi speculativi. E' il ricatto dei capitali che odiano i popoli e che tentano di minacciarli. Il Pd cercherà di fare il governo e dichiarerà per pura formalità e per mettere Grillo con le spalle al muro di provarci con il Movimento 5 Stelle. Dopo di che inizierà la trattativa con PdL e centristi anche nell'ottica di dover eleggere il Presidente della Repubblica. Alla fine, ancora una volta, ci sarà uno scontro fra una linea europeista dell'austerità e del rigore, cioè le forze di governo attuali, a cui andrà opposta una formula alternativa di tutela di sistemi sociali di welfare e dei salari. Al momento questa alternativa non è forte ma prima o poi dovrà esplicitarsi sennò poi il voto di protesta si esaurirà presto. E per il Movimento 5 Stelle ci sarà da mettere sul tavolo la questione del reddito che è stata molto pompata in campagna elettorale.

Il dato livornese. Quasi 6.000 votanti in meno, si tratta di una cifra consistente di chi ha abbandonato le urne. In termini percentuali equivale a -2% perché quasi 4.000 erano gli aventi diritto in meno rispetto al 2008, dato che fa capire come sia in atto una fuga, specialmente giovanile, da questa città a cui aggiungere la scarsa natalità. Prendiamo il Senato. Il M5S ha seguito il trend italiano attestandosi sopra il 25% con quasi 24.000 voti. Chi ha perso questi 30.000 voti? 15.500 ne ha persi il Pd (-13%), 12.500 ne ha persi il PdL (-13%), La Lega nord è quasi scomparsa (400 voti vale a dire lo 0,47%), Monti ne ha presi 6.000 (6,7%) mentre Rivoluzione civile ne ha presi poco più di 3.500 vale a dire quello che prese nel 2008 Di Pietro. Se si pensa che a quel tempo l’Arcobaleno+Idv presero 10.000 voti, oggi Ingroia+Sel superano di poco i 7.500. Alla Camera invece il voto dei giovani under25 ha accentuato ancora di più queste cifre: il Pd ha perso quasi il 16% e circa 19.000 voti, il M5S ne ha presi circa 27.000 (27,11%), Ingroia ne ha un migliaio in più che al Senato (4.600 - 4,68%).
Ma c'è anche un altro dato importante per il futuro. Se si considera che alle politiche il voto al Pd è più che altro un voto contro Berlusconi, alle amministrative del prossimo anno i governatori di Livorno non dormiranno certo sonni tranquilli. Non avendo i voti, come emerge chiaramente da questa tornata elettorale, per vincere al primo turno, si potrebbe prospettare un effetto Parma al secondo turno. Ma un anno di politica in questo contesto può equivalere, come durata, a un’era glaciale

redazione

25 febbraio 2013

Elezioni. Krugman: "Punito Monti, uomo della Germania"

Sagace come al solito Paul Krugman, l'economista statunitense più eterodosso. Le elezioni italiane hanno punito le politiche di austerity e soprattutto Monti, il premier subalterno ai diktat della Germania. Un interessante commento di Paul Krugman raccolto e pubblicato dal quotidiano online www.wallstreetitalia.com

Commentando il voto italiano sul New York Times, l'economista Paul Krugman fa un'analisi molto critica della situazione. Gli italiani, dice il premio Nobel, di fatto hanno bocciato una politica troppo dipendente dall'influenza di Berlino.

Il grande sconfitto è Monti, "il proconsole installato dalla Germania per imporre l'austerità fiscale su un'economia già in difficoltà". E con Monti, aggiunge, è punito tutto l'establishment della Ue, che sta imponendo politiche di austerity eccessive e ricattatorie a tutti i paesi dell'Europa meridionale.

Il punto è che il termine "maturità" sempre usato dai media internazionali per invitare di fatto l'Italia a seguire la strada segnata dall'Europa, dalla Germania e da Monti, non è un termine neutro, per Monti. "Vorrei porre un'ovvia domanda - scrive l'economista - che cos'è, esattamente, ciò che attualmente viene fatto passare per maturo realismo in Italia o in Europa?"

La risposta non lascia adito a dubbi. "Per il signor Monti, il proconsole installato dalla Germania per imporre l'austerità fiscale su un'economia già in difficoltà, in effetti, ciò che definisce la rispettabilità nei circoli politici europei era la volontà di perseguire l'austerità senza limiti. Questo andrebbe bene se le politiche di austerità avessero effettivamente funzionato, ma non è così. E più che sembrare maturi o realistici, i sostenitori dell'austerità sembrano sempre più petulanti e deliranti".

Quanto alle conseguenze internazionali del voto italiano e alle sue incognite, Krugman non nasconde la sua apprensione ma ricorda che l'Italia non è un caso isolato.

"Gli osservatori esterni sono terrorizzati dalle elezioni italiane, ed è giusto così: anche se l'incubo di un ritorno di Berlusconi al potere non si materializzasse, una dimostrazione di forza da parte di Berlusconi, o di Grillo, o di entrambi destabilizzerebbe non solo l'Italia ma tutta l'Europa...
Ma l'Italia non è unica nel suo genere: i politici poco raccomandabili sono in aumento in tutta l'Europa meridionale.

E la ragione per cui questo accade è che i funzionari europei non ammettono che le politiche che sono state imposte ai debitori sono un fallimento disastroso. Se questo non cambia, le elezioni italiane saranno solo un assaggio della pericolosa radicalizzazione che verrà".

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La Jugoslavia meglio dell'UE


L'analisi di un esperto sloveno: per Lubiana la federazione rappresentava un'alternativa economicamente molto più valida dell'Ue, dove rivestiva un ruolo dominante.

La Jugoslavia per la Slovenia era un'alternativa economicamente più valida di quanto non si sia dimostrata l'Unione europea: a dirlo è l'analista di Lubiana Rastko Mocnik, che in un'intervista concessa all'emittente pubblica serba "Rts" commenta la posizione del Paese ai piedi delle Alpi nel contesto della comunità di Bruxelles. Secondo Mocnik, il vantaggio nella Federazione di Tito era innanzitutto nel mercato interno, "composto da oltre 20 milioni di abitanti", dove la Slovenia ricopriva in molti casi e in molti settori una posizione dominante. L'ingresso nell'Unione europea ha invece portato Lubiana "fra gli ultimi posti in termini di forza economica, e si trova in questo senso più vicina e spesso accomunata a Paesi mediterranei come Grecia, Spagna e Portogallo, e non certo alle economie del blocco centrale".

Un altro problema per la Slovenia nel contesto comunitario, secondo l'esperto, è il deciso cambiamento delle politiche della stessa Ue, che prima erano tese a elargire forti aiuti ai Paesi più in difficoltà mentre ora sarebbe più propensa, con l'arrivo della crisi economica internazionale, a una politica di risparmio nella concessione dei fondi. Uno dei risultati di questa nuova tendenza sarebbe, per Mocnik, la crescita del divario con Paesi dall'economia più salda, come ad esempio Francia e Germania. "Il rischio - osserva Mocnik - è quello di innescare una sorta di rapporto non paritario fra colonizzatori e colonie all'interno della stessa Europa. Se prendiamo ad esempio il rapporto esistente fra Germania e Slovenia, notiamo, attraverso i dati statistici ufficiali, che Berlino è il nostro maggiore partner nello scambio commerciale, ma che allo stesso tempo il dato è fortemente sbilanciato a favore della Germania".

"Ciò significa, in altri termini - conclude - che il nuovo valore che viene prodotto in Slovenia esce dai confini a vantaggio della Germania". La responsabilità secondo l'esperto è ancora una volta europea, a causa dell'assenza di un potere centrale abbastanza forte per riequilibrare le forze dei singoli Stati. "Un Paese con due milioni di abitanti come la Slovenia - prosegue - e con un'economia fragile, che negli ultimi 10-15 anni ha subito un vero e proprio tracollo, non può avere la stessa capacità d'influenza su Bruxelles. Quello con la Germania è un rapporto esemplificativo, inoltre, anche a causa della presenza sempre più numerosa di aziende nel territorio che nominalmente compaiono come multinazionali, ma in realtà hanno la sede in Germania. Si tratta di un fenomeno di espansione - aggiunge Mocnik - tipico di alcuni Paesi Ue a scapito di altri Paesi Ue". 

Il fenomeno è visibile non solo in Slovenia, ma anche in altri Stati dove ad esempio la Francia è protagonista di un'espansione simile a quella di Berlino attraverso le sue multinazionali. Serve, secondo Mocnik, un'alternativa politica da parte dell'Ue per modificare la situazione attuale, perché solo in questo modo Bruxelles potrà scongiurare il rischio che i Paesi più fragili cerchino, a poco a poco, un'alternativa alla stessa Ue. L'Unione europea è invece "fondamentale", secondo l'analista sloveno, perché nel contesto della crisi economica "c'è bisogno di un giocatore forte e capace di muoversi a livello mondiale", e nessun singolo Stato, neppure la Francia o la Germania, avrebbero la forza di ricoprire quel ruolo.


Di questo passo questa UE finirà per non garbare più a nessuno, bene.

Tempesta perfetta

Viviamo in tempi rivoluzionari, ma non vogliamo prenderne atto. Usiamo questa espressione in senso “tecnico”, non politico-ideologico. Non ci sono masse intorno al Palazzo d'Inverno, ma la fine di un mondo. Il difficile è prenderne atto.


Si sta rompendo tutto, intorno a noi e dentro di noi, ma quando ci dobbiamo chiedere – fatalmente – “che fare?” ci rifugiamo tutti nel principio-speranza, confidando che le cose, prime o poi, tornino a girare come prima. Per continuare a fare le cose che sappiamo fare, senza scossoni.

Non possono tornare come prima.

Inutile prendersela più di tanto con le singole persone o le strutture – leader, partiti, sindacati, media, confindustria, ecc. – che hanno responsabilità pazzesche, naturalmente, ma sono anche totalmente impotenti di fronte a un mondo che si spacca. “Le cose si dissociano, il centro non può reggere”. Non saranno i Bersani, i Berlusconi o i Napolitano a tenere insieme le zolle tettoniche in movimento.

Come interpretare altrimenti il fatto che le “elezioni più inutili della storia” – definizione nostra – abbiano prodotto la più seria rottura di continuità nel panorama politico italiano?

Era tutto fatto. Un programma di governo “responsabile” scritto in sede europea e noto come “agenda Monti”; una coalizione costruita per “coprirsi a sinistra” senza spaventare i moderati; un polo moderato-centrista in realtà “estremista europeo”; un governo “ineluttabile” Bersani-Monti (con Vendola addetto ai “diritti civili”, che in fondo non costano niente). Gli antagonisti? Impresentabili in Europa, come il jokerman di Arcore e il comico di Genova; oppure riedizione minore di un arcobaleno fallimentare, fisicamente rappresentato da magistrati progressisti. Ma magistrati.

Un paese diviso ha prodotto una rappresentanza divisa. E non è colpa della “gente”, dell' ”individualismo”, del menefreghismo. Perché queste tabe italiche sono il corrispettivo esatto di una struttura produttiva che magari presenta ancora isole di eccellenza, ma “non fa sistema”; di una società frammentata nel modo di produrre ricchezza, di estrarre reddito, di sopravvivere. Ma un paese dove la produzione di ricchezza “non fa sistema” è un paese senza spina dorsale, senza baricentro, senza disegno. E che ha aggravato queste sue caratteristiche negative – addirittura esaltate come “potenzialità” ai tempi in cui gli imbecilli dicevano che “piccolo è bello” – in seguito allo smantellamento delle poche colonne portanti della produzione nazionale, nonché dalla privatizzazione delle banche di “interesse nazionale”. Metafora precisa, quest'ultima, di un paese senza un “interesse nazionale” identificabile; e quindi frantumato in tanti e diversi interessi privati, corporativi, locali, di nessuno spessore progettuale. Di nessuna incidenza sulla scala dimensionale – almeno continentale – su cui si prendono le decisioni vere.

Un paese composto in buona parte di figure sociali con “redditi spurii”, che presentano perciò “identità multiple”. Parliamo di redditi spurii in senso marxiano, non legal-giudiziario. Un mafioso che si arricchisce con il traffico di droga ha un reddito illegale, ma non spurio; la sua identità sociale è chiara anche per lui, non presenta ambiguità e tantomeno tentennamenti. Un pensionato o un lavoratore dipendente (o un piccolo negoziante o una partita Iva) che ha un salario (una pensione o dei ricavi d'attività), e magari “integra” affittando la seconda casa a dei migranti, cui può aggiungere qualche cedola dai Bot o dai fondi comuni di investimento... questo insieme è un reddito spurio, che fa vivere un'identità sociale mutevole e mutante. Che vota in un modo se pensa più all'Imu e in un altro se gli pesano maggiormente addosso le “riforme” Fornero delle pensioni o del mercato del lavoro. Berlusconi o Bersani, dipende da cosa offrono... E il primo sa vendere meglio.


Lo spappolamento sociale – se è ancor vero che “l'essere sociale produce la coscienza” – si è rivelato appieno in questo voto. E non è ricomponibile per via “istituzionale”, mettendo assieme frammenti di rappresentanza politica. Ma è quello che faranno, che sono condannati a fare e che Napolitano cercherà di costringerli a fare. Un “governissimo” pro tempore, per “fare poche cose”, alcune “riforme strutturali che i mercati si attendevano”. E una legge elettorale meno idiota.
Nemmeno il tempo di scriverlo, ed ecco che Berlusconi si mostra disponibile, Bersani zittisce chi pensa a nuove elezioni, Monti tace preparandosi a indicare un nome tra i suoi possibili sostituti.
Insomma: una risposta “normale” a uno smottamento rivoluzionario. Un suicidio al ralentì.

La domanda centrale, decisiva, posta da queste elezioni è soltanto una. E viene posta indirettamente, in ogni talk show, da quanti ci tengono a rappresentare il “senso di responsabilità”: si resta in questa Unione Europea o ci si mette nella prospettiva di uscirne?

Qualsiasi risposta comporterà disastri inenarrabili e un terremoto prolungato nel nostro sistema di vita. “Restare” significa infatti accettare i vincoli del fiscal compact (50* miliardi di tagli annuali alla spesa pubblica per i prossimi 20 anni), il pareggio di bilancio (impossibilità di mettere in campo una qualunque politica economica nazionale), la distruzione del “modello sociale europeo”, le alleanze militari e i conflitti conseguenti. “Uscirne” significa affrontare le tempeste e la speculazione di mercati finanziari vendicativi, squilibri di grandi dimensioni e senza soluzioni a breve termine, cercando alleati mediterranei e “latini” – al momento in tutt'altre faccende affaccendati – per una zona monetaria “non euro” e non stupidamente nazionalista. Chi si aspetta ricette facili per "rimettere le cose a posto" si rivolga a un predicatore o alla neuro.

Il corpo elettorale italiano, ieri, ha detto al 60% che le “politiche europee”, i diktat della Troika (Ue, Bce, Fmi) non possono essere più accettate. Il problema – gravissimo – è che questo rifiuto è per metà composto di interessi e immaginario reazionari, localistici, “personali”. E per l'altra metà di risposte variamente e soggettivamente “democratiche e popolari”. Ma senza un progetto, un'idea fondante, una visione all'altezza della “tempesta perfetta” che il mondo – non solo l'Italia o l'Europa – sta vendendosi velocemente addensare. Tutto, in teoria, affidato a un'infinita discussione da fare tra soggetti singoli che solo alla fine troveranno il consenso su qualcosa. Ma quel qualcosa, oltre che distillato per via di partecipazione democratica, sarà anche “efficace”? Non ci scommetteremmo. La complessità del mondo reale eccede di gran lunga le competenze individuali non strutturate in “sistema”, sia conoscitivo che “operativo”.

Sul rifiuto di rispondere chiaramente a questa domanda, infine, si è infranto in modo definitivo il "far politica" – proprio della “sinistra radicale” bertinottiana e post-bertinottiana – che avanzava molte e giuste critiche alle politiche europee e/o governative per poi acconciarsi a un'alleanza elettorale con chi rappresenta con assoluta nettezza queste politiche: il Pd. Sappiamo bene che in questo frangente non c'è stato un accordo elettorale in tal senso; ma per gran parte delle piccole forze racchiuse nella “lista Ingroia” (capitanate da Di Pietro, Diliberto, lo stesso Ingroia) ciò è avvenuto solo per il netto rifiuto da parte del Pd, non per una scelta “indipendente”. Una sindrome da “amici traditi” che si è avvertita per tutta la campagna elettorale ed è esplosa nei primi giudizi dopo i risultati.

È finita “la sinistra” discendente dalla cultura del Pci, indecisa via di mezzo tra accettazione dell'ordine capitalistico e tenue aspirazione a smussarne le asperità eccessive. Può non essere un male, se si parte dal rispondere in modo chiaro alla domanda principale. Perché ora questo paese ha davvero preso il “sentiero greco”, e non ci si deve più fidare di nessun “candidato nocchiero” che parte dal desiderio di “normalità”, invece di prendere atto della tempesta in atto. Ci sarà da tremare e lottare, da pensare correndo.

In tempi rivoluzionari, occorre capire dove si va rompendo la faglia e avanzare proposte altrettanto di rottura. Non abbiamo bisogno di mezze pensate, di vecchi poltronisti, di dottor tentenna. Quel tempo è scaduto.

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* Per dovere di cronaca, io ne ricordavo 40 di miliardi l'anno, ma l'appunto non inficia minimamente la totale oggettività di un'analisi magistrale.

"Un voto contro l'austerità", riesce a dirlo il Financial Times ma non Il Manifesto

Quando si dice che i media italiani vivono in un mondo a parte anche parlando del nostro paese. Il Financial Times, che è locato a Londra, è riuscito a dire che si tratta di un voto contro l'austerità. Non ci voleva molto a capirlo non diciamo da Londra ma anche da Auckland. Nessuna testata in Italia è riuscita a centrare un titolo del genere, semplice quanto persino dovuto. Non c'è riuscito neanche il Manifesto che, al massimo, si è limitato a ricordare che assieme al Pd alla coalizione partecipa anche Sel (omettendo il dettaglio che Vendola ha perso persino in Puglia).
I media italiani continuano, anche in queste ore, a ripetere il vuoto mantra della governabilità e della ingovernabilità. Dimenticando, ed omettendo, che con la governabilità pura, quella cara ai Napolitano e ai Bersani, a fine mese non ci si arriva. Anche chiedersi se Bersani o Monti abbiano sbagliato la campagna televisiva è ozioso. Eppure basta leggersi le frasi giuste:

"Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini." (Debord)

Le immagini che chiedono consenso per l'austerità, rapporto sociale di miseria e sottomissione, non interessano a nessuno.

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Alitalia al capolinea: nel 2012 perdite quadruplicate a 280 milioni di euro

L'anno scorso la compagnia ha bruciato quasi 800mila euro al giorno. Il conto dell'operazione Fenice elaborata da Passera e Berlusconi nel 2008 evidenzia 843 milioni di perdite accumulate, debiti per oltre 1 miliardo e liquidità agli sgoccioli

Tempismo perfetto per Alitalia che ha pubblicato i conti del 2012 proprio mentre il Paese è concentrato sui risultati elettorali. Come non comprendere? La compagnia di bandiera ha chiuso il 2012 con un rosso di 280 milioni di euro, che significa una perdita quotidiana vicina agli 800mila euro. Quattro volte tanto l’andamento del 2011, quando la società aveva chiuso il bilancio con un rosso di 69 milioni di euro.

A poco è valsa, quindi, la crescita dei ricavi a 3,594 miliardi (+3,3%): il risultato operativo, infatti, è negativo per 119 milioni e si confronta con i -6 milioni del 2011. A pesare sul risultato netto sono stati anche accantonamenti ed oneri straordinari, tra i quali vanno segnalati circa 91 milioni euro dovuti a svalutazioni, manutenzioni e vendite di aerei, nell’ambito del rinnovamento della flotta conclusosi a dicembre 2012.

Ma il dato più allarmante è quello del debito che al 31 dicembre 2012 ammontava a 1,028 miliardi di euro, in aumento di 175 milioni rispetto al 2011, con una quota per l’indebitamento sulla flotta di aerei di proprietà pari a 612 milioni (675 milioni). Al termine del 2012, la disponibilità liquida totale, comprendente le linee di credito non utilizzate , ammontava a circa 75 milioni (326 milioni nel 2011).

Tirando le somme sul piano Fenice elaborato da Banca Intesa, gestione Corrado Passera, nel 2008, Alitalia-Cai in quattro anni ha totalizzato perdite per 843 milioni di euro: 326 milioni nel 2009, 168 milioni nel 2010, 69 milioni nel 2011. E ora i 280 milioni del 2012. Ma oltre ai conti, c’è un altro aspetto che sembra accomunare vecchia e nuova Alitalia, è cioè il record degli avvicendamenti al vertice.

Oggi, infatti, sono state confermate le dimissioni di Andrea Ragnetti che ha retto il timone di Alitalia per meno di un anno. Nei giorni scorsi le indiscrezioni avevano parlato di una trattativa in corso su una buonuscita vicina ai 2 milioni. Fino alla nomina di un nuovo ad, il consiglio di amministrazione ha attribuito ad interim le deleghe al presidente Roberto Colaninno. Il quale, coadiuvato dai due vice presidenti Elio Catania e Salvatore Mancuso, curerà il processo di ricerca del nuovo amministratore delegato.

Prima di Ragnetti, Rocco Sabelli, primo amministratore delegato dell’Alitalia privata, ha lasciato dopo un solo mandato triennale. Negli ultimi due decenni, il mandato più lungo è stato quello di Domenico Cempella, alla guida della compagnia per cinque anni dal 1996 al 2001; il suo successore, Francesco Mengozzi, ha ricoperto l’incarico per tre anni. Una parentesi di soli tre mesi è stata quella di Marco Zanichelli (febbraio-maggio 2004).

Anche il regno di Giancarlo Cimoli, presidente e anche ad, non è andato oltre un triennio (maggio 2004- febbraio 2007). Per pochi mesi è stato presidente Berardino Libonati che si dimise dopo il fallimento della procedura di privatizzazione di Alitalia. Al suo posto venne chiamato, nel luglio 2007, Maurizio Prato, che ha guidato la compagnia nella burrascosa trattativa, fallita, con Air France. E dopo il nulla di fatto con i francesi, anche Prato gettò la spugna, nell’aprile del 2008. Brevissima anche la stagione di Aristide Police, ultimo presidente e ad, prima dell’amministrazione straordinaria.

Per Alitalia, si apre, dunque, un nuovo capitolo. Dal board di oggi non sono emerse indicazioni sull’evoluzione della gestione dell’esercizio in corso. Nel cda di fine gennaio, erano state confermate le previsioni di budget con l’obiettivo di un pareggio operativo nel 2013. Intanto i soci della compagnia, i “21 patrioti” di Silvio Berlusconi, non hanno trovato un accordo neanche sul prestito ponte da 150 milioni deliberato venerdì 22 febbraio. ”E’ stata raggiunta la soglia minima, 95 milioni di euro, di sottoscrizione”, ha infatti comunicato Alitalia a proposito del del prestito convertibile-convertendo in azioni Alitalia.

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La triste cronistoria di uno sfascio perfetto. Mi domando quando durerà ancora questo calvario. Quasi certo mi pare, invece, l'epilogo, che accomunerà Alitalia a Parmalat.

Cuba - Raul confermato, ricambio generazionale in corso

Smentite le voci di dimissioni di Raul Castro. Confermato Presidente per un altro mandato che sarà comunque l'ultimo. Ricambio generazionale nel Consiglio di Stato e nell'Assemblea Nazionale del Poder Popular. Checché se ne dica, quella cubana è una Rivoluzione ancora giovane.

"Me corresponde asumir nuevamente ante ustedes y todo nuestro pueblo el honor de presidir el Consejo de Estado y el Gobierno", questo è quanto ha detto testualmente Raul Castro intervenendo all'Assemblea Nazionale del Poder Popular (il parlamento cubano). Dunque una conferma del suo incarico e delle sue responsabilità.
Viene da chiedersi dove alcuni quotidiani italiani ed occidentali avessero appreso o desunto la notizia, diffusa con grande risalto nei giorni scorsi, secondo cui Raul Castro era in procinto di dare le dimissioni.
Al contrario, Raul Castro ha ricordato e riaffermato quanto detto all'atto del suo insediamento:" Non mi hanno eletto Presidente per restaurare il capitalismo a Cuba né per vendere la Rivoluzione. Sono stato eletto per difendere, mantenere e continuare - perfezionandolo - il socialismo, non per distruggerlo".

In secondo luogo Raul Castro ha ricordato come sia stato proposto di introdurre nella Costituzione di limitare ad una massimo di due periodi consecutivi di cinque anni l'impegno nelle principali cariche dello Stato e del governo così come di stabilire una età massima per occupare queste responsabilità. Ragione per cui questo sarà il suo ultimo mandato.
Tra le novità della seduta di insediamento della nuova Assemblea Nazionale del Poder Popular, c'è Miguel Diaz-Canel Bermudez nominato primo vicepresidente del Consiglio di Stato al posto di Machado Ventura.
Alla seduta ha partecipato anche Fidel Castro accolto da una ovazione. Anche qui viene da chiedersi che effetto fa su quelli che periodicamente lo danno per morto.
Altri dati interessanti attengono alla composizione del nuovo Consiglio di Stato eletto dall'ANPP. Dei suoi 31 membri il 41,9% sono donne e il 38,6% sono neri o meticci. L'età media è di 57 anni e il 61,3% sono nati dopo la Rivoluzione del 1959.
Anche l'Assemblea Nazionale del Poder Popular ha visto un forte ricambio. I nuovi deputati sono il 67,6%, la quota femminile è salita al 48,86% i neri e i meticci al 37.9%. L'età media è di 48 anni.

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Leggo sempre troppo poco su Cuba, purtroppo mancano gli strumenti e il tempo per approfondire e anche qualche dritta valida.

26/02/2013

Warhead


Perché la Turchia fa affari con Israele

Ankara compra sistemi di difesa militari da Tel Aviv. Nassar Ibrahim: "In Medio Oriente Erdogan ha fallito e si è isolato. Gli resta solo Israele".

I rapporti tra Turchia e Israele vivono oggi una nuova stagione: alla ragion di Stato si preferiscono gli affari. Dopo aver rotto ogni rapporto diplomatico a seguito dell'offensiva israeliana contro la nave turca Mavi Marmara nel 2010 - un assalto sanguinoso contro gli attivisti della missione Freedom Flotilla diretta verso Gaza, che provocò la morte di nove cittadini turchi - lunedì la stampa di Ankara ha annunciato la firma di un accordo per la vendita da parte di Tel Aviv di sistemi aerei militari elettronici al governo del premier Erdogan.

Il nuovo equipaggiamento aereo andrà ad integrare i sistemi già sviluppati dall'industria militare turca, il cosiddetto AWACS(Airborne Warning and Control System). L'AWACS è un sistema radar volto ad intercettare velivoli, navi e veicoli a lunga distanza e a gestire battaglie aeree contro un eventuale nemico. L'accordo in questione, del valore di oltre cento milioni di dollari, risale al lontano 2002 e prevedeva la vendita di quattro Boeing 737, dotati di controllo radar e sistema di difesa elettronico.

Il contratto, però, non era stato mai implementato a causa del rifiuto da parte israeliana di fornire gli ultimi due equipaggiamenti necessari al completamento del sistema di difesa AWACS. Un rifiuto derivante dalla decisione della Turchia di interrompere le relazioni diplomatiche con Israele e di procedere al processo in contumacia nei confronti dei soldati e degli ufficiali ritenuti colpevoli della morte dei nove attivisti.

All'epoca dell'attacco delle forze speciali dell'esercito israeliano contro la Mavi Marmara, il premier turco Erdogan chiese ad Israele scuse ufficiali e il riconoscimento di un risarcimento economico alle famiglie delle nove vittime. Una condizione per la ripresa delle relazioni bilaterali, che Israele non ha mai voluto soddisfare. Anzi, nel rapporto finale della Commissione Turkel, comitato di inchiesta governativo per indagare sui fatti del 30 maggio 2010, gli esperti di Tel Aviv hanno completamente assolto il governo e definito l'uso della forza contro attivisti disarmati "appropriato e proporzionale alla minaccia".

A sbloccare la diatriba, che aveva posto in standby l'accordo di vendita, è stato l'intervento diretto della compagnia americana Boeing. Secondo un funzionario del Ministero della Difesa turco, rimasto anonimo, "la Boeing ha detto a Israele che il loro rifiuto a completare la consegna stava danneggiando i loro affari".

Così, Israele avrebbe deciso di mettere la parola fine a due anni di "embargo" contro la Turchia: dal 2010, infatti, il governo Netanyahu aveva bandito le esportazioni verso Ankara. Insomma, rapporti ricuciti perché, si sa, gli affari sono affari. Non solo in campo militare, ma anche in quello energetico.

In ballo c'è infatti anche un accordo per un progetto congiunto turco-israeliano per la costruzione di un gasdotto sottomarino che da Israele, via Turchia, esporti gas naturale verso l'Europa. Stavolta a rallentare l'implementazione del progetto è il governo turco. La scorsa settimana il ministro dell'Energia, Taner Yildiz, ha detto che Ankara non darà il via libera fino all'approvazione definitiva del premier Erdogan.

L'offerta israeliana prevede la costruzione di un gasdotto che parta dal bacino Leviatano - il più ricco di Israele - e che prosegua lungo la costa meridionale della Turchia per giungere a soddisfare le necessità energetiche dei Paesi europei. Un totale di 425 miliardi di metri cubi di gas.

La fretta israeliana è ben comprensibile, ma la Turchia frena: prima Tel Aviv deve venire incontro alle condizioni politiche poste da Erdogan. Il premier, a parole, si è sempre dimostrato uno strenuo antagonista dello Stato ebraico: più volte il primo ministro turco ha definito quello israeliano uno Stato terrorista e l'ultima accusa in ordine di tempo è giunto a seguito del bombardamento israeliano di un convoglio in terra siriana.

Non va dimenticato un elemento fondamentale a comprendere le attuali relazioni tra i due Paesi: l'intenzione di Ankara di assumere il ruolo di leader del mondo arabo, approfittando di un Egitto ancora troppo instabile e una Siria in piena guerra civile. Da tempo Erdogan non nasconde il desiderio di fare della Turchia il nuovo potere regionale, rompendo ogni relazione con l'ex alleato di ferro Bashar al-Assad e facendo dell'Iran il nemico comune.

In un simile eventuale contesto, Israele ha tutto l'interesse di riavvicinarsi alla Turchia, visti i rapporti a dir poco tesi (quasi da guerra fredda) con Damasco e Teheran. La Turchia potrebbe diventare per Israele quello che è stato per anni l'Egitto: sotto la dittatura quarantennale di Mubarak, Israele si è garantito il sostegno e la non belligeranza del Cairo, una garanzia di enorme valore all'interno del mondo arabo.

Ma cosa spinge la Turchia a riavvicinarsi allo Stato ebraico? Ne parliamo con l'analista politico e scrittore palestinese Nassar Ibrahim: "Per comprendere l'attuale gioco di alleanze, è necessario partire dalla storia: per decenni Turchia e Israele hanno mantenuto ottimi rapporti, politici e militari. L'attacco alla Mavi Marmara è l'eccezione, non la regola. Il premier turco Erdogan ne ha subito approfittato per mostrarsi al mondo arabo come l'unico leader in grado di affrontare Israele e difendere i diritti del popolo palestinese, tanto che in quei mesi erano moltissime le bandiere turche che sventolavano nelle manifestazioni in Cisgiordania e in altri Paesi della regione. Il suo successo derivava, però, non tanto dalla sua figura di leader quanto dalla frustrazione per il silenzio degli altri regimi arabi".

Fino allo scoppio delle Primavere Arabe. "Erdogan, a capo di un partito che è figlio dei Fratelli Musulmani - prosegue Ibrahim - ha capito che quello era il momento della Turchia: Ankara avrebbe potuto fare la differenza e diventare il nuovo leader in un Medio Oriente guidato dalla Fratellanza Musulmana. Per questo Erdogan si è subito lanciato contro il regime di Mubarak, quello di Ben Alì, quello di Gheddafi e infine contro il siriano Bashar al-Assad. Compiendo un errore strategico di grande portata: la Siria è stata fedele alleata della Turchia per decenni. I due Paesi intessevano ottimi rapporti politici, economici e militari. Fino alla decisione di Erdogan di abbandonare il vecchio amico Assad, nella convinzione che sarebbe presto caduto per fare spazio ad un governo nuovo, guidato - come in Tunisia e Egitto - dai Fratelli Musulmani".

Ma a due anni dall'inizio della guerra civile siriana, il governo di Damasco non cade e, mentre i gruppi di opposizione islamici tradizionali (tra cui gli stessi Fratelli Musulmani) perdono terreno, avanzano le milizie di Al Qaeda. "Erdogan è entrato in crisi, la sua strategia è entrata in crisi anche a causa del malcontento interno: il popolo turco è tradizionalmente e storicamente vicino a quello siriano e nessuno ha compreso la necessità di abbandonare Damasco. In particolare l'esercito, potere forte e radicato in Turchia, sta duramente criticando Erdogan: per favorire interessi di partito (ovvero diventare il punto di riferimento di tutti i partiti di governo dei Fratelli Musulmani), ha sacrificato gli interessi politici ed economici della Turchia".

"In tale contesto va letto il riavvicinamento a Israele - conclude Ibrahim - La Turchia si è isolata, è ormai circondata da Stati antagonisti. La Siria, l'Iran, l'Iraq. Ad Erdogan restano la NATO, l'Europa e gli Stati Uniti, ovvero i più stretti alleati di Israele. Se Ankara vuole garantirsi l'appoggio occidentale e i missili Patriot dell'Alleanza Atlantica, ha bisogno di rinnovare i rapporti con Tel Aviv".

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