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30/11/2023

Una sterminata domenica (2023) di Alain Parroni

Delmastro a processo, ma è persino il problema minore...

La cronachetta ridicola della piccola politica italiana – questa è “la nazione” che Giorgia Meloni intende – ci consegna il rinvio a giudizio del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove, per “rivelazione del segreto d’ufficio”.

La decisione è stata presa dal gip Maddalena Cipriani, accogliendo le conclusioni dell’altra gip, Emanuela Attura, che a luglio aveva imposto l’’imputazione coatta’ del sottosegretario. Si chiude così la fase dell’inchiesta partita dalla sparata suicida del suo compare di partito e di stanza, Giovanni Donzelli.

Il quale aveva trovato evidentemente “fichissimo” usare le intercettazioni delle chiacchiere in cortile tra l’anarchico Andrea Cospito e i suoi occasionali compagni di “passeggio”, nel carcere sassarese dove vige il 41bis, per attaccare l’ectoplasma dell’opposizione piddina. Rea, a suo dire, di aver ascoltato e registrato – tramite quattro parlamentari in visita istituzionale a quel carcere, dove Cospito era in sciopero della fame – le richieste dei detenuti.

La faccenda è leggermente più complessa e torbida di come la presentano oggi i media e, naturalmente, l’ultradestra al governo.

Vediamo perciò di separare le questioni per non fare confusione, e vediamo prima gli aspetti legali che hanno portato al rinvio a giudizio e poi cos’è avvenuto veramente (o molto probabilmente) quel giorno in quel carcere.

Donzelli, in aula, aveva citato parola per parola parti delle intercettazioni, che sono coperte dal “segreto d’ufficio” e dunque non possono essere a disposizione di nessuno, tranne gli inquirenti.

Non rientrando in questa categoria, al capogruppo dei “fratelli di Trenitalia” alla Camera la “soffiata” – ovvero il testo delle intercettazioni – poteva essergli arrivata solo tramite il compare di stanza, superiore in grado, come vice di Nordio, del direttore del Dap e sull’intera catena di comando.

Passaggio di carte peraltro pacificamente ammesso dal diretto interessato, che si era difeso allora dichiarando di “non essere stato consapevole” che quei documenti erano “riservati” e dunque non rivelabili in pubblico (tanto meno durante una seduta parlamentare in diretta televisiva!).

Sorvoliamo sulla “non consapevolezza” in materia di legge da parte del numero 2 del ministero apposito (nonché avvocato penalista, per disgrazia dei suoi clienti), e andiamo al nocciolo legale.

Tutto ruota sulla definizione di quei documenti come «a limitata divulgazione» (la dicitura apposta sulla copertina del fascicolo), che ne indica inequivocabilmente la natura “riservata” (e una diretta televisiva certamente non lo è...).

Vedranno i giudici, nel processo che ormai si deve aprire, come stanno le cose su questo piano e quanto sarà considerato grave il reato.

Sul piano politico, invece, le cose sono già chiare. Usare “notizie riservate”, ottenute grazie alla posizione istituzionale (viceministro) di un amichetto di partito è già oltre i limiti della miseria politica. Detto altrimenti: usare i poteri dello Stato per speculare un facile guadagno politico e da... fate voi.

Ma c’è sicuramente qualcosa di più e di peggio. La ricostruzione degli avvenimenti fatta da Luigi Manconi – parlamentare di lungo corso, nonché “specializzato” nel settore giustizia, e sulle carceri in particolare – è un tantino più grave. Ma dà la misura esatta di che tipo di gente sia quella di cui stiamo parlando.

Manconi fa sapere – e rammenta anche agli “inconsapevoli” – che in regime di 41 bis la stessa “socialità”, ossia la possibilità di incontrare altri detenuti durante l’”ora d’aria”, viene regolamentata in modo tale che non sia il detenuto a scegliersi con chi parlare.

La composizione dei piccoli gruppi (tre, massimo quattro persone) che passeggiano un’oretta al giorno nello stesso quadratino di cemento armato viene decisa dal Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), ossia dai vertici del ministero della Giustizia.

E il giorno della fatidica visita dei 4 parlamentari del PD, arrivati al carcere di Bancali per verificare le condizioni di salute dell’anarchico in sciopero della fame, Cospito – fino a quel giorno accompagnato ad altri due detenuti considerati di “bassa pericolosità” (non due boss, insomma) – viene invece messo insieme a due detenuti per mafia (Francesco Di Maio e Francesco Presta).

Tutto chiaro?

La decisione di far stare insieme quelle persone è stata presa ufficialmente dalla direzione di Bancali, non da Cospito. E, per chi conosce almeno le basi del vivere in un carcere, anche se la compagnia non te la sei scelta, non puoi fare a meno di scambiare quattro parole.

Se poi – come Cospito – in quei giorni, a tutte le ore, la televisione parla di te e della tua protesta, è inevitabile che quelle “quattro chiacchiere” tocchino anche quell’argomento e non solo il tempo che fa. Ma non è né un reato, né una dimostrazione di “contiguità”.

Un “lieve sospetto” che, al direttore del carcere, l’indicazione di creare quella inedita “composizione del passeggio” sia venuta “dall’alto”, ossia dal Dap (il capo era Giovanni Russo, in quel momento), ovvero dai vertici del ministero, e quindi anche dallo staff di Delmastro... non è poi un “pensare così male” (citando Andreotti...).

Il resto va da sé. La “triangolazione” tra il povero Cospito, i due mafiosi e i parlamentari del Pd è stata creata (per sbaglio o intenzionalmente) proprio dal ministero di Giustizia. Di cui Delmastro è tuttora il ‘numero 2’.

Le conversazioni tra tutte queste persone vengono registrate, sbobinate, raccolte in documenti “a diffusione limitata” e infine amichevolmente consegnate nelle capaci mani di Donzelli per consentirgli di fare la sua figura in Parlamento.

Edificante, non trovate? Che Delmastro finisca a processo è in fondo un problema decisamente minore. Quello enorme è la “qualità” di questa classe politica.

Roba da commuoversi ed arruolarsi subito... tra i monaci del monte Athos.

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È finito il secolo di Kissinger

Se n‘è andato in nottata, all’età di cento anni – compiuti a maggio – uno dei personaggi politici più subdoli e machiavellici che la tragica storia del ‘900 abbia annoverato.

Quell’Henry Kissinger che fu potentissimo Segretario di Stato e Consigliere per la Sicurezza Nazionale sia durante la controversa Presidenza Nixon che nel triennio di Gerald Ford.

Fautore della cosiddetta realpolitik – nel nome della quale perorò addirittura il disgelo con la Cina di Mao, in funzione anti-sovietica – Kissinger fu tra i più audaci sostenitori delle spregiudicate teorie monetariste messe a punto dalla Scuola di Chicago e dai suoi “Chicago Boys”, diretti dall’economista neoliberista Milton Friedman.

La dottrina, i cui principi innervanti sono le privatizzazioni e la deregulation durante le oscillazioni di mercato, si fonda sulla supremazia monetaria del dollaro nei confronti delle altre divise, cui fanno da imprescindibile controcanto l’interventismo militare e il saccheggio imperialista a stelle e strisce.

Mentre sul piano istituzionale l’egemonia della moneta americana è da sempre sostenuta dalle ricette del FMI, autentica longa manus finanziaria degli Usa.

In definitiva, una struttura la cui finalità è il mantenimento del dominio economico e del modello culturale statunitense sull’intero pianeta.

Proprio questi principi dottrinari furono all’origine dei golpe imposti dagli Usa, negli anni ’70, in molti paesi dell’America Latina. A partire dal Cile e dall’Argentina.

Ma anche delle cosiddette guerre sporche condotte dalle amministrazioni Nixon e Reagan in Paraguay, Nicaragua, Venezuela, Brasile, Salvador. Nonché causa dell’ingerenza americana nelle sue colonie più lontane, tra cui certamente l’Italia.

E non si possono certo dimenticare il brutale e illegittimo bombardamento – dal punto di vista del diritto internazionale e della violazione dei diritti umani – voluto da Kissinger e Nixon sulla Cambogia. Come pure l’intervento statunitense nella Guerra del Kippur del 1973 a sostegno dello storico alleato sionista. Per non tacere delle operazioni Cia nell’Africa subsahariana.

Un’eredità insomma, quella di Henry Kissinger – che il politologo Robert Kaplan definì non a torto “il più grande statista bismarckiano del ventesimo secolo” – cui ancor oggi paghiamo un ben gravoso e sanguinoso dazio.

Un criminale e un nemico vero – al quale la borghesia, coi suoi comitati d’affari, non mancò di tributare un vergognoso Nobel “per la pace” – la cui dipartita arriva anche troppo tardi.

Non ci mancherà!

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Ustascia croati e Ordine Nuovo

Ordine Nuovo, l’organizzazione nazi-fascista fondata da Pino Rauti, disponeva delle armi e degli esplosivi di Gladio. Non solo, è anche emersa l’esistenza di una struttura Stay Behind jugoslava di fatto costituita dagli ustascia croati collegati a Ordine Nuovo tramite la cellula veronese.

È quanto risulta dalla lettura degli ultimi atti di indagine sulla strage di piazza della Loggia avvenuta a Brescia il 28 maggio 1974, con otto morti e più di un centinaio di feriti.

L’inchiesta-stralcio, conclusasi nel dicembre 2021, ha portato ad indagare due ex esponenti di Ordine Nuovo, Marco Toffaloni, all’epoca minorenne, oggi cittadino svizzero, e Roberto Zorzi, trasferitosi molti anni fa negli Stati Uniti.

«L’impianto accusatorio che emerge» – hanno sottolineato gli inquirenti – «inserirebbe la posizione degli odierni indagati, senza fratture, nel quadro già tracciato dal precedente processo». Si confermerebbe anche da queste nuove carte che la strage fu eseguita da Ordine Nuovo.

Armi esclusivamente americane

Dalle investigazioni dei carabinieri inviate alla Procura della Repubblica, tra il settembre 2015 e il marzo 2021, si è scoperto che alcuni militanti della cellula veronese di Ordine Nuovo erano stati reclutati da Gladio e disponessero, già a metà degli anni Sessanta, dei materiali occultati in uno dei cosiddetti Nasco (i nascondigli della struttura), quello di Arbizzano di Negrar, da cui sparirono micce detonanti e alcune bombe MK2 di esclusiva fabbricazione americana, non in dotazione all’esercito italiano.

E se già nel 1966 erano state sequestrate in una perquisizione alcune di queste bombe a due dirigenti di On di Verona, Roberto Besutti e Elio Massagrande (passarono per collezionisti d’armi), lo stesso tipo di granate, si è accertato, erano poi finite nella disponibilità di Marco Toffaloni, oggi rinviato a giudizio per strage.

La caserma di Parona Valpolicella

Come noto la costituzione di un’organizzazione paramilitare clandestina denominata Gladio, inquadrata nella rete atlantica Stay Behind, con compiti di sabotaggio, guerriglia, propaganda ed esfiltrazioni, in caso di invasione nemica, fu avviata nel novembre 1956 in accordo con gli Stati Uniti.

Dodici furono i «Nuclei» di «pronto impiego» che nel corso degli anni vennero addestrati alla «guerriglia».

A partire dal 1959 vennero poi trasferiti dagli Stati Uniti gli armamenti necessari (tra loro esplosivi), poi occultati dal 1963 in 139 «Nasco», di cui ben 100 nel Friuli e 7 nel Veneto.

A causa del rinvenimento fortuito, nel 1972, da parte di alcuni ragazzi, del Nasco di Aurisina in provincia di Trieste, ritrovato aperto e pesantemente saccheggiato degli esplosivi militari al plastico C4, venne deciso il recupero di tutti i depositi.

Dai documenti acquisiti dai magistrati di Brescia presso l’Aise (l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna), si è appurato non solo che «tutta la documentazione» relativa ai recuperi dei Nasco è stata «distrutta», ma soprattutto che esisteva «un numero di Nasco superiore a quello dichiarato», e che dopo lo smantellamento il materiale era «transitato per i Comandi dell’Arma dei Carabinieri».

Su questo ultimo fatto si è appuntata in particolare l’attenzione degli inquirenti. Grazie a diverse deposizioni si è infatti acquisita la certezza di diversi incontri per preparare attentati, prima di piazza della Loggia, in una caserma dei carabinieri a Parona Valpolicella (periferia Nord di Verona), responsabile della custodia del Nasco di Arbizzano di Negrar, presenti quelli di Ordine Nuovo.

Con gli Ustascia

Già il generale Gerardo Serravalle, alla testa di Gladio dal 1971 al 1974, nelle sue memorie pubblicate nel 1991, parlò di «una Gladio jugoslava gestita dalla CIA». Un’affermazione che al tempo non fu compresa.

Ora la conferma. Secondo la testimonianza di una figura un tempo ai vertici di Ordine Nuovo a Verona, Claudio Lodi, erano stati proprio loro, protetti in ambito Nato, a collaborare con gli ustascia per dar vita alla Gladio in quel Paese.

Ordine Nuovo è stata dunque ben più di un’organizzazione politica. Sono d’altro canto gli stessi carabinieri che hanno affiancato i magistrati di Brescia a scrivere che «Ordine Nuovo era una forza antinvasione dipendente dalla Ftase di Verona», ovvero dal più importante comando Nato dopo Napoli per il Sud Europa.

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Un altro giorno di tregua a Gaza. Palestinesi sotto attacco in Cisgiordania. Attentato letale a Gerusalemme

Hamas e le autorità israeliane hanno concordato oggi una ulteriore proroga della tregua in vigore a Gaza, in cambio della liberazione di un maggior numero di ostaggi israeliani e contestualmente di prigionieri palestinesi. L’annuncio è arrivato questa mattina, pochi minuti prima della scadenza della tregua, che era in programma alle 7 di oggi.

Secondo Hamas, la tregua è stata prorogata di altre 24 ore, mentre le Forze armate israeliane (Idf) non hanno fornito ulteriori dettagli. Il Qatar ha confermato che l’interruzione dei combattimenti proseguirà per un altro giorno sulla base delle condizioni già concordate in precedenza.

Ieri, nell’ambito dell’accordo tra le due parti, Hamas ha consegnato alla Croce Rossa altri dieci ostaggi israeliani, oltre a due cittadini con passaporto russo in risposta alle richieste del presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin.

Da parte sua, la commissione per l’amministrazione dei prigionieri palestinesi ha reso noto che nella lista dei detenuti liberati ieri sono presenti 15 donne, tra cui la nota giovane attivista Ahed Tamimi.

Netanyahu, dando l’ennesima delusione a chi sperava che la tregua diventasse un cessate il fuoco duraturo, ha ribadito che una volta completato il rilascio di tutti gli ostaggi, Israele riprenderà le azioni militari contro i palestinesi a Gaza per portare a termine gli obiettivi fissati dal gabinetto di guerra: eliminare Hamas e prevenire qualsiasi minaccia dalla Striscia di Gaza.

Sulla stessa linea sono anche le affermazioni del ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, che ha dichiarato che tutte le forze armate aeree, marine e terrestri sono pronte a riprendere i combattimenti.

Le Brigate Al-Qassam, il braccio militare di Hamas, hanno detto ai loro combattenti nella Striscia di Gaza di essere pronti a riprendere le battaglie con Israele se non verrà rinnovata la tregua, secondo un comunicato citato dai media internazionali.

“Le Brigate Al-Qassam – si legge nella nota – chiedono alle loro forze attive di mantenere un’elevata prontezza al combattimento nelle ultime ore della tregua”, che scade alle 6 ora italiana. I combattenti dovrebbero “rimanere su tali basi a meno che non venga rilasciata una dichiarazione ufficiale che confermi l’estensione della tregua”, aggiunge la dichiarazione.

Ieri si era tenuto un incontro del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per discutere degli sviluppi del conflitto e della possibilità di prolungare la tregua. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha ribadito la necessità di “un vero cessate il fuoco umanitario” e ha esortato ad aumentare gli aiuti che stanno entrando nella Striscia di Gaza dove è in corso una “catastrofe umanitaria epica”.

In Cisgiordania sono stati uccisi 452 palestinesi solo nel 2023

Mentre si discute di tregua a Gaza, i dati che vengono dalla Cisgiordania sottoposta all’occupazione coloniale sono estremamente pesanti e non dovrebbero affatto essere persi di vista né esclusi da eventuali negoziati sul cessate il fuoco.

Il numero di palestinesi uccisi dall’esercito israeliano e dai coloni nella Cisgiordania occupata dal 7 ottobre ha superato infatti il numero di palestinesi uccisi lo scorso anno. L’esercito e i coloni, dal 7 ottobre hanno ucciso 242 palestinesi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est occupata.

Una precedente dichiarazione dell’Ufficio per gli affari umanitari delle Nazioni Unite (OCHA) affermava che 171 palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania nel 2022 dalle forze e dai coloni israeliani.

Il numero di palestinesi uccisi in Cisgiordania dal 7 ottobre rappresenta il 48% di tutte le vittime palestinesi in Cisgiordania che nel 2023 sono arrivate a 452 secondo una dichiarazione dell’OCHA pubblicata il 23 novembre.

La dichiarazione afferma che circa il 66% delle vittime dal 7 ottobre si sono verificate durante gli scontri che hanno seguito le operazioni israeliane di ricerca e arresto, principalmente nei governatorati di Jenin e Tulkarem; il 24% è stato nel contesto di manifestazioni riguardanti Gaza; il sette per cento è stato ucciso mentre attaccava o presumibilmente attaccava le forze israeliane o i coloni; il due per cento è stato ucciso in attacchi di coloni contro i palestinesi; e l’uno per cento durante le demolizioni punitive.

Dal 7 ottobre in poi sia i coloni che i militari israeliani attaccano con brutalità le città e i villaggi palestinesi della Cisgiordania. Circolano in rete alcuni agghiaccianti video sull’uccisione di due bambini palestinesi. Omicidi volontari, non “effetti collaterali”.

Attacco palestinese a Gerusalemme. Uccisi tre israeliani

La risposta palestinese per i morti di Jenin è arrivata questa mattina. È salito a tre il bilancio delle vittime israeliane dell’attacco a colpi di arma da fuoco avvenuto questa mattina alla periferia di Gerusalemme. I feriti sono sette. Uno dei morti è un giudice del tribunale rabbinico. I filmati delle telecamere di sorveglianza mostrano l’attacco all’ingresso di Gerusalemme questa mattina, con due uomini armati che escono da un’auto e aprono il fuoco contro un gruppo di civili in attesa a una fermata dell’autobus.

Gli autori dell’attacco sono stati a loro volta uccisi da due soldati fuori servizio e da un civile armato. Uno dei due, come si evidenzia da un video, è stato freddato dopo che si era arreso. Si tratta di Ibrahim Nemer, 30 anni, e Murad Nemer, 38 anni, due palestinesi residenti a Gerusalemme Est.

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Storia di Israel Frey, di sionisti e di una preghiera di troppo

Israel Frey è un giornalista di Tel Aviv, ebreo ortodosso, pacifista e fortemente critico nei confronti dei sionisti, in particolare con quelli al governo che definisce “estremisti e razzisti“.

Da anni si occupa con coraggio delle violazioni dei diritti umani e civili dei palestinesi della Cisgiordania.

Parla di terre rubate, di case occupate, di violenze dei coloni e dell’esercito israeliano “che occupa illegalmente il territorio dei palestinesi“.

Israel ha l’invidiabile capacità di convivere serenamente da lungo tempo con le minacce e gli insulti dei sionisti ai quali, sui social, risponde persino con gentilezza, argomentando il suo pensiero e ricevendo puntualmente altri insulti.

A dicembre la polizia lo convoca per interrogarlo riguardo a un post (!) su X Twitter, Israel ha paura e non si presenta. Arrestato con l’accusa classica di “incitamento al terrorismo” viene rilasciato con l’avviso di stare molto attento a ciò che dice o scrive.

In questo mese di novembre, la vita di Israel Frey diventa un incubo.

I sionisti più estremisti, notoriamente democratici e aperti al dialogo (a detta dei media nostrani), vogliono, in sostanza, fargli la pelle.

Alcuni giorni fa, Israel twitta la foto di un bambino palestinese e scrive: “Vi presento Moetaz, 16 anni, studente. È il n° 99 della lista dei bambini che abbiamo ucciso dall’inizio dell’anno in Cisgiordania. Qui non c’è una guerra da giustificare“.

Riceve una miriade di insulti

Israel è un ebreo ortodosso in continua preghiera. Prega per le vittime di ogni guerra, comprese quelle israeliane.

Con pochi amici pacifisti, organizza una preghiera per i defunti bambini di Gaza.

Per i sionisti è un affronto. Lasciano le tastiere e passano ai fatti.

Una folla di sionisti di estrema destra circonda l’abitazione di Israel, lanciano petardi urlando minacce di morte per il giornalista.

Alcuni riescono ad entrare in casa e lo picchiano selvaggiamente davanti alla moglie e ai bambini.

Israel aveva chiesto aiuto alla polizia che, con calma, arriverà solo dopo due ore.

Gli agenti sgomberano la piazza e accompagnano il giornalista all’ospedale.

Durante il tragitto uno dei poliziotti gli sputa addosso. “Amico di Hamas“, si sente dire.

Non è finita. Arrivato in ospedale riesce a evitare una seconda aggressione da parte di sionisti che lo riconoscono. Grazie al provvidenziale aiuto di un infermiere amico d’infanzia viene condotto giusto in tempo in un luogo sicuro dell’ospedale.

Secondo Haaretz e Middle East Eye, Israel Frey e la sua famiglia, temendo ulteriori aggressioni, sono fuggiti da Tel Aviv e sono nascosti in un’altra città all’oscuro persino dalla polizia.

In un video postato su X, Israel dice: “Vi prego, siate prudenti nel sostenere il governo israeliano perché state incoraggiando la pulizia etnica dei nativi palestinesi e le persecuzioni dell’opposizione interna“.

Due note.

1. La polizia ha identificato uno degli aggressori di Israel. Trattasi di Meir Kahane, è un rabbino.

2. A parte sparute eccezioni, nessun giornale italiano ha ritenuto di pubblicare la notizia o di esprimere solidarietà al collega Israel Frey.

Fine.

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“Né l’amnistia né l’Europa ci salveranno”

Dalla prigione catalana di Ponent, dove da due anni e mezzo sconta una pena per ingiurie alla corona e apologia del terrorismo, Pablo Hasel ha scritto una breve e tagliente lettera che tocca diversi temi oggi al centro del dibattito politico iberico: l’accordo tra i partiti indipendentisti e il PSOE, all’origine dalla riconferma di Pedro Sánchez alla Moncloa; la reale portata dell’amnistia; il ruolo delle istituzioni europee sullo scacchiere internazionale.

La lettera riporta all’attenzione dell’opinione pubblica il caso di Hasel che, dopo aver suscitato lo sdegno e le proteste di migliaia di giovani dentro e fuori lo stato spagnolo, sembra quasi dimenticato.

Conviene ricordare che il musicista di Lleida è finito in carcere a causa di diverse sentenze di condanna tra cui una per i testi delle proprie canzoni, un’altra per una supposta aggressione e infine per alcune opinioni che sono state tacciate di inneggiare al terrorismo.

Proprio quest’ultima accusa merita una riflessione preliminare: è oggi più che mai evidente l’uso politico del termine “terrorista“, impiegato con disinvoltura dagli Stati per condannare senza appello quello che considerano “il nemico”. Con i suoi messaggi, cantati e non, Hasel ha toccato un nervo scoperto dello stato spagnolo tanto da guadagnarsi l’accusa di “apologia del terrorismo“.

Ma ricordare le torture della poliza inflitte ai membri di ETA o a quelli dei GRAPO, un’organizzazione armata marxista-leninista attiva durante e dopo la transizione, è fare apologia del terrorismo?

Sostenere, riferendosi ai GRAPO, che «le prigioniere e i prigionieri politici sono un esempio di resistenza» è fare apologia del terrorismo o un legittimo esercizio di difesa della memoria storica?

La denuncia dei legami della monarchia spagnola con quella saudita, oggetto peraltro delle indagini della magistratura, dev’essere considerata un’ingiuria? Difendere un giovane che affiggeva manifesti a favore dell’autodeterminazione da un provocatore che lo stava aggredendo è un reato?

Evidentemente per lo Stato spagnolo uscito dalla transizione, è ancora oggi difficile tollerare la critica alla mancata trasformazione delle strutture repressive statali (così come la critica alla conservazione nelle mani delle elite franchiste del potere economico e la critica all’unità dello stato).

Su questi temi esiste un settore sociale conservatore, imbevuto della cultura politica franchista, pronto a mobilitarsi, come è accaduto con le proteste seguite all’annuncio dell’amnistia e scatenatesi nelle piazze di Madrid.

Con questo settore i socialisti di Pedro Sánchez hanno condiviso tra l’altro la gestione dell’immigrazione, il sostegno alla NATO, l’adesione al nazionalismo spagnolo e la repressione dei movimenti indipendentisti.

Ed è improbabile che la recente amnistia rappresenti un vero punto di svolta: nel caso di Pablo Hasel (e di molti altri detenuti politici) sembra infatti imporsi una interpretazione restrittiva del provvedimento che, con il beneplacito del nuovo governo, lascerà il rapper comunista in carcere fino al 2027.

Bisogna sottolineare anche che la Corte Europea di Strasburgo ha rifiutato il ricorso presentato da Hasel e ha giudicato corretta la pena comminata dai giudici spagnoli.

Si tratta senza dubbio di una sconfitta giuridica che però ha un risvolto imprevisto: la decisione del tribunale contribuisce a smontare l’opinione, assai diffusa nell’indipendentismo catalano (fatta eccezione per la CUP), secondo la quale l’Unione Europea “rispetterebbe i principi democratici” più di quanto faccia lo Stato spagnolo. Su questo tema, la lettera del rapper è molto chiara.

Seppure alcuni giudizi di Hasel, soprattutto quelli sui partiti spagnoli e catalani, possano talvolta prestarsi all’accusa di un certo massimalismo, bisogna riconoscere che non fanno sconti a nessuno, investendo tanto i socialisti quanto gli indipendentisti.

Anche perciò vale la pena ascoltare il suo punto di vista, non foss’altro che per dare voce a un rapper comunista silenziato, divenuto un detenuto politico, che rivendica la propria appartenenza ideologica.

Qui di seguito la lettera di Pablo Hasel apparsa il 16 novembre sulla stampa catalana.
«Ancora una volta, numerosi partiti hanno raggiunto un accordo sulla fiducia al governo, il cui contenuto suppone la violazione reiterata dei diritti civili e politici. In nome del progressismo, torneranno a mettere in campo politiche all’insegna dello sfruttamento, della miseria, della repressione e dell’imperialismo. Tutto ciò sostenendo un regime profondamente antidemocratico, nemico dei nostri interessi, sia come popolo che come classe.

L’amnistia sulla quale si sono accordati – e vedremo se questa amnistia davvero mantiene ciò che promette – non arriva neppure a includere tutti gli indagati e condannati in Catalunya. Perché la repressione va molto oltre il processo indipendentista: ci sono migliaia di perseguitati per le lotte sul lavoro, le lotte studentesche, quelle per la casa, contro il maschilismo, il razzismo, l’omofobia e contro la repressione.

Inoltre in ambito statale ci sono molti altri prigionieri politici che non sono neppure menzionati perché si vogliono nascondere. E non possiamo permetterlo perché questi prigionieri hanno difeso la nostra dignità. Soprattutto i prigionieri politici sequestrati da decenni, che sono l’esempio di lotta più coerente per i diritti civili, sociali e politici, inclusa l’autodeterminazione.

Perciò dobbiamo rivendicare l’amnistia totale, dovunque sia possibile, e organizzare la solidarietà per far fronte alla repressione presente e a quella futura. L’ampliamento delle leggi repressive approvate dai falsi progressisti dice chiaramente che non ci sarà tregua.

Con altrettanta chiarezza, le nefaste condizioni di vita ci dicono che è necessario intensificare la lotta (che sarà repressa). Il regime non ha bisogno del Partido Popular e di Vox al governo per imporre questo fascismo occulto: se ne incarica il PSOE-Sumar e i loro collaboratori, che perpetuano ogni tipo di atrocità.

Il progressismo e alcuni settori della “sinistra” addomesticata hanno ripetuto spesso che l’Europa non lo permetterebbe, idealizzando l’UE. La realtà ha dimostrato ripetutamente che dicevano una menzogna.

Un recente esempio è la condanna che ho ricevuto per aver denunciato fatti oggettivi, ratificati dal tribunale di Strasburgo. Una condanna incomprensibile, dato che in precedenza lo stato spagnolo era stato condannato per la pratica della tortura, considerata invece nella mia sentenza un’“ingiuria”.

Il fatto che a volte la Corte Europea o l’ONU ammoniscano o condannino lo stato spagnolo per la grossolana repressione non significa che lo facciano sempre, né che riescano a fermarlo. Cosa che non sorprende perché anche l'Unione Europea reprime, e questa evidenza non è inficiata dal fatto che alcuni stati membri dell’unione siano più rispettosi delle libertà rispetto a quello spagnolo.

L’Europa che partecipa alle invasioni imperialiste della NATO, che trasforma il Mediterraneo in una fossa comune per i migranti, che aiuta il sionismo a occupare la Palestina e a portare a termine un genocidio, che equipara nazismo e comunismo, che culla le multinazionali responsabili dello sfruttamento e del saccheggio selvaggio di numerosi paesi, che ha sostenuto il jihadismo in Siria e che arma i nazisti ucraini, non ci salverà.

Non esiste altra soluzione che aumentare gli sforzi per far crescere le lotte nelle piazze. Soltanto rafforzando l’organizzazione rivoluzionaria conquisteremo i diritti e la libertà che ci strappano di mano con la violenza.

È sempre più urgente sviluppare l’unità attorno alla solidarietà e alla lotta per un programma veramente democratico-popolare, che includa l’uscita da questa Unione Europea sfruttatrice, repressiva e imperialista. Altrettanto necessario è denunciare come sotto questo “nuovo” governo continueremo ad essere ugualmente oppressi in tutti i sensi.

Rovesciamo il regime monarchico-fascista! Visca la resistenza! Amnistia totale!»
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L’autunno del disgelo

Veniamo da alcune giornate che negli anni scorsi avremmo tutti definito “straordinarie”. E in effetti lo sono state, al punto da farci considerare “normale” che si possa fare anche di più e meglio.

Il primo segno tangibile si era avuto il 28 ottobre, con l’imprevisto, grande, successo della mobilitazione per la Palestina, contro il massacro in corso a Gaza.

Ci si era ripetuti il 4 novembre, in una manifestazione più direttamente politica, contro le guerre e il governo post-fascista della Meloni, con ancora molta attenzione e spazio per la Palestina.

Persino Cgil e Uil, dopo decenni di concertazione complice, sono state spinte a mettere in campo uno sciopero generale, pur se in forme talmente frammentate da azzerarne l’impatto politico e favorire il “contropiede” governativo.

Non citiamo tutte le molte altre manifestazioni avvenute un po’ in tutta Italia, gli scioperi settoriali del sindacalismo di base, ma è indubbio che l’ultima, quella del 25 novembre a Roma, sia stata di dimensioni tali da costituire un fatto politico di prima grandezza.

Se ne sono accorte anche le forze reazionarie al governo, che hanno immediatamente provato a strumentalizzare la semplice contestazione alla sede del cosiddetto movimento “Pro Vita” – molti slogan, qualche scritta sulla saracinesca – con una escalation di definizioni da guerra civile: “assalto”, “vandalizzazione”, “irruzione” e via strillando. Oppure con dichiarazioni isteriche contro la presenza di bandiere palestinesi nel corteo.

Tutto e di più, per provare ad azzerare quel mezzo milione di donne e uomini che, dopo anni, sono tornati a far sentire la propria voce in piazza.

Se consideriamo insomma l’insieme di queste mobilitazioni, e non ognuna di esse singolarmente, è impossibile non vedere che qualcosa si è smosso all’interno di vasti settori sociali. Impossibile non sentire l’indignazione generale finalmente tornare sentimento di massa.

E quando “le masse” tornano in gioco, il gioco cambia.

Troppo ottimisti? Certo, se ci si ferma alle singole dichiarazioni di questa o quel protagonista, di questa o quell’organizzazione, e le si analizza con il microscopio della propria personale visione politica ideale, si possono trovare mille debolezze e altrettante contraddizioni non risolte.

Certo, si può dire con qualche ragione che l’eccezionale rilievo dato per giorni, da tutti i principali media, al brutale femminicidio di Giulia, ha “stimolato” indirettamente la partecipazione.

E altrettanto certamente si può dire con molte ragioni che quell’“eccezionale rilievo” era fondato sul tentativo di nascondere mediaticamente il genocidio in corso a Gaza, e persino il totale fallimento della “controffensiva” della giunta ucraina.

Ma proprio queste tre considerazioni convergono nel delineare lo stato di profondo malessere sociale che attendeva soltanto l’occasione giusta per sfondare la lastra di ghiaccio dell’atomismo sociale, dell’individualismo rancoroso e sordo che ognuno di noi può vedere sui social.

Di fatto, persino i continui tentativi di “distrazione di massa” messi in atto attraverso i media hanno finito per mettere in collegamento oggettivo, ed in parte anche soggettivo, temi mobilitanti che apparivano prima diversi e distanti: la violenza di genere, la violenza colonialista, la violenza dello sfruttamento, gli omicidi sul lavoro, la miseria del salario, ecc.

Il malessere sociale si è insomma messo fisicamente in marcia e ha cominciato a verificare che molti steccati tra le diverse sofferenze erano del tutto artificiali, costruzioni e narrazioni create per “separare e regnare” più comodamente.

Le tante bandiere della Palestina del 25 novembre, la loro partecipe accettazione da parte del corteo, stanno lì a dimostrare che si comincia a riconoscersi tra oppresse/i, sfruttate/i, violentate/i.

È un fatto, ed è costituente per la progressiva formazione di un fronte sociale che chiede cambiamenti radicali ad ampio spettro e mette in discussione i pilastri del comando sulle persone. Su tutte le persone, di qualsiasi colore, età, genere, lingua, etnia, tradizione culturale o religiosa.

È un fatto sconvolgente per chi, nel corso degli ultimi 30 anni almeno, aveva condiviso il comandamento politico, teoricamente “unitario”, dell’evitare le questioni e gli argomenti divisivi.

Le piazze dell’ultimo mese ci dicono, con i linguaggi che sono loro propri, che sono proprio le questioni divisive quelle su cui ci crea l’unità vera. Perché sono quelle che “naturalmente” fanno schierare tutte e tutti gli sfruttate/i, le/gli oppresse/i, le/i violentate/i, dalla stessa parte.

E ci riescono perché consentono di identificare con certezza lo sfruttatore, l’oppressore, il violentatore. Ossia le figure con cui mai, mai, mai, ci potrà essere “unità”, perché sarebbe l’accettazione del loro potere su di noi. Com’è stato, in fondo, negli ultimi quasi 40 anni.

Un annuncio di disgelo, certo, non ancora la primavera piena o l'“autunno caldo” dei tempi ormai lontani. Ma che proprio per questo va accolto e protetto, con tutta la saggezza e la forza di cui ognuno di noi è capace. Anzi, di più.

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29/11/2023

La morte risale a ieri sera (1970) di Duccio Tessari - Mini

Il rischio che gli Usa si impantanino anche in Medio Oriente

Mentre i Tg e i mass media continuano ad ossequiare ogni battito di ciglia di Biden – anche quando non ve n’è ragione – gli analisti più attenti segnalano come l’amministrazione statunitense rischi di impantanarsi nel Medio Oriente incendiato dall’operazione militare israeliana a Gaza.

È il caso della autorevole rivista Foreign Affairs che in un lungo articolo del 24 novembre scorso di Jennifer Kavanagh e Frederic Wehrey parla di “incombente pantano mediorientale di Washington”.

Secondo Foreign Affairs “L’iniezione di materiale e personale militare da parte di Washington potrebbe anche finire per intrappolare gli Stati Uniti in impegni di sicurezza a tempo indeterminato in una regione da cui, fino a poco tempo fa, avevano cercato di districarsi”.

Come noto gli Stati Uniti hanno inviato a sostegno di Israele in Medio Oriente due gruppi d’attacco di portaerei nel Mediterraneo e nel Mar Rosso, un sottomarino con capacità nucleare di classe Ohio; aerei da combattimento avanzati e oltre 1.200 soldati in aggiunta ai circa 45.000 militari statunitensi che sono già di stanza nella regione. C’è stato poi un significativo afflusso di assistenza militare a Israele, in aggiunta ai quasi 4 miliardi di dollari che il paese riceve ogni anno dagli Stati Uniti, per un totale di 124 miliardi di dollari di aiuti militari dalla fondazione dello stato ebraico nel 1948.

Foreign Affairs sottolinea come a differenza della trasparenza fornita sugli aiuti militari all’Ucraina, gli apparenti trasferimenti incondizionati di armi a Israele sono stati coperti da segretezza, il che ha suscitato costernazione nel Congresso e le dimissioni di un funzionario del Dipartimento di Stato di (Josh Paul) il quale ha insistito in una dichiarazione pubblica sul fatto che l’entità del sostegno di Washington a Israele “non era nell’interesse americano a lungo termine”.

Ma quale è lo scopo e la conseguenza dell’accresciuta assertività militare Usa in Medio Oriente? “Sebbene il Pentagono abbia sostenuto che i dispiegamenti dal 7 ottobre hanno lo scopo di prevenire una guerra più ampia, sembra altrettanto probabile che l’aumento delle forze statunitensi possa finire per innescare una spirale di escalation piuttosto che prevenirla” scrivono i due autori dell’articolo.

Un primo rischio viene indicato dall’aumento delle azioni ostili antistatunitensi nella regione: dalle milizie sciite in Iraq e Siria agli Houthi nello Yemen.

Un secondo rischio, più politico, è quello di minare le relazioni con i principali alleati e partner americani come l’Egitto, la Giordania, gli Emirati Arabi Uniti e altri. “Il peggioramento della crisi umanitaria a Gaza, le ondate di anti-americanismo che dilagano in tutto il mondo arabo e la reale divergenza tra i governi arabi e Washington sul perseguimento della campagna militare da parte di Israele rischiano di erodere le fondamenta della cooperazione per la sicurezza arabo-americana, soprattutto perché la presenza militare degli Stati Uniti nella regione diventa sia più visibile che più controversa”.

Secondo Foreign Affairs, questa rinnovata posizione degli Stati Uniti nella regione potrebbe preannunciare “un ritorno alle cattive abitudini da parte degli Stati Uniti, una rivisitazione della loro abituale strategia di appoggiarsi a grandi dispiegamenti militari e trasferimenti di armi per garantire la sicurezza della regione contro le minacce esterne. Questo approccio non ha reso la regione più sicura”.

L'autorevole pubblicazione ricorda come decenni di coinvolgimento militare degli Stati Uniti “hanno esacerbato le rivalità regionali e alimentato la corsa agli armamenti che ha peggiorato i conflitti locali, per non parlare delle disastrose ripercussioni dell’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003, che ha incluso centinaia di migliaia di morti civili, l’ascesa dello Stato Islamico (ISIS) e il deterioramento della reputazione globale degli Stati Uniti”.

Infine vedono il rischio che un maggiore e rinnovato impegno militare Usa in Medio Oriente, distolga forze e concentrazione dal teatro di crisi e competizione principale con la Cina: l’Indo-Pacifico. Su questo aspetto, ma su un teatro di crisi diverso, anche il Financial Times sottolinea come “la capacità dei Paesi occidentali di raccogliere il sostegno globale per l’Ucraina sia stata compromessa dalla crescente rabbia del Sud globale per il sostegno degli Stati Uniti a Israele”.

Foreign Affairs suggerisce che l’attenzione di Washington in Medio Oriente si debba spostare dai costosi trasferimenti di armi e dagli sforzi per costruire l’interoperabilità con le forze statunitensi “verso attività che aiutino i partner regionali a operare in modo indipendente con i grandi arsenali che già hanno e a farlo insieme ai loro vicini. In passato, gli sforzi degli Stati Uniti per forgiare coalizioni di sicurezza regionali in Medio Oriente sono falliti a causa delle rivalità ideologiche e personali tra gli stati arabi, con il lungo battibecco tra Arabia Saudita e Qatar che ne è l’esempio più lampante”.

Una analisi interessante ma con un grande buco: il ruolo di Israele e il suo rapporto con gli Stati Uniti.

Sono gli Usa che condizionano Israele o viceversa?

La gran parte degli osservatori internazionali – e dei governi – ritiene che la capacità di persuasione degli Usa su Israele sia ancora oggi decisiva. Alcuni studiosi statunitensi come James Petras o Walt e Mersheimer, sostengono piuttosto il contrario. A loro avviso Israele – attraverso l’altissimo numero di likudzik nel Congresso Usa e una influente lobby sionista nei mass media e nei centri strategici – condiziona Washington più di quanto essa condizioni la politica dei governi di Tel Aviv.

La cronaca ci dice che ci sono volute ben tredici telefonate e un faccia a faccia, in occasione del viaggio di Biden in Israele del 18 ottobre, per riuscire ad ottenere una tregua di pochi giorni a Gaza. E poi c’è il crescente disagio all`interno dell`amministrazione Usa e dell`ala progressista dei Democratici, di fronte allo sterminio di palestinesi che Israele ha scatenato su Gaza.

Ma, intervistato dal quotidiano “Bild”, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, non sembra affatto intenzionato a trasformare la tregua di alcuni giorni a Gaza in un cessate il fuoco stabile. Ha infatti affermato che Israele non ha “altra scelta che distruggere Hamas”. Il leader israeliano ha dichiarato che, “se si vuole la pace, si deve distruggere Hamas, se si vuole la sicurezza, si deve distruggere Hamas, se si vuole un futuro diverso per israeliani, arabi, palestinesi e tutti gli altri, si deve distruggere Hamas”. E se questa è la linea strategica delle autorità israeliane, insieme alla liquidazione delle aspettative dei palestinesi ad un loro Stato più volte affermata e praticata, lo spazio per una soluzione politica appare inesistente.

In Israele non è solo Netanyahu a pensare queste cose. In un editoriale del Jerusalem Post – piuttosto contrario a concedere tregua a Gaza – viene sottolineato come nelle ultime tre settimane, le Forze armate israeliane si sono mosse attraverso Gaza in modo massiccio, riuscendo a raggiungere l’obiettivo di separare il sud dal nord della striscia e isolare le forze di Hamas in due aree del sud: Khan Yunis e Rafah.

“Non è facile fermare una massiccia forza militare (che fra l’altro comporta la mobilitazione di centinaia di migliaia di riservisti ndr). E una volta fermata, non è facile farla ripartire con lo stesso impeto. Inoltre, grazie alla pausa nei combattimenti, le forze di Hamas potranno muoversi liberamente all’interno della striscia di Gaza e prepararsi per una futura offensiva israeliana. Ciò significa che, se e quando le operazioni riprenderanno, i soldati israeliani dovranno aspettarsi combattimenti più duri” scrive l’importante giornale israeliano.

Del resto occorre ammettere che anche nelle manifestazioni per la democrazia in Israele dei mesi scorsi, la questione del rapporto tra una “democrazia” e l’oppressione coloniale contro i palestinesi, non è mai comparsa nell’agenda politica israeliana, né quella del governo né quella dell’opposizione.

Dunque gli Stati Uniti, che pure si sono impegnati militarmente in Medio Oriente per coprire le spalle a Israele dagli altri antagonisti nella regione (Hezbollah, Iran, Siria), potrebbero trovarsi davanti a due rogne: la prima è che Israele potrebbe decidere di proseguire l’offensiva – e il massacro dei palestinesi – a Gaza nonostante Washington preferisca la tregua. La soluzione politica – a partire dalla ormai depotenziata posizione su “due stati per due popoli” – appare totalmente svanita.

La seconda è quella di tornare a impantanarsi in un Medio Oriente che gli Usa hanno ampiamente destabilizzato (vedi Iraq, Siria, Libia) negli anni adottando la strategia del caos piuttosto che la stabilità.

Le difficoltà di egemonia globale e il declino interno statunitense, da un lato si specchiano e rispecchiano anche nella crisi politica interna di Israele, dall’altro evidenziano un messaggio di forza meno credibile che in passato. Certo le portaerei nel Mediterraneo, nel Mar Rosso o nel Golfo Persico hanno funzionato ancora una volta come deterrenza, ma senza capacità di “soluzione politica ai conflitti” la credibilità e l’autorevolezza di una grande potenza vanno a farsi friggere.

In questi ultimi due anni il mondo è cambiato, anche nella regione mediorientale, e sono ormai molti i paesi – prima totalmente subalterni a Washington – che oggi cercano di giocare in proprio, a cominciare dall’Arabia Saudita, dalla Turchia, dal Qatar all’Egitto ed anche la stessa Israele.

Il vecchio ordine sta saltando e il nuovo per ora si annuncia con le bombe su Gaza, sul Libano e sulla Siria. E quelli disponibili a farsi dire dalla Casa Bianca cosa fare e cosa non fare si sono assottigliati vertiginosamente.

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Fine del “mercato tutelato”, le multinazionali ringraziano

Se c’è un provvedimento su cui è facile dimostrare l’eguale servilismo delle diverse parti della classe politica italiana nei confronti delle grandi imprese questo è proprio “la fine del mercato tutelato” per le forniture di luce e gas.

5 milioni di famiglie, su un totale di 9,5 milioni, si sono fin qui potute avvalere di tariffe controllate dall’Autorità per l’energia, beneficiando di un “bonus energia” (in pratica uno sconto valido per i redditi Isee fino a 15.000 euro).

Questo sconto scomparirà a fine anno, per quanto riguarda il gas e da aprile relativamente alla corrente elettrica.

Rimarranno “sotto tutela” 4,5 milioni di famiglie classificate come “disagiate” che beneficiano della legge 104, del bonus sociale, o i cui membri risultano essere over 65 (con determinati livelli di reddito, ovviamente).

Si tratta di una delle “condizionalità” poste dalla Commissione Europea per approvare l’erogazione della quarta rata del PNRR (i fondi europei in prestito), e dunque l’accettazione di questo taglio di spesa risale al governo “Conte 2”, che aveva contrattato con la UE 209 miliardi del fondo post-pandemia.

E che era stato poi confermato dal governo Draghi (con dentro anche la Lega e lo stesso ministro dell’economia, il leghista varesino Giorgetti).

In pratica l’intero arco parlamentare aveva chinato la testa alla richiesta delle multinazionali dell’energia, per il tramite della UE, e l’allora piccola pattuglia di Fratelli d’Italia s’era fatta bella votando contro.

Ora che stanno al governo, naturalmente, sono appecoronati a quei poteri esattamente come i governi precedenti, senza alcuna apprezzabile differenza (si sta già parlando di portare l’età pensionabile oltre i 71 anni, altro che “cancellazione della legge Fornero”...).

E quindi consigliamo a tutti i lettori di considerare “teatro” tutte le dichiarazioni di queste ultime ore (PD e M5S che si fingono scandalizzati, leghisti in forte imbarazzo, “meloniani” strafottenti che ricordano a tutti che quel provvedimento era stato deciso da loro).

Basta infatti la più semplice delle constatazioni: la cancellazione del “mercato protetto” poteva benissimo essere evitata “compensando” i relativi costi con la rinuncia a qualche spesa decisamente inutile (che so: quelle per il fantasmatico “ponte sullo Stretto”, o altre).

Specie chi, come la Meloni e i suoi, aveva addirittura “votato contro” quando era all’opposizione, avrebbe potuto dare un esempio di coerenza a buon mercato e senza troppi sforzi di fantasia.

Non l’hanno fatto perché obbediscono esattamente agli stessi interessi che orientano le scelte dell’intero arco parlamentare attuale, nessuno escluso.

Non è un destino, essere servi delle multinazionali e delle innumerevoli aziende che oggi si stano già contendendo “clienti” costretti a subire i prossimi aumenti senza nemmeno poter fiatare.

È una scelta. Da servi.

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Legge di Bilancio: USB al Governo, serve redistribuzione dal profitto e dalle rendite verso il lavoro

Dal governo tanti vorrei ma non posso, ma è impercettibile la differenza con gli esecutivi precedenti, se non la presunta contrarietà alle politiche economiche della UE, che però ad oggi rimane una dichiarazione di principio.

Non sembrano esserci all'ordine del giorno interventi che possano modificare il nostro giudizio sulla legge di bilancio. Anche sul famigerato art. 33 che taglia diritti acquisiti sulle pensioni di oltre 700mila dipendenti pubblici, dal Governo arrivano solo piccoli correttivi che non modificano l'intollerabilità del provvedimento.

Questione salariale, pensioni, sanità, precarietà e tassazione di rendite e profitti sono i temi che USB ha posto sul tavolo del confronto con il Governo, senza però ricevere risposte convincenti se non un desolante, "siamo d'accordo, ma non ci sono le condizioni per intervenire".

La questione delle risorse disponibili è il leitmotiv del Governo e della Presidente Meloni rispetto alle nostre richieste; inquietante il passaggio del Ministro Giorgetti nel quale ha spiegato che senza investitori che acquistino i titoli di Stato non si potrebbero pagare salari pubblici e pensioni.

In funzione di ciò, appare sempre più evidente che senza una vera redistribuzione della ricchezza dalle rendite e i profitti verso il lavoro e lo stato sociale, e senza riduzione delle spese militari non può esserci risposta concreta all'emergenza sociale che questa crisi economica, aggravata dalle guerre, sta producendo.

Così lavoratori, precari, pensionati e pensionandi continueranno ad essere quelli che pagano il prezzo più caro della crisi, insieme ai cittadini che continueranno a ritrovarsi con servizi pubblici sempre meno efficaci.

USB, dopo le mobilitazioni di questo autunno che hanno visto le categorie impegnate in scioperi e iniziative di lotta, valuterà come continuare l'opposizione non solo alla legge di bilancio, ma alle scelte di un Governo che, al di là di iniziative propagandistiche, continua sulla scia di politiche antipopolari associate a provvedimenti antidemocratici, come l’attacco al diritto di sciopero.

Unione Sindacale di Base

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Ucraina: il vero senso delle “rivelazioni” sui colloqui a Istanbul

Sin da domenica scorsa, quando sono apparse i primi lanci sull’intervista televisiva, ormai “famosa”, del capogruppo alla Rada di “Servo del popolo”, David Arakhamija, hanno cominciato a circolare in rete considerazioni che mettono in guardia sul reale obiettivo delle sue parole e perché siano state pronunciate proprio ora, con una situazione al fronte disastrosa per Kiev.

Perché, oltre alla “novità”, secondo cui nel 2022 sarebbe stato possibile metter fine al conflitto in Ucraina in pochissimo tempo, se non fosse intervenuto l’ordine anglosassone di proseguire la guerra, Arakhamija ha detto anche altro.

Ha detto ad esempio che il primo obiettivo di Zelenskij, con i colloqui a Istanbul, era quello di «creare nei russi l’impressione che con noi fosse possibile trattare... il secondo obiettivo: guadagnare tempo». Insomma, come era abbastanza semplice intuire per quanto avvenuto allora in Turchia e per come si potrebbe benissimo prospettare la faccenda oggi, l’attuale campagna occidentale sul cessate il fuoco solleva moltissimi sospetti sul fatto che possa trattarsi del tentativo di inscenare un ennesimo “Minsk 2”.

Insomma, a Istanbul la delegazione majdanista agiva come una «cortina fumogena» a vantaggio delle forze di Kiev e, in pratica, «giocava tatticamente sul tempo» con la delegazione russa; la quale, a sua volta, a detta di Arakhamija, che cerca di dipingerla come una classe di ingenui scolaretti, «aveva sperato fino all’ultimo che ci avrebbe spinto a firmare l’accordo».

Così, continua il parlamentare golpista, i russi «erano disposti a porre fine ai combattimenti, se noi, come era stato a suo tempo con la Finlandia [il “servo del popolo” sembra riferirsi alla “guerra d’inverno” tra URSS e Finlandia, conclusa nel marzo 1940 con concessioni territoriali di Helsinki a Mosca; ndt], avessimo accettato la neutralità e ci fossimo impegnati a non aderire alla NATO. Questi erano i punti chiave, tutto il resto erano aggiunte cosmetico-politiche: denazificazione, popolazione russofona, bla bla bla».

Poi, comunque, una volta rientrati da Istanbul, era arrivato Boris Johnson con l’ordine sopracitato e «noi avevamo raggiunto un ottimo risultato. Loro avevano abbassato la guardia, se ne erano tornati a casa, mentre noi ci orientavamo alla guerra».

Non è finita. Stando a Arakhamija, l’intera leadership politico-militare ucraina è favorevole alla guerra. Come mai? Perché «Oggi non possiamo sederci al tavolo delle trattative. La nostra posizione negoziale è pessima. Non avremmo su cosa trattare».

A conferma delle sue parole, basti citare il solo esempio della vice Ministra della giustizia del regime nazigolpista di Kiev, Irina Mudra, la quale ha dichiarato che l’Ucraina non sottoscriverà alcun accordo di pace con la Russia senza riparazioni. L’Ucraina non vi acconsentirà mai, ha detto. E nemmeno «il mondo acconsentirà, perché qualcuno deve pagare quelle riparazioni. E se non lo farà la Russia, chi altri?».

Ovviamente, a Kiev sono soliti cimentarsi in uscite pubbliche che dovrebbero dimostrare al mondo che i nazigolpisti assumono autonomamente ogni decisione, indipendentemente dai suggerimenti – pubblici o da dietro le quinte – dei padrini d’oltreoceano.

Ma questo è un altro discorso.

Ecco dunque che assumono più di un significato le considerazioni messe nero su bianco dal canale Telegram di ColonelCassad a proposito delle prospettive di un cessate il fuoco. Le “tesi” non hanno ovviamente nulla di ufficiale e si limitano a constatare alcuni dati di fatto. Si tratta di dieci osservazioni su cosa potrebbe rappresentare una cessazione delle ostilità, stante la situazione militare e politica odierna in Ucraina.

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ColonelCassad – «10 tesi sul congelamento della guerra lungo la linea di contatto»

Al momento attuale, si dice nel documento, è stato raggiunto solo uno degli obiettivi proclamati per l’Operazione militare speciale (SVO): la liberazione del territorio della LNR. Gli altri obiettivi – liberazione della DNR, denazificazione, demilitarizzazione, neutralità, ecc. – non sono stati raggiunti.

Si sono invece conseguiti obiettivi non contemplati in origine: sono entrate nella compagine russa due nuove regioni, che nel 2022 la Russia non chiedeva all’Ucraina; in più, è stato aperto un corridoio via terra verso la Crimea, e il mar d’Azov è diventato un mare interno alla Russia.

Il congelamento del conflitto sulla linea di contatto (o di scontro) significherebbe che la maggior parte degli obiettivi originari della SVO rimarrebbero non raggiunti, in cambio di parti di due regioni e del corridoio verso la Crimea. E la Russia sarebbe d’accordo che parte del territorio della DNR, le regioni di Zaporož’e e Kherson, costituzionalmente parte della Russia, rimanessero sotto occupazione ucraina: cioè, di fatto, NATO.

In più, in Ucraina si conserverebbe il regime nazista, perfettamente armato e ristrutturato per un conflitto di lunga durata con la Russia. E lo stesso territorio ucraino verrebbe utilizzato come piazzaforte sistemica per continue azioni militari e altre provocazioni.

Tutto ciò che c’è di fedele alla Russia nei territori occupati dai nazisti, verrebbe da essi difeso ancora più strenuamente, tanto più che il nemico sa bene che là ci sono tantissime persone che aspettano la liberazione.

Per compensare le perdite umane, materiali ed economiche già subite, la Russia ha bisogno di qualcosa di più che non una parte di altre due regioni, dallo status non riconosciuto, il che non risolve nessuno dei problemi strategici alla base della SVO.

Le trovate sul congelamento del conflitto appaiono in un periodo di evidente debolezza delle forze ucraine e del regime di Zelenskij, dopo la disfatta nella campagna estate-autunno e mirano a indurre la Russia a un’altra insensata “tregua” à la-Minsk, con un finale abbastanza prevedibile.

A giudicare dalle dichiarazioni della leadership politico-militare russa, c’è consapevolezza di tale gioco propagandistico-diplomatico dell’Occidente, e dunque nessuno accetterà questa opzione. Ecco perché l’Occidente giudica l’attuale posizione della Federazione Russa sull’Ucraina come “non incline a negoziati”. In Occidente, con la dizione “tendenza a negoziare”, si intende la disponibilità russa a concessioni o alla capitolazione.

Spero – scrive l’autore del servizio di ColonelCassad – che non muterà più nulla in questa materia e non si ripeteranno gli errori di valutazione che avevano portato alla “politica di Minsk”, o aspettative errate rispetto all’inizio della SVO.

Il livello di sostegno alla leadership nel paese è oggi sufficiente, esistono le potenzialità economiche per una lunga campagna militare volta a raggiungere gli obiettivi della SVO, l’esercito sta gradualmente imparando, anche dai propri errori.

E l’attuale sfondo negativo che in Occidente circonda le prospettive della guerra è una diretta conseguenza della sottovalutazione delle capacità della Russia di condurre una lunga guerra per raggiungere i propri obiettivi.

Pertanto, è necessario orientarsi su un lungo e sistematico lavoro per far sì che il nostro esercito e il complesso militare-industriale siano in grado di garantire il raggiungimento degli obiettivi nel confronto con USA e NATO a lungo termine. Al momento, le speranze su una volontà USA alle trattative appaiono pericolose illusioni, che vanno respinte.

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Gaza - La tregua sta per finire. In Cisgiordania è già escalation israeliana. Ostaggi trattati meglio dei prigionieri

Israele non è disposto a prolungare il cessate il fuoco oltre 10 giorni. A riferirlo è il quotidiano israeliano Haaretz, citando un funzionario secondo cui il governo di Tel Aviv ha insistito sul fatto che non è disposto ad estendere la tregua – attualmente al quinto giorno e destinata a scadere domani – oltre domenica (per una durata totale di 10 giorni).

Stando a quanto riferisce Haaretz, un aereo della Qatar Airways è atterrato all’aeroporto di Tel Aviv. Secondo il giornale israeliano la delegazione dei servizi di sicurezza qatarioti si è riunita, per la seconda volta in quattro giorni, con funzionari del Mossad e della Cia (analogamente alle riunioni in corso in Qatar) per discutere i possibili sviluppi dei negoziati per la liberazione di altri ostaggi israeliani.

La nuova visita di una delegazione dei servizi di sicurezza del Qatar a Tel Aviv fa seguito all’estensione di due giorni della tregua fra Israele e Hamas. Nei quattro giorni di tregua iniziati venerdì 24 novembre e conclusi ieri 27 novembre, sono stati rilasciati 50 ostaggi israeliani in cambio della liberazione di 150 prigionieri palestinesi.

Secondo i media, nei due giorni di tregua aggiuntivi – oggi e domani – è attesa la liberazione di altri 20 ostaggi e di 60 prigionieri palestinesi.

Secondo fonti palestinesi le forze di occupazione israeliane hanno però violato il cessate il fuoco martedì mattina, sparando colpi di artiglieria nel nord di Gaza, in particolare nel quartiere di Sheikh Radwan, e nel sud di Gaza, a est delle città di Rafah e Khan Yunis.

Il portavoce delle Brigate al-Qassam di Hamas, Abu Obeidah, ha affermato che le forze israeliane avevano commesso una “chiara violazione” del cessate il fuoco nel nord della Striscia di Gaza e che Hamas aveva “affrontato questa violazione”.

Il corrispondente di Al-Mayadeen a Gaza ha confermato che le forze di occupazione israeliane hanno sparato colpi di artiglieria e fumogeni a ovest del quartiere di Sheikh Radwan durante il loro ritiro, con l’obiettivo di coprire la loro ritirata dalla parte centrale del quartiere verso Rashid Street.

Secondo invece fonti militari israeliane tre ordigni sono stati fatti esplodere accanto ai militari delle Forze armate israeliane in due diverse località nel nord della Striscia di Gaza, violando l’accordo di tregua prorogato ieri.

Un portavoce delle Idf, riferisce che in un episodio i combattenti palestinesi hanno aperto il fuoco contro i militari israeliani, che hanno risposto sparando. Durante gli incidenti diversi soldati sono rimasti leggermente feriti.

Escalation israeliana in Cisgiordania. Altri palestinesi uccisi

Quasi a volersi vendicare del rilascio dei prigionieri palestinesi, le forze armate israeliane stanno dando vita ad una escalation repressiva letale in Cisgiordania. Almeno 242 palestinesi sono stati uccisi e più di 3.000 feriti dal 7 ottobre in Cisgiordania.

Un giovane palestinese è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco lunedì mattina durante gli scontri con le forze di occupazione israeliane nella città di Beitunia, a ovest di Ramallah, ha riferito l’agenzia di stampa ufficiale palestinese Wafa.

Un altro ragazzo palestinese di 17 anni è morto ieri dopo essere stato colpito dalle forze di occupazione israeliana nel villaggio di Kafr Ain, a nord-ovest di Ramallah.

Martedì mattina le forze di occupazione israeliane hanno fatto saltare in aria una casa nel campo di Deir Ammar, a ovest di Ramallah. Sempre martedì un bambino palestinese del villaggio di Tayasir, a est di Tubas, è stato ucciso dopo essere stato colpito dalle forze di occupazione israeliane, ha riferito l’agenzia di stampa ufficiale palestinese Wafa.

Le forze israeliane hanno preso d’assalto il campo, hanno circondato la casa del palestinese ucciso Daoud Abdel Razzaq Daras, 41 anni, e hanno iniziato i lavori di scavo e distruzione intorno alla casa, poi l’hanno fatta saltare in aria.

Ma mentre Israele rilascia alcuni prigionieri palestinesi, l’esercito israeliano ha accelerato l’arresto di altri palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme.

Secondo il Palestinian Prisoners Club, 260 palestinesi sono stati arrestati solo durante la tregua di questi quattro giorni. I nuovi detenuti si sono aggiunti agli oltre 3.000 arrestati dal 7 ottobre.

Ostaggi israeliani trattati bene, prigionieri palestinesi brutalizzati in carcere

Una degli ostaggi rilasciati ha riferito che il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, aveva incontrato alcuni ostaggi israeliani nella Striscia, nei giorni successivi all’attacco del 7 ottobre.

Secondo il suo resoconto, il dirigente di Hamas si è recato nel tunnel dove erano prigionieri, si è accertato delle loro condizioni e in un ebraico “fluente” li ha rassicurati che non sarebbe stato fatto loro del male, ma che sarebbero stati liberati in uno scambio di prigionieri.

Non è la prima testimonianza di ostaggi israeliani che rivela come, nonostante la condizione coercitiva, siano stati “trattati bene” dai miliziani palestinesi che li avevano in custodia.

L’agenzia israeliana Ynet, riferisce che la nonna del dodicenne Eitan Yalomi, dall’ospedale Ichilov dove suo nipote è in cura, ha detto che: “Per i primi 16 giorni, è stato solo e persino in una stanza chiusa. Immaginate voi stessi quello che ha passato lì. Con mia grande gioia, circa un mese fa l’hanno trasferito con un gruppo di persone di Nir Oz, ed è stato molto più facile per lui lì. Prima di tutto, c’era la sua badante dell’asilo nido, della casa dei bambini. Era un bene sia per lei che per lui. È tornato più magro, senza sorridere. Ma mi sembra che fisicamente stia bene”.

La zia di Eitan dà invece una versione diversa, affermando che Eitan “ha vissuto orrori” per mano dei terroristi di Hamas, che, tra le altre cose, lo avrebbero “picchiato e costretto a guardare il filmato del massacro che hanno compiuto il 7 ottobre e hanno minacciato lui e gli altri bambini che hanno rapito con le pistole”.

Secondo un medico israeliano che ha curato alcuni degli ostaggi rilasciati “la quantità di cibo che i prigionieri ricevevano ogni giorno era molto piccola” (come per tutta la popolazione della Striscia, sotto i bombardamenti e con il blocco dei camion al valico di Rafah, imposto da Israele).

Ha aggiunto: “In termini di cibo, la maggior parte di loro riceveva mezza fetta di pane due volte al giorno. Questo è ciò che hanno riportato. Di tanto in tanto, alcune persone ricevevano di più. Nel complesso, descrivono condizioni di reclusione e ansia”.

“I bambini sono arrivati in condizioni nutrizionali migliori”, mentre “gli anziani hanno perso tra gli 8 e i 15 chilogrammi”. Si dice che i prigionieri provenienti dalla Thailandia abbiano ricevuto un’alimentazione più adeguata. “C’è stato un episodio di sovralimentazione tra i lavoratori stranieri”, riporta l’agenzia israeliana Ynet.

Tutt’altra situazione per i prigionieri nelle carceri israeliane. Il palestinese Mohammed Nazzal, poco più di un bambino, detenuto e rilasciato nello scambio di prigionieri, poco dopo il suo rilascio, è stato trasferito al pronto soccorso dell’ospedale Ibn Sina, nella città di Jenin.

Mohammed è stato gravemente ferito a entrambe le mani a causa del pestaggio da parte dei soldati israeliani nella prigione del Negev, una settimana fa. Le fratture alla mano sono state deliberatamente trascurate dal servizio carcerario israeliano, il che ha portato a complicazioni alla mano destra del bambino.

“La prigione è diventata un cimitero dopo il 7 ottobre”, ha detto Mohammed. “Le guardie israeliane entravano spesso nelle celle e picchiavano i prigionieri”. “Una settimana fa siamo stati selvaggiamente picchiati con spranghe di metallo. Mi sono messo le mani sulla testa per proteggermi dalle ferite, ma i soldati non si sono fermati finché non mi hanno rotto le mani”, ha aggiunto Mohammed.

Il bambino detenuto è stato lasciato senza cure per un’intera settimana fino a quando non è stato rilasciato martedì mattina, in seguito all’accordo di tregua.

Prima di essere rilasciati, i bambini palestinesi prigionieri sono stati trasferiti nella prigione di Ofer, dove i soldati israeliani hanno continuato a picchiarli, secondo quanto riferisce Mohammed.

La situazione umanitaria a Gaza è “catastrofica”

“La situazione umanitaria a Gaza rimane catastrofica e richiede l’urgente ingresso di ulteriori aiuti in modo fluido, prevedibile e continuo per alleviare la sofferenza insopportabile dei palestinesi a Gaza”, ha affermato l’inviato delle Nazioni Unite per il Medio Oriente Tor Wennesland.

La tregua ha offerto un momento di respiro agli abitanti di Gaza, ma “la situazione umanitaria rimane pericolosa e i bisogni senza precedenti” ha stimato l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa).

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Banche: extraprofitti - micro tasse

Si è parlato molto, nei mesi scorsi, della questione degli extraprofitti bancari. Mentre le famiglie sono impoverite dall’inflazione (e da 30 anni di politiche liberiste), le banche sembrano nuotare nell’oro. Ordunque, stando alla propaganda del governo, l’esecutivo guidato da Meloni ha spezzato le reni alle banche, con un’imposta sugli extraprofitti bancari, orgoglio nazionale e chiaro esempio di giustizia sociale. Insomma, uno strumento a favore delle famiglie, che fanno fatica a far quadrare i conti, contro l’ingordigia del settore bancario e le conseguenze dell’innalzamento dei tassi. Ma sarà vero?

Vediamo di spiegare meglio la vicenda. Innanzitutto, perché le banche fanno extraprofitti? Il motivo è semplice. Quando la banca centrale ha rialzato i tassi d’interesse, bastonando i lavoratori, le banche hanno aumentato i tassi attivi sui prestiti che effettuano a famiglie e imprese, ma non hanno alzato quelli sui depositi delle famiglie e delle imprese. Le banche, infatti, da un lato prestano a un determinato tasso di interesse, dall’altro raccolgono fondi – i depositi delle famiglie – che remunerano a un tasso ben più basso di quello a cui prestano. Su questo differenziale fanno i loro profitti. Ovviamente, nel momento in cui i tassi attivi sono saliti e quelli passivi sono rimasti fermi, i profitti sono aumentati. Questo sembra spiegare gli extraprofitti bancari, ma in realtà manca ancora l’elemento fondamentale.

Il settore bancario, con il suo alto grado di concentrazione, è un esempio perfetto di come funziona il cosiddetto “libero mercato”. Nel mondo di fantasia immaginato da alcuni economisti (quello, per capirci, in cui i meccanismi di mercato aprono automaticamente le porte verso il migliore dei mondi possibili), grazie all’aumento dei tassi applicati ai prestiti, i banchieri sarebbero indotti ad aumentare un po’ il tasso pagato ai risparmiatori, cercando di raccogliere più depositi. Il primo banchiere alzerebbe un po’ il tasso per sottrarre clientela alle altre banche, il secondo li alzerebbe ancora un po’ e così via, fino ad arrivare a una situazione simile alla precedente, con un differenziale tra i tassi più o meno invariato rispetto a prima. Se, invece, le banche sono d’accordo, se c’è un cartello o un comportamento monopolistico, nessun banchiere inizierà questa corsa al rialzo e il tasso sui depositi non sarà toccato. Quindi il motivo principale degli extraprofitti bancari è la forza dei banchieri rispetto ai lavoratori, che si esprime nella possibilità di agire di concerto per non danneggiarsi l’un l’altro.

Così mentre l’inflazione sale e i salari reali scendono, le banche fanno extraprofitti, alle spalle delle altre componenti sociali.

Di fronte a questa situazione, all’inizio di agosto, Salvini, in veste di vicepresidente del Consiglio, strombazza l’approvazione, in Consiglio dei Ministri, di una tassa sugli extra profitti bancari. Una buona idea, direte voi, giusto? Peccato che, posatasi la polvere della propaganda e ricevute le prime critiche delle banche (nonché della BCE), il governo abbia introdotto, molto più silenziosamente, una via d’uscita per le banche, un escamotage per permettere loro di non pagare di fatto un euro sui famosi extraprofitti.

La versione definitiva della tassa sugli extraprofitti, infatti, permette alle banche di scegliere se pagare la tassa o accantonare fondi per rinforzare il patrimonio. In questo secondo caso, le banche avrebbero dovuto accantonare un volume di fondi pari a 2,5 volte l’ammontare che avrebbero altrimenti pagato allo Stato. In altri termini, le banche sono state messe dal Governo davanti al seguente dilemma: pagare le tasse o non pagarle? Voi cosa fareste?

Strano a dirsi, praticamente nessuna banca ha pagato l’imposta e quasi tutte hanno accantonato fondi. Secondo alcuni analisti, poi, queste cifre da accantonare sono grosso modo simili a quelle che le banche avevano già in proposito di mettere da parte per la patrimonializzazione. Oltre al danno la beffa: persino le banche pubbliche hanno usato l’escamotage degli accantonamenti (fermo restando che delle banche pubbliche, in Italia, non è praticamente rimasto nulla)! Ovviamente se i fondi che si prevedeva di raccogliere tramite questa imposta non saranno raccolti (diversamente da quanto ipotizzato dal governo, per il quale il gettito non cambierà), bisognerà far quadrare il bilancio dello Stato in qualche modo, magari con un po’ di tagli o di spending review.

Insomma, di giustizia sociale se n’è vista poca, di orgoglio nazionale ancora meno.

Tirando le somme e al di là della natura ambigua stessa del concetto di extraprofitto – se tutti i profitti derivano dallo sfruttamento del lavoro, quali sono i profitti legittimi e quali quelli extra? – rileva ancora una volta la totale acquiescenza e servilismo del Governo di fronte a chi detiene le leve del potere economico e finanziario. Così si spiega la recita che ci è stata propinata negli ultimi mesi: strepitare a voce alta contro le banche cattive e poi, però, scrivere un decreto che permette alle banche stesse di non tirare fuori neanche un euro. Con un ulteriore nota di colore: come ha reagito il Governo di fronte all’evidenza che di fatto tutte le banche preferivano (ovviamente) accantonare invece che pagare? In nessuna maniera, a testimonianza di quanto, sin dall’inizio, la tassazione degli extraprofitti non fosse altro che una boutade propagandistica. L’ennesima buffonata che serve a mascherare la natura di questo Governo, a chiacchiere di rottura nei confronti delle politiche degli ultimi decenni, ma nei fatti del tutto allineato ai desiderata del capitale e delle istituzioni internazionali che ne curano gli interessi.

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Salario minimo. Consegnate al Senato le firme per una legge che lo istituisca

Una delegazione di Unione Popolare ha consegnato questa mattina al Senato le 70.000 firme raccolte sulla Legge di Iniziativa Popolare che chiede l’istituzione del salario minimo nel nostro paese.

Finalmente una proposta di legge (seria) per un salario minimo di 10€ l’ora è arrivata in Parlamento!

Non l’hanno fatta i deputati e i senatori, e nemmeno il Governo, ma le più di 70.000 persone che hanno firmato in questi mesi ai banchetti nelle strade, nelle piazze e nei luoghi di lavoro.

Ora le Camere sono obbligate a parlarne e ad esprimersi, al di là delle finte dichiarazioni delle opposizioni.

Cosa faranno le forze politiche presenti in Parlamento?

Preferiranno votare la nostra legge o mantenere contratti da fame a 5 euro l’ora?

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28/11/2023

Giorno di festa (1949) di Jacques Tati - Minirece

Il capitalismo non sogna più

di Emiliano Brancaccio

È stato detto che in America qualsiasi ipotesi di socialismo è impossibile perché lì i poveri non si vedono come proletariato sfruttato ma come milionari in temporaneo imbarazzo.

È l’effetto di quel perenne stato di ubriachezza suscitato dal cosiddetto «sogno americano», che a grandi linee così recita: buttati nella mischia del libero mercato, impegnati con tutte le forze e guadagnerai la felicità che ti meriti. L’utopia più assurda di tutte, diceva Baudrillard, perché vissuta come fosse una cosa già realizzata.

Che poi, definirlo un sogno esclusivamente americano sarebbe riduttivo.

C’è stata una lunga fase, a cavallo del millennio, durante la quale una simile ubriacatura ideologica è dilagata anche dalle nostre parti. La fantasia di arricchirsi tentando di fare gli “influencers” o i “bitcoiners” è tra i sintomi recenti di una febbre che ha colpito intere generazioni anche da questo lato dell’Atlantico.

Qualcosa del vecchio mito, tuttavia, sembra oggi scricchiolare. Un sondaggio del Wall Street Journal rivela che ormai solo il 36% degli americani crede nel sogno americano, laddove un decennio fa erano più del 50%. Lo stesso sondaggio mostra che alla domanda se il sistema economico e politico sia «contro persone come me», oltre la metà degli intervistati risponde affermativamente.

Insomma, il sogno americano perde colpi, e così diventa anche più difficile da esportare. Non è un caso che nei rispettivi sondaggi europei la fiducia nell’idea del «farsi da sé» è declinata vistosamente, soprattutto a partire dalla grande recessione del 2008.

Questo cambio d’umore nello spirito del tempo non è un capriccio del caso. I dati sulla mobilità sociale indicano che in larga parte dell’occidente la probabilità dei figli di situarsi in una classe di reddito diversa da quella dei genitori è sempre più bassa: ossia, i figli dei poveri restano poveri e i figli dei ricchi restano ricchi, indipendentemente da volontà e capacità personali.

Questa tendenza all’immobilismo sociale, in particolare, si registra soprattutto nei paesi caratterizzati da gravi disuguaglianze di reddito. È quella che gli economisti chiamano «curva del Grande Gatsby»: dove maggiori sono le disparità tra le classi sociali, è anche maggiore l’immobilismo reddituale da una generazione all’altra.

Una tale tenaglia di ingiustizie si rileva in moltissime nazioni, tra cui il Regno Unito e, ahinoi, l’Italia. Ma una stretta ancor più violenta avviene proprio negli Stati Uniti. La crisi egemonica americana si manifesta così in varie forme: non solo nella perdita di competitività e nel debito verso l’estero, ma anche nel non riuscire più a illudersi che ognuno possa perseguire la felicità in base ai propri meriti.

Viene allora da chiedersi se sia giunta l’ora di cacciare in soffitta la vecchia ideologia e dare avvio a una critica dell’ottuso individualismo che sottende al sogno americano. Per un po’ ci ha provato Bernie Sanders, rievocando l’amara constatazione di Malcolm X: «Quello americano non è un sogno, è un incubo».

Ma in generale non sembra che i tempi siano ancora maturi per un risveglio collettivo. Lo dimostra il ricorso degli altri leader politici alla solita propaganda onirica. Vale pure per Donald Trump: che in effetti aveva annunciato la «morte del sogno americano», ma solo per promettere la sua resurrezione una volta che gli elettori lo riporteranno alla Casa Bianca.

Declino americano è anche continuo rimestare nella solita, assurda falsa coscienza.

Gli Stati Uniti e le democrazie liberali satelliti stanno dunque fallendo proprio nel perseguire i loro stessi miti individualistici. A prima vista, sembra uno spot perfetto per i fautori del più ingenuo «campismo», secondo cui tutto ciò che è anti-occidentale deve ritenersi in quanto tale cosa buona e giusta.

Il problema è che dall’altra parte del mondo non va molto meglio. Durante la fenomenale ascesa ai vertici dell’economia mondiale la Cina ha sollevato le sue grandi masse dalla fame ma è pure rimasta serrata in una morsa analoga a quella americana, fatta di crescente disuguaglianza e immobilità sociale. Il capitalismo potrà anche assumere varie forme, ma i coacervi di ingiustizie che porta con sé si somigliano un po’ ovunque.

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La BCE stupita per gli effetti destabilizzanti delle sue decisioni...

di Guido Salerno Aletta

Prima abbassa i tassi di interesse, portandoli "a zero" e "sottozero", per invogliare famiglie ed imprese ad indebitarsi per ravvivare il ciclo economico depresso dalla pandemia. Poi, contrasta l'inflazione somministrando il curaro all'economia per paralizzarla, alzando di continuo i tassi e drenando liquidità dalle banche.

Infine, si meraviglia dei danni che queste azioni hanno inferto e dei gravi pericoli che incombono.

Il vicepresidente della Bce, Luis de Guindos, mette le mani avanti: "È fondamentale rimanere vigili mentre l'economia passa a un contesto di tassi di interesse più elevati abbinati a crescenti incertezze e tensioni geopolitiche".

Di seguito, i passi più salienti del comunicato stampa diramato il 22 novembre, che sintetizza il contenuto del Financial Stability Report:

- "L'impatto completo delle condizioni finanziarie più restrittive sull'economia reale non è ancora avvertito": il peggio deve ancora arrivare!

- "L'aumento dei costi di indebitamento e del servizio del debito metterà sempre più alla prova la resilienza delle famiglie, delle imprese e dei governi dell'area euro": le famiglie troveranno sempre più in difficoltà a pagare le rate di prestiti e mutui, così imprese, e pure i governi a causa degli alti interessi da offrire al rinnovo dei titoli del debito pubblico e per piazzare le nuove emissioni nette.

- "Le banche dell'area euro vedono un beneficio in termini di redditività derivante dall'aumento dei tassi di interesse, ma si trovano ad affrontare ostacoli derivanti dall'aumento dei costi di finanziamento, dal peggioramento della qualità degli asset e dalla riduzione dei volumi di prestito" ... "Allo stesso tempo, devono far fronte a venti contrari provenienti da tre fonti principali. In primo luogo, si prevede che i loro costi di finanziamento aumenteranno man mano che trasferiranno gradualmente tassi di interesse più elevati ai depositanti e la composizione dei loro finanziamenti si sposterà dai depositi overnight verso depositi a termine o obbligazioni più costosi. In secondo luogo, è probabile che la qualità degli attivi bancari risenta di una combinazione di maggiori costi del servizio del debito e di un contesto macroeconomico debole. In terzo luogo, la redditività delle banche dovrà far fronte a un sostanziale calo dei volumi di prestito derivante da tassi di prestito più elevati abbinati a una minore domanda di prestiti e a standard di credito più rigorosi". Più chiara di così, la Bce non avrebbe potuto essere: i mega profitti registrati quest'anno dalle banche rappresentano solo la faccia in vista della medaglia, visto che a fronte dei maggiori ricavi che stanno incamerando per via dei tassi più elevati, devono mettere in conto la prospettiva di maggiori costi su depositi, il pericolo di perdite sugli impieghi e la riduzione del volume di affari. Un bel pasticcio, non c'è che dire!

Ma non finisce qui: il settore immobiliare è già in crisi.

Il Comunicato prosegue così:
"Sia i settori finanziari che quelli non finanziari potrebbero dover affrontare sfide future man mano che questi costi aumenteranno. Questo effetto è già visibile nei mercati immobiliari dell'area euro, che stanno attraversando una fase di recessione. Nei mercati immobiliari residenziali, il calo dei prezzi è stato determinato dal deterioramento dell'accessibilità economica dovuto all'aumento dei costi di finanziamento dei mutui ipotecari. Nei mercati immobiliari commerciali, gli effetti dell'aumento dei costi di finanziamento sono stati rafforzati dalla domanda strutturalmente inferiore di uffici e immobili commerciali a seguito della pandemia".
Detto semplicemente: gli alti tassi di interesse praticati sui nuovi mutui hanno già abbattuto sia la dinamica delle vendite di immobili per abitazione sia i loro prezzi di mercato, mentre il forte rallentamento del ciclo economico ha ridotto sia la redditività degli affitti che il valore degli immobili adibiti ad attività commerciali. Gli effetti dello "smartworking" si stanno dimostrando duraturi nella riduzione della richiesta di spazi per uffici.

Se già l'inflazione dei prezzi al consumo riduce il reddito reale delle famiglie e dunque le disponibilità, l'aumento dei tassi di interesse che viene applicato ai prestiti correnti ed ai mutui contratti a tasso variabile sta penalizzando le fasce più deboli della popolazione.

E, naturalmente, vengono colpite soprattutto le imprese che si erano indebitate per fare investimenti, approfittando dei tassi bassissimi che erano stati decisi dalla Bce per far riprendere lena all'economia contrastando così la recessione causata dalla pandemia. Vengono messi in difficoltà proprio coloro che erano stati convinti ad indebitarsi per via dei "tassi a zero" decisi da Francoforte.

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Ucraina - Se gli Usa sono per una “tregua” è solo per continuare con la guerra

A leggere le dichiarazioni ufficiali, enfatizzate poi da un sistema mediatico mai come ora “arruolato” con il potere politico e militare, Joe Biden e i vertici della Nato sarebbero diventati quasi “pacifisti”. Non passa giorno che non filtrino segnali o “consigli” verso Israele (soprattutto) e l’Ucraina (appena un po’ meno) perché si raggiungano soluzioni politiche in grado di mettere quanto meno in freezer gli attuali conflitti.

Non mancano peraltro robusti argomenti a favore di una pesante “stanchezza” dell’establishment euro-atlantico per le conseguenze di quelle guerre (riduzione drastica degli sbocchi commerciali e delle catene di rifornimento, auto-inflitte con le “sanzioni”, crescita zero e recessione alle viste, ecc.).

Aggiungiamoci le elezioni presidenziali statunitensi, che attualmente vedono Donald Trump in pole position per sostituire Biden e gli stessi “democratici” dubbiosi sull’opportunità di ripresentare “Sleeping Joe”, sempre sull’orlo della caduta diplomatica o deambulatoria.

Ma è certo che risulta comunque sorprendente vedersi presentare gli eterni incendiari come “volenterosi pompieri”. Qualche dubbio è perciò doveroso.

Per saperne di più vengono in soccorso diversi team di analisti statunitensi, compreso quel Simplicius The Thinker che pure alterna puntuali disamine militari con goffe scivolate no vax...

E qui compaiono documenti di think tank solitamente in grado di produrre anticipazioni ragionate sulle future mosse dell’esecutivo Usa (quelli europei contano un tubo, quando si tratta di muovere guerra oppure no).

Il quadro, in questi scenari, cambia completamente non appena si passa dall’osservare i dati congiunturali (la guerra va effettivamente malissimo per gli ucraini e i loro supporter occidentali) e si cominciano a delineare gli “obiettivi strategici di fase” (il prossimo decennio, grosso modo).

Su questa ampiezza storica il conflitto dell’Occidente neoliberista con la Russia degli oligarchi non finisce affatto con la prevedibile, o auspicata, smobilitazione ucraina. La quale, anzi, viene considerata solo un “primo tempo” di una guerra di lunghissima durata, che coinvolge in pratica tutto l’est europeo (e in parte anche il resto della UE).
“Il capo logistico europeo della NATO, il tenente generale Alexander Sollfrank, ha chiesto alle nazioni europee di alleggerire le regolamentazioni a livello nazionale per consentire il rapido movimento di truppe, equipaggiamenti e munizioni in caso di guerra con la Russia.”
Di fatto, viene sollecitata una sorta di “Shengen militare” che eviti le lungaggini burocratiche attualmente in vigore (avvertire un paese di transito che si stanno inviando armi e munizioni, o altri sistemi di guerra tecnologica, destinate al fronte con la Russia), per efficentare i rifornimenti. Presenti e futuri.

La spiegazione della “strategia” viene decritta da un canale Telegram, questa volta russo, Starshe Edda.
“Anche l’ammissione dell’Ucraina nella NATO non può cambiare nulla. Se la NATO volesse combattere direttamente la Russia in Ucraina, avrebbe già combattuto. La guerra continuerà finché la Russia non vincerà.

Allo stesso tempo, penso che l’intensità della guerra aumenterà. La Russia non sarà in grado di fermare questa guerra senza raggiungere i suoi obiettivi.

Se parliamo della comprensione europea della guerra, qui vediamo due tendenze principali. La NATO si affida apertamente alla “barriera sanitaria” come carne da cannone, dato l’accumulo di eserciti dell’Europa orientale, principalmente polacchi, e di fatto lascia il ruolo di forze di riserva e di supporto agli eserciti dell’Europa occidentale.

La ragione è semplice: l’accumulo di forze armate da parte dei paesi dell’Europa occidentale, nel loro attuale stato economico, si rivelerà magari brillante ma richiederà un enorme quantità di tempo. Risulta più facile sostenere la crescita di Polonia, Romania, Finlandia e altri attori più piccoli in queste condizioni.

L’idea di una “Schengen militare”, cioè un piano per semplificare il trasporto militare in Europa, deve essere vista attraverso la stessa prospettiva.

Affinché la barriera possa svolgere il suo compito, avrà bisogno di supporto – e qui la NATO ha bisogno di avere un meccanismo funzionante per questo supporto, non dipendente dal famigerato ‘articolo 5’, nel contesto del quale non è ancora chiaro come si comporterà chiunque nelle condizioni di un possibile conflitto diretto con la Russia.

Logicamente, il sistema ricostruito dovrebbe apparire così: gli eserciti di Polonia e degli altri dell’Europa orientale, dispiegati al di là dei limiti immaginabili per le loro economie, ricevono logistica e supporto da contingenti limitati dall’Occidente, trasferiti nel contesto di ‘Schengen militare’. E tutto questo è controllato da un generale americano.

Dove è l’UE e l’idea dell’Euroesercito in questo progetto? Da nessuna parte, l’UE non è necessaria, è inclusa dagli americani e dai loro protetti nella NATO.”
L’idea statunitense, secondo questa lettura, con cui concorda anche l’analista Usa, sarebbe quella di favorire la
“lenta trasformazione del fronte russofobo dell’Europa orientale in una sorta di avanguardia della carne da cannone da schiacciare perpetuamente contro la Russia in modo sequenziale, dopo la caduta dell’Ucraina”.
Visti i risultati dell’“avanguardia” (Kiev) si potrebbe anche dubitare che il resto della pattuglia voglia ancora farsi avanti. Ma gli Usa dispongono sicuramente di molti argomenti “convincenti”, oltre che dell’abitudine al regime change di chi esita ad allinearsi.
“D’altra parte, bisogna ricordare che questo è un piano a lungo termine. Nel corso dei prossimi anni, possono sicuramente racimolare abbastanza denaro per continuare ad armare i vassalli “in linea successiva”, come Polonia, Baltici, Finlandia, ecc.

Per gli Stati Uniti è uno scenario win-win non solo perché mantiene costante la divisione tra la Russia e i suoi vicini e alleati naturali più stretti, ma mantiene l’Europa povera e gli Stati Uniti al vertice del raggruppamento del ‘mondo occidentale’.”
I problemi, per gli Usa, comunque non mancano. A partire dalla loro attuale debolezza economica (non bisogna guardare solo all’andamento del Pil, ma soprattutto al crescere del “mondo multipolare” intorno ai Brics e alla nascita di piattaforme interbancarie alternative allo statunitense Swift, ecc.) fino ad arrivare all’erosione della propria stessa credibilità militare (la fuga dall’Afghanistan ha segnato un limite).

Soprattutto se si guarda da vicino alle “nuove idee” messe in campo dai vertici Nato si scopre che in realtà sono un riciclo di vecchi progetti non andati in porto.
[…] “un po’ di tempo fa, quando c’era un grande trambusto attorno all’annuncio di Stoltenberg di una forza di reazione rapida da 300.000 unità ai confini della Russia, avevo rivelato che questa stessa ‘forza da 300.000’ era un piano di cui si era a lungo parlato fin dai primi anni 2010, e messo in campo all’inizio dell'“operazione militare speciale’, apparentemente di nuovo senza effetto”.
Ed è così anche per la “Schengen militare”, che è stata discussa a partire dal 2017 senza peraltro arrivare in porto. Si può riproporla, certo, ma l’ambiente europeo sta velocemente mutando pelle. La stessa crescita delle forze apertamente nazionalista, ultima la vittoria di Wilders in Olanda, può temporaneamente disturbare un forte accentramento delle decisioni in capo alla Nato e alla stessa Unione Europea.

E proprio per evitare futuri intoppi sarebbero state immaginate alcune soluzioni “istituzionali” che vanno tutte nella direzione di togliere il potere di veto ai paesi (temporaneamente...) in disaccordo.
“Ad esempio, ci sono state recenti chiamate e spinte per l’abolizione del potere di veto nell’UE, e lo stesso vale per istituzioni come il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.”
La conclusione sembra inevitabile:
“c’è una sorta di concentrazione del potere in corso: mentre figure ‘nazionaliste’ o anti-establishment assumono lentamente il controllo dei paesi europei, la nomenklatura fascista dell’UE cerca di abolire la capacità di quei paesi di avere una voce reale o un ruolo in qualsiasi cosa.

Ecco perché iniziative come i piani della NATO per una ‘Schengen militare’ sono incerti, poiché tutto dipenderà da quale parte guadagna il predominio in questa escalation della lotta di potere.”
Riguardo alle istituzioni europee probabilmente lo sguardo “americano” di alcuni analisti porta a sopravvalutare il grado di “incompatibilità” di alcune formazioni para-fasciste con la definizione di una strategia euro-atlantica sottratta ai vincoli delle politiche locali. Il governo Meloni è probabilmente l’esempio più chiaro di come la velocità nel genuflettersi al “grande capo di Washington” sia la vera dote dell’estrema destra europea.

Come provvisoria conclusione, però, deve valere l’avvertenza a non prendere per buono l’improvviso e molto apparente “buonismo” statunitense.
“Potrebbe sembrare controintuitivo che gli Stati Uniti vogliano ora congelare il conflitto ucraino, dato quanto discusso in precedenza, ma congelarlo è esattamente ciò che può permetterne la continuazione.”
In tempi di guerra, la normalità è la guerra. Anche negli schemi di ragionamento. E, come in ogni guerra, una “tregua” può tornare utile per ricostruire le proprie forze (quelle ucraine sono agli sgoccioli), far affluire le riserve, migliorare lo schieramento sul terreno e nei rifornimenti.

La pace è un’altra cosa. E a Washington non sanno cosa sia perché la identificano col proprio incontrastato potere di fare come hanno sempre fatto.

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