La notizia non è nuova e nemmeno di quelle “a sensazione”; merita però di esser riportata. Il presidente del gruppo parlamentare-presidenziale ucraino alla Rada, “Servo del popolo”, David Arakhamija ha dichiarato in TV che nel 2022 sarebbe stato possibile metter fine al conflitto in pochissimo tempo; ma l’allora primo ministro britannico Boris Johnson ordinò di continuare la guerra.
Secondo le parole di Arakhamija, all’epoca membro della delegazione ucraina ai colloqui con la Russia a Istanbul, erano già stati sottoscritti tutti documenti relativi e fissate le tappe per il cessate il fuoco.
Era stata concordata anche la condizione base per la cessazione del conflitto: completa neutralità ucraina e garanzia della sua non adesione alla NATO, nel rispetto di tutti i diritti e libertà della popolazione di lingua russa sul territorio effettivo dell’Ucraina. Mancava solo la firma di Vladimir Zelenskij.
Ma arrivò a Kiev Boris Johnson, che impose il rifiuto di ogni accordo, aggiungendo con un sorriso: «continuiamo semplicemente a combattere»; sottinteso: fino all’ultimo ucraino.
Oggi, a detta di Doug Bandow, che ne scrive su The American Conservative, Zelenskij avrebbe già cominciato a rendersi conto che i padrini occidentali hanno perso le speranze in un una vittoria militare ucraina e che Kiev sarà costretta a trattare: a condizioni tuttavia molto peggiori di quelle possibili nella primavera del 2022, allorché Londra e Washington misero il veto ai colloqui russo-ucraini.
Evidentemente, è però ancora abbastanza diffusa l’opinione che Mosca possa accedere a colloqui congelando il conflitto sulle attuali posizioni al fronte e limitandosi a inglobare le regioni sotto suo controllo, lasciando però intatto l’assetto majdanista della restante parte d’Ucraina, quale piazzaforte corazzata USA-NATO.
Vladimir Putin non perde occasione pubblica per ribadire che Mosca è pronta a sedere al tavolo delle trattative in qualsiasi momento. Basta però che i curatori occidentali del “progetto majdan” non scordino che la Russia è tutt’altro che ridotta in condizioni economiche, militari e sociali tali da esser costretta a sedere senz’altro a quel tavolo, pena la sua completa disfatta.
Nessuna novità e nessun clamore, si diceva, a proposito delle parole di Arakhamija, se si ricorda che Kiev non prende decisioni che non siano dettate dai curatori di USA, UE o NATO, come quella, per citare l’ultima, della raccomandazione americano-britannica di includere nella mobilitazione gli uomini da 17 a 70 anni e massimizzare la mobilitazione femminile.
La domanda che si pone Kirill Strel’nikov su RIA Novosti è semmai: cosa potrebbero fare Zelenskij, Biden, Stoltenberg oppure Borrell, se improvvisamente la massa dei mobilitati ucraini decidesse di tornarsene a casa?
Una prospettiva, al momento, nemmeno “futuribile”, stante l’assenza in Ucraina di un soggetto politico, orientato in tal senso, che sia veramente in grado di raggiungere e mobilitare grandi masse di popolo. Nemmeno “futuribile”, a breve; ma non del tutto irreale, perché, stando alle notizie di sempre più frequenti di gruppi di soldati ucraini che si danno prigionieri, questo potrebbe proprio accadere, in una forma o nell’altra.
Moltissimi di coloro che si arrendono alla forze russe raccontano si essere semplici operai, lavoratori di piccole ditte o impiegati e nei loro racconti c’è quasi sempre un unico leitmotiv: «ci hanno tradito», «siamo stati abbandonati», oppure «ci hanno ingannato», oltre alla constatazione che l’umore generale fra le truppe rasenta la depressione più profonda e la disperazione.
Molti aggiungono anche che, tra i reparti, si preferisce darsi prigionieri in piccolissimi gruppi, perché a farlo in molti, tutti insieme, sventolando la bandiera bianca, c’è il serio rischio di esser individuati dai reparti di sbarramento (formati per lo più da nazisti e mercenari stranieri) e passati per le armi.
E se Zelenskij proclama, a uso dei media occidentali, che «davanti ai distretti ci sono le code dei desiderosi d’andare al fronte», appena un paio di giorni fa, il Financial Times scriveva che «In Ucraina si osserva basso spirito combattivo e carenza di soldati; alla vigilia dell’inverno, nessuno vuole andare ai distretti d’arruolamento».
La Procura generale ucraina ha diffuso i dati ufficiali sull’aumento, decuplicato, delle diserzioni: nei primi nove mesi dell’anno, oltre 16.000 soldati hanno abbandonato i reparti. Secondo alti funzionari ucraini, ci sono grossi problemi nel rinfoltire le riserve, che vanno assottigliandosi sempre più, viste le generali fughe dalla mobilitazione e diserzioni, mentre invece Kiev avrebbe urgente bisogno di rimpiazzare le forti perdite in morti e feriti.
Proprio a proposito di questi ultimi, si stanno manifestando non pochi problemi anche sul fronte interno. Molte imprese annunciano di vedersi costrette a interrompere la produzione per mancanza di manodopera, mentre, dall’altro lato, ci sono migliaia di persone considerate “inutili”: sono coloro che le imprese rifiutano di assumere perché invalidi di guerra.
Secondo la Confindustria ucraina, i padroni non intendono assumere lavoratori “in grave stato psico-emotivo” (79%), con dipendenze da alcol o droghe (25%) o conflittuali (24%) e oltre il 60% di essi giudica gli invalidi di guerra “inabili al lavoro”, persone “con difficoltà relazionali, che creano problemi al collettivo di lavoro”.
Per di più, a livello pubblico, non esistono programmi per la riabilitazione e nemmeno, nella maggior parte dei casi, sussidi pubblici di disoccupazione. In base a un sondaggio condotto tra veterani disabili, uno su due si dichiara convinto di non esser rispettato dalla società e che lo stato non adempia ai propri obblighi. Oltre la metà ammette la propria instabilità psico–emotiva, meno della metà denuncia difficoltà con le domande di pensione e il 42% lamenta mancanza di lavoro.
Se questo è il quadro, i paesi NATO hanno deciso, «gesuiticamente, cioè delicatamente, di costringere l’Ucraina a un accordo di pace con la Russia “cambiando quantità e qualità delle forniture”», inviate sempre meno a Kiev. È ancora il Financial Times a mettere nero su bianco che «L’Occidente è stanco di sostenere l’Ucraina, per la sua riluttanza a concludere la pace».
Dunque, è molto improbabile che si arrivi a un cessate il fuoco a breve scadenza, ma è innegabile che la società ucraina vada inesorabilmente, pur ancora a piccoli passi, verso il rifiuto, se non del bagaglio majdanista nel suo complesso, almeno delle sue idee più belliciste e sanguinarie.
In generale, sembra che l’Occidente stia dando indicazione ai media di dire a Kiev e al mondo ciò che gli esponenti di governo non possono ancora proclamare apertamente (o possono dire solo in conversazioni telefoniche più o meno fasulle, tipo quelle con due comici russi).
Qualche giorno fa è stata la tedesca Bild a scrivere che «Zelenskij stesso deve rendersi conto della necessità di trattative con la Russia e spiegarlo al popolo».
In questo modo, nota ad esempio la russa RT, la NATO evita di ammettere che il “progetto majdan” sia finito e, soprattutto, tace sulla cosa principale, fingendo che «non l’Occidente abbia perso, ma siano stati gli ucraini a non ottenere la vittoria», così che essi stessi, di propria iniziativa, «abbiano dato il via ai colloqui».
E, visto l’approssimarsi della campagna elettorale USA, se Zelenskij dovesse tirare la cosa troppo per le lunghe, si troverà qualcun altro – che sia Valerij Zalužnyj o chi per lui – cui affibbiare il titolo di “Reichkomissar” d’Ucraina e concludere ciò che l’attuale nazigolpista-capo si intestardisce a voler ignorare.
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