Si è parlato molto, nei mesi scorsi, della questione degli extraprofitti bancari. Mentre le famiglie sono impoverite dall’inflazione (e da 30 anni di politiche liberiste), le banche sembrano nuotare nell’oro. Ordunque, stando alla propaganda del governo, l’esecutivo guidato da Meloni ha spezzato le reni alle banche, con un’imposta sugli extraprofitti bancari, orgoglio nazionale e chiaro esempio di giustizia sociale. Insomma, uno strumento a favore delle famiglie, che fanno fatica a far quadrare i conti, contro l’ingordigia del settore bancario e le conseguenze dell’innalzamento dei tassi. Ma sarà vero?
Vediamo di spiegare meglio la vicenda. Innanzitutto, perché le banche fanno extraprofitti? Il motivo è semplice. Quando la banca centrale ha rialzato i tassi d’interesse, bastonando i lavoratori, le banche hanno aumentato i tassi attivi sui prestiti che effettuano a famiglie e imprese, ma non hanno alzato quelli sui depositi delle famiglie e delle imprese. Le banche, infatti, da un lato prestano a un determinato tasso di interesse, dall’altro raccolgono fondi – i depositi delle famiglie – che remunerano a un tasso ben più basso di quello a cui prestano. Su questo differenziale fanno i loro profitti. Ovviamente, nel momento in cui i tassi attivi sono saliti e quelli passivi sono rimasti fermi, i profitti sono aumentati. Questo sembra spiegare gli extraprofitti bancari, ma in realtà manca ancora l’elemento fondamentale.
Il settore bancario, con il suo alto grado di concentrazione, è un esempio perfetto di come funziona il cosiddetto “libero mercato”. Nel mondo di fantasia immaginato da alcuni economisti (quello, per capirci, in cui i meccanismi di mercato aprono automaticamente le porte verso il migliore dei mondi possibili), grazie all’aumento dei tassi applicati ai prestiti, i banchieri sarebbero indotti ad aumentare un po’ il tasso pagato ai risparmiatori, cercando di raccogliere più depositi. Il primo banchiere alzerebbe un po’ il tasso per sottrarre clientela alle altre banche, il secondo li alzerebbe ancora un po’ e così via, fino ad arrivare a una situazione simile alla precedente, con un differenziale tra i tassi più o meno invariato rispetto a prima. Se, invece, le banche sono d’accordo, se c’è un cartello o un comportamento monopolistico, nessun banchiere inizierà questa corsa al rialzo e il tasso sui depositi non sarà toccato. Quindi il motivo principale degli extraprofitti bancari è la forza dei banchieri rispetto ai lavoratori, che si esprime nella possibilità di agire di concerto per non danneggiarsi l’un l’altro.
Così mentre l’inflazione sale e i salari reali scendono, le banche fanno extraprofitti, alle spalle delle altre componenti sociali.
Di fronte a questa situazione, all’inizio di agosto, Salvini, in veste di vicepresidente del Consiglio, strombazza l’approvazione, in Consiglio dei Ministri, di una tassa sugli extra profitti bancari. Una buona idea, direte voi, giusto? Peccato che, posatasi la polvere della propaganda e ricevute le prime critiche delle banche (nonché della BCE), il governo abbia introdotto, molto più silenziosamente, una via d’uscita per le banche, un escamotage per permettere loro di non pagare di fatto un euro sui famosi extraprofitti.
La versione definitiva della tassa sugli extraprofitti, infatti, permette alle banche di scegliere se pagare la tassa o accantonare fondi per rinforzare il patrimonio. In questo secondo caso, le banche avrebbero dovuto accantonare un volume di fondi pari a 2,5 volte l’ammontare che avrebbero altrimenti pagato allo Stato. In altri termini, le banche sono state messe dal Governo davanti al seguente dilemma: pagare le tasse o non pagarle? Voi cosa fareste?
Strano a dirsi, praticamente nessuna banca ha pagato l’imposta e quasi tutte hanno accantonato fondi. Secondo alcuni analisti, poi, queste cifre da accantonare sono grosso modo simili a quelle che le banche avevano già in proposito di mettere da parte per la patrimonializzazione. Oltre al danno la beffa: persino le banche pubbliche hanno usato l’escamotage degli accantonamenti (fermo restando che delle banche pubbliche, in Italia, non è praticamente rimasto nulla)! Ovviamente se i fondi che si prevedeva di raccogliere tramite questa imposta non saranno raccolti (diversamente da quanto ipotizzato dal governo, per il quale il gettito non cambierà), bisognerà far quadrare il bilancio dello Stato in qualche modo, magari con un po’ di tagli o di spending review.
Insomma, di giustizia sociale se n’è vista poca, di orgoglio nazionale ancora meno.
Tirando le somme e al di là della natura ambigua stessa del concetto di extraprofitto – se tutti i profitti derivano dallo sfruttamento del lavoro, quali sono i profitti legittimi e quali quelli extra? – rileva ancora una volta la totale acquiescenza e servilismo del Governo di fronte a chi detiene le leve del potere economico e finanziario. Così si spiega la recita che ci è stata propinata negli ultimi mesi: strepitare a voce alta contro le banche cattive e poi, però, scrivere un decreto che permette alle banche stesse di non tirare fuori neanche un euro. Con un ulteriore nota di colore: come ha reagito il Governo di fronte all’evidenza che di fatto tutte le banche preferivano (ovviamente) accantonare invece che pagare? In nessuna maniera, a testimonianza di quanto, sin dall’inizio, la tassazione degli extraprofitti non fosse altro che una boutade propagandistica. L’ennesima buffonata che serve a mascherare la natura di questo Governo, a chiacchiere di rottura nei confronti delle politiche degli ultimi decenni, ma nei fatti del tutto allineato ai desiderata del capitale e delle istituzioni internazionali che ne curano gli interessi.
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