Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

29/11/2023

Il rischio che gli Usa si impantanino anche in Medio Oriente

Mentre i Tg e i mass media continuano ad ossequiare ogni battito di ciglia di Biden – anche quando non ve n’è ragione – gli analisti più attenti segnalano come l’amministrazione statunitense rischi di impantanarsi nel Medio Oriente incendiato dall’operazione militare israeliana a Gaza.

È il caso della autorevole rivista Foreign Affairs che in un lungo articolo del 24 novembre scorso di Jennifer Kavanagh e Frederic Wehrey parla di “incombente pantano mediorientale di Washington”.

Secondo Foreign Affairs “L’iniezione di materiale e personale militare da parte di Washington potrebbe anche finire per intrappolare gli Stati Uniti in impegni di sicurezza a tempo indeterminato in una regione da cui, fino a poco tempo fa, avevano cercato di districarsi”.

Come noto gli Stati Uniti hanno inviato a sostegno di Israele in Medio Oriente due gruppi d’attacco di portaerei nel Mediterraneo e nel Mar Rosso, un sottomarino con capacità nucleare di classe Ohio; aerei da combattimento avanzati e oltre 1.200 soldati in aggiunta ai circa 45.000 militari statunitensi che sono già di stanza nella regione. C’è stato poi un significativo afflusso di assistenza militare a Israele, in aggiunta ai quasi 4 miliardi di dollari che il paese riceve ogni anno dagli Stati Uniti, per un totale di 124 miliardi di dollari di aiuti militari dalla fondazione dello stato ebraico nel 1948.

Foreign Affairs sottolinea come a differenza della trasparenza fornita sugli aiuti militari all’Ucraina, gli apparenti trasferimenti incondizionati di armi a Israele sono stati coperti da segretezza, il che ha suscitato costernazione nel Congresso e le dimissioni di un funzionario del Dipartimento di Stato di (Josh Paul) il quale ha insistito in una dichiarazione pubblica sul fatto che l’entità del sostegno di Washington a Israele “non era nell’interesse americano a lungo termine”.

Ma quale è lo scopo e la conseguenza dell’accresciuta assertività militare Usa in Medio Oriente? “Sebbene il Pentagono abbia sostenuto che i dispiegamenti dal 7 ottobre hanno lo scopo di prevenire una guerra più ampia, sembra altrettanto probabile che l’aumento delle forze statunitensi possa finire per innescare una spirale di escalation piuttosto che prevenirla” scrivono i due autori dell’articolo.

Un primo rischio viene indicato dall’aumento delle azioni ostili antistatunitensi nella regione: dalle milizie sciite in Iraq e Siria agli Houthi nello Yemen.

Un secondo rischio, più politico, è quello di minare le relazioni con i principali alleati e partner americani come l’Egitto, la Giordania, gli Emirati Arabi Uniti e altri. “Il peggioramento della crisi umanitaria a Gaza, le ondate di anti-americanismo che dilagano in tutto il mondo arabo e la reale divergenza tra i governi arabi e Washington sul perseguimento della campagna militare da parte di Israele rischiano di erodere le fondamenta della cooperazione per la sicurezza arabo-americana, soprattutto perché la presenza militare degli Stati Uniti nella regione diventa sia più visibile che più controversa”.

Secondo Foreign Affairs, questa rinnovata posizione degli Stati Uniti nella regione potrebbe preannunciare “un ritorno alle cattive abitudini da parte degli Stati Uniti, una rivisitazione della loro abituale strategia di appoggiarsi a grandi dispiegamenti militari e trasferimenti di armi per garantire la sicurezza della regione contro le minacce esterne. Questo approccio non ha reso la regione più sicura”.

L'autorevole pubblicazione ricorda come decenni di coinvolgimento militare degli Stati Uniti “hanno esacerbato le rivalità regionali e alimentato la corsa agli armamenti che ha peggiorato i conflitti locali, per non parlare delle disastrose ripercussioni dell’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003, che ha incluso centinaia di migliaia di morti civili, l’ascesa dello Stato Islamico (ISIS) e il deterioramento della reputazione globale degli Stati Uniti”.

Infine vedono il rischio che un maggiore e rinnovato impegno militare Usa in Medio Oriente, distolga forze e concentrazione dal teatro di crisi e competizione principale con la Cina: l’Indo-Pacifico. Su questo aspetto, ma su un teatro di crisi diverso, anche il Financial Times sottolinea come “la capacità dei Paesi occidentali di raccogliere il sostegno globale per l’Ucraina sia stata compromessa dalla crescente rabbia del Sud globale per il sostegno degli Stati Uniti a Israele”.

Foreign Affairs suggerisce che l’attenzione di Washington in Medio Oriente si debba spostare dai costosi trasferimenti di armi e dagli sforzi per costruire l’interoperabilità con le forze statunitensi “verso attività che aiutino i partner regionali a operare in modo indipendente con i grandi arsenali che già hanno e a farlo insieme ai loro vicini. In passato, gli sforzi degli Stati Uniti per forgiare coalizioni di sicurezza regionali in Medio Oriente sono falliti a causa delle rivalità ideologiche e personali tra gli stati arabi, con il lungo battibecco tra Arabia Saudita e Qatar che ne è l’esempio più lampante”.

Una analisi interessante ma con un grande buco: il ruolo di Israele e il suo rapporto con gli Stati Uniti.

Sono gli Usa che condizionano Israele o viceversa?

La gran parte degli osservatori internazionali – e dei governi – ritiene che la capacità di persuasione degli Usa su Israele sia ancora oggi decisiva. Alcuni studiosi statunitensi come James Petras o Walt e Mersheimer, sostengono piuttosto il contrario. A loro avviso Israele – attraverso l’altissimo numero di likudzik nel Congresso Usa e una influente lobby sionista nei mass media e nei centri strategici – condiziona Washington più di quanto essa condizioni la politica dei governi di Tel Aviv.

La cronaca ci dice che ci sono volute ben tredici telefonate e un faccia a faccia, in occasione del viaggio di Biden in Israele del 18 ottobre, per riuscire ad ottenere una tregua di pochi giorni a Gaza. E poi c’è il crescente disagio all`interno dell`amministrazione Usa e dell`ala progressista dei Democratici, di fronte allo sterminio di palestinesi che Israele ha scatenato su Gaza.

Ma, intervistato dal quotidiano “Bild”, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, non sembra affatto intenzionato a trasformare la tregua di alcuni giorni a Gaza in un cessate il fuoco stabile. Ha infatti affermato che Israele non ha “altra scelta che distruggere Hamas”. Il leader israeliano ha dichiarato che, “se si vuole la pace, si deve distruggere Hamas, se si vuole la sicurezza, si deve distruggere Hamas, se si vuole un futuro diverso per israeliani, arabi, palestinesi e tutti gli altri, si deve distruggere Hamas”. E se questa è la linea strategica delle autorità israeliane, insieme alla liquidazione delle aspettative dei palestinesi ad un loro Stato più volte affermata e praticata, lo spazio per una soluzione politica appare inesistente.

In Israele non è solo Netanyahu a pensare queste cose. In un editoriale del Jerusalem Post – piuttosto contrario a concedere tregua a Gaza – viene sottolineato come nelle ultime tre settimane, le Forze armate israeliane si sono mosse attraverso Gaza in modo massiccio, riuscendo a raggiungere l’obiettivo di separare il sud dal nord della striscia e isolare le forze di Hamas in due aree del sud: Khan Yunis e Rafah.

“Non è facile fermare una massiccia forza militare (che fra l’altro comporta la mobilitazione di centinaia di migliaia di riservisti ndr). E una volta fermata, non è facile farla ripartire con lo stesso impeto. Inoltre, grazie alla pausa nei combattimenti, le forze di Hamas potranno muoversi liberamente all’interno della striscia di Gaza e prepararsi per una futura offensiva israeliana. Ciò significa che, se e quando le operazioni riprenderanno, i soldati israeliani dovranno aspettarsi combattimenti più duri” scrive l’importante giornale israeliano.

Del resto occorre ammettere che anche nelle manifestazioni per la democrazia in Israele dei mesi scorsi, la questione del rapporto tra una “democrazia” e l’oppressione coloniale contro i palestinesi, non è mai comparsa nell’agenda politica israeliana, né quella del governo né quella dell’opposizione.

Dunque gli Stati Uniti, che pure si sono impegnati militarmente in Medio Oriente per coprire le spalle a Israele dagli altri antagonisti nella regione (Hezbollah, Iran, Siria), potrebbero trovarsi davanti a due rogne: la prima è che Israele potrebbe decidere di proseguire l’offensiva – e il massacro dei palestinesi – a Gaza nonostante Washington preferisca la tregua. La soluzione politica – a partire dalla ormai depotenziata posizione su “due stati per due popoli” – appare totalmente svanita.

La seconda è quella di tornare a impantanarsi in un Medio Oriente che gli Usa hanno ampiamente destabilizzato (vedi Iraq, Siria, Libia) negli anni adottando la strategia del caos piuttosto che la stabilità.

Le difficoltà di egemonia globale e il declino interno statunitense, da un lato si specchiano e rispecchiano anche nella crisi politica interna di Israele, dall’altro evidenziano un messaggio di forza meno credibile che in passato. Certo le portaerei nel Mediterraneo, nel Mar Rosso o nel Golfo Persico hanno funzionato ancora una volta come deterrenza, ma senza capacità di “soluzione politica ai conflitti” la credibilità e l’autorevolezza di una grande potenza vanno a farsi friggere.

In questi ultimi due anni il mondo è cambiato, anche nella regione mediorientale, e sono ormai molti i paesi – prima totalmente subalterni a Washington – che oggi cercano di giocare in proprio, a cominciare dall’Arabia Saudita, dalla Turchia, dal Qatar all’Egitto ed anche la stessa Israele.

Il vecchio ordine sta saltando e il nuovo per ora si annuncia con le bombe su Gaza, sul Libano e sulla Siria. E quelli disponibili a farsi dire dalla Casa Bianca cosa fare e cosa non fare si sono assottigliati vertiginosamente.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento