Mercoledì le Commissioni Difesa di Camera e Senato hanno ascoltato in seduta congiunta l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, capo di Stato maggiore. Al centro del suo intervento vi sono state le esigenze di personale e di ammodernamento che gli impegni bellici crescenti stanno portando con sé.
Bisogna immediatamente sottolineare come, già nel luglio di quest’anno, un disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri ha previsto di portare il numero dei militari da 150 a 160 mila. Ma per Cavo Dragone bisogna fare passi ulteriori lungo questo percorso, facendo eco alle parole che negli ultimi giorni ha pronunciato Crosetto in elogio alla capacità di Israele di mobilitare in poco tempo 350 mila uomini.
Un’opzione attraverso la quale il Capo di Stato maggiore propone di aumentare l’organico di altre 10 mila unità è l’istituzione di una “riserva ausiliaria dello Stato, costituita da personale proveniente dal mondo civile e da pregressa esperienza militare“. Essa verrebbe impiegata in caso di guerra, crisi internazionale, stato d’emergenza ed eventi calamitosi, sollevando i veri e propri «soldati» da alcuni compiti.
Altro punto toccato è stato ovviamente quello delle spese militari, che devono aumentare al 2% del PIL secondo gli accordi presi in sede NATO. Traguardo che si prevede di raggiungere nel 2028, passando dagli attuali 27,7 a 42 miliardi: 15 miliardi in cinque anni, un incremento di tre miliardi all’anno, ogni anno.
È facile dedurre che nel quadro di costante instabilità dei conti pubblici, a pagarne lo scotto saranno le spese sociali, e il dissenso che ciò potrebbe provocare sarà gestito con un inasprimento della repressione. È un percorso di militarizzazione della vita civile e di indirizzo dell’intera società verso la guerra.
Questa logica risulta evidente nel fatto che il responsabile della Difesa ha già accennato che, per quanto riguarda la composizione dell’ipotetica riserva, il personale “più facile da attivare è quella delle forze di polizia, coloro che sono già formati ad attività di sicurezza“.
Se a ciò si aggiunge l’appena licenziato decreto governativo in merito, di sapore draconiano, l’immagine che prende forma è piuttosto inquietante.
Cavo Dragone si è addirittura spinto a consigliare il Parlamento su come organizzare il finanziamento da qui al 2040, ovvero sulla base di leggi triennali. Questo piano di investimenti va collegato con gli obiettivi del ministero delle Imprese nel campo della competitività in settori strategici, dando all’industria bellica sempre più peso nel tessuto sociale ed economico del paese.
Le sfide di ammodernamento che devono affrontare esercito, marina e aviazione (rispettivamente nuovi carri armati e artiglieria, rinnovamento delle infrastrutture e del parco sommergibili, lo sviluppo del caccia di sesta generazione GCAP) sono state ricordate proprio con questa prospettiva. In particolare, sono state sottolineate le potenzialità dual-use delle tecnologie militari studiate sia per il mondo sotto l’acqua sia per quello spaziale.
La corsa sul piano inclinato della guerra è chiarissima nelle politiche italiane, mentre i confini tra forze di polizia, armate e gestione dell’ordine pubblico si fa più labile. La classe dirigente si è incamminata da tempo verso un’economia bellica e solo un’alternativa che parta dalla rottura dei vincoli euroatlantici può sperare di agevolare processi di pacificazione e di sviluppo condiviso.
Le mobilitazioni di queste settimane per la Palestina e contro la partecipazione dell’Italia alla “terza guerra mondiale a pezzi” sono state il terreno ideale in cui riconoscere chi non vuole essere complice con questo disastro. Ora bisogna continuare su questa strada.
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