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31/12/2022

Capisaldi 2022

È indiscutibilmente difficile fare il punto sull'anno che si conclude.

Nel 2022 la realtà ha più che doppiato qualsiasi fantasia: crisi sistemica del modello capitalista, crisi climatica, crisi pandemica cui ha fatto eco quella sociale accentuata dalla guerra in Ucraina.

Rammentando che al peggio non c'è mai fine vengono i sudori freddi...

Complesso, quindi, fare previsioni per il 2023 che non siano fosche, non fosse altro per gli spettri di guerra a tutto campo – compresa quella nucleare – che in Occidente vengono sventolati dai media come si trattasse di gagliardetti in una partita di calcio.

È evidente che i tempi attuali non vivono una banale sommatoria di emergenze, ma una complessiva crisi di civiltà. Il problema è che il senso comune è lontano dal prenderne compiutamente atto, mentre il tempo stringe.

Su questo versante il mondo dell'arte e della cultura – che, seppur di sistema, nei decenni passati ha rappresentato un antidoto al sonno della ragione – ha mostrato un allineamento agli interessi dominanti sfacciato, disgustoso e con sempre meno eccezioni.

Con queste premesse era arduo trovare appagamento nelle novità e infatti anche gli ascolti del 2022 sono stati prevalentemente all'insegna dell'antologia.

Fanno eccezione:

- i Fontaines D.C. autori di un trittico entusiasmante pubblicato tra 2019 e 2022;

- i Voivod usciti con l'ennesimo disco più che lusinghiero in una carriera 40ennale e soprattutto protagonisti di un concerto memorabile in quel di Genova;

- e sulla scia dei canadesi gli E-Force di Eric Forrest, frontman dei medesimi Voivod a metà anni '90, nel periodo industrial del gruppo.

Per il resto ho recuperato:

- Ummagumma e More dei Pink Floyd, che senza una valida ragione ho sempre considerato album minori e quindi di scarso interesse. Manco a dirlo mi sono dovuto ricredere, non fosse altro perchè questi sono gli ennesimi dischi che danno corpo alla tesi per cui il periodo artisticamente più fecondo per la musica pop sia stato quello degli anni '60;

- il debutto dei Dillinger Escape Plan, una pietra miliare di un genere che fondamentalmente detesto, probabilmente perchè ha esaurito tutto quello che poteva dire con questo Calculating Infinity;

- i Gun Club di Fire of Love in particolare, che a mio modesto avviso è quello che i Rolling Stones sarebbero dovuti diventare dopo il 1972 senza riuscirvi;

- i Red Temple Spirits, scoperti in questi ultimi giorni con un album monumentale, uno dei pochi che, terminato l'ascolto, lascia la sensazione netta di qualcosa di senza tempo al pari di pochissime altre opere come l'esordio dei Velvet Undergorund;

- gli Who, finalmente ascoltati oltre la dimensione dei singoli. Mi ha particolarmente colpito Quadrophenia, mentre mi ha lasciato più tiepido del previsto Tommy, abbastanza inutile discettare su Who's Next per evidenti meriti oggettivi;

- i Rolling Stones, ascoltati in rigoroso ordine enciclopedico dagli esordi a metà anni '70. Memorabili in ordine di gradimento: Aftermath, Beggars Banquet e Sticky Finges;

- i Beatles, gruppo dell'anno e la chiudo qui, perchè non so come rendere lo stupore reiteratamente vissuto ascoltando i dischi pubblicati nella seconda metà dei '60.
A pensare che questi tipi tra il 1965 e il 1969 hanno infilato Help, Rubber Soul, Revolver, Sgt. Pepper's, il White Album ed Abbey Road fa venire le vertigini e da la misura del perchè, a 60 anni di distanza, un'epoca così densa di arte pop sia assurta a mito intergenerazionale, con una punta di rammarico per non averla potuta nemmeno sfiorare.

Urla del silenzio (1984) di Roland Joffé - Minirece

La verità sulle stragi? Al Ministero dei Trasporti l’archivio non c’è più

Manca completamente l’Archivio del Ministero dei Trasporti per gli anni delle Stragi (1968-1980) e ancor più in specifico, manca addirittura tutta la documentazione del Ministro e del suo Gabinetto. Questa la notizia più clamorosa sulla quale soffermarsi con particolare attenzione storico-politica, contenuta nella relazione annuale del Comitato consultivo sulle attività di versamento all’Archivio Centrale dello Stato della documentazione relativa alla direttiva Renzi\Draghi, che ha concluso nell’ottobre scorso i suoi lavori.

Si tratta di una notizia che deve far riflettere: da un lato è un grave «colpo» per la Storia del nostro Paese.

Bisogna sottolineare che il periodo di cui si certifica la mancanza di documenti è proprio quello che comprende le Stragi più sanguinose: e i trasporti sono stati particolarmente colpiti, pensiamo agli attentati sui treni, alla stazione di Bologna fino ad Ustica. Ma credo anche sia importante sottolineare come ci si trovi totalmente fuori da ogni applicazione della legislazione esistente sulla conservazione e trasmissione agli Archivi di Stato della documentazione delle Amministrazioni Pubbliche.

Non si può insomma non rilevare questo dato estremamente inquietante come sintomo negativo della situazione della documentazione archivistica nelle Amministrazioni dello Stato.

La conoscenza di questa situazione è il prodotto di un percorso di desecretazione della documentazione relativa alle Stragi iniziato nel 2014 – con la direttiva Renzi – e a cui il Governo Draghi ha dato ulteriore forza con la decisione di rendere pubbliche anche le carte relative alla P2 e a Gladio, rendendo così più completo l’arco di interesse storico; e ponendosi direttamente, la presidenza del Consiglio, «alla testa» dei lavori del Comitato, delegandone la direzione al Segretario Generale Roberto Chieppa

Nell’ultimo anno quindi si è avuto un periodo di lavori davvero importante che ha portato indubbiamente all’acquisizione di un grande patrimonio di conoscenza – documentazione, ma che comunque ha dovuto fare i conti con tutte le contraddizioni, mancanze, deficienza di materiale, sempre denunciate negli anni.

Proprio cercando di affrontare le tematiche relative alle mancanze denunciate, in particolare dai rappresentanti delle Associazioni vittime della Stragi, si e è avuto un serrato confronto «archivistico» con il Ministero dei Trasporti. E da questo confronto, da rinnovate ricognizioni, la definitiva consapevolezza della mancanza dell’Archivio stesso che avvalora, rafforza e conferma le critiche fin qui avanzate.

Va ricordato che la direttiva del 2014 (direttiva Renzi) era stata accolta con aspettative positive da parte delle Associazioni delle Vittime e con qualche perplessità e ritrosia del mondo archivistico.

E in questi anni di lavoro all’interno del Comitato, abbiamo dovuto avanzare più volte molte critiche sulla sua travagliata attuazione e soprattutto sulla inadeguatezza del materiale reso disponibile; ad esempio, per quel che riguarda la Strage di Ustica si è subito denunciata la grande assenza di materiale coevo ai fatti nelle varie Amministrazioni pubbliche.

Bisogna ricordare che l’insufficienza della documentazione è sempre stata al centro delle critiche e delle denunce delle Associazioni, ed è stato negli anni la causa del contendere all’interno del Comitato nei confronti con le Amministrazioni.
Una continua disputa-scontro tra carte mancanti, elenchi di nominativi non consegnati, carte clamorosamente censurate, intere parti coperte con vistose cancellature proprio nel momento della loro desecretazione!

Fino, come si diceva, alla mancanza dell’intero Archivio del Ministero dei Trasporti!

E quindi per l’anno che verrà, bisognerà chiedere che si prosegua e si intensifichi l’impegno per l’effettiva attuazione di quelle direttive (prima Renzi e poi Draghi), per far piena luce e delineare un documentato contesto storico su una stagione terribile e sanguinosa della Storia del nostro Paese. E su questo vanno richiamati alle loro responsabilità sia Governo che Parlamento e, a mio avviso, anche Magistratura, per quel che concerne la tenuta di documentazione in totale difformità dalla legge.

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L’era delle sanzioni USA è arrivata al capolinea?

La domanda se la pone – ed è questo che rende interessante l’articolo – una rivista come Foreign Affairs, organo dell’influente Council on Foreign Relations, think tank che ha annoverato dal 1921 ad oggi dozzine di Segretari di Stato, direttori della CIA, banchieri, avvocati, professori, esponenti dei media. In pratica, la voce dell’élite dell’establishment americano.

Per molti anni, gli USA hanno usato efficacemente l’arma delle sanzioni (unilaterali, non decise dall’Onu) per imporre il loro ordine mondiale e mettere in riga i Paesi ribelli.

Sul sito del Ministero del Tesoro statunitense, è possibile leggere un lunghissimo elenco di paesi sottoposti a sanzioni unilaterali da parte degli USA.

Ma, fatalmente, questo approccio ha indotto a poco a poco il resto dal mondo a organizzarsi e cercare scappatoie per liberarsi dallo strapotere statunitense e le ha trovate in una combinazione fatta di:

1) accordi di scambio in altre valute;

2) alternative allo SWIFT (sistema di pagamento elettronico);

3) valute digitali.

“Il potere degli Stati Uniti di imporre sanzioni ad altri paesi deriva dal primato del dollaro USA e dalla capacità ad ampio raggio degli Stati Uniti di supervisionare i canali finanziari globali. Ha senso, quindi, che i nemici degli Stati Uniti cerchino innovazioni finanziarie che riducano questi vantaggi degli Stati Uniti. Sempre più spesso, tali paesi li hanno trovati con accordi di scambio di valuta, alternative allo SWIFT e valute digitali” (...)

“Presi separatamente, accordi di scambio di valuta, sistemi di pagamento alternativi e valute digitali non avrebbero un grande impatto sull’efficacia delle sanzioni statunitensi. Ma insieme, queste innovazioni stanno dando sempre più ai paesi la possibilità di condurre transazioni attraverso canali a prova di sanzioni. Questa tendenza sembra irreversibile.

Non c’è motivo di credere che le relazioni tra Washington e Pechino o tra Washington e Mosca miglioreranno in tempi brevi. Lo scenario più probabile è che le cose peggiorino, spingendo Pechino e Mosca a raddoppiare i loro sforzi per rimanere immuni alle sanzioni”
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Milano e Venezia capitali della russofobia e della meschinità culturale

Il teatro Arcimboldi di Milano ha deciso di cancellare le due date dello spettacolo del ballerino Serghei Polunin.

Polunin è un ucraino di Kherson ma ritenuto filorusso. Il direttore del teatro Gianmario Longoni, ha affermato che la decisione è stata presa “d’accordo con la compagnia. Non c’è il clima per rappresentare uno spettacolo d’arte e trarne le sensazioni corrette. Forse il clima è cambiato per sempre”.

Due giorni fa il teatro La Fenice di Venezia ha annullato il concerto in programma il 4 e 5 aprile della pianista Valentina Lisitsa, anche lei ucraina ma ritenuta filorussa. La decisione è stata presa dopo un’ondata di proteste sui social – in pratica uno shit storm delle reti ucraini – contro l’esibizione dell’artista che avrebbe dovuto eseguire brani di Rachmaninov per l’evento organizzato dall’associazione Musikamera. La colpa della Lisitsa è quella di aver tenuto un concerto a Mariupol occupata dalle truppe russe. L’artista si è detta rammaricata di dover “soccombere alla folla anonima e aggressiva” di chi non la voleva e ha escluso di tornare in futuro: “Pensavo di essere stata invitata come uno degli interpreti di Rachmaninov più riconosciuti al mondo”, ha scritto, “è una grande delusione. Questo è molto molto triste. E, ovviamente, in questo caso il concerto non può aver più luogo”

La cancellazione di eventi culturali a causa della pressione delle reti fasciste e nazionaliste ucraine è un orrido segnale di vigliaccheria delle istituzioni italiane.

Anche in questo caso “Not in my name”.

Chi ha un minimo di dignità disdica gli abbonamenti al Teatro Arcimboldi di Milano e al Teatro La Fenice di Venezia e ne diserti la programmazione nei prossimi mesi, è il minimo che si possa rispondere.

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Il 2022 visto da OttolinaTV - parte 6 - Da Draghi a Meloni, la "sudamericanizzazione" italiana

L’auto elettrica si sta scaricando, come il capitalismo

L’automobile, oltre a essere il simbolo del tipo di “libertà” promessa dal capitalismo (individuale, ma solo se te la puoi pagare), è stata la merce-pivot di tutto il Novecento. Ossia la merce al centro dell’immenso sistema produttivo mondiale, per dimensioni di vendita, fatturato, occupati, indotto, abitudini di massa, immaginario. La sua crisi, ancora oggi, destabilizza il sistema.

Sull’auto si sono scaricate anche tutte le responsabilità per il cambiamento climatico. In parte giustamente, in parte maggiore per occultare il peso delle emissioni nocive degli apparati industriali e dei riscaldamenti a idrocarburi, nel nord sviluppato del pianeta.

Il passaggio a motori basati su energie alternative ha perciò occupato gran parte delle preoccupazioni in varia misura “ambientaliste” (da quelle autentiche a quelle pelose degli industriali del settore), diramandosi immediatamente tra le diverse soluzioni a disposizione: elettrico, idrogeno, ibrido, ecc..

Siccome la pubblicità è pur sempre l’anima del commercio, uno dei più abili “comunicatori” sembrava aver trovato l’uovo di Colombo: l’auto elettrica per eccellenza, Tesla.

Orde di giornalisti acefali hanno tirato su il mito di Elon Musk e quindi anche le quotazioni di borsa, facendone per qualche settimana l’uomo (teoricamente, ossia in base a quelle quotazioni) più ricco del mondo.

Ricordate il numero di puntate che Repubblica o il Corriere gli hanno dedicato per farne l’ultimo simbolo dell’”uomo fatto da sé”? Già dimenticate, eh? Ora sono occupati a promuovere le pischelle che fanno i soldi (molti meno di Musk) mostrandosi su OnlyFans...

Nel mondo reale, quindi, improvvisamente l’auto elettrica si sta rivelando un mito insostenibile. A dirlo è stato nientepopodimeno che Akio Toyoda, padre-padrone della Toyota (che si trascina dietro anche Lexus e Daihatsu), ovvero il marchio che vende di più al mondo e soprattutto può vantare parecchi record di affidabilità per i suoi prodotti. Insomma: il Numero 1 dell’auto dice che il futuro dell’auto non sarà elettrico. Con buona pace dell’Unione Europea che ha fissato al 2035 la data limite per l’abbandono di benzina e diesel.

Non per ragioni “ideologiche” o per un atteggiamento “conservatore”, ma proprio perché crea più problemi di quel che intendeva risolvere. Anche su piano ambientale.

Gli scienziati più seri, già oltre venti anni fa, avevano avvertito che le “energie alternative” per i motori erano in realtà un ballon d’essai, quanto ad “ecologia”: un semplice spostamento del costo ambientale dal luogo di circolazione delle auto (allora quasi soltanto o soprattutto l’Occidente neoliberista) ai territori di estrazione delle materie prime occorrenti (dal litio in giù).

Anche l’idrogeno è stato un mito tutto sommato breve. Bisogna infatti produrlo, nonostante sia l’elemento più presente sulla Terra. E con diversi procedimenti che sono in ogni caso ad energia negativa, come impone il secondo principio della termodinamica (l’elettrolisi dell’acqua, il reforming del gas...).

Ora ci si aggiunge il colpo di grazia: il parere dei consumatori. Le auto elettriche o ibride costano molto di più, ma soprattutto non vanno lontano quando si usa solo l’energia elettrica. Le reti di ricarica sono troppo rarefatte e i tempi necessari per “fare il pieno” sono incompatibili con il viaggiare.

Idem per le “ibride”, che in realtà hanno una certa utilità ma limitatamente al traffico cittadino. Poi, se vuoi ricaricare la batteria o fare viaggi più lunghi, vai a benzina come prima. E infatti la parte del settore auto che tira di più è quella... dell’usato! Altro che “sostituzione”, insomma.

Cambiare un intero sistema di produzione richiede una programmazione a partire dai dati scientifici. Le “improvvisazioni” di singoli imprenditori possono attirare per qualche tempo investimenti e pubblicità, ma difficilmente possono diventare soluzioni adeguate a “dirottare” un modo di produzione.

Era stato possibile agli albori del capitalismo, quando tutto era ancora da inventare, scoprire, manipolare (dalle materie prime alle tecnologie produttive, alle macchine). Quando al di fuori della “fabbrica” tutto sembrava ed era “in-finito”.

Oggi il mondo è industrializzato pressoché totalmente. Le materie prime hanno limiti chiarissimi di disponibilità. Le tecnologie che ci sono e quelle che si sperimentano, idem.

E la “narrazione” dei media, per quanto servile, non copre questa realtà di fatto. L’in-finito è finito, bisogna fare i conti con quel che c’è secondo le leggi del “ricambio organico”...

Un’analisi più dettagliata della situazione specifica, come spesso accade, la fornisce l’ottimo Guido Salerno Aletta su TeleBorsa, che non è una testata “comunista” o “ecologista-integralista”.

Segno che il limite è stato incontrato. E l’urto comincia far male...

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Abbiamo già perso tutti la Tesla?

Guido Salerno Aletta – Agenzia Teleborsa

Il mercato non sembra più credere più ai miracoli: il futuro dell’auto elettrica si è fatto assai confuso, e non è stato solo Akio Toyoda, il numero uno di Toyota oltre che presidente di Japan Automobile Manufacturers Association l’associazione dei costruttori di automobili giapponese, a lanciare l’allarme: “È un business immaturo, con costi energetici e sociali insostenibili“, ha affermato, confermando la scelta di lavorare su modelli ibridi.

Insomma, l’alimentazione tradizionale rimane comunque quella preferibile, insieme a quella elettrica da attivare in condizioni favorevoli, quando si circola a bassa velocità e nei centri urbani.

A dicembre di tre anni fa, alla fine del 2019, la straordinaria performance di Tesla non era neppure cominciata: al Nasdaq il titolo veniva scambiato ad appena 18,08 dollari, una sciocchezza rispetto alla straordinaria performance di 384 dollari raggiunti nei primi di novembre del 2021, appena un anno fa.

Da allora, il titolo non ha fatto altro che scendere, fino ad arrivare ai 109,10 dollari del 27 dicembre, ancora in calo di ben 14,05 dollari rispetto alla chiusura precedente, ritornando al valore che aveva toccato il 1° luglio del 2020.

C’è di vero che a Tesla non hanno giovato affatto né l’avventura di Twitter, la piattaforma social su cui Elon Musk ha puntato tanti soldi e la sua reputazione di imprenditore dal tocco infallibile, né la notizia che a fine di novembre lo stesso Musk abbia venduto 22 milioni di azioni per un controvalore di 3,6 miliardi di dollari. Una decisione, questa, che non poteva che deprimere il valore del titolo.

C’è di vero, però, che un forte calo del valore delle azioni si era già verificato a partire dallo scorso mese di luglio, quando le azioni di Tesla erano tornate a quota 293 dollari: Musk ha venduto quando il mercato era già in calo.

Anche l’altra avventura imprenditoriale di Musk, quella della gestione della costellazione satellitare Starlink, sembra ormai più legata alle connessioni attivate in Ucraina ed a quelle ipotizzate in Iran per superare il deficit delle reti di un Paese in guerra e le possibili censure governative a Teheran: per il resto del mondo, le reti di telecomunicazioni tradizionali sono più che adeguate ed i prezzi accessibili.

Ci sono poi le notizie sulla produzione della Tesla in Cina che non sono confortanti: approfittando delle festività per il Capodanno, lo stabilimento di Shanghai si fermerà questo mese per ben 17 giorni, dal 3 al 19, lavorando quindi solo dal 20 al 31. Davvero troppo poco.

La domanda non tira come ci si attendeva, nonostante un taglio del 9% dei prezzi dei due modelli più famosi, la Model 3 e la Model Y.

Si annunciano innovazioni anche sul fronte dei nuovi modelli della marca statunitense, per ridurre sia i costi di produzione che i prezzi di vendita: nonostante gli incentivi pubblici e gli sconti dei produttori, i recenti aumenti delle bollette elettriche hanno raffreddato di molto gli entusiasmi iniziali.

Anche la Nio, la principale concorrente cinese di Tesla, sta affrontando le medesime difficoltà: non solo un forte calo in Borsa e consegne inferiori alle attese, ma soprattutto trentamila unità in meno rispetto alle 450 mila previste per l’ultimo trimestre di quest’anno.

Nonostante l’entusiasmo per la ripresa del mercato europeo, nei primi dieci mesi del 2022 sono state registrate vendite in calo del 31,1% rispetto allo stesso periodo del 2019, prima che iniziasse la pandemia. E, comunque, tra gennaio ed ottobre di quest’anno c’è stato ancora un calo del 7,8% rispetto allo stesso periodo del 2021. Il mercato dell’auto sembra davvero molto debole.

Il paradosso è rappresentato dall’andamento del prezzo delle auto usate, che nel giro di tre anni è aumentato del 30%: In Italia, a luglio di quest’anno, il valore medio di un’automobile usata è di 21.600 euro, ossia il 21,7% in più rispetto al mese di luglio del 2021 e il 33,6% rispetto allo stesso mese del 2019.

I lunghi tempi di consegna delle nuove auto, ormai tutte elettriche o almeno ibride, gli elevati costi iniziali, le incertezze su quelli di gestione hanno contribuito a raffreddare gli entusiasmi.

Paradosso dei paradossi, poi, l’età media delle auto in circolazione sta aumentando anziché diminuire: nel 2021 per ogni 100 automobili vendute solo 28 erano nuove di fabbrica, mentre 37 avevano meno di 10 anni di vita e addirittura 35 auto ne avevano più di dieci.

Nel 2010, in proporzione, le automobili nuove erano state 39, quelle usate ed immatricolate da meno di 10 anni erano state 47, e quelle con oltre 10 anni di vita erano state 14. Nel 2021, le auto acquistate di seconda mano, con più di dieci anni di vita, sono più che raddoppiate rispetto al 2010.

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Guerra in Ucraina - Intensi attacchi missilistici su tutto il Paese

di Francesco Dall'Aglio

Tra mercoledì, ieri notte e ieri sera, tre diversi attacchi di missili russi su vari tipi di bersagli in Ucraina. Di quello che è in corso al momento è inutile parlare, perché non ne conosciamo ancora portata e conseguenze – sembrerebbero implicati solo i Geran, ma contro cosa non è ancora chiaro. Non sembra, ad ogni modo, un attacco particolarmente imponente.

Molto più serio è stato quello di ieri, che ha preso di mira bersagli militari in prossimità della linea del fronte (depositi di carburante, depositi di munizioni e simili). Ovviamente non è possibile sapere con certezza cosa sia stato colpito e con che risultati.

Stanotte e stamattina presto l’attacco più importante: una doppia ondata di missili su infrastrutture energetiche, installazioni industriali e sistemi di difesa aerea a Kiev, Kharkiv, Odessa, Nikolaev, Dnepropetrovsk, Ivano-Frankivsk, Lviv, Vinnitsa e Khmelnytsky, in pratica tutto il paese.

Come già avvenuto in precedenza i primi missili a dirigersi sui bersagli sono stati dei decoy, per rivelare le posizioni dell’antiaerea ucraina. Stavolta però non si tratta di vecchi missili riadattati ma di sistemi specifici, gli E95M (uno è in foto, mi spiace per la qualità bassa ma vanno piuttosto veloci) sviluppati dalla ditta Eniks di Kazan’ (qui la descrizione del prodotto, convenientemente anche in inglese, con una foto più chiara).

Gli E95M sono stati sviluppati per l’addestramento dei sistemi contraerei sia fissi che portatili dell’esercito russo, ma possono anche servire ad attirare la contraerea ucraina; sono in grado di simulare la traccia radar di un certo numero di armamenti, dai missili agli aerei agli elicotteri.

Non sono armati, ma lo sono i missili della seconda ondata che li seguono, che entrano in azione una volta che la contraerea ha ingaggiato gli E95M e probabilmente li ha anche abbattuti, visto che non è importante che sopravvivano (né credo che lanciati così in profondità siano in grado di tornare alla base).

Una volta che la posizione della contraerea è stata individuata è facile eliminarla. Fonti ucraine e russe parlano di almeno quattro batterie di difesa aerea eliminate. Non sono ovviamente in grado di confermare la cosa, ma di certo i sistemi di difesa aerea di Odessa sono stati smantellati in larga parte.

Infine, sempre ieri mattina, si è ripetuto l’incidente dell’S-300 ucraino che, fallito il bersaglio, continua a volare. Stavolta però non è finito in Polonia ma a Gorbakha, nel distretto di Ivanava, regione di Brest. Insomma, in Bielorussia. Cosa potenzialmente piuttosto pericolosa, visto che poteva fornire un’ottima scusa per intervenire direttamente nel conflitto.

Invece i bielorussi se la sono giocata sportivamente, dichiarando di avere abbattuto il missile una volta entrato nello spazio aereo bielorusso, e che i frammenti caduti nei campi non hanno provocato né danni né vittime. L’ambasciatore ucraino è stato convocato al Ministero degli esteri a Minsk e gli è stato chiesto di assicurarsi che la cosa non si ripeta.

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30/12/2022

Tokyo sonata (2008) di Kiyoshi Kurosawa - Minirece

L’Italia alle prese con una brusca polarizzazione sociale verso il basso

L’Ipsos e l’area studi della Lega delle Cooperative hanno presentato il rapporto “FragilItalia. L’ascensore sociale bloccato“.

Dai dati emerge un Italia come un paese segnato da fratture sociali sempre più profonde – per più di 6 italiani su 10 sono quella tra ricchi e poveri e quella tra onesti e disonesti – dove ben il 66% percepisce di essere collocato nella parte inferiore della piramide sociale e individua la netta percezione di un blocco sostanziale “dell’ascensore sociale”, con meno di 4 italiani su 10 che ritengono che i propri figli possano aspirare ad una posizione sociale migliore della propria.

Il Report “FragilItalia L’ascensore sociale bloccato”, è stato elaborato in base ai risultati di un sondaggio condotto su un campione rappresentativo della popolazione, per testarne le opinioni.

Le fratture sociali più forti – si legge nel rapporto – vedono a pari merito quelle tra ricchi e poveri e tra onesti e furbetti (61%, ma, rispettivamente, 66% e 67% nel ceto popolare), seguite, al terzo posto, da quella tra il popolo e le elìte (56%, 64% tra gli over 65) e al quarto e quinto posto, ancora a pari merito, quelle tra italiani e immigrati e tra lavoro stabile e lavoro flessibile (46%).

C’è poi la percezione della propria collocazione nella “piramide sociale” del paese in base al reddito e alle condizioni di vita.

Qui quasi un terzo (il 27%) ritiene di appartenere al ceto medio e solo il 6% alla classe ricca; di contro, ben il 66% degli intervistati ritiene di appartenere alla parte inferiore della scala sociale. In particolare, il 39% al ceto medio “in declino” (inteso come persone la cui posizione sociale è in discesa, titolari di un reddito che non permette lussi); il 15% al ceto fragile (chi arriva a fine mese con difficoltà) e l’11% alla lower class (chi ha meno del necessario o si sente povero).

Emerge dunque un quadro di fortissima polarizzazione sociale verso il basso, confermato anche dalle relative dinamiche avvertite dalla popolazione negli ultimi anni.

Solo il 5% degli intervistati ritiene che la propria posizione sia migliorata e per il 31% è rimasta uguale ad un livello medio o alto; per il 38% è rimasta uguale ad un livello basso o popolare; per il restante 26% è invece peggiorata (per il 19% peggiorata, per il 7% molto peggiorata). Una tendenza che si proietta anche nel prossimo futuro e condiziona le aspettative di una posizione sociale migliore per i figli, con differenze in relazione al ceto di appartenenza.

Tra gli appartenenti al ceto medio, il 35% pensa che i figli potranno migliorare la posizione rispetto alla famiglia di provenienza; il 53% che la manterranno invariata; il 12% che scenderanno più in basso nella scala sociale. Nei ceti popolari, il 37% esprime aspettative di miglioramento per i figli e il 40% pensa che potranno mantenere la stessa posizione. Ma il 23% (quasi il doppio rispetto agli appartenenti al ceto medio) ritiene che la peggioreranno rispetto alla famiglia di provenienza.

Sulle motivazioni alla base del peggioramento delle condizioni sociali, per gli italiani ai primi due posti figurano i salari troppo bassi (indicati dal 55%, e 59% nel ceto medio-basso) e la precarizzazione del lavoro (49%), seguiti dalle tasse eccessive (42%) e dalla corruzione (42%). Al quinto e al sesto posto, a pari merito (con il 27%) l’incapacità dei partiti di difendere le persone economicamente più fragili e l’aumento dei divari negli stipendi tra manager e lavoratori.

A completare la rilevazione, è stato chiesto quali sono gli elementi che possono consentire il riscatto sociale e quali, al contrario quelli che lo affossano. Riguardo ai primi (il riscatto) il 48% ha indicato la capacità di fare sacrifici; il 45% la capacità di risparmiare; il 37% il lavorare tanto; il 34% l’aver studiato; il 33% il sostegno della famiglia di origine. Rispetto ai secondi (gli ostacoli al riscatto), al primo posto risultano le tasse (42%), seguite dalla furbizia e disonestà degli altri (35%), la precarietà e la paura di rischiare (entrambe al 26%), la sfortuna (il 20%) e l’accontentarsi del poco che basta (19%).

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Exxon contro l’UE per la tassa sugli extraprofitti

La multinazionale statunitense ExxonMobil ha fatto causa all’Unione europea per fermare la tassa sugli extraprofitti. La Exxon, secondo quanto riportano i media, sostiene che “la Commissione e il Parlamento europeo sono andati oltre i loro poteri legali”.

Si va dunque ad un primo testa a testa con le multinazionali petrolifere dopo che l’Ue ha deciso di tassare gli extraprofitti generati dall’aumento dei prezzi energetici acutizzato dalla guerra in Ucraina. Secondo la multinazionale, la tassa potrebbe “scoraggiare gli investimenti”.

“Le nostre affiliate, ExxonMobil Producing Netherlands BV e Mobil Erdgas-Erdöl GmbH, hanno citato in giudizio il Consiglio europeo nel tentativo di annullare una nuova tassa sui guadagni inaspettati per le compagnie petrolifere e del gas”, ha dichiarato Casey Norton, portavoce della ExxonMobil in Texas. La causa intentata da ExxonMobil verrà valutata dal Tribunale dell’Unione Europea.

La Ue prevede di ricavare 25 miliardi di dollari dalla tassa. In realtà la Commissione europea è stata attenta a non usare la parola “tassa” – definita infatti “contributo temporaneo di solidarietà” – perchè qualsiasi nuova disposizione fiscale a livello europeo avrebbe richiesto l’unanimità tra i 27 Stati membri, una procedura più complicata e rischiosa dell’adozione a maggioranza qualificata. L’idea era in particolare quella di evitare procedimenti come quello presentato alla Corte di Giustizia Europea in Lussemburgo dalle filiali tedesche e olandesi di ExxonMobil.

Il caso riguarda una delle prime applicazioni da parte dell’UE dell’articolo 122 di emergenza per la legislazione sull’energia, rendendolo potenzialmente un banco di prova.

L’entrata in vigore della nuova tassa è prevista per il 31 dicembre e consisterebbe in un’aliquota di almeno il 33% su ogni profitto tassabile nel 2022-23 che sia del 20% superiore alla media dei profitti tra il 2018 e il 2021. La Exxon, è uno dei maggiori fornitori di petrolio in Europa, e potrebbe pagare una tassa sugli extraprofitti di 2 miliardi di dollari. Nel terzo trimestre, la società ha generato profitti globali record di quasi 20 miliardi di dollari.

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Twitter ha collaborato con il Pentagono nelle operazioni Psyops

Tra gli scheletri negli armadi di Twitter non c’è solo l’occultamento delle notizie scomode per gli affari privati della famiglia Biden in Ucraina dal 2014.

Una lunga e documentata inchiesta del giornale investigativo The Intercept, rivela come Twitter abbia collaborato con il Pentagono nelle sue operazioni di Psyops (guerra psicologica) in Medio Oriente.

The Intercept riporta che il 26 luglio 2017, Nathaniel Kahler, all’epoca un funzionario che lavorava con il Comando centrale degli Stati Uniti, noto anche come CENTCOM, una divisione del Dipartimento della Difesa, ha inviato un’e-mail a un rappresentante di Twitter con una richiesta di approvazione della verifica di un account e di una “lista bianca” ossia un elenco di account in lingua araba “che usiamo per amplificare determinati messaggi“.

Nella sua e-mail, Kahler ha inviato un foglio di calcolo con 52 account chiedendo un servizio prioritario per sei degli account, incluso @yemencurrent, utilizzato per trasmettere annunci sugli attacchi di droni statunitensi nello Yemen.

Più o meno nello stesso periodo, @yemencurrent, che da allora è stato cancellato, aveva sottolineato come gli attacchi dei droni statunitensi fossero sempre “accurati” e avevano ucciso solo “terroristi”, non civili, e sosteneva gli attacchi degli Stati Uniti e dei sauditi contro i ribelli Houthi in quel paese.

Altri account sulla lista erano incentrati sulla promozione delle milizie sostenute dagli Stati Uniti in Siria e sui messaggi anti-Iran in Iraq. Sebbene molti account siano rimasti concentrati su un’area tematica, altri sono passati da un argomento all’altro.

Ad esempio, @dala2el, uno degli account CENTCOM, è passato dalla messaggistica sugli attacchi dei droni nello Yemen nel 2017 alle comunicazioni incentrate contro il governo siriano.

Lo stesso giorno in cui CENTCOM ha inviato la sua richiesta, i membri del team di integrità del sito di Twitter sono entrati in un sistema aziendale interno utilizzato per gestire la portata di vari utenti e hanno applicato uno speciale tag di esenzione agli account richiesti dal Pentagono.

Un ingegnere, che ha chiesto di non essere nominato perché non autorizzato a parlare con i media, ha affermato di non aver mai visto questo tipo di tag prima, ma a un attento esame ha affermato che l’effetto del tag “whitelist” ha sostanzialmente dato agli account i privilegi di verifica di Twitter senza un segno di spunta blu visibile.

La verifica di Twitter avrebbe conferito una serie di vantaggi, come l’invulnerabilità ai bot algoritmici che contrassegnano gli account per spam o abusi, nonché altri avvertimenti che portano a una minore visibilità o alla sospensione dell'account.

Kahler ha detto a Twitter che sarebbero stati tutti “account in lingua araba attribuiti all’USG che twittano su questioni di sicurezza rilevanti“.

Quella promessa non è stata mantenuta, poiché molti degli account hanno successivamente cancellato le indicazioni che ne rivelavano l’affiliazione al governo degli Stati Uniti, come invece viene fatto per altri (soprattutto russi e cinesi). Per cui, formalmente, comparivano come degli account di fonti “indipendenti” e non come la longa manus del Pentagono.

In questo modo i mass media riportano poi le veline, le versioni, i flussi informativi e le eventuali fake news diffuse dall’amministrazione Usa, ma con la mistificazione che si tratterebbe di “fonti indipendenti”.

L’Internet Archive non conserva la cronologia completa di ogni account, ma The Intercept ha identificato diversi account che inizialmente apparivano come emanazioni del governo degli Stati Uniti ma, dopo essere stati inseriti nella whitelist, erano ancora riconoscibili come affiliati all’esercito ma si atteggiavano a “utenti ordinari”.

Uno degli account che Kahler ha chiesto di inserire nella whitelist – @mktashif – è stato identificato dai ricercatori perché sembrava utilizzare una foto deep-fake per oscurare la sua vera identità.

Inizialmente, secondo la Wayback Machine, @mktashif risultava un account del governo degli Stati Uniti affiliato a CENTCOM, ma a un certo punto questa indicazione è stata cancellata e la foto dell’account è stata cambiata con quella che una ricerca dell’università di Stanford ha identificato come un deep fake.

La nuova biografia su Twitter affermava che l’account era una “fonte imparziale di opinioni e informazioni” e, tradotto approssimativamente dall’arabo, “dedicato a servire iracheni e arabi“.

L’account, prima di essere sospeso all’inizio di quest’anno, inviava regolarmente messaggi su Twitter che denunciavano l’Iran e altri avversari degli Stati Uniti, compresi i ribelli Houthi nello Yemen.

Un altro account CENTCOM, @althughur, che pubblica contenuti anti-Iran e anti-ISIS mirando ad un pubblico iracheno, ha cambiato la sua biografia su Twitter: da un’affiliazione CENTCOM a una frase araba che recita semplicemente “Euphrates pulse“.

Le e-mail di Twitter mostrano che nel 2020, i dirigenti di Facebook e Twitter sono stati invitati dai legali del Pentagono a partecipare a briefing riservati in una struttura informativa compartimentata, nota anche come SCIF, utilizzata per riunioni altamente sensibili.

Le attività di propaganda militare online sono stati in gran parte disciplinati da un memorandum del 2006. Il promemoria rileva che le attività su Internet del Dipartimento della Difesa dovrebbero “riconoscere apertamente il coinvolgimento degli Stati Uniti” tranne nei casi in cui un “comandante combattente ritenga che ciò non sarà possibile a causa di considerazioni operative“.

Questo metodo di non divulgazione, afferma la nota, è autorizzato solo per le operazioni nella “Guerra globale al terrorismo, o quando specificato in altri ordini di esecuzione del Segretario alla Difesa“.

Nel 2019, il Congresso Usa ha approvato una misura nota come Sezione 1631, un riferimento a una disposizione del National Defense Authorization Act, che sancisce legalmente ulteriori operazioni psicologiche clandestine da parte dei militari (Psyops) nel tentativo di contrastare le campagne di disinformazione online di Russia, Cina e altri avversari stranieri.

Nel 2008, il comando delle operazioni speciali degli Stati Uniti ha aperto una richiesta per un servizio atto a fornire “prodotti e strumenti di influenza basati sul web a supporto di obiettivi strategici e a lungo termine del governo degli Stati Uniti“.

Il contratto faceva riferimento alla Trans-Regional Web Initiative, uno sforzo per creare siti di notizie online progettati per conquistare i cuori e le menti nella battaglia per contrastare l’influenza russa in Asia centrale e il terrorismo islamico globale.

Il contratto è stato inizialmente eseguito da General Dynamics Information Technology, una filiale dell’appaltatore della difesa General Dynamics, in collegamento con gli uffici di comunicazione CENTCOM nell’area di Washington, DC, ea Tampa, in Florida.

Un programma noto come “WebOps”, gestito da un appaltatore della difesa noto come Colsa Corp., è stato utilizzato per creare identità online fittizie progettate per contrastare gli sforzi di reclutamento online da parte dell’ISIS e di altre reti terroristiche.

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Israele - Il nuovo governo Netanyahu “Farà danni irreparabili al Paese”

Oggi alla Knesset ci sarà la votazione sulla fiducia al nuovo governo guidato da Netanyahu, la cui coalizione, formata da partiti di destra e religiosi ultra ortodossi, ha ottenuto la maggioranza dei voti alle elezioni legislative del primo novembre scorso.

Il primo ministro incaricato ha affermato ieri che lo Stato di Israele avrà un “governo stabile che rimarrà in carica per un intero mandato”, dopo che il partito da lui guidato, Likud, e l’alleanza di partiti ultra-ortodossi dell’Ebraismo della Torah unito (United Torah Judaism, Utj), hanno firmato un accordo con cui hanno stabilito una coalizione.

Secondo quanto riferisce il giornale israeliano Jerusalem Post, dopo la firma di quest’ultima intesa, il presidente del Likud e primo ministro designato si è rivolto al suo partito, dicendo: “Vorrei ringraziarvi tutti per gli sforzi congiunti che ci hanno portato a questo giorno. Abbiamo raggiunto il nostro obiettivo. Una grande percentuale dello Stato di Israele, oltre due milioni di israeliani, ha votato per il campo nazionale da noi guidato. Stabiliremo un governo stabile per un intero mandato conferitoci da tutti i cittadini di Israele”.

Netanyahu ha annunciato l’agenda del proprio governo, in cui si da via libera all’ulteriore espansione degli insediamenti coloniali nella Cisgiordania palestinese e alle leggi che limiteranno il potere dei tribunali. “Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e inalienabile su tutte le parti della Terra d’Israele. Il governo promuoverà e svilupperà insediamenti in tutte le parti della Terra d’Israele – in Galilea, Negev, Golan, Giudea e Samaria”, ha dichiarato Netanyahu, aggiungendo: “Il governo adotterà misure per garantire la governance e ripristinare il giusto equilibrio tra il potere legislativo, esecutivo e giudiziario”, con riferimento a una prevista “legge di annullamento” che consentirà alla Knesset di rileggere i progetti di legge annullati dalla Corte Suprema in quanto antidemocratici, e ai piani per conferire ai politici un maggiore controllo sulla selezione dei giudici. Non manca, poi, l’impegno del futuro esecutivo israeliano a dare sostegno alle forze di sicurezza e agli agenti di polizia per “contrastare e sconfiggere il terrorismo” accanto alla “lotta contro il programma nucleare iraniano”.

Ma la natura del nuovo governo israeliano preoccupa molto la diaspora ebraica all’estero.

Agenzia Nova riferisce che oltre 300 rabbini negli Stati Uniti hanno firmato una lettera aperta che mette in guardia dal governo del primo ministro Netanyahu, sostenendo che quest’ultimo rischia di causare “danni irreparabili” attraverso politiche e prese di posizione estremiste. La lettera punta l’indice contro una serie di proposte presentate da figure politiche di orientamento nazionalista che entreranno a far parte del nuovo governo, definendole “un anatema per i principi della democrazia”.

In particolare, i rabbini paventano una erosione dei diritti delle donne, l’espulsione di arabi israeliani e il ribaltamento di pronunciamenti della Corte suprema israeliana. Nella loro lettera, i rabbini statunitensi annunciano l’intenzione di contestare il nuovo esecutivo impedendo ai membri del Partito religioso sionista – una delle formazioni di estrema destra parte della nuova coalizione di governo – di prendere parte alle loro congregazioni e organizzazioni. “Quando a soggetti che pubblicizzano razzismo e intolleranza è consentito di parlare in nome di Israele è necessario passare all’azione e far sentire la propria voce”.

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Il 2022 visto da OttolinaTV - parte 5 - L'anno in cui è scomarsa l'informazione

La pandemia differenziata

Nella confusione totale il governo Meloni si arrabatta come può tra vincoli europei, promesse elettorali irrealizzabili, tic fascisti (su rave, scioperi, anniversari, ecc.) e tafazzismo quasi comico. Le sedute notturne al Senato, per arrivare in tempo all’approvazione definitiva della “manovra”, fra “ghigliottine”, emendamenti e “ad oltranza”, testimoniano della difficoltà di mettere insieme la rava e la fava.

Le cose più pericolose, per i ceti popolari, sono quelle di cui meno parlano i media mainstream (flat tax per gli autonomi, reddito di cittadinanza, pensioni tagliate, sanità spinta scientemente al collasso finale, spese militari in fantasmagorico aumento, ecc.).

E solo queste meriterebbero decine di articoli,che cerchiamo di redarre o riprodurre (le nostre forze sono, ahinoi, ancora limitate).

In generale, possiamo dire che come sempre i fascisti al governo mettono in atto le stesse politiche padronali pretese dai liberisti “liberali”, ma con quel tocco in più di autoritarismo che sembra – anche ai “liberali” – diventare “necessario” quando la crisi preme alle porte e l’esagerazione nell’impoverire i poveri potrebbe generare resistenze indesiderate.

Ma ci sono anche gli aspetti comici, o quasi, su cui si esercitano anche i liberisti-liberali, magari facendo finta di non essere sulla stessa lunghezza d’onda dei “nostalgici” al governo.

In questi giorni tutti i media di regime hanno adottato la linea di tre anni fa, agli albori della pandemia da Covid-19, sparando a raffica titoli sulla “sindrome cinese”, i “milioni di morti”, l’”inefficacia dei vaccini di Pechino” rispetto a quelli euro-atlantici, ecc..

Il copione è noto: la Cina è il prossimo nemico dell’Occidente neoliberista, dunque bisogna metterne in luce la cattiveria, l’aggressività (anche se Pechino, al contrario degli Usa non ha mai invaso nessuno...), la pericolosità, e al tempo stesso l’inefficienza, la debolezza, la stupidità.

È noto anche che la strategia “zero Covid” adottata a inizio pandemia in Cina aveva fortemente limitato la diffusione del virus e delle vittime, mentre in tutto l’Occidente dilagavano contagi e morti (quasi un milione e centomila nei soli Stati Uniti, sui 100 milioni di ammalati). Ma al prezzo di continui lockdown che hanno messo spesso in difficoltà – oltre all’economia di Pechino – la continuità della forniture in una serie di comparti produttivi a livello globale.

Le prime proteste di massa contro i lockdown ripetuti hanno portato Xi Jinping e gli altri dirigenti a “mollare la presa”, riducendo ai minimi termini le misure di prevenzione, forse facendo affidamento sul relativamente elevato tasso di vaccinazione della popolazione (vedi la grafica qui sotto).

Inevitabile a quel punto l’esplosione dei contagi, la pressione sul sistema ospedaliero e l’aumento rapido del numero dei morti, specie nelle fasce di popolazione più anziana. I virus, ovviamente, non fanno differenza tra regimi politici o modelli economici...

Ma la misura più dirompente è stata certamente l’abolizione dei limiti all’ingresso e all’uscita dal paese, eliminando la quarantena obbligatoria per chi arriva dall’estero.

La parte “comica” – si fa per dire – è che nell’Occidente neoliberista sta accadendo da mesi la stessa cosa. Qui in Italia, in particolare, non si rendono più noti il numero dei contagi e delle ospedalizzazioni, mentre solo il numero dei morti fa qualche volta capolino nelle cronache (si viaggia ben oltre i 100 al giorno, in queste settimane).

La situazione è quindi quasi paradossale. Qui e lì si sta adottando quasi la stessa strategia (sbagliata), ma la “narrazione” deve colpire comunque “il nemico”.

Per un governo cripto-”no vax” non ci poteva essere coincidenza più imbarazzante. Con enorme fatica, tante polemiche e molta “originalità” era appena stato fatto passare – nel “decreto anti-rave”! – un codicillo per riammettere in servizio i medici che avevano rifiutato di vaccinarsi.

A contorno, da settimane, nessuno parla più di tamponi obbligatori, di quarantena (più o meno lunga), in ossequio alla linea ufficiale di governo e imprese: il virus è finito.

Maledetti cinesi...

Nelle stesse ore i primi aerei cominciano ad arrivare di nuovo dalla Cina e, viste le notizie da laggiù, il ministro della Salute Schillaci ha disposto l’obbligatorietà dei tamponi antigenici obbligatori per tutti i passeggeri provenienti dalla Cina. Nel caso di positività – uno su due, dicono le cronache – scatta anche l’obbligo di quarantena.

Il risultato è chiaro. Se sei positivo ma vieni dalla Cina, indipendentemente dalla nazionalità, sei pericoloso, contagioso e da isolare.

Se ti sei contagiato in Italia – indipendentemente dalla nazionalità – ssst!, puoi andartene in giro tranquillo e nessuno ti chiederà nulla.

Dite voi come sta di cervello un governo che si inventa la pandemia differenziata...

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Guerra in Ucraina - Hacker divulgano dati di migliaia di operativi ucraini

Il gruppo di hacker russi RaHDit (“Evil Russian hackers”) ha pubblicato sul portale antifascista Nemesis i dati di oltre 759 membri della sezione informatica delle forze armate ucraine.

“Qui trovate l’élite delle truppe informatiche ucraine: hacker del personale a tempo pieno, partecipanti a regolari concorsi interdipartimentali CTF (“Cattura la bandiera”) tra le forze dell’ordine“, afferma il messaggio del canale RaHDit Telegram.

“Abbiamo messo insieme un elenco pre-capodanno che rivela i cyber-fascisti e i loro burattinai delle forze di sicurezza e dell’esercito. Iniziamo pubblicando oltre 1.000 attivisti di IT Army of Ukraine e Save UA. Il primo sono gli hacker, ragazzi. Gli hanno dato un pulsante“, ha riferito il canale Telegram del gruppo, “e pensano di essere hacker ma si dedicano al teppismo”.

Le due liste sono state pubblicate nella sezione Network Terrorists del sito Nemesis. 759 persone compaiono nella suddivisione dell’esercito BT ucraino.

Si presume che i dati pubblicati appartengano ad hacker professionisti del Ministero della Difesa dell’Ucraina, della Guardia Nazionale, delle istituzioni educative che addestrano gli addetti all’informazione e dei servizi di sicurezza ucraini (SBU).

Il sito rivela anche i dati di cadetti e insegnanti delle accademie militari dell’Ucraina, nonché gli ufficiali dei dipartimenti IT, i loro account nei social network.

RaHDit, ha pubblicato la prima parte dei dati sugli hacker ucraini – IT Army of Ukraine, composto da 759 persone, e SMM del movimento Save UA – 406 persone.

Come ha detto a RIA Novosti un membro anonimo di “Evil Russian Hackers”, migliaia di volontari, attivisti e specialisti SMM dall’Ucraina e da tutto il mondo stanno lavorando contro la Russia nel cyberspazio.

Ha spiegato che solo coloro di cui sono riusciti a stabilire i dati del passaporto, una foto e account nei social network, ammontano a più di mille persone.

Il gruppo di hacker russo RaHDit (“Evil Russian hackers”) ha inoltre pubblicato un elenco di oltre 100 persone, che include personale militare della NATO, nonché persone che forniscono servizi ai centri informatici negli Stati baltici e in Ucraina, ha detto un membro del gruppo RIA Novosti a condizione di anonimato. “Sono i centri della NATO che sono in realtà dietro gli attacchi informatici, mentre le forze di sicurezza ucraine regolari e gli attivisti del popolo servono solo come copertura”, ha detto la fonte.

A novembre, RaHDit aveva già pubblicato sul portale Nemesis gli elenchi dei cadetti e degli insegnanti dell’Accademia dei servizi di sicurezza dell’Ucraina. Poi sono trapelati in Rete i dati di oltre 400 persone, che presto si uniranno ai ranghi dei servizi speciali ucraini, oltre a quelli che li addestrano.

I dati contenevano indirizzi, numeri di telefono, numeri individuali del registro statale delle persone fisiche, indirizzi e-mail e pagine sui social network, codici digitali in messaggistica istantanea, numeri di auto.

Alla fine di settembre, “Evil Russian Hackers” aveva reso pubblicamente disponibili le informazioni di 1.500 dipendenti attivi del Foreign Intelligence Service dell’Ucraina, compresi quelli che a quel tempo lavoravano sotto copertura in più di 20 paesi.

A luglio, RaHDit ha violato i server dell’Accademia della Difesa Nazionale dell’Ucraina, scaricato i loro manuali di addestramento e invece ha lasciato quelli “corretti” sulle atrocità del regime di Kiev nel Donbass. Un mese prima, aveva pubblicato i dati di 700 dipendenti dei servizi di sicurezza (SBU) e della direzione principale dell’intelligence del Ministero della Difesa dell’Ucraina.

All’inizio dell’attacco russo all’Ucraina, tutti i 755 siti web del governo ucraino sono stati violati contemporaneamente. Come ha detto un membro del gruppo di hacker alla RIA Novosti a condizione di anonimato, hanno istituito un canale di trasmissione all’esercito russo dei dati sulle azioni dell’esercito ucraino di cui erano in possesso.

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29/12/2022

Addio alle armi (1932) di Frank Borzage - Minirece

Il Ponte sullo Stretto come il Muos di Niscemi e Sigonella

Non prova neanche a mimetizzarlo il suo punto vista, Lucio Caracciolo, sul ponte sullo Stretto. Ne ha parlato in un pezzo scritto per La Stampa il 7 dicembre scorso. Per lui sono secondari gli argomenti, e gli scontri, sugli aspetti ingegneristici, economici, ambientali dell’infrastruttura d’attraversamento. Ciò che conta è la sua valenza strategica, geopolitica, militare.

Per questa ragione assimila il ponte sullo Stretto al Muos di Niscemi, il nuovo sistema di telecomunicazione satellitare della Marina militare USA per governare i conflitti globali del XXI secolo, “senza dimenticare le strutture di Sigonella e Pantelleria”.

Perché ciò che conta è il valore strategico della Sicilia, il suo collocarsi in un’area che Limes chiama Caoslandia, nel Mediterraneo “allargato” che è tornato ad essere centrale per i flussi commerciali provenienti da Oriente e per l’intervento politico, militare, economico di Cina, Russia e Turchia.

Limes aveva già insistito in altre occasioni su questo tema. Proprio un anno fa la rivista di geopolitica, i cui redattori, dallo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, sono stabilmente sui canali tv nazionali, aveva pubblicato un numero speciale sulla Sicilia.

“L’Italia senza la Sicilia non esiste”, questo era l’argomento. Per questa ragione la Sicilia non può “annegare” nel Mediterraneo. E nel pezzo pubblicato su La Stampa Caracciolo è esplicito fino al didascalico.

“Se non lo volete capire la Sicilia è la Frontiera e senza la difesa della Frontiera gli Stati periscono”, sembra dire, perché dallo Stretto di Sicilia (così quelli di Limes chiamano il Canale di Sicilia per sottolineare la esigua distanza che separa l’Isola dall’Africa) passa la principale rotta migratoria, perché da lì passa la via della seta cinese, perché “i turchi e i russi della Wagner si sono acquartierati sul lato africano dello Stretto”, perché quel tratto di mare è attraversato dai cavi sottomarini transcontinentali della Rete.

Caracciolo ci ricorda che la Sicilia fu il luogo dell’invasione alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Quella volta gli invasori erano i “liberatori americani” e ce la cavammo, ma stavolta chi potrebbe essere il nuovo invasore? Per questo l’Italia (ma a questo punto perché non l’Europa o l’Occidente?) senza la Sicilia non esiste.

Perché la Sicilia deve essere la piattaforma militare nel Mediterraneo, la difesa dell’Occidente dalle armate dei Bruti o degli Extranei. Noi siamo la Barriera costruita a difesa. Questo è il nostro destino.

Lucio Caracciolo si spinge fino a lamentare la “scarsa presenza militare nell’area” e ad auspicare una “più incisiva presenza della Marina e delle altre Forze armate nelle acque” di quello che insiste a chiamare il “mare nostro”.

L’ennesima ode al militarismo e al riarmo a cui gli analisti mainstream ci hanno abituato nell’ultimo anno di fratricida guerra in Ucraina. Ipocrita narrazione di una “Isola indifesa” quando è sotto gli occhi di tutti il devastante e invasivo processo di militarizzazione che ha investito ogni angolo della Sicilia e delle sue isole minori e l’abnorme presenza statunitense nella stazione aeronavale di Sigonella, “capitale mondiale dei droni”.

Per questo il ponte serve, per Caracciolo: per la sicurezza, per stabilizzare le aree di frontiera e per collegare militarmente l’Italia, l’Europa, l’Occidente alla Sicilia, non viceversa.

In passato avevamo già invitato a guardare ai rischi che il ponte portava con sé anche sotto questo profilo. Ci avevano guardati un po’ perplessi. Il ponte ci metterebbe in pericolo, farebbe da traino ad una ulteriore forte militarizzazione e ad un più asfissiante controllo del territorio proprio perché naturale obbiettivo strategico in caso di conflitto.

Eccoci serviti. Lucio Caracciolo ce lo sbatte in faccia senza neanche prepararci con parole di circostanza. E a chi pensa che con il ponte i propri figli non emigrerebbero più potremmo consigliare di arruolarli, che forse lì di lavoro ne troverebbero.

Ciò che è incredibile è che il ritorno del Mediterraneo come luogo centrale e l’importanza della Sicilia per la sua collocazione geografica debba essere necessariamente declinato sotto il profilo della guerra.

La Sicilia, che nelle vecchie carte appariva più estesa di quanto lo fosse proprio per l’importanza che assumeva nei commerci mondiali, la Sicilia raccontata da sempre dai viaggiatori, deve essere piattaforma di guerra?

E perché, invece, non potrebbe essere piattaforma di pace? Perché gli abitanti dell’isola non potrebbero trarre “vantaggio” dall’affacciarsi della propria terra su un continente africano in crescita? Perché non possiamo pensare di crescere insieme con le popolazioni africane che lavorano, viaggiano, portano avanti le loro famiglie, socializzano e trasferiscono risorse e conoscenza?

Il nostro No al ponte è anche questo. Un No alle logiche di guerra, alle militarizzazioni dei territori e del mare, ai muri armati innalzati tra Nord e Sud. È il nostro Sì, forte, per la Pace, il Disarmo e la Giustizia tra i Popoli.

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USB, Fiom e Uilm proclamano lo sciopero in Acciaierie d’Italia

“Il Governo cede ai ricatti di Arcelor Mittal e del suo ad Lucia Morselli”

Nonostante nella giornata odierna il mondo del lavoro e delle Istituzioni, all’unisono, abbiano inviato al Governo un messaggio forte e chiaro, ovvero di non erogare nessun ulteriore prestito pubblico in qualunque forma ad Arcelor Mittal, socio totalmente inaffidabile ed inadempiente, senza un preventivo riequilibrio della governance che, così come garantito dallo stesso Ministro delle Imprese e del Made in Italy in più circostanze, avrebbe dovuto prevedere l’ingresso di Invitalia in maggioranza, il CDM di stasera ha approvato il decreto legge recante “Misure urgenti per impianti di interesse strategico nazionale” confermando la volontà di erogare i 680 milioni, già stanziati, in modalità finanziamento soci, ripristinando vergognosamente perfino lo scudo penale ai gestori del sito.

In altre parole, il Governo Meloni si disinteressa completamente delle richieste di un intero territorio, dei lavoratori, dei cittadini, delle scriventi OO.SS., del Presidente della Regione Puglia, del Presidente della Provincia e dei sindaci dei comuni dell’area ionica, cedendo ai ricatti di un operatore privato che si permette quotidianamente di prendersi gioco delle piaghe della nostra comunità, compiendo solo sgradevoli bluff e azioni incostituzionali, garantendogli come se non bastasse, anche l’esimente penale per i propri comportamenti illeciti.

Il Ministro Urso, durante l’incontro ministeriale svoltosi in data 17 Novembre c.a., comunicò alle OO.SS. l’obiettivo di dover garantire la tutela dell’interesse generale, subordinando i finanziamenti pubblici ad un autorevole intervento dello Stato nella gestione di Acciaierie d’Italia.

Tale “autorevole” intervento si è trasformato in una resa incondizionata davanti ai privati e “l’interesse generale”, per il governo, coincide con quello predatorio e offensivo dell’attuale gestione societaria che porterà alla chiusura definitiva dello stabilimento, senza che ci sia stato alcun risanamento ambientale e cancellando di fatto l’esistenza di ventimila famiglie.

Le scriventi organizzazioni, pertanto, non solo confermano la mobilitazione prevista per il giorno 11 Gennaio p.v. e concordata con le Istituzioni locali e regionali, ma altresì proclamano:

SCIOPERO DALLE 23 DEL 10 GENNAIO ALLE 07 DEL 12 GENNAIO 2023

Entro domattina sarà divulgata la programmazione delle assemblee di tutti lavoratori, comprese quelle plenarie esterne per i lavoratori in cigs, i lavoratori ILVA in AS e degli appalti per condividere con i dipendenti le modalità organizzative della grande mobilitazione a Roma.

Le Segreterie di Fiom, Uilm e Usb unitamente alle Rsu non si renderanno complici di questo ennesimo scempio compiuto sulla pelle dei lavoratori e lo contrasteranno con tutta la propria determinazione.

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Bollate - Un omicidio efferato che non avrà giustizia

Per ora si sa solo che aveva 52 anni e che era di origini egiziane. È stato divorato da una di quelle macchine che vediamo con qualche brivido nei film polizieschi. Quelle che afferrano la carcassa di una vecchia auto, la schiacciano e la trasformano in un compatto mucchio di ferro.

Alla Riam di Bollate, Milano, un operaio è andato a lavorare ed è finito in quelle spaventose mascelle d’acciaio che riducono in un cubo un’automobile, figurarsi un corpo umano.

È un omicidio efferato che non avrà alcuna giustizia. È sicuro che in quell’azienda non siano state rispettate le norme di sicurezza, altrimenti l’operaio sarebbe ancora vivo, anche se fosse svenuto per un malore, anche se fosse giunto ubriaco al lavoro, anche se fosse stato posseduto da istinti suicidi.

Perché le norme e gli impianti di sicurezza sono fatti proprio per impedire che si muoia per situazioni impreviste. Solo che quella sicurezza costa, e siccome nessuno controlla le aziende risparmiano su di essa.

Eppure quale padrone è in carcere in Italia per aver ucciso sul lavoro? Nessuno, i responsabili dell’azienda il cui macchinario ha stritolato Luana D’Orazio hanno patteggiato per meno di due anni di pena sospesa e poi condonata.

Si rischia molto di più a partecipare ad un rave che a togliere i fermi di sicurezza ad un macchinario pericoloso per farlo lavorare più in fretta e con più profitto. Del resto il governo non vuol disturbare “il fare” e la magistratura scopre ogni cautela e garantismo possibile solo quando deve indagare sui padroni delle imprese dove gli operai vengono assassinati per guadagno.

Uccidere gli operai conviene, in Italia.

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Alfredo Cospito, prigioniero in sciopero della fame, come e oltre Bobby Sands

Accade in Italia. Un prigioniero politico anarchico, Alfredo Cospito, è arrivato ormai a 68 giorni di sciopero della fame, oltre il limite di Bobby Sands, martire della lotta del popolo irlandese, che non sopravvisse al 66esimo giorno nel famigerato Blocco H del carcere di Long Kesh nel 1981.

Il caso di Alfredo Cospito è finalmente rimbalzato all’attenzione mediatica e giuridica, mentre rimane latitante quella della politica.

Alfredo Cospito è stato arrestato e condannato per il ferimento di un dirigente della Ansaldo Nucleare e con l’accusa di aver fatto esplodere due ordigni a bassa intensità nella sede di una scuola per allievi carabinieri in provincia di Cuneo. L’esplosione, avvenuta in orario notturno, non ha causato alcuna vittima e neppure danni gravi. Eppure lo scorso luglio, il reato venne riformulato in una fattispecie molto più grave dell’originaria, dal momento che passò dall’art. 280 c.p, ovvero “attentato per finalità terroristiche”, a “strage ai danni dello Stato”, ex art. 285 c.p.. Si tratta di uno dei reati più gravi previsti dall’ordinamento italiano, che apre la strada all’ergastolo ostativo, conosciuto sinteticamente con la definizione “fine pena mai”. Non solo: nel maggio 2022, a Cospito venne comminato anche il regime 41bis, ovvero il regime di carcere duro.

La questione, se sul piano politico si configura come un vero e proprio accanimento giudiziario e carcerario, si è ulteriormente complicata, dal momento che, mentre il 20 dicembre scorso il Tribunale di sorveglianza ha stabilito che il detenuto permanga nel regime carcerario previsto del 41 bis, la Corte di Torino ha contemporaneamente accolto la richiesta della difesa, tesa a contestare la riformulazione del reato il 285 c.p.. Ciò è valso a inviare la questione alla Corte Costituzionale che, se l’esito risultasse positivo potrebbe vedere una riduzione della pena dall’ergastolo a 21- 24 anni di carcere.

Nel frattempo, nel paese continuano le mobilitazioni e si sono aperte anche brecce nel sistema mediatico. La richiesta diffusa è la sospensione immediata dell’applicazione dell’art.41 bis a Cospito ma è evidente come la vera questione sia la natura punitiva delle sentenze contro il prigioniero anarchico per l’evidente sproporzione dei fatti rispetto alla condanna.

Il rischio che un prigioniero politico muoia nelle carceri italiane a seguito di uno sciopero della fame, si va palesando concretamente, evidenziando responsabilità politiche, giudiziarie e carcerarie pesanti per lo Stato.

Per quanto riguarda le mobilitazioni, ieri a Firenze si è tenuto un Sit-In per Alfredo Cospito in piazza SS Annunziata, in giro per l’Italia si sono svolti vari presidi, mentre altri sono annunciati il 31 dicembre prossimo con una manifestazione a Roma il 31 dicembre e un presidio sotto al carcere sardo di Bancali, il 1° gennaio 2023 dove Cospito è rinchiuso.

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Il 2022 visto da OttolinaTV - parte 4 - L’anno in cui scomparve il PD

Regalo di Natale alle aziende energetiche. Ma Babbo Natale siamo noi

È una pericolosa ordinanza, la 05986/2022 della Sesta sezione del Consiglio di Stato, che accoglie il ricorso di IREN e la richiesta di sospensiva del provvedimento cautelare adottato nei suoi confronti da parte dell’Antitrust per non aver rispettato il blocco degli aumenti dei prezzi dell’energia alla scadenza annuale dei contratti di fornitura.

In pratica si dà ragione all’azienda che aveva aumentato i prezzi dopo il 10 agosto 2022, data dell’entrata in vigore del decreto Aiuti Bis emanato dal governo Draghi per calmierare i prezzi dell’energia, e che, all’articolo 3, obbligava le imprese fornitrici a non operare aumenti fino al 30 aprile 2023.

Su iniziativa di USB, dell’associazione dei consumatori A.BA.CO. e dell’avvocato Perticaro, dallo scorso settembre sono stati depositati esposti in più di 30 procure d’Italia, seguiti da centinaia di reclami dei cittadini, con i quali veniva richiesto agli organismi di controllo (AGCM, ARERA, Mister Prezzi) di verificare la corretta applicazione dei prezzi da parte delle imprese energetiche.

Dopo qualche settimana dal deposito delle denunce e dall’invio dei reclami, l’Antitrust aveva avviato un’attività pre-istruttoria su 25 imprese (metà delle quali ha ritirato gli aumenti) ed emesso i primi 4 provvedimenti cautelari verso IREN, Dolomiti, E.ON. e Iberdrola.

Ad essi erano seguiti, a dicembre, altri 7 provvedimenti cautelari nei confronti di Enel, Eni, Hera, A2A, Edison, Acea ed Engie per l’applicazione illecita degli aumenti inseriti nei contratti scaduti e rinnovati dopo il 10 agosto 2022.

La sentenza del Consiglio di Stato, dunque, rappresenta un preoccupante precedente alla luce dei ricorsi depositati da tutte le aziende sanzionate, che saranno discussi nelle prossime settimane. Sentenze della stessa portata consentirebbero loro di continuare ad applicare prezzi maggiorati ai nuovi contratti, di fatto annullando la già debole azione del governo centrale.

Che adesso anziché tutelare i cittadini si arrende completamente al volere delle aziende energetiche sanzionate inserendo nel Decreto Milleproroghe la possibilità, alla scadenza naturale dei contratti, di aumentare i prezzi. A poco serve l’estensione del periodo del blocco degli aumenti fino al 30 giugno 2023, se alla scadenza dei contratti possono essere applicati prezzi comunque più alti.

È chiaro che si sta facendo troppo poco per tutelare gli utenti e troppo per le aziende energetiche, le vere vincitrici della guerra dei prezzi in atto. Una guerra che ha permesso ai colossi dell’energia di accumulare 40 miliardi di extraprofitti, per il cui recupero il governo non è riuscito a mettere in atto nessuna azione concreta.

Sono lontane le uniche proposte utili a sostenere le famiglie in difficoltà colpite dalla crescita dell’inflazione e dall’erosione dei salari: la moratoria dei distacchi delle utenze per morosità e l’introduzione di un quantitativo minimo energetico per ogni utenza domestica, quantificabile in 1 smc di gas e 2 kwh di elettricità, per consentire ad ognuno di sostenere una vita dignitosa.  

Un’azione di questo tipo, però, implicherebbe che il governo tornasse ad occuparsi di politica economica. Tuttavia senza un’industria energetica statale difficilmente sarà possibile arginare l’iniziativa predatoria delle società energetiche che fanno profitti sulle spalle dei cittadini, e a cui la nostra giustizia amministrativa e il nostro governo hanno deciso di far passare un ottimo Natale e soprattutto uno splendido anno nuovo.

A discapito delle nostre tasche però.

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Guerra in Ucraina - “Gli Usa sono i maggiori beneficiari della guerra in Ucraina”. La versione di Lavrov

“Le azioni dei Paesi dell’Occidente e del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, da loro controllato, confermano la natura globale della crisi in Ucraina: non è più un segreto per nessuno che l’obiettivo strategico degli Stati Uniti e dei suoi alleati della Nato sia sconfiggere la Russia sul campo di battaglia come meccanismo per indebolire in modo significativo o addirittura distruggere il nostro Paese”, ha spiegato il ministro degli Esteri russo Lavrov in una intervista alla Tass.

Secondo Lavrov, “il principale beneficiario del conflitto sono gli Stati Uniti, che cercano di trarne il massimo sia in termini economici che militari-strategici. Allo stesso tempo, Washington sta anche risolvendo un importante compito geopolitico: rompere i tradizionali legami tra Russia ed Europa e soggiogare ulteriormente i satelliti europei”, ha affermato il ministro degli Esteri russo.

“Gli Stati Uniti stanno facendo di tutto per prolungare il conflitto in Ucraina e renderlo più violento”, ha aggiunto Lavrov nell’intervista alla Tass. “Il Pentagono – ha detto – pianifica apertamente gli ordini per l’industria della difesa americana per gli anni a venire, alzando costantemente il livello delle spese militari per le esigenze delle forze armate ucraine e chiedendo lo stesso agli altri membri dell’alleanza anti-russa. Il regime di Kiev è deliberatamente potenziato con le armi più moderne, comprese quelle che non sono ancora stati adottate dagli stessi eserciti occidentali, apparentemente per vedere come funzionano in condizioni di combattimento”.

“Il nemico conosce bene le nostre proposte per la smilitarizzazione e la denazificazione dei territori controllati dal regime, l’eliminazione delle minacce alla sicurezza della Russia provenienti da lì, compresi i nuovi territori (le repubbliche di Donetsk e Lugansk e le regioni di Kherson e Zaporizhzhia). Non resta che accettarle e realizzarle nel miglior modo possibile, altrimenti, la questione sarà decisa dall’esercito russo”. Ha concluso il ministro degli Esteri russo.

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Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ritiene che il successo dell’Ucraina dopo la battaglia aiuterà a evitare una terza guerra mondiale.

Secondo Interfax Ukraine, alla domanda su possibili consegne di armi a lungo raggio, compresi i missili ATACMS, all’Ucraina in una conferenza stampa dopo i colloqui con il presidente ucraino, Biden ha ricordato che “prima che la Russia invadesse, avevamo fornito un’enorme quantità di assistenza per la sicurezza”.

“Abbiamo dato all’Ucraina ciò di cui aveva bisogno quando aveva bisogno di difendersi. E dall’invasione, ciò ha portato a più di 20 miliardi di dollari, in termini di assistenza alla sicurezza. Proprio oggi, ho approvato altri 1,8 miliardi di dollari in assistenza aggiuntiva all’Ucraina per per avere successo sul campo di battaglia. E siamo concentrati sulla collaborazione con alleati e partner per generare capacità in quattro aree chiave: difesa aerea, abbiamo lavorato con i partner per ottenere carri armati ucraini e altri veicoli corazzati e 200.000 colpi di munizioni aggiuntive”.

Il governo degli Stati Uniti ha sviluppato un piano speciale per rendere le batterie del sistema missilistico antiaereo Patriot pronte per l’uso in Ucraina in meno di sei mesi, invece che in un anno, ha dichiarato il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba.

Kuleba ha dichiarato all’Associated Press di essere “assolutamente soddisfatto” dei risultati della visita del presidente ucraino Volodymyr Zelensky negli Stati Uniti la scorsa settimana.

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Il governo tedesco ha approvato nel 2022 esportazioni di armi per 8,35 miliardi di euro. Come riferisce il quotidiano Handelsblatt, tale valore è il più alto nella storia della Germania dopo il massimo storico raggiunto nello scorso anno con 9,35 miliardi di euro. Secondo quanto comunicato dal ministero dell’Economia e della Protezione del clima tedesco, oltre il 25 per cento delle armi e dell’equipaggiamento militare esportati tra il primo gennaio e il 22 dicembre scorso è stato destinato all’Ucraina. In particolare, le forniture di armamenti tedeschi a Kyev hanno raggiunto un valore di 2,24 miliardi di euro.

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28/12/2022

Kwaidan (1965) di Masaki Kobayashi - Minirece

Palestina - La relatrice speciale dell’Onu sotto l’attacco degli apparati israeliani

Francesca Albanese è una persona assolutamente ammirevole. È un avvocato internazionale, un’esperta di rifugiati palestinesi e relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei territori palestinesi occupati, un incarico che svolge pro bono. Attualmente è sotto attacco feroce sulla stampa israeliana e sui social media per presunto antisemitismo, che si dice la escluda dall’agire come rappresentante delle Nazioni Unite.

In assenza di qualsiasi prova di antisemitismo, il Times of Israel ha ripescato un post su Facebook del 2014, in cui scriveva “America ed Europa, una soggiogata dalla lobby ebraica, l’altra dal senso di colpa per l’Olocausto , rimangono in disparte”. Questo è stato scritto a titolo personale, otto anni prima che assumesse la sua posizione alle Nazioni Unite. Il contesto, invariabilmente tralasciato dai critici, è stato un brutale assalto israeliano a Gaza che ha causato la morte di oltre 2.000 palestinesi, tra cui 550 bambini.

La Albanese aveva tutte le ragioni per criticare l’America e l’Europa per non aver fatto nulla per frenare l’aggressore. Sarebbe stato meglio parlare di ‘lobby israeliana’ piuttosto che di ‘lobby ebraica’ e la Albanese ha ammesso il suo errore. Ma non si può negare che la lobby israeliana eserciti un’enorme influenza nella politica americana. È infatti la lobby di politica estera più potente degli Stati Uniti. Né può esserci alcun dubbio che il senso di colpa per l’Olocausto continui a impedire all’Europa di denunciare Israele per le sue violazioni quotidiane del diritto internazionale umanitario.

Gli attacchi alla sig.ra Albanese sono politicamente motivati. Nel settembre 2022 ha presentato al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite un rapporto di 23 pagine sulla “Situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967”. Gli attacchi non si riferiscono all’analisi di questo eccellente rapporto; fanno riferimento solo a dichiarazioni come il post di Facebook del 2014. Equivalgono all’assassinio della reputazione. Il loro scopo è screditarla, distoglierla dall’adempiere al suo mandato ONU e minare i suoi sforzi per ritenere Israele responsabile rispetto agli standard universali dei diritti umani.

Gli attacchi alla signora Albanese sono solo l’esempio più recente di una campagna globale in corso condotta dal governo israeliano e da organizzazioni ideologicamente allineate con esso con l’obiettivo di confondere le legittime critiche alle politiche israeliane nei confronti dei palestinesi con il fanatismo antiebraico.

Israele ha già perso la battaglia davanti al tribunale dell’opinione pubblica. Negli ultimi due anni, quattro importanti organizzazioni per i diritti umani hanno concluso che Israele commette il crimine di apartheid nei confronti dei palestinesi. Il documento di presa di posizione pubblica del gennaio 2021 di B’Tselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani molto rispettata, è significativamente intitolato “Un regime di supremazia ebraica dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo: questo è l’apartheid”.

Israele è anche sotto inchiesta da parte della Corte penale internazionale per crimini di guerra in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Più vengono smascherate le azioni brutali e criminali di Israele, più aggressivi diventano i suoi portavoce e sostenitori nei loro sforzi per diffamare e delegittimare i suoi critici.

Oggi è Israele ad essere sul banco degli imputati, non il relatore delle Nazioni Unite. Alla signora Albanese non va altro che il merito del coraggio e della dedizione dimostrati nell’espletamento del suo mandato ONU. Può indossare gli attacchi su di lei come distintivo d’onore.

I tre pilastri principali dell’ebraismo sono la verità, la giustizia e la pace. La signora Albanese personifica questi valori in misura straordinariamente alta. E ci saranno molti ebrei in tutto il mondo, turbati dal tradimento di Israele di questi fondamentali valori ebraici, che possono avere motivo di ringraziarla per averli sostenuti.

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Austerità sociale e ambiguità politica

Qual è la convenienza dei ceti sociali dominanti ad assecondare un governo reazionario e conservatore come quello che si è insediato in Italia? E più in generale, perché le politiche economiche nella Ue sono espressione dei partiti di centrodestra in Europa, che hanno imposto l’austerità?

A queste domande può dare una risposta “Operazione austerità, come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo”, Einaudi 2022, un importante saggio di Clara E. Mattei, economista uscita dalla Normale di Pisa che ora insegna alla New School for Social Research di New York.

Interessante notare che il titolo originale è The Capital Order, e anche che sia uscito quest’anno per i tipi della The University of Chicago Press, quella Università che fu la culla dei famigerati “Chicago boys”.

Per quanto il titolo in italiano sia indubbiamente suggestivo e il testo tradotto da Maria Lorenza Chiesara sia chiaro e avvincente, il titolo originario – The Capital Order – dà l’esatta dimensione di ciò di cui stiamo parlando, quando abbiamo posto la prima delle domande con cui abbiamo iniziato il discorso: qual è la convenienza dei ceti sociali dominanti ad assecondare un governo reazionario e conservatore come quello che si è insediato in Italia?

Ci risponde con chiarezza l’autrice: “L’austerità fu, e rimane tutt’ora, un’astuzia.

Studiandone con occhi critici le origini e gli architetti, si può vedere che fu concepita, ed ebbe successo, come controffensiva.

È infatti un programma che serve a preservare la supremazia e l’incontestabilità del capitalismo nei periodi in cui è sottoposto a minacce politiche.

Lo fa introducendo strutture – politiche – capaci di trasferire risorse dalla maggioranza dei lavoratori alla minoranza dei risparmiatori-investitori.

Gli impatti distributivi immediati dell’austerità hanno a lungo termine l’importante funzione di esautorare la maggioranza dei cittadini e, in tal modo, di rafforzare l’accettazione generalizzata dei pilastri dell’accumulazione capitalistica – la proprietà privata dei mezzi di produzione – e le relazioni salariali – per cui si accetta quel che dice il padrone.”
(Cfr. pag. 262).

Non è proprio quello che sta facendo il governo, con la Manovra finanziaria, che sembra voler a tutti i costi essere punitiva per i ceti popolari e premiare non solo la minoranza dei più forti, ma incentivare una parte del ceto medio – attraverso la flat tax e il cuneo fiscale – per coinvolgerli nell’odio di classe verso la maggioranza dei più deboli?

Se il fascismo fu la vendetta industriale e agraria contro le lotte operaie e contadine negli anni Venti del secolo scorso, durante la grande crisi economica del terribile primo dopoguerra, l’attuale governo sembra voler chiudere i conti con le lotte operaie e studentesche del Sessantotto e dell’autunno caldo del ‘69, con le conquiste dello Stato sociale, con gli stessi diritti delle donne, dei movimenti di liberazione sessuale, contro la guerra, contro il nucleare e per la difesa dell’ambiente contro lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali.

Con la tentazione di riscrivere la storia della democrazia italiana nata dalla Resistenza, in realtà si mira a depotenziare l’art. 1 della Costituzione, laddove al significato di Repubblica fondata sul lavoro, s’intenderebbe fondata sulle imprese, cioè sul capitalismo.

Non sfugga, per esempio, che il ministero dello sviluppo economico è stato ribattezzato “delle imprese”.

Una controffensiva politica e ideologica che serva da monito autoritario ai protagonisti politici delle lotte sociali. Che comprenda l’attacco frontale a quanto sancito dall’art. 3 della Costituzione.

Nel primo comma dell’art. 3 si afferma l’uguaglianza di fronte alla legge, “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, tuttavia in questi anni le discriminazioni sistematiche – da atteggiamento strisciante – sono evolute via via ad elemento di propaganda politica ed elettoralistica, fino a raggiungere l’azione di governo.

Il punto vero è che separare i diritti civili da quelli sociali è stata una trappola nella quale si è fatto cadere il senso comune, lasciando intendere che certi diritti siano un di più, l’importante è il reddito, per ricevere il quale ogni condizione di lavoro è accettabile, come fosse un dovere categorico.

Si è così depotenziato deliberatamente il significato politico del secondo comma dell’art. 3: “È compito della Repubblica rimuove gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Sul punto ci sarebbe da accusare ufficialmente di vera e propria fellonia democratica tutti i governi di centrosinistra che si sono succeduti nella storia recente, per aver sposato l’idea del neoliberismo, che si è inevitabilmente accompagna al darwinismo sociale e al restringimento del perimetro della democrazia progressiva. Si è tanto parlate di “riforme” che non hanno migliorato, ma restaurato l’ordine precedente.

Il cuore del ragionamento di Clara Mattei, che rende questo suo lavoro molto importante, verte sulla continuità tra le esigenze politiche imposte dalle misure economiche liberiste che, in caso di necessità storica, non disdegnano affatto, non solo la dittatura fascista di un secolo fa, ma neppure la democrazie illiberale di oggi, purché servano allo scopo di proteggere gli interessi economici dei capitalisti.

Si può dire che liberalismo, anche prima che diventasse neoliberismo sfrenato, sia sempre stato un antagonista all’autoritarismo? Si può dire che dichiararsi liberali, in tutte le sue accezioni, sia una garanzia di coerenza con gli ideali di libertà e democrazia? No.

Non è un caso, per esempio, che a Luigi Einaudi fu offerto il ministero del Tesoro nel primo governo Mussolini. “L’offerta alla fine non si concretizzò e di fatto Einaudi non servì mai nel governo fascista, ma svolse comunque un ruolo cruciale nella costruzione del consenso all’austerità del fascismo dentro e fuori dai confini italiani.

Dopo l’assassinio del politico socialista Giacomo Matteotti nel 1924, Einaudi si oppose politicamente al fascismo; tuttavia stando ai suoi interventi sul quotidiano liberale Corriere della Sera e soprattutto ai suoi tanti articoli da corrispondente dell’Economist, il sostegno attivo che per tutti gli anni Venti egli offrì alla politica economica del fascismo non può essere negato.”
(Cfr. pag. 208).

Ecco il tema centrale di questo importante libro, cioè il costante sostegno accordato all’idea di austerità, come strumento politico – niente affatto tecnico – da parte dei campioni del liberalismo italiano.

Idee e prassi politiche le cui priorità sono state sempre proteggere l’economia di mercato dal pericolo che essa venisse messa in discussione dal protagonismo politico delle classi subalterne, che si sono opposte alla gestione delle crisi economiche prodotte dal sistema stesso, crisi da scaricare proprio sulle classi subalterne.

Come? Comprimendo i redditi, tagliando la spesa sociale, limitando i diritti.

Qui è necessario riportare un lungo, ma esplicativo passaggio del ragionamento che ci offre Clara Mattei:

“Dopo la sconfitta del fascismo alla fine della Seconda guerra mondiale, Einaudi partecipò quale principale rappresentante del Partito liberale all’Assemblea costituente del 1946 e divenne poi il primo presidente eletto della Repubblica italiana, carica che mantenne dal 1948 al 1955.

In entrambi i ruoli, rappresentò l’incarnazione di una tacita continuità istituzionale tra il mondo politico che aveva sostenuto l’ascesa della dittatura e la nuova repubblica democratica. Ancora oggi Einaudi è ammirato come una delle figure pubbliche italiane più rispettabili (…)

Oltre che all’Università di Torino, Einaudi insegnò all’Università Bocconi di Milano, rafforzandone la duratura eredità quale centro dell’economia neoclassica, tanto che la Bocconi è tutt’ora la casa madre di influenti esponenti dell’austerità.

Dopo esserne stato a lungo presidente, per esempio, l’economista Mario Monti guidò le riforme ‘lacrime e sangue’ in Italia tra il 2011 e il 2013 nel suo ruolo di primo ministro mai passato al vaglio popolare.

Poi c’è Francesco Giavazzi che ancora nel 2022 è consulente economico del ‘governo tecnico’ di Mario Draghi e che dopo la crisi finanziaria del 2009, insieme al famoso collega Alberto Alesina e ad altri cosiddetti ‘Bocconi boys’, ha consigliato a istituzioni europee e internazionali – come Ecofin, costituita dai ministri delle finanza dei tutti i Paesi membri dell’Unione Europea, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale – di sposare l’austerità.”
(Cfr. pag. 208).

Già, l’Europa, quella che la vulgata riterrebbe un argine al “sovranismo populista”, ma che in realtà è luogo normativo dove si pianificano e si impongono le scelte politiche e finanziarie per tenere soggiogati all’ordine capitalista le masse popolari, i lavoratori, i ceti sociali più fragili, cui imporre a tutti i costi l’economia di mercato, le sue logiche di accumulazione, di disuguaglianza, di autoritarismo.

“L’Unione Europea ha, inoltre, aperto la porta ai falchi dell’austerità consentendo loro di proporre riforme istituzionali che colpiscono direttamente al cuore i principî democratici, ovvero le barriere politiche che, soprattutto in Italia, sono state erette per marcare la differenza dal passato fascista del Paese.

Come gli economisti durante il periodo fascista, i nostri contemporanei invocano riforme elettorali che restringano la rappresentanza proporzionale (per favorire governi più forti) e riscrivono le costituzioni dei Paesi per includervi l’obbligo di pareggiare il bilancio.

L’Italia ha applicato entrambe le raccomandazione nel secondo decennio del Duemila. Quando la contestazione popolare contro l’ordine capitalistico è forte, l’unica strada per soddisfare questi obiettivi di austerità è appoggiare l’autoritarismo.”
(Cfr. pag. 289).

Se, come ci ricorda Clara Mattei in “Operazione austerità”, ciò a cui stiamo andando incontro “è un programma che serve a preservare la supremazia e l’incontestabilità del capitalismo nei periodi in cui è sottoposto a minacce politiche”; e se questa tendenza si manifesta “introducendo strutture – politiche – capaci di trasferire risorse dalla maggioranza dei lavoratori alla minoranza dei risparmiatori-investitori”, diventa necessario averne piena consapevolezza, sia nell’analisi che nell’iniziativa.

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Guerra in Ucraina - Il conflitto logora anche chi non la fa

Costi finanziari alle stelle come i consumi di armi e munizioni per una guerra che sembra lontana dal concludersi e che i russi sembrano per ora voler combattere sulla difensiva con l’obiettivo di logorare gli ucraini e soprattutto i loro alleati.

Se Kiev cerca di arruolare altre truppe per alimentare nuove offensive tese a riconquistare i territori perduti, in Europa e Occidente si cominciano a valutare le difficoltà a mantenere il rifornimento delle forze ucraine a un ritmo sostenibile nel tempo.

Gli Stati Uniti valutano se trasferire o meno all’Ucraina i missili da difesa aerea a lungo raggio Patriot (hanno deciso di inviare intanto una sola batteria, ndr) per fornire un maggiore contributo al contrasto degli attacchi missilistici russi che stanno demolendo progressivamente tutte le infrastrutture energetiche del nemico.

Obiettivi legittimi in guerra (del resto bersagli di questo tipo sono stati sempre al centro del mirino di tutte le guerre occidentali, dall’Iraq alla Serbia alla Libia), la cui distruzione sta comportando gravi difficoltà allo sforzo bellico ucraino (senza energia trasporti, industrie e reti informatiche non funzionano) peggiorando sensibilmente anche le condizioni di vita della popolazione che deve affrontare un inverno durissimo.

L’assenza o la penuria di energia potrebbe mettere a dura prova il consenso nei confronti del governo e del presidente Volodymyr Zelensky che già da tempo ha messo fuori legge ogni forma di opposizione chiudendo televisioni, giornali e ben 12 partiti di opposizione e punendo per legge persino chiunque osi esprimersi a favore di negoziati di pace.

Elementi che confermano come la guerra in atto sia anche una guerra civile, con milioni di cittadini ucraini schierati dalla parte dei russi e decine di migliaia che combattono al fianco delle forze di Mosca.

L’offensiva missilistica russa contro le infrastrutture mira anche a complicare la situazione nei paesi europei, a tutti gli effetti ormai “nazioni ostili” per i russi, poiché è evidente che milioni di civili ucraini privi di luce, acqua e riscaldamento potrebbero cercare un rifugio sicuro e caldo a ovest, in un’Europa già in difficoltà per la sciagurata gestione della guerra e della crisi energetica (che secondo Bloomberg è già costata all’Unione mille miliardi di dollari) da parte della Commissione Ue che già oggi vede ridursi pericolosamente le riserve di gas.

Patriot in Ucraina?

Un contesto in cui ben si inserisce la vicenda dei missili Patriot chiesti da Kiev. La prima a proporre di metterli in campo è stata la Germania che voleva però schierarli in Polonia per “prevenire” sconfinamenti di missili russi nel territorio dell’alleato membro della NATO.

Evidentemente un pretesto anche perché finora in Polonia è caduto solo un missile terra-aria ucraino appartenente a un sistema S-300. Berlino, dopo aver colto i potenziali rischi di un maggiore e diretto coinvolgimento nella guerra contro la Russia e aver recepito le minacce russe di rappresaglia, il 6 dicembre ha risposto picche alla proposta polacca di dispiegare in Ucraina i Patriot.

Il ministro della Difesa di Varsavia, Mariusz Blaszczak, si è detto “deluso” dalla decisione di Berlino, dopo aver parlato con il suo omologo tedesco, Christine Lambrecht.

I polacchi non avranno disponibili i Patriot che hanno ordinato agli USA ancora per molto tempo e sono quindi gli Stati Uniti oggi a dover gestire la “patata bollente”, tra indiscrezioni stampa che danno per imminente la consegna di due batterie e il Presidente Joe Biden che il 16 dicembre ha affermato che una decisione verrà presa presto.

Difficile però credere che simili armi vengano lasciate nelle mani degli ucraini ma è verosimile che nel caso verranno gestite in Ucraina da militari o contractors statunitensi o di altri stati membri della NATO, peraltro già presenti con migliaia di effettivi in Ucraina.

La necessità di potenziare le difese aeree ucraine rimane del resto una priorità per l’Occidente e nei giorni scorsi sono circolate le voci circa la consegna di un altro sistema tedesco IRIS-T e di due SAMP/T, uno francese e uno fornito dall’Italia, come hanno rivelato fonti francesi (in barba all’inutile e paradossale segreto posto da Roma sulle forniture militari all’Ucraina).

Si tratta di sistemi prelevati direttamente dalle dotazioni dell’aeronautica francese e dell’esercito italiano che si aggiungono ai vecchi Hawk spagnoli e forse ai sistemi Aspide/Spada italiani: armi piuttosto anziane e da tempo “scadute”, il cui impiego quindi non può offrire garanzie di efficacia e sicurezza.

Scorte in esaurimento

Il prolungamento del conflitto sta mettendo in grave difficoltà la capacità degli anglo-americani e dei loro alleati di mantenere un elevato ritmo di consegna di armi e munizioni, adeguato ai consumi e al logorio imposto da questa guerra convenzionale ad alta intensità.

A fine novembre il New York Times ha sentito un alto funzionario dell’Alleanza Atlantica che ha ammesso che i due terzi dei Paesi della Nato hanno esaurito armi, mezzi e munizioni che potevano essere ceduti all’Ucraina.

Le scorte di armamenti di 20 dei 30 membri della Nato sono “piuttosto esaurite”, ha detto il funzionario che ha voluto mantenere l’anonimato, ma “i restanti 10 Paesi possono ancora fornire di più, soprattutto gli alleati più grandi”, ha aggiunto citando tra questi l’Italia, la Francia, la Germania e l’Olanda.

La situazione delle scorte di armamenti è particolarmente difficile per la Polonia e gli Stati baltici, sottolinea il giornale, secondo cui nel complesso i Paesi della Nato hanno trasferito all’Ucraina armamenti per un valore di 40 miliardi di dollari.

Il supporto militare all’Ucraina “non dovrebbe essere inferiore a quello degli ultimi sei mesi... ma a parte questo, abbiamo bisogno di armi più moderne, più rifornimenti” ha detto il 15 dicembre il presidente Volodymyr Zelensky davanti ai leader Ue durante il suo intervento da remoto al Consiglio europeo.

“Questo vale sia per la difesa aerea che per la difesa missilistica. E chiedo a ciascuno dei ventisette paesi dell’Unione Europea di decidere cosa si può fare nello specifico per aumentare la fornitura di sistemi di difesa aerea e missilistica" – ha aggiunto Zelensky.

“Questo vale anche per i carri armati moderni. Non c’è alcuna ragione razionale per cui l’Ucraina non dovrebbe riceverli ora. Ciò vale anche per l’artiglieria a lungo raggio e per i sistemi missilistici che potrebbero accelerare la fine dell’aggressione russa”.

La criticità della situazione dei rifornimenti è stata presa in esame anche dal ministro della Difesa italiano, Guido Crosetto: “In tutto il mondo l’industria militare, e anche in Russia, è in crisi di produzione e di approvvigionamento. Per assurdo questo è uno degli elementi che possono dare una svolta alla trattativa sull’Ucraina che tutti ci auguriamo”, ha detto in un’intervista su RAI 3.

Intervenendo in Senato il 13 dicembre il ministro italiano ha ammesso che gli aiuti militari all’Ucraina possono avere un impatto sulle nostre Forze Armate.

“Non voglio nascondere al Parlamento che quello che abbiamo fatto e che stiamo facendo, pur non comportando oneri diretti e immediati nel lungo periodo, potrebbe incidere sulle nostre capacità”. È molto probabile che perdite, usura e consumi mettano in difficoltà anche i russi che devono fare i conti anche con gli effetti delle sanzioni poste dall’Occidente ma la portata di queste difficoltà è tutta da verificare.

Fonti militari ucraine ammettono di aver trovato resti di missili russi esplosi prodotti in ottobre di quest’anno e se si escludono i droni-suicidi (munizioni circuitanti) a lungo raggio Geran-2 di origine iraniana (ma probabilmente ormai prodotti in Russia), tutte le armi impiegate appaiono prodotte in Russia e in molti casi stoccate in depositi sparsi per tutto l’immenso territorio della Federazione da molti anni.

L’intensità dell’offensiva missilistica sulle infrastrutture energetiche e dei bombardamenti dell’artiglieria russa lungo i fronti di guerra non sembrano certo indicare difficoltà nei rifornimenti di munizioni nonostante diversi depositi siano stati colpiti negli ultimi mesi nelle retrovie da sabotatori o dai razzi lanciati dai sistemi HIMARS statunitensi e recentemente lo stesso Vladimir Putin abbia ammesso qualche difficoltà logistica.

Gli Stati Uniti hanno più volte denunciato forniture alla Russia di armi e munizioni nordcoreane ma finora non ci sono stati riscontri in proposito dai campi di battaglia.

Le previsioni dell’intelligence britannico, che nei suoi bollettini giornalieri riferisce dall’aprile scorso che la Russia sta finendo le scorte di missili balistici e da crociera, si sono rivelate errate o più probabilmente frutto più di intenti propagandistici che di attività d’intelligence (del resto non si sono mai visti i servizi segreti pubblicare bollettini di guerra quotidiani).

Il 27 novembre il ministro della Difesa estone Hanno Pevkur ha ammesso che “dopo nove mesi di conflitto, l’Esercito e l’Aeronautica della Federazione russa non sono state indebolite in modo sensibile”. Pevkur ha sottolineato che nonostante la Russia abbia subito considerevoli perdite, il suo potenziale ritornerà ad essere “prima o poi” quello del 24 febbraio, ponendo l’accento sul fatto che “il pericolo per i Paesi della NATO è pari a quello di inizio conflitto”.

I russi “hanno ancora abbastanza missili per condurre diversi attacchi pesanti. Noi abbiamo abbastanza determinazione e autostima per rispondere” ha detto il 16 dicembre il presidente ucraino Volodymyr Zelensky in un video messaggio.

Come abbiamo sottolineato più volte questa è la prima guerra convenzionale ad alta intensità combattuta in Europa dalle ultime offensive alleate nella primavera del 1945.

Tra le “lezioni apprese” che avevamo indicato già nel giugno scorso vi era l’inadeguatezza delle forze armate europee e occidentali a far fronte a un conflitto del genere perché non potremmo reggere migliaia di morti e feriti e perché le nostre dotazioni di armi pesanti e munizioni verrebbero azzerate dopo una o due settimane di guerra, in molti casi anche in pochi giorni.

Correre ai ripari non è facile e richiede tempi lunghi, determinazione e ampi investimenti poiché l’industria della Difesa in Occidente non è strutturata per compensare in tempi rapidi perdite e consumi elevati come quelli registrati da una guerra convenzionale come questa in cui le forze ucraine “bruciano” migliaia di proiettili d’artiglieria al giorno e decine o addirittura centinaia di mezzi ogni settimana.

Solo per citare un esempio, il Pentagono ha assegnato a Raytheon un contratto da 1,2 miliardi di dollari per fornire a Kiev 6 batterie di missili terra-aria NASAMS in aggiunta alle due già consegnate ma che verranno realizzate in non meno di due anni.

Guerra convenzionale

“Da quando è finita la guerra fredda un po’ tutti gli arsenali militari sono stati ridotti poiché non si pensava certo che una guerra convenzionale potesse tornare in Europa” – ha detto a fine novembre all’Adnkronos il generale Giorgio Battisti, veterano di molte missioni oltremare, membro del Comitato Atlantico e opinionista di Analisi Difesa.

“Ci sono state le diverse missioni di peacekeeping, missioni all’estero che hanno fatto in modo che venisse privilegiata la parte leggera dell’equipaggiamento militare: armi individuali, mezzi non pesanti abbandonando un po’ le caratteristiche di un esercito convenzionale, appunto con carri armati e le artiglierie che servivano durante la Guerra Fredda.

Ora la guerra convenzionale ritornata in Europa si combatte con i droni e con i missili, a colpi di artiglieria e si parla di migliaia di colpi che sia i russi sia gli ucraini sparano tutti i giorni. Mentre in Afghanistan gli Stati Uniti sparavano 300 colpi di cannone al massimo ogni giorno, nella guerra in Ucraina si sparano 5mila con delle punte di 20mila colpi al giorno.

Questo dimostra come questa guerra abbia messo a nudo le nostre carenze. Una guerra che non può essere paragonata a quelle nei Balcani negli anni ’90 dato che erano guerre a bassa intensità, mentre qui lo scontro è tra due stati che utilizzano tutti gli equipaggiamenti degli arsenali di cui dispongono. Negli ultimi anni, in moltissimi paesi compresa l’Italia, è subentrata una forma di accanimento, possiamo dire, contro le industrie che producevano armi che sono state costrette o a riconvertirsi in altre produzioni o anche a chiudere”
– ha evidenziato Battisti.

“Circostanza che ha fatto sì, salvo che negli Usa, che tantissimi paesi abbiamo ridotto sensibilmente i propri magazzini, le proprie riserve militari. Una eventuale riconversione all’industria bellica non sarà facile, ampliare la capacità industriale di un paese non può realizzarsi in breve tempo.

Ritengo che occorra evitare di rimanere completamente privi di armi e gli Stati Maggiori di tutti i paesi, compresi gli Stati Uniti, stanno studiando come non rischiare di rimanere sguarniti e rifornire allo stesso tempo l’Ucraina delle armi necessarie per difendersi. Anche perché gli Stati Maggiori devono tenere conto sempre del rischio che il conflitto si allarghi coinvolgendo direttamente paesi dell’Alleanza Atlantica”
– ha concluso Battisti.

Armi e munizioni agli sgoccioli

Considerato questo contesto non sorprende che gli anglo-americani cerchino alternative al depauperamento delle proprie riserve di armi e munizioni anche tenendo contro che le capacità produttive statunitense di munizioni da 155 mm raggiungono i 15 mila proiettili mensili (molti meno in Europa), pari più o meno a tre giorni di fuoco dell’artiglieria ucraina: terminate le riserve disponibili, occorrerebbero anni per tornare a disporre di un livello accettabile di munizioni.

Tra le alternative, Washington e Londra cercano di reperire armi e munizioni di tipo russo/sovietico da girare a Kiev in Africa e Asia, come nel caso del Marocco già illustrato da Analisi Difesa.

Da un lato è indubbio che la guerra in Ucraina abbia dato un forte impulso alla spesa militare in diverse nazioni europee e negli Stati Uniti: molte nazioni un tempo membri del Patto di Varsavia hanno già ceduto a Kiev tutti o quasi gli equipaggiamenti ex sovietici di cui disponevano.

In termini concreti però questo incremento delle risorse finanziarie richiederà anni per trasformarsi in nuove armi e munizioni per le forze NATO come per quelle ucraine.

Per fare un esempio di sistemi d’arma peraltro di relativamente facile e rapida produzione, il ministero della Difesa britannico ha commissionato l’acquisto di un numero imprecisato di armi anticarro NLAW per 229 milioni di sterline che verranno consegnate tra il 2024 e il 2026 (altri 500 NLAW ordinati in precedenza arriveranno nel 2023) per compensare la cessione all’Ucraina di ben 10 mila armi anticarro (in gran parte NLAW) in pochi mesi.

Occorre inoltre valutare se gli stanziamenti annunciati in Europa in modo altisonante sull’onda emotiva del conflitto risultino sostenibili di fronte alla crisi energetica e a quella economica e sociale che si stanno abbattendo sul Vecchio Continente.

Secondo uno studio del think-tank britannico Royal United Services Institute (RUSI) “con la fine della guerra fredda l’Europa ha ridotto drasticamente il budget della difesa, ritrovandosi con eserciti e scorte d’artiglieria limitati, inadatti a sostenere nel lungo periodo il ritmo di una guerra come quella combattuta oggi in Ucraina.
Ai tassi ucraini di consumo di artiglieria, le intere scorte britanniche potrebbero durare una settimana e gli alleati europei non sono in una condizione migliore”
.

Secondo dati ufficiali resi noti il 27 novembre il Regno Unito ha già armato l’Ucraina con quasi 7 mila armi anticarro NLAW, oltre un centinaio di veicoli blindati, semoventi antiaerei Stormer con missili Starstreak, diverse decine di obici M109 e cannoni trainati L119, lanciarazzi campali MLRS M270, oltre 16 mila proiettili d’artiglieria, missili Brimstone e 4,5 tonnellate di esplosivi al plastico. Materiale in parte già usurato o distrutto mentre le munizioni d’artiglieria sono state sufficienti per circa tre giorni di combattimenti.

Per comprendere come anche per le scorte dell’US Army questa guerra non sia sostenibile nel tempo il RUSI evidenzia che nell’estate scorsa gli ucraini sparavano in un giorno 6/7 mila colpi d’artiglieria (i russi fino a 50mila), quando gli Stati Uniti riescono a produrne in un mese solo 15mila.

La costruzione negli USA di uno stabilimento di munizioni ad hoc per l’esercito ucraino richiederà tempo e gli 800 mila proiettili da 155 mm previsti richiederanno due anni per venire prodotti. Secondo il RUSI “al culmine dei combattimenti nel Donbass, la Russia stava usando più munizioni in due giorni di quante ne avesse in magazzino l’intero esercito britannico”.

Il Pentagono ha ceduto a Kiev circa un terzo delle riserve di missili anticarro Javelin e di quelli antiaerei Stinger: ripianare tali scorte richiederà rispettivamente 5 e 13 anni. Troppi, soprattutto tenendo conto che altri conflitti potrebbero esplodere in aree diverse, incluso il Pacifico.

Citando fonti del Pentagono, il New Yorker ha reso noto che gli Stati Uniti non intendono fornire all’Ucraina i lanciarazzi campali multipli HIMARS in grandi quantità a causa del costo (7 milioni di dollari) dei tempi di produzione di nuovi mezzi, ma soprattutto per la difficoltà industriale a far fronte alle commesse di munizioni.

“A fronte di una produzione di 9mila razzi all’anno le forze armate ucraine ne consumano almeno 5mila al mese”, afferma la fonte citata dal giornale.

E bene evidenziare che gran parte dei 20 miliardi di dollari di aiuti militari statunitensi, degli oltre 3 miliardi di sterline forniti da Londra (secondo contributore) e dei 3,1 miliardi di euro forniti dall’UE all’Ucraina (l’Italia ha speso finora quasi mezzo miliardo di euro secondo l’Osservatorio MIL€X) riguardano mezzi, armi e munizioni prelevati dai magazzini o dai reparti delle forze armate occidentali, che se ne sono privati non senza critiche da parte di molti ambienti militari.

Citando fonti militari francesi, il magazine statunitense Politico ha rivelato a inizio dicembre che in Francia gli stock di munizioni e artiglieria si sono ridotti pericolosamente a causa delle donazioni all’Ucraina mentre fonti militari tedesche riducono oggi ad appena due giorni l’autonomia di fuoco dell’artiglieria in un conflitto convenzionale.

L’ambasciatore polacco alla NATO, Tomasz Szatkowski, ha dichiarato alla radio polacca RMF che “i depositi militari dei paesi della NATO si stanno vuotando a causa degli aiuti all’Ucraina”. Un allarme che potrebbe aumentare i dissidi tra gli alleati considerato che il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, continua a esortare gli stati membri a trasferire più armi e munizioni possibile a Kiev.

Come ha rivelato all’ANSA un’alta fonte diplomatica NATO, all’interno dell’alleanza è in corso “un dibattito” sull’ipotesi di dare carri armati di produzione occidentale a Kiev dopo l’appello in tal senso del ministro degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis.

La questione però, sempre in termini concreti, è dove reperire in Europa tank per l’Ucraina considerato che alcune nazioni NATO hanno rinunciato a mantenere in servizio carri armati e chi ancora ne ha in organico dispone di flotte compresa tra i 150 (l’Italia) e i 350 (la Germania) esemplari, solo per meno della metà operativi: flotte non cedibili se non si vogliono appiedare gli ultimi reparti corazzati rimasti in Europa. Pochi anche i mezzi in riserva che richiederebbero comunque ampi lavori per tornare a essere operativi.

A Kiev il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, ha lamentato che la Germania non ha assunto al momento alcun impegno per la fornitura di carri armati Leopard 2 all’Ucraina.

Il 15 dicembre Berlino ha consegnato all’Ucraina missili per il sistema di difesa area IRIS-T, due veicoli corazzati e 30 mila proiettili per lanciagranate da 40 mm, 5 mila munizioni da 155 mm, 4 ambulanze e 18 autocarri. In Belgio, come in altre nazioni europee, le pressioni politiche tese a dare più armi agli ucraini cozzano con le resistenze dei militari che temono di dover domani affrontare un contesto bellico ad alta intensità senza disporre di armi e munizioni.

Manutenzioni oltre confine

Sostenere lo sforzo bellico ucraino diventa difficile anche sul piano logistico poiché la carenza di energia e la devastazione dell’apparato industriale militare ucraino rendono ardue se non impossibili anche manutenzioni e riparazioni.

A Michalovce, in Slovacchia, è stato aperto il centro per le riparazioni delle armi pesanti fornite dalla Germania all’Ucraina, come ha comunicato nei giorni scorsi il generale di brigata Christian Freuding, capo dello Stato maggiore speciale per l’Ucraina presso il ministero della Difesa tedesco.

Presso il polo di Kosice verranno riparati, in particolare, i 14 obici semoventi Pzh 2000 che la Germania ha fornito insieme a Olanda e Italia all’Ucraina e che vengono ormai “cannibalizzati” per mantenerne qualcuno operativo secondo testimonianze dirette dal fronte.

Il centro in Slovacchia curerà la manutenzione anche dei 5 lanciarazzi multipli Mars e dei 37 semoventi antiaerei corazzati Gepard forniti a Kiev e in futuro anche dei 50 blindati ruotati Dingo di prossima consegna. L’ubicazione del centro logistico oltre i confini ucraini offre garanzie contro gli attacchi russi ma impone lunghi trasferimenti dal fronte dei mezzi da riparare.

Il viceministro della Difesa ceco, Tomas Kopecny, ha annunciato che migliaia di tecnici e operai ucraini delle aziende del settore Difesa lavoreranno negli stabilimenti di produzione di armi della Repubblica Ceca dove la produzione di alcuni sistemi d’arma nell’ambito di progetti comuni dovrebbe cominciare nella prima metà del 2023.

La Svizzera invece si è impegnata a non fornire armi all’Ucraina. “Né al tempo della prima guerra mondiale, né durante la seconda guerra mondiale, abbiamo esportato armi. Non esporteremo armi e non parteciperemo direttamente o indirettamente a un conflitto militare né in termini di armi né con le nostre truppe in Ucraina, Russia o in qualsiasi altra parte del mondo”, ha sottolineato il 12 dicembre il presidente della Confederazione, Ignazio Cassis, aggiungendo che “c’è sempre pressione sulla Svizzera da parte dei Paesi europei”.

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