Qual è la convenienza dei ceti sociali dominanti ad assecondare un governo reazionario e conservatore come quello che si è insediato in Italia? E più in generale, perché le politiche economiche nella Ue sono espressione dei partiti di centrodestra in Europa, che hanno imposto l’austerità?
A queste domande può dare una risposta “Operazione austerità, come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo”, Einaudi 2022, un importante saggio di Clara E. Mattei, economista uscita dalla Normale di Pisa che ora insegna alla New School for Social Research di New York.
Interessante notare che il titolo originale è The Capital Order, e anche che sia uscito quest’anno per i tipi della The University of Chicago Press, quella Università che fu la culla dei famigerati “Chicago boys”.
Per quanto il titolo in italiano sia indubbiamente suggestivo e il testo tradotto da Maria Lorenza Chiesara sia chiaro e avvincente, il titolo originario – The Capital Order – dà l’esatta dimensione di ciò di cui stiamo parlando, quando abbiamo posto la prima delle domande con cui abbiamo iniziato il discorso: qual è la convenienza dei ceti sociali dominanti ad assecondare un governo reazionario e conservatore come quello che si è insediato in Italia?
Ci risponde con chiarezza l’autrice: “L’austerità fu, e rimane tutt’ora, un’astuzia.
Studiandone con occhi critici le origini e gli architetti, si può vedere che fu concepita, ed ebbe successo, come controffensiva.
È infatti un programma che serve a preservare la supremazia e l’incontestabilità del capitalismo nei periodi in cui è sottoposto a minacce politiche.
Lo fa introducendo strutture – politiche – capaci di trasferire risorse dalla maggioranza dei lavoratori alla minoranza dei risparmiatori-investitori.
Gli impatti distributivi immediati dell’austerità hanno a lungo termine l’importante funzione di esautorare la maggioranza dei cittadini e, in tal modo, di rafforzare l’accettazione generalizzata dei pilastri dell’accumulazione capitalistica – la proprietà privata dei mezzi di produzione – e le relazioni salariali – per cui si accetta quel che dice il padrone.” (Cfr. pag. 262).
Non è proprio quello che sta facendo il governo, con la Manovra finanziaria, che sembra voler a tutti i costi essere punitiva per i ceti popolari e premiare non solo la minoranza dei più forti, ma incentivare una parte del ceto medio – attraverso la flat tax e il cuneo fiscale – per coinvolgerli nell’odio di classe verso la maggioranza dei più deboli?
Se il fascismo fu la vendetta industriale e agraria contro le lotte operaie e contadine negli anni Venti del secolo scorso, durante la grande crisi economica del terribile primo dopoguerra, l’attuale governo sembra voler chiudere i conti con le lotte operaie e studentesche del Sessantotto e dell’autunno caldo del ‘69, con le conquiste dello Stato sociale, con gli stessi diritti delle donne, dei movimenti di liberazione sessuale, contro la guerra, contro il nucleare e per la difesa dell’ambiente contro lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali.
Con la tentazione di riscrivere la storia della democrazia italiana nata dalla Resistenza, in realtà si mira a depotenziare l’art. 1 della Costituzione, laddove al significato di Repubblica fondata sul lavoro, s’intenderebbe fondata sulle imprese, cioè sul capitalismo.
Non sfugga, per esempio, che il ministero dello sviluppo economico è stato ribattezzato “delle imprese”.
Una controffensiva politica e ideologica che serva da monito autoritario ai protagonisti politici delle lotte sociali. Che comprenda l’attacco frontale a quanto sancito dall’art. 3 della Costituzione.
Nel primo comma dell’art. 3 si afferma l’uguaglianza di fronte alla legge, “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, tuttavia in questi anni le discriminazioni sistematiche – da atteggiamento strisciante – sono evolute via via ad elemento di propaganda politica ed elettoralistica, fino a raggiungere l’azione di governo.
Il punto vero è che separare i diritti civili da quelli sociali è stata una trappola nella quale si è fatto cadere il senso comune, lasciando intendere che certi diritti siano un di più, l’importante è il reddito, per ricevere il quale ogni condizione di lavoro è accettabile, come fosse un dovere categorico.
Si è così depotenziato deliberatamente il significato politico del secondo comma dell’art. 3: “È compito della Repubblica rimuove gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
Sul punto ci sarebbe da accusare ufficialmente di vera e propria fellonia democratica tutti i governi di centrosinistra che si sono succeduti nella storia recente, per aver sposato l’idea del neoliberismo, che si è inevitabilmente accompagna al darwinismo sociale e al restringimento del perimetro della democrazia progressiva. Si è tanto parlate di “riforme” che non hanno migliorato, ma restaurato l’ordine precedente.
Il cuore del ragionamento di Clara Mattei, che rende questo suo lavoro molto importante, verte sulla continuità tra le esigenze politiche imposte dalle misure economiche liberiste che, in caso di necessità storica, non disdegnano affatto, non solo la dittatura fascista di un secolo fa, ma neppure la democrazie illiberale di oggi, purché servano allo scopo di proteggere gli interessi economici dei capitalisti.
Si può dire che liberalismo, anche prima che diventasse neoliberismo sfrenato, sia sempre stato un antagonista all’autoritarismo? Si può dire che dichiararsi liberali, in tutte le sue accezioni, sia una garanzia di coerenza con gli ideali di libertà e democrazia? No.
Non è un caso, per esempio, che a Luigi Einaudi fu offerto il ministero del Tesoro nel primo governo Mussolini. “L’offerta alla fine non si concretizzò e di fatto Einaudi non servì mai nel governo fascista, ma svolse comunque un ruolo cruciale nella costruzione del consenso all’austerità del fascismo dentro e fuori dai confini italiani.
Dopo l’assassinio del politico socialista Giacomo Matteotti nel 1924, Einaudi si oppose politicamente al fascismo; tuttavia stando ai suoi interventi sul quotidiano liberale Corriere della Sera e soprattutto ai suoi tanti articoli da corrispondente dell’Economist, il sostegno attivo che per tutti gli anni Venti egli offrì alla politica economica del fascismo non può essere negato.” (Cfr. pag. 208).
Ecco il tema centrale di questo importante libro, cioè il costante sostegno accordato all’idea di austerità, come strumento politico – niente affatto tecnico – da parte dei campioni del liberalismo italiano.
Idee e prassi politiche le cui priorità sono state sempre proteggere l’economia di mercato dal pericolo che essa venisse messa in discussione dal protagonismo politico delle classi subalterne, che si sono opposte alla gestione delle crisi economiche prodotte dal sistema stesso, crisi da scaricare proprio sulle classi subalterne.
Come? Comprimendo i redditi, tagliando la spesa sociale, limitando i diritti.
Qui è necessario riportare un lungo, ma esplicativo passaggio del ragionamento che ci offre Clara Mattei:
“Dopo la sconfitta del fascismo alla fine della Seconda guerra mondiale, Einaudi partecipò quale principale rappresentante del Partito liberale all’Assemblea costituente del 1946 e divenne poi il primo presidente eletto della Repubblica italiana, carica che mantenne dal 1948 al 1955.
In entrambi i ruoli, rappresentò l’incarnazione di una tacita continuità istituzionale tra il mondo politico che aveva sostenuto l’ascesa della dittatura e la nuova repubblica democratica. Ancora oggi Einaudi è ammirato come una delle figure pubbliche italiane più rispettabili (…)
Oltre che all’Università di Torino, Einaudi insegnò all’Università Bocconi di Milano, rafforzandone la duratura eredità quale centro dell’economia neoclassica, tanto che la Bocconi è tutt’ora la casa madre di influenti esponenti dell’austerità.
Dopo esserne stato a lungo presidente, per esempio, l’economista Mario Monti guidò le riforme ‘lacrime e sangue’ in Italia tra il 2011 e il 2013 nel suo ruolo di primo ministro mai passato al vaglio popolare.
Poi c’è Francesco Giavazzi che ancora nel 2022 è consulente economico del ‘governo tecnico’ di Mario Draghi e che dopo la crisi finanziaria del 2009, insieme al famoso collega Alberto Alesina e ad altri cosiddetti ‘Bocconi boys’, ha consigliato a istituzioni europee e internazionali – come Ecofin, costituita dai ministri delle finanza dei tutti i Paesi membri dell’Unione Europea, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale – di sposare l’austerità.” (Cfr. pag. 208).
Già, l’Europa, quella che la vulgata riterrebbe un argine al “sovranismo populista”, ma che in realtà è luogo normativo dove si pianificano e si impongono le scelte politiche e finanziarie per tenere soggiogati all’ordine capitalista le masse popolari, i lavoratori, i ceti sociali più fragili, cui imporre a tutti i costi l’economia di mercato, le sue logiche di accumulazione, di disuguaglianza, di autoritarismo.
“L’Unione Europea ha, inoltre, aperto la porta ai falchi dell’austerità consentendo loro di proporre riforme istituzionali che colpiscono direttamente al cuore i principî democratici, ovvero le barriere politiche che, soprattutto in Italia, sono state erette per marcare la differenza dal passato fascista del Paese.
Come gli economisti durante il periodo fascista, i nostri contemporanei invocano riforme elettorali che restringano la rappresentanza proporzionale (per favorire governi più forti) e riscrivono le costituzioni dei Paesi per includervi l’obbligo di pareggiare il bilancio.
L’Italia ha applicato entrambe le raccomandazione nel secondo decennio del Duemila. Quando la contestazione popolare contro l’ordine capitalistico è forte, l’unica strada per soddisfare questi obiettivi di austerità è appoggiare l’autoritarismo.” (Cfr. pag. 289).
Se, come ci ricorda Clara Mattei in “Operazione austerità”, ciò a cui stiamo andando incontro “è un programma che serve a preservare la supremazia e l’incontestabilità del capitalismo nei periodi in cui è sottoposto a minacce politiche”; e se questa tendenza si manifesta “introducendo strutture – politiche – capaci di trasferire risorse dalla maggioranza dei lavoratori alla minoranza dei risparmiatori-investitori”, diventa necessario averne piena consapevolezza, sia nell’analisi che nell’iniziativa.
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