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31/12/2022

Capisaldi 2022

È indiscutibilmente difficile fare il punto sull'anno che si conclude.

Nel 2022 la realtà ha più che doppiato qualsiasi fantasia: crisi sistemica del modello capitalista, crisi climatica, crisi pandemica cui ha fatto eco quella sociale accentuata dalla guerra in Ucraina.

Rammentando che al peggio non c'è mai fine vengono i sudori freddi...

Complesso, quindi, fare previsioni per il 2023 che non siano fosche, non fosse altro per gli spettri di guerra a tutto campo – compresa quella nucleare – che in Occidente vengono sventolati dai media come si trattasse di gagliardetti in una partita di calcio.

È evidente che i tempi attuali non vivono una banale sommatoria di emergenze, ma una complessiva crisi di civiltà. Il problema è che il senso comune è lontano dal prenderne compiutamente atto, mentre il tempo stringe.

Su questo versante il mondo dell'arte e della cultura – che, seppur di sistema, nei decenni passati ha rappresentato un antidoto al sonno della ragione – ha mostrato un allineamento agli interessi dominanti sfacciato, disgustoso e con sempre meno eccezioni.

Con queste premesse era arduo trovare appagamento nelle novità e infatti anche gli ascolti del 2022 sono stati prevalentemente all'insegna dell'antologia.

Fanno eccezione:

- i Fontaines D.C. autori di un trittico entusiasmante pubblicato tra 2019 e 2022;

- i Voivod usciti con l'ennesimo disco più che lusinghiero in una carriera 40ennale e soprattutto protagonisti di un concerto memorabile in quel di Genova;

- e sulla scia dei canadesi gli E-Force di Eric Forrest, frontman dei medesimi Voivod a metà anni '90, nel periodo industrial del gruppo.

Per il resto ho recuperato:

- Ummagumma e More dei Pink Floyd, che senza una valida ragione ho sempre considerato album minori e quindi di scarso interesse. Manco a dirlo mi sono dovuto ricredere, non fosse altro perchè questi sono gli ennesimi dischi che danno corpo alla tesi per cui il periodo artisticamente più fecondo per la musica pop sia stato quello degli anni '60;

- il debutto dei Dillinger Escape Plan, una pietra miliare di un genere che fondamentalmente detesto, probabilmente perchè ha esaurito tutto quello che poteva dire con questo Calculating Infinity;

- i Gun Club di Fire of Love in particolare, che a mio modesto avviso è quello che i Rolling Stones sarebbero dovuti diventare dopo il 1972 senza riuscirvi;

- i Red Temple Spirits, scoperti in questi ultimi giorni con un album monumentale, uno dei pochi che, terminato l'ascolto, lascia la sensazione netta di qualcosa di senza tempo al pari di pochissime altre opere come l'esordio dei Velvet Undergorund;

- gli Who, finalmente ascoltati oltre la dimensione dei singoli. Mi ha particolarmente colpito Quadrophenia, mentre mi ha lasciato più tiepido del previsto Tommy, abbastanza inutile discettare su Who's Next per evidenti meriti oggettivi;

- i Rolling Stones, ascoltati in rigoroso ordine enciclopedico dagli esordi a metà anni '70. Memorabili in ordine di gradimento: Aftermath, Beggars Banquet e Sticky Finges;

- i Beatles, gruppo dell'anno e la chiudo qui, perchè non so come rendere lo stupore reiteratamente vissuto ascoltando i dischi pubblicati nella seconda metà dei '60.
A pensare che questi tipi tra il 1965 e il 1969 hanno infilato Help, Rubber Soul, Revolver, Sgt. Pepper's, il White Album ed Abbey Road fa venire le vertigini e da la misura del perchè, a 60 anni di distanza, un'epoca così densa di arte pop sia assurta a mito intergenerazionale, con una punta di rammarico per non averla potuta nemmeno sfiorare.

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