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31/10/2023

Operazione U.N.C.L.E. (2015) di Guy Ritchie - Minirece

Sex & the city/app. Dating, labor & game

di Gioacchino Toni

Moira Weigel, L’amore è lavoro. Economia e relazioni dalla rivoluzione industriale alle app di dating, Luiss University Press, Roma 2023, pp. 251, € 19,50

Il volume di Moira Weigel mostra come la storia del dating (da intendersi come appuntamento amoroso) si intrecci inevitabilmente con le trasformazioni del modo di lavorare delle persone. Una storia che ha preso il via con la rivoluzione industriale e con l’urbanizzazione, con l’uscita di casa delle donne per recarsi al lavoro, quando si è presentata la possibilità di incontrare persone estranee alla ristretta cerchia famigliare e di vicinato ampliando in maniera inedita le possibilità di relazioni. Il diffondersi di spazi pubblici nelle città, come le bettole e le sale da ballo destinate alla working class, che consentivano la concentrazione di estranei in un medesimo spazio delimitato, dunque la possibilità di entrare in relazione con estranei, hanno svolto un ruolo non così diverso da quello delle attuali app per incontri.

Il dating, però, sottolinea la studiosa, non è soltanto influenzato dal lavoro, è lavoro in senso stretto, un lavoro al contempo fisico ed emotivo. Nel primo caso si pensi a tutto ciò che, scrive Weigel, – secondo le riviste, i programmi televisivi, il cinema e le piattaforme digitali – deve fare una donna per essere desiderabile: l’acquisto di capi di abbigliamento alla moda, la cura della forma fisica e dell’aspetto si traducono in un costante sforzo sulla propria produttività, dunque in lavoro necessario per far fronte alle spese richieste dall’imperativo consumista che pretende di essere seducenti consumando. Occorre aggiungere a quanto sostenuto dall’autrice, che da ormai diverso tempo l’intero sistema dell’intrattenimento estende all’universo maschile imperativi di consumo legati all’attrattività un tempo riservati all’ambito femminile. Per quanto riguarda il lavoro emotivo necessario, si pensi invece agli sforzi necessari all’opera di self branding richiesta per presentare una versione di sé capace di suscitare interesse negli estranei e, soprattutto, di farla percepire come naturale.

Portando il corteggiamento fuori dalle abitazioni private, dunque incontrando il mercato, il dating è divenuto un business redditizio. In un tale contesto il dating ha reso necessario l’acquisto di merci per potersi incontrare con un/una potenziale partner e ciò avviene anche sulle attuali app di incontri che, per quanto in molti casi apparentemente gratuite, richiedono come pagamento il tempo speso ad aggiornare l’account personale, l’attenzione che occorre riservare agli inserzionisti e, soprattutto, la concessione di dati personali anche molto intimi. Il fatto che risulti difficile percepire se si sta lavorando o se ci si sta godendo il tempo libero, sostiene Weigel, «è un sintomo della confusione tra lavoro e gioco creata all’inizio del dating». Anche nel caso del dating emerge insomma come nell’economia digitale l’esperienza percepita come ludica tenda a celare quanto l’utente-giocatore sia spinto a trasformarsi in un vero e proprio consumatore-produttore, nonché a mercificarsi.

La studiosa ricorda come la lingua americana possieda ancora numerose espressioni gergali che descrivono il dating come una «forma di transazione»: si ricorre ancora ad espressioni come shop around, per suggerire che gli esseri umani devono guardarsi attorno per “acquistare” un/una partner; si invita, o si è invitati, a non concedersi troppo velocemente per non “svendersi”; si afferma di essere sul punto di “concludere l’accordo” alludendo al raggiungimento della consensualità nel rapporto di coppia; si parla di friends whit benefits (equivalente dell’italiano “trombamici”) quasi a sottintendere una tranquillizzante sensazione di sicurezza nell’investimento sessuale.

Con esplicito riferimento al dating si parla poi di “costi e benefici”, di “investimenti a basso o ad alto rischio” alludendo alle relazioni che si intendono intraprendere e persino di “posizionamento” e di “ottimizzazione” nel settore della “industria dei consigli” in cui si invita ad affrontare la vita amorosa con strategie di tipo aziendale.

Il linguaggio utilizzato, per quanto a volte pretenda di essere semplicemente ironico, tradisce come la cultura occidentale tenda a considerare il dating «una transazione che avviene su un terreno incerto, tra lavoro e gioco», inoltre, sottolinea la studiosa, lo slang suggerisce come il dating sia solitamente vissuto come un lavoro per le donne e un passatempo per gli uomini.

Non a caso l’immaginario neoliberista degli anni Ottanta ha celebrato nel cinema la coppia escort-imprenditore in quanto entrambi disposti a vendere qualsiasi cosa; basti pensare alla celebre coppia messa in scena dal film Pretty Woman (1990) di Garry Marshall che poi, suggerisce Weigel, rappresenta la versione edulcorata del romanzo American Psyco (1991) di Bret Easton Ellis – da cui Mary Harron ha derivato nel 2000 l’omonimo film – in cui si «metteva in evidenza il lato oscuro degli appuntamenti in cui qualsiasi cosa chiunque volesse e potesse pagare era un bersaglio legittimo». Sempre per restare alla fiction, nel film Working Girl (1988) di Mike Nichols – uscito in Italia con il titolo Una donna in carriera – viene mostrato come una semplice segretaria pendolare, «vestendo i panni della sua capa» riesca a siglare un importante accordo e, con esso, a «rubarle il fidanzato» ponendo così le basi per una famiglia yuppie destinata a vivere felice e contenta.

La consuetudine del dating, scrive la studiosa, si è sviluppata in un’epoca in cui si riteneva ancora che il lavoro e il tempo libero fossero due sfere ben distinte dell’esistenza umana e l’appuntamento veniva percepito come un allontanamento dal lavoro, un momento di divertimento utile a riprodurre la forza lavoro. Quando il tempo libero iniziò a rivelarsi a sua volta monetizzabile e gli impieghi stabili tradizionali lasciarono il posto a lavori sempre più temporanei, a rendere difficile la costruzione di relazioni al poco tempo a disposizione si aggiunse la sensazione di precarietà. «Quando tutti hanno poco tempo», o perché hanno troppo lavoro da sbrigare o perché, vivendo nella precarietà, sono costretti a spendere il loro tempo nel lavoro di trovare lavoro, «gli appuntamenti cominciano a sembrare non più un piacere diversivo ma l’ennesimo impegno da incastrare», un impegno che richiede investimento la cui vantaggiosità è tutta da calcolare.

L’immaginario yuppie ha ribadito sfacciatamente come non mai che se l’amore richiede lavoro, non di meno richiede tempo e dato che quest’ultimo è denaro, non conviene investire eccessivamente su un rapporto che potrebbe non esaudire le aspettative in maniera duratura. “Non c’è tempo per un appuntamento”. “Non si può investire in una relazione”. “Il dating online è un lavoro part-time, annuncia un banner su una piattaforma di incontri. «Se il matrimonio è il contratto a tempo indeterminato che molti sperano ancora di ottenere, spesso il dating sembra la forma peggiore e più precaria del lavoro contemporaneo: uno stage non retribuito». Non si può essere sicuri del risultato finale, ma – commenta ironicamente Weigel – si può «tentare di fare esperienza».

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“Il rapporto del giudaismo verso l’emancipazione del mondo di oggi”

La fallace equazione tra antisionismo e antisemitismo e la “Questione ebraica” di Karl Marx

Uno dei nodi ideologici posti in luce dalla eroica resistenza del popolo palestinese alla bestiale politica di aggressione, sterminio e deportazione dello Stato d’Israele, è quello del rapporto tra antisionismo ed antisemitismo, o meglio antigiudaismo (giacché anche gli arabi sono etnicamente semiti).

Si tratta allora di opporsi nel modo più fermo, pur continuando ad usare il termine ideologicamente deviante di ‘antisemitismo’ ormai invalso nell’uso, alla fallace equazione tra antisionismo e antisemitismo, che costituisce il pernio della propaganda filosionista sul “diritto ad esistere dello Stato d’Israele”.

La premessa storica fondamentale da cui occorre partire è che il sionismo come fenomeno politico e ideologico, indipendentemente dall’ispirazione messianica ed emancipatrice che animò le prime generazioni di militanti (ispirazione che indusse l’Unione Sovietica a sostenere nel 1948 la nascita dello Stato d’Israele, salvo rendersi poi conto del grave errore politico che era stato commesso), si è progressivamente identificato con un movimento di chiaro stampo colonialistico su base razziale e religiosa, che punta, usando tutte le armi possibili (compreso lo sterminio e la deportazione), a modificare radicalmente la composizione demografica della Palestina in nome della colonizzazione di quel territorio da parte di nuclei etnici ebraici provenienti da tutto il mondo.

Sennonché non va sottaciuto il fatto che, essendo gli elementi storici (natura ideologica del sionismo), gli elementi economici (sfruttamento di risorse petrolifere marittime e di forza-lavoro a basso prezzo) e gli elementi politici (strategia di colonizzazione integrale del territorio palestinese) tra loro strettamente connessi, questi ultimi seguono necessariamente la logica complessiva dei primi due.

Una siffatta connessione dovrebbe indurre anche l’osservatore più moderato ed equanime ad interrogarsi sulla natura complessiva del sionismo.

Al contrario, vengono accusati di “antisemitismo” non solo i critici storici del sionismo come fenomeno complessivo, ma anche i critici della politica di Israele a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, allorché questo Stato, dopo gli accordi di Oslo del 1993, tese a moltiplicare gli insediamenti di coloni nei territori della cosiddetta Cisgiordania.

Con questa sciagurata politica – che la ‘Road Map’, lungi dal modificare, finì sostanzialmente con l’avallare – Israele mostrava, per un verso, di non accettare la coesistenza con uno Stato palestinese e, per un altro verso, di voler perseguire la strategia della colonizzazione integrale dei territori, confinando l’autonomia palestinese all’interno di ‘bantustan’ privi di una reale sovranità politica ed economica.

Orbene, è giusto riconoscere che vi sono casi in cui, effettivamente, sul piano storico e politico, ragioni e torti sono talmente mescolati tra loro che non è facile trovare un criterio oggettivo e preciso di giudizio per definire secondo un ordine di precedenza le ragioni ed i torti: basti pensare al conflitto greco-turco a Cipro o a quello fra gli indiani e i pakistani in Kashmir, o ancora a quello fra indiani e cinesi sui rispettivi confini.

Ma nel caso del conflitto israelo-palestinese il dilemma dell’equidistanza non si pone per nulla, poiché è evidente a chiunque non sia ipnotizzato dalla propaganda bellica dell’imperialismo, o animato dalla malafede, che i palestinesi hanno completamente ragione e gli israeliani hanno completamente torto.

Di conseguenza, vanno isolati e politicamente combattuti, poiché in realtà gettano fango sulla resistenza palestinese e fanno il gioco dell’imperialismo euroamericano e del sionismo, i sostenitori della formula ‘né con Israele né con i palestinesi’, così come taluni gruppi di estrema sinistra che, negando il significato antimperialista e il valore strategico della lotta per l’autodeterminazione nazionale del popolo palestinese, coprono il loro opportunismo con una fraseologia pseudorivoluzionaria e un uso distorto delle categorie leniniane.

Tutto ciò è vero, ma è altrettanto vero che, quando si pensa al contributo che ha dato al patrimonio filosofico, scientifico e letterario dell’umanità, non si può non provare una grande ammirazione verso la cultura ebraica: e mi limito a citare, fra i tanti, i nomi di Spinoza, di Marx, di Freud, di Einstein e di Kafka.

L’identità ebraica va dunque rispettata sul piano culturale, ma senza concedere ad essa alcuna immunità giuridica e politica. Va quindi respinta nel modo più energico e più convinto l’idea secondo cui gli ebrei, a causa di quanto hanno dovuto sopportare sotto Hitler ed i suoi alleati, non possono essere né giudicati né puniti.

È da ritenere, al contrario, che proprio questo sia oggi il vero antisemitismo, anche se di ciò non vi è alcuna consapevolezza. Quella consapevolezza che indusse, invece, un testimone ebraico della ‘Shoà’ come Primo Levi a prendere le distanze dalla politica delle rappresaglie e della ‘guerra totale’ praticata in permanenza dallo Stato d’Israele, pronunciando le seguenti parole: «Quello che non potrò mai perdonare ai nazisti è di averci fatto diventare come loro».

L’equazione fra l’antisionismo e l’antisemitismo (equazione per sua natura storicamente infondata e culturalmente offensiva, se si pensa al gran numero di ebrei antisionisti che hanno popolato la storia del Novecento) sta oggi scivolando sul piano inclinato dell’equazione fra l’antisemitismo e la semplice critica ad Israele, come risulta dall’isteria filosionista dei ‘mass media’ e dalla politica repressiva di totale appoggio allo Stato israeliano assunta da alcuni governi europei come la Francia, la Germania e l’Inghilterra, i quali hanno persino vietato le manifestazioni popolari a favore della Palestina nei rispettivi paesi.

A questo punto, non si capisce neppure più quali sarebbero i limiti della “critica legittima” ad Israele, dal momento che anche l’appoggio a coloro che si battono per liberare i territori occupati nel 1967 viene ormai qualificato come espressione di “antisemitismo”.

In realtà, la crisi dell’Occidente imperialista si manifesta anche in Israele e obbliga questo Stato ad intraprendere azioni politico-militari funzionali non solo alla propria difesa, ma a quella di tutto l’Occidente oggi incalzato dall’impetuoso sviluppo economico dei paesi emergenti.

In tal modo il ruolo di cane da guardia delegato ad Israele dall’imperialismo euroamericano nel Vicino Oriente si va inciprignendo, nel mentre si acuisce la crisi politica al suo interno, come risulta nell’ultimo periodo dalle continue mobilitazioni di massa contro la politica autoritaria del governo retto da Netanyahu.

Ecco perché oggi occorre dichiarare a tutte lettere che la politica israeliana e, alle sue spalle, quella statunitense, con il sostegno permanente del vassallo britannico e la complicità della quasi totalità dei governanti europei – tra i quali figura il valvassino italiano, divenuto da tempo uno dei maggiori fornitori dei micidiali sistemi d’arma con cui l’esercito israeliano semina a Gaza e nella Cisgiordania morte e distruzione sulla popolazione civile, sul territorio e sull’ambiente – costituiscono una fonte permanente di guerra.

E sono il pericoloso vettore di un conflitto bellico generalizzato a tutto il Vicino Oriente (non Medio Oriente, come in genere si dice adottando, senza neanche accorgersene, l’ottica geografica anglosassone): un conflitto che vedrebbe entrare direttamente in azione il vero gigante di questa regione asiatica, che è l’Iran, avversario tanto irriducibile quanto temibile dell’Occidente e del suo ascaro israeliano.

Tornando al tema iniziale e tirando le fila del discorso che qui si è cercato di svolgere, va detto che se si vuole comprendere come mai, con la creazione dello Stato d’Israele, la “questione ebraica” sia diventata insolubile, occorre ancora una volta richiamare quanto scrive Karl Marx, un ebreo antisionista ‘ante litteram’ per l’appunto, ne “Questione ebraica”:

«La capacità ad emanciparsi dell’ebreo d’oggi è il rapporto del giudaismo verso l’emancipazione del mondo di oggi...

Qual è il fondamento mondano del giudaismo? Il bisogno pratico, l’egoismo. Qual è il culto mondano dell’ebreo? Il traffico. Qual è il suo Dio mondano? Il denaro.

Perciò l’emancipazione dal traffico e dal denaro, dunque dal giudaismo pratico, reale, sarebbe l’autoemancipazione del nostro tempo», la quale, va da sé, è certamente anche emancipazione umana dello stesso ebreo dal suo giudaismo.

La conclusione di Marx è tratta con rigore geometrico, e valendo nei confronti di qualsiasi altro Stato borghese, capitalistico e imperialista, vale ‘a fortiori’ anche nei confronti dello Stato d’Israele: «Se l’ebreo riconosce come non valida questa sua essenza pratica e lavora per la sua eliminazione, egli si svincola dal suo passato verso l’emancipazione umana senz’altro, e si volge contro la più alta espressione pratica dell’autoestraneazione umana».

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Dirigente di Hamas accusa il governo italiano. Tre ostaggi compaiono in video. A Gaza si combatte

Intervistato nel programma televisivo Agorà della Rai, il dirigente di Hamas Basem Naim, ha affermato che la posizione dell’Italia su Gaza “È un errore gravissimo che trasforma l’Italia in una delle parti dell’aggressione contro il nostro popolo”. Secondo Basem Naim. “Israele oggi non agisce da solo. Israele agisce per conto di Stati Uniti, Francia, Germania, Regno Unito e purtroppo anche dell’Italia, che ha inviato alcune truppe nel Mediterraneo”. “Come possiamo affrontare tutto questo? – si è poi chiesto Naim – Possiamo soltanto dire che la comunità internazionale ha oggi la stessa responsabilità degli israeliani per tutte le stragi commesse ogni giorno contro il nostro popolo”.

Ieri la resistenza palestinese ha diffuso un video di tre donne prese in ostaggio nell’attacco del 7 ottobre. Nelle immagini, diffuse sui social e che hanno fatto il giro del mondo ma non sono state trasmesse dalle televisioni israeliane, le donne chiedono di essere liberate e accusano duramente il primo ministro israeliano Netanyahu: “Ti sei impegnato a liberarci e invece veniamo puniti per la vostra negligenza politica e nazionale”.

Lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno di Israele, in serata hanno annunciato la liberazione di una soldatessa israeliana presa in ostaggio nell’attacco del 7 ottobre.

Gaza sempre sotto le bombe. I morti sono saliti a 8.306

Continuano i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza, dove sono state particolarmente colpite Khan Yunis, nel sud, e Al Bureij, nella regione centrale. Secondo l’ultimo bilancio diffuso dal ministero della Salute di Gaza, nei bombardamenti israeliani almeno 8.306 persone sono state uccise, di cui 3.457 minori e 2.136 donne, e oltre 6.300 sono rimaste ferite.

L’ospedale per pazienti oncologici di Gaza, detto ospedale dell’amicizia turco-palestinese, è stato danneggiato ieri da un bombardamento israeliano. Lo ha reso noto il ministero della Salute della Striscia di Gaza, in un comunicato stampa diffuso ieri dal direttore dell’ospedale, Sobhi Skaik. Nel testo si legge che l’ospedale, colpito per la seconda volta dalle Idf, ha subito “gravi danni”, che hanno “messo in pericolo la vita dei pazienti e del personale”.

Notizie dai fronti

Combattimenti in corso tra palestinesi e forze armate israeliane a Zaitoun e Beit Hanoun. Le Brigate di Ezzedine al-Qassam, il braccio militare di Hamas, hanno reso noto di aver lanciato missili anticarro contro le forze israeliane mentre le truppe stavano “invadendo l’asse meridionale di Gaza”; e poi hanno preso di mira con missili anche due carri armati e bulldozer israeliani nel nord-ovest dell’enclave. Rivendicato anche il bombardamento delle forze di fanteria israeliane vicino a Kerem Shalom, nel sud della Striscia di Gaza.

Sul fronte nord le armate israeliane hanno annunciato di aver colpito una serie di postazioni di Hezbollah nel sud del Libano, in risposta agli attacchi a base di mortaio e il lancio di missili verso il nord di Israele. Gli israeliani hanno preso di mira le località di Naqoura, Alma Al Shaab, Rmeish, Al Dhahira, Shihin, Tater e le vallate adiacenti a Zabqin e ai monti Al Batam, nel settore occidentale del territorio libanese adiacente alla Linea blu.

In Israele, nella città di Eilat, nel Sud del Paese, è stato attivato l’allarme a causa della “intrusione di un velivolo ostile”, un sospetto drone. Lo ha reso noto l’esercito israeliano. Eilat è la città più meridionale di Israele, una località di villeggiatura sulle rive del Mar Rosso.

Le milizie della Resistenza islamica in Iraq, hanno rivendicato un nuovo attacco contro la base militare statunitense di Ain al Asad, nel governatorato di Anbar, nell’ovest dell’Iraq. Lo ha riferito una “fonte della sicurezza” all’agenzia di stampa irachena Shafaq, precisando che l’attacco è stato condotto con quattro missili, lanciati dalla regione del Wadi Tharthar,

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USA - Storica vittoria dei lavoratori del'industria automobilistica

Lunedì 30 ottobre la General Motors e la United Auto Workers International hanno raggiunto una ipotesi d’accordo.

È il terzo accordo provvisorio, che completa il quadro della lotta per il rinnovo contrattuale con le Big 3 – Ford, Stellantis e GM, nell’ordine temporale – iniziato con lo Stand Up Strike del 15 settembre.

Questa, come le altre bozze, dovranno essere discusse dalle varie sezioni locali del sindacato prima di essere sottoposte a votazione, ma è chiaro che i guadagni ottenuti – in termini salariali e di garanzie complessive – con uno sciopero durato più di un mese e mezzo sono da considerare “storici”, e tendenzialmente in linea con le richieste dei lavoratori.

Scrive Labor Notes a caldo, dopo l’annuncio di una bozza d’accordo alla Ford: «Con poche eccezioni, la storia della UAW dal 1979, e specialmente dal 2007, è stata quella di regalare concessione su concessione, anche quando i tempi erano relativamente buoni. Quest’anno, sotto una nuova leadership, il sindacato ha cominciato finalmente a recuperare il terreno perduto».

È un punto di svolta dopo anni di stipendi stagnanti e di concessioni alla controparte, che avevano caratterizzato la condizione dei lavoratori dell’automotive dalla crisi finanziaria del 2008 fino ad oggi, costretti – dalla vecchia dirigenza sindacale – a fare “sacrifici per non far fallire il settore”, mentre il management vedeva salire i propri stipendi e gli azionisti aumentare i propri dividendi.

Nel picco dell’azione, circa un terzo dei 146 mila lavoratori aderenti all’UAW era entrata in sciopero, tra cui i tre maggiori stabilimenti delle tre case automobilistiche.

Un fatto inedito che ha scritto una nuova pagina del sindacalismo militante statunitense grazie alla nuova dirigenza della UAW, al cui vertice vi è ora Shawn Fain, ex elettricista di Kokomo nell’Indiana, eletto di misura a marzo grazie all’appoggio della corrente “riformista” del sindacato, dopo gli scandali giudiziari della precedente leadership corrotta e concertativa.

Una fase nuova che ha aperto un nuovo ciclo di lotta con una strategia precisa.

Dopo la bozza d’accordo trovata con Ford e Stellantis, nella serata di sabato, la UAW aveva deciso di far incrociare le braccia ai circa 4.000 lavoratori dello stabilimento GM di Spring Hill, Tennessee, che fabbricano parti poi assemblate in 9 stabilimenti del Nord America, 7 dei quali non erano ancora in sciopero.

In questo modo, gli operai della Local 1853 si erano uniti agli altri 14mila della GM in sciopero, in un rush finale, mentre i lavoratori delle altre aziende erano rientrati al lavoro.

Era il 44esimo giorno di sciopero, lo stesso numero di giorni della storica azione del sit-down strike alla GM di Flint, quando il sindacato venne finalmente riconosciuto dalla controparte padronale, nel 1937; il precedente cui lo Stand Up strike si ispira.

Si tratta del più grande stabilimento della GM negli Stati Uniti, dove vengono prodotte la Cadillac XT5, XT6, oltre alla all-electric Lyriq e la GMC Acadia.

Le trattative si erano arenate sabato su alcuni punti dirimenti concernenti i benefit pensionistici, il periodo di conversione dei lavoratori da tempo parziale a tempo pieno, e il trattamento dei lavoratori degli stabilimenti di batterie, uno dei settori di sviluppo della transizione all’elettrico di GM che ne aprirà ben 4 nei prossimi anni.

Un duro colpo per l’azienda che ha deciso di accelerare per finalizzare le trattative per non perdere ulteriori guadagni: 200 milioni di dollari solo l’ultima settimana, riporta l’agenzia stampa Associated Press e 800 milioni prima della sua estensione alla Arlington Assembly Plant secondo quanto riferisce l’azienda.

GM era stata graziata in un primo momento ad inizio d’ottobre, quando grazie a storiche concessioni fornite dall’azienda, Shawn Fain aveva “sospeso” l’annuncio dello sciopero minacciato, presentandosi in diretta FB con una maglietta recitante Eat the Rich.

Le tre case automobilistiche si sono sentite “toccate nel portafoglio” da un’iniziativa sindacale inedita con scioperi a gatto selvaggio, prima “in crescendo” – annunciati il venerdì durante le seguitissime dirette FB – e poi improvvisi, senza una cadenza temporale precisa, “risparmiando” l’azienda che faceva più progressi al tavolo delle trattative e quindi senza dissanguare le casse del sindacato (negli Usa è il sindacato a pagare lo stipendio durante lo sciopero).

Il significato della vittoria dei lavoratori della UAW si estende molto al di là della categoria: ne sono coscienti i dirigenti sindacali e gli stessi analisti.

«È molto di più di una faccenda che riguarda l’industria dell’auto; è un segnale a tutto il paese che i lavoratori sindacalizzati possono chiedere ed ottenere grandi aumenti salariali», afferma Patrick Anderson dall’Anderson Economic Group, intervistato dalla Reuters.

Una vittoria storica dopo quella dei lavoratori dei Teamsters della UPS e degli sceneggiatori di Hollywood, dentro quel processo di sindacalizzazione piuttosto esteso che va dalla logistica (Amazon), alla ristorazione (Starbucks), dal settore della formazione (scuole e università) alla sanità.

Da ciò che trapela da fonti interne (mentre scriviamo), i lavoratori più anziani alla GM otterranno aumenti del 33%, gli incrementi salariali in media saranno del 25%, in linea con quanto ottenuto dalle altre Big del settore.

La Ford, secondo quanto riferisce Fain, ha messo sul tavolo il 50% di denaro in più rispetto a quanto fatto il 15 settembre.

Gli incrementi medi del 25%, più il recupero dell’inflazione, saranno alla fine di oltre il 30%, portando il salario a 40 dollari l’ora nei maggiori stabilimenti della Ford.

Il vice-presidente della UAW, Chuck Browning, commentando l’accordo con Ford, ha detto chiaramente che «grazie alla forza dei nostri iscritti ai picchetti e alla minaccia di estensione ulteriore dello sciopero, abbiamo ottenuto il contratto più redditizio per i nostri aderenti dai tempi in cui Walter Reuthner era presidente» (colui che guidò la Uaw dal 1946 al 1970).

La bozza d’accordo prevede il ripristino del meccanismo di adeguamento salariale al costo della vita (COLA), la fine della differenziazione dei lavoratori attraverso il sistema dei tiers, l’assunzione in pianta stabile dei lavoratori a tempo determinato, l’incremento sostanzioso delle pensioni.

«Non lasciare che dicano che non si può fare. La classe operaia sta andando all’offensiva e sta per vincere», ha scritto su X (ex-Twitter).

E proprio la Ford aveva visto fermare improvvisamente per prima il suo maggiore stabilimento.

Certamente l’accordo non comprende la totalità delle richieste formulate dal sindacato: rimane fuori la proposta delle 32 ore a parità di salario ed il ripristino del vecchio sistema pensionistico, mentre le richieste d’aumento erano pari al 40%.

Non è detto, perciò, che per quanto vantaggiosa possa sembrare l’ipotesi d’accordo, questa non venga bocciata, come già fatto alla Mack Truck all’inizio del mese, quando Fain aveva ribadito che sono comunque i lavoratori ad avere l’ultima parola.

Alla Stellantis, secondo la bozza d’accordo, la media degli aumenti salariali è del 25% – e bisogna ricordare che dal 2001 al 2022 gli stipendi erano già aumentati del 23% – con i lavoratori che totalizzeranno aumenti record (anche del 168%), con il ripristino del COLA (“scala mobile”) e la fine del sistema del Wage Tiers.

La casa automobilistica ha alla fine messo sul tavolo più del doppio di quanto proposto all’inizio della vertenza.

Fain aveva letteralmente buttato nel cestino, in un video diventato virale, la prima serie di proposte di Stellantis.

Se le ipotesi d’accordo venissero ratificate dalla base, il contratto scadrebbe il 30 aprile del 2028, dando all’UAW la possibilità di scioperare il Primo Maggio, come hanno ricordato i due dirigenti sindacali. Una data scelta non a caso.

«Quando torneremo al tavolo delle trattative, nel 2028, non sarà solo con le Big 3, ma con le Big 5 o le Big 6», cioè con le maggiori case automobilistiche che hanno stabilimenti nel paese – come Tesla o Toyota – dove il sindacato non è ancora riuscito ad entrare e su cui la UAW concentrerà i suoi sforzi organizzativi a partire da oggi.

Come hanno detto Fain e Browning: «Questo contratto è più di un contratto. È un appello all’azione per i lavoratori ovunque, per organizzarsi e lottare per una vita migliore».

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Ucraini stanchi della guerra

In varie città dell’Ucraina, decine di manifestanti si sono uniti per chiedere una pausa per i soldati che sono stati impegnati sul fronte per 18 mesi o più. Questa richiesta mira a una rotazione delle truppe, come previsto dalla legge prima dell’inizio della guerra.

Questi soldati, mandati al fronte a partire da febbraio 2022, raramente hanno avuto l’opportunità di allontanarsi dal campo di battaglia. La petizione in corso ha già raccolto oltre 25.000 firme, sottolineando l’importanza di garantire ai militari un periodo di riposo sia dal punto di vista fisico che psicologico.

In particolare nel centro di Kiev le famiglie dei militari ucraini si sono riunite per chiedere che i loro cari facciano ritorno a casa dopo 18 mesi di servizio militare. In questa situazione, la guerra con la Russia si avvicina al suo secondo anno.

Mogli, madri, figli e parenti hanno gridato “smobilitare i soldati” e hanno chiesto al governo di approvare una legge che dia ai militari la possibilità di decidere se lasciare il servizio dopo un anno e mezzo.

È importante notare che l’Ucraina ha ordinato una mobilitazione generale della popolazione maschile tra i 25 e i 60 anni, con la stragrande maggioranza dei cittadini che si è arruolata nell’esercito come volontari all’inizio dell’operazione militare russa nel febbraio 2022.

Queste richieste da parte delle famiglie dei soldati mettono in evidenza una situazione di forte stress dei soldati ucraini al fronte, che sono costretti a combattere in condizione di inferiorità numerica e per di più impegnati in una controffensiva che ormai appare aver perso slancio e speranza di successo.

Per saperne di più:

Stanchezza fra i soldati ucraini, si raccolgono firme per una pausa

I parenti dei soldati ucraini: “Smobilitateli”

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Askatasuna, sei misure cautelari

Un anno fa, alla vigilia dell’inizio processo per associazione a delinquere, una grande festa di strada si strinse attorno al centro sociale Askatasuna di corso Regina Margherita 47. Una voce scomoda e una presenza attiva in oltre 25 anni di lotte sociali sul territorio, da Torino alla Val Susa.

In questi mesi il dibattimento è proseguito e ieri, all’alba, gli agenti della Digos hanno notificato sei misure cautelari (obblighi di firma) ad altrettanti militanti del centro sociale. I provvedimenti arrivano dopo la pronuncia della Cassazione sul reato associativo a seguito di una serie di ricorsi.

Per la Cassazione, Askatasuna, avrebbe creato, soprattutto in Val di Susa, un vero e proprio «laboratorio di sperimentazione» per quanto riguarda le violenze, confermando così la sussistenza di «un’organizzazione stabile che ha dimostrato di essere operativa in più settori sociali».

Nel dossier dell’inchiesta coordinata dalla pm Manuela Pedrotta si evidenzierebbe il ruolo di regia che il centro sociale avrebbe e, per motivarlo, si fa cenno ai tentativi di egemonizzazione del movimento No Tav, degli ambientalisti di Fridays for Future e di altre mobilitazioni sociali.

Askatasuna rigetta l’accusa definendola «un castello di carta» e sui social scrive: «Una ricostruzione folle che ha il solo obiettivo di cancellare queste esperienze sociali e di lotta, facendo tabula rasa dell’esistente ponendo già le basi per renderle irriproducibili nel futuro».

Sempre ieri, in concomitanza con la notizia dell’applicazione delle misure cautelari, sono ripresi gli attacchi politici nei confronti del centro sociale torinese.

Il presidente del consiglio regionale, il leghista Stefano Allasia, ne chiede lo sgombero «senza tentennamenti» annunciando di stare preparando un ordine del giorno sul tema. La senatrice di Fratelli d’Italia Paola D’Ambrogio definisce Askatasuna «un vero e proprio laboratorio di criminalità».

Il centro sociale al proposito sottolinea: «Le pressioni politiche che vanno nella direzione dello sgombero, si inseriscono nella dinamica processuale, che non è ancora conclusa e non vi è ancora alcuna sentenza. Parlano dell’esito della Cassazione come se si trattasse della sentenza finale in primo grado. Non è così, il processo non è ancora finito e staremo a vedere come proseguirà».

È intervenuta anche la consigliera regionale di Unione Popolare, Francesca Frediani: «Le misure cautelari aggiungono – ha dichiarato – un’ulteriore pagina di repressione in questa lunga storia che la magistratura torinese sta scrivendo, la direzione è sempre la stessa: demonizzare il centro sociale e i suoi attivisti e contemporaneamente criminalizzare la lotta No Tav».

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I civili israeliani uccisi il 7 ottobre. Le responsabilità non sono solo palestinesi

Su diversi media israeliani – e di diverso orientamento – cominciano a spuntare domande pesanti sulle cause delle molte morti di civili israeliani il 7 ottobre, e non solo per mano dei palestinesi.

Già nelle scorse settimane avevamo riportato la testimonianza di una donna israeliana sopravvissuta il 7 ottobre, che in due interviste alle radiotelevisioni statali aveva esplicitamente parlato di “fuoco incrociato” da parte dei militari israeliani.

Sui giornali israeliani Yedioth Aronoth e Mako stanno emergendo testimonianze di piloti di elicotteri e soldati che ammettono di aver sostanzialmente “sparato nel mucchio” senza distinguere se quelli a cui sparavano erano guerriglieri palestinesi o civili israeliani.

Del resto anche le immagini delle distruzioni di molte case, nei kibbutz attaccati il 7 ottobre, davano più l’idea di essere stati bombardati che bruciati dai palestinesi.

Una seria inchiesta sulle stragi del 7 ottobre potrebbe svelare che l’alto numero di civili israeliani uccisi non lo sono stati solo per responsabilità dei palestinesi, ma anche per gli ordini dati ai piloti degli elicotteri e ai militari israeliani arrivati sul posto per respingere l’incursione dei palestinesi.

Sul comportamento adottato dalle forze armate israeliane il 7 ottobre occorre sapere qualcosa di più e di cui avevamo già accennato nelle scorse settimane.

Le Forze Armate israeliane hanno adottato un protocollo molto controverso noto come la Direttiva Hannibal.

Le opinioni divergono su come questo protocollo, che è rimasto un segreto militare fino al 2003, sia diventato noto come Hannibal. Ci sono indicazioni che il nome derivi dal generale cartaginese, che scelse di avvelenarsi piuttosto che cadere prigioniero dei Romani, ma i funzionari militari israeliani insistono sul fatto che un computer ha generato il nome casualmente. Qualunque sia la sua provenienza, il soprannome sembra appropriato.

Elaborata da tre alti comandanti delle Forze armate israeliane nel 1986, in seguito alla cattura di due soldati israeliani da parte di Hezbollah, la Direttiva Hannibal stabiliva le misure che l’esercito doveva adottare in caso di rapimento di un soldato.

Il suo obiettivo dichiarato è quello di impedire che le truppe israeliane cadano in mani nemiche, “anche a costo di ferire o uccidere i nostri soldati“.

Mentre le normali procedure dell’IDF vietano ai soldati di sparare in direzione generale dei loro commilitoni, incluso l’attacco a un veicolo in fuga, tali procedure, secondo la Direttiva Hannibal, devono essere derogate in caso di rapimento: “Tutto deve essere fatto per fermare il veicolo e impedirgli di fuggire“.

Sebbene l’ordine specifichi che in questi casi dovrebbe essere utilizzato solo il fuoco selettivo con armi leggere, il messaggio che c’è dietro è clamoroso. Quando un soldato viene rapito, non solo tutti gli obiettivi sono legittimi – compresi, come abbiamo visto durante il fine settimana, le ambulanze – ma è permesso, e anche implicitamente consigliabile, che i soldati sparino da soli.

Per più di un decennio, i censori militari hanno impedito ai giornalisti di riferire sul protocollo, apparentemente perché temevano che avrebbe demoralizzato l’opinione pubblica israeliana.

Nel 2003, un medico israeliano che aveva sentito parlare della direttiva mentre prestava servizio come riservista, in Libano, ha iniziato a sostenerne l'annullamento, portando alla sua declassificazione.

Quell’anno, un’inchiesta di Haaretz sulla direttiva concluse che “dal punto di vista dell’esercito, un soldato morto è meglio di un soldato prigioniero che soffre e costringe lo Stato a rilasciare migliaia di prigionieri per ottenere la sua liberazione“.

Per anni, i soldati israeliani sul campo di battaglia hanno discusso animatamente della direttiva e del suo utilizzo. Almeno un comandante di battaglione, secondo l’inchiesta di Haaretz, si è rifiutato di informare i suoi soldati in merito, sostenendo che era “palesemente illegale“.

E un rabbino, interrogato da un soldato sull’aspetto religioso dell’ordine, gli consigliò di disobbedire.

Il maggiore generale Yossi Peled, uno dei comandanti che ha redatto la direttiva, ha detto ad Haaretz che il suo scopo era quello di affermare fino a che punto i militari potevano spingersi per prevenire i rapimenti.

“Non sgancerei una bomba da una tonnellata sul veicolo, ma lo colpirei con un proiettile di carro armato che potrebbe fare un grande buco nel veicolo, il che renderebbe possibile a chiunque non sia stato colpito direttamente, se il veicolo non esplodesse, di emergere tutto intero“, ha detto Peled. È comprensibile che i soldati si grattino la testa per formulazioni come queste.

Sin dall’inizio della direttiva, l’IDF è noto per averla utilizzata solo una manciata di volte, incluso il caso di Gilad Shalit. L’ordine è arrivato troppo tardi per Shalit e non ha impedito il suo rapimento – o il suo eventuale rilascio, nel 2011, in cambio di milleventisette prigionieri palestinesi.

Quell’anno, nell’ambito dell’inchiesta militare sulle circostanze che portarono alla cattura di Shalit, il capo di stato maggiore dell’IDF, Benny Gantz, modificò la direttiva. Ora consente ai comandanti sul campo di agire senza attendere la conferma dei loro superiori.

Allo stesso tempo, il linguaggio della direttiva è stato temperato per chiarire che non richiede l’uccisione volontaria dei soldati catturati.

Nel cambiare la formulazione del protocollo, Gantz ha introdotto un principio etico noto come “dottrina del doppio effetto“, che afferma che un cattivo risultato (l’uccisione di un soldato prigioniero) è moralmente ammissibile solo come effetto collaterale della promozione di una buona azione (fermare i suoi carcerieri).

Il giornale statunitense New Yorker riporta che Daniel Nisman, che gestisce una società di consulenza per la sicurezza geopolitica, ha commentato sul Times che la direttiva Hannibal “suona terribile, ma bisogna considerarla nel quadro dell’accordo Shalit. Sono stati cinque anni di tormento per questo paese, dove ogni telegiornale finiva con quanti giorni Shalit era stato prigioniero. È come una ferita che non guarisce mai“.

Il 7 ottobre i militari israeliani potrebbero aver ritenuto che la priorità fosse l’uccisione di più combattenti palestinesi possibili e che evitare o limitare le eventuali vittime civili israeliane non fosse una priorità.

E forse, proprio sulla base della Direttiva Hannibal, erano preferibili dei morti piuttosto che degli ostaggi in mano ai palestinesi, soprattutto perché una buona parte degli ostaggi sono militari e agenti di polizia.

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30/10/2023

Dersu Uzala (1975) di A. Kurosawa - Minirece

I palestinesi vorrebbero Marwan Barghouti come proprio leader

La rivista statunitense Foreign Affairs ha reso disponibili i risultati dell’ultimo sondaggio Arab Barometer tra i palestinesi di Gaza e Cisgiordania conclusosi appena prima del 7 ottobre che ha cambiato radicalmente il quadro della situazione.

I risultati dell’indagine, per quanto condotta con criteri molto influenzati dalla visione occidentale (lo “zampino” della NED statunitense non è un dettaglio, ndr), rivelano risultati molto interessanti su come la vedono i palestinesi sul piano delle prospettive politiche.

Ma rivelano anche una situazione sociale drammaticamente precipitata sia a Gaza che in Cisgiordania, a conferma che la macchina coloniale israeliana continua a stritolare una intera popolazione non solo sul piano militare.

Viene confermato che i palestinesi vorrebbero come loro leader Marwan Barghouti, nelle carceri israeliane ormai dal 2002 e che la soluzione dei due popoli per due stati era ancora maggioritaria. Difficile dire se oggi può essere ancora tale.

Qui di seguito il resoconto del sondaggio Arab Barometer pubblicato su Foreign Affairs

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Cosa pensano veramente di Hamas i palestinesi

Da quando gli attacchi di Hamas del 7 ottobre hanno causato la morte di oltre 1.400 israeliani in un solo giorno, la risposta di Israele ha richiesto un pesante tributo alla popolazione di Gaza.

Secondo il Ministero della Sanità palestinese, finora più di 7.000 abitanti di Gaza sono stati uccisi e più di 17.000 feriti nei bombardamenti aerei israeliani.

Le perdite potrebbero salire rapidamente molto più in alto se Israele andrà avanti con la sua prevista invasione di terra. Il presidente israeliano Isaac Herzog, il primo ministro Benjamin Netanyahu, il membro della Knesset Ariel Kallner e altri funzionari di spicco hanno chiesto una campagna militare che copra l’intero territorio di Gaza.

I missili israeliani hanno già distrutto il 50% di tutti gli edifici di Gaza, comprese le aree in cui i palestinesi hanno cercato rifugio dopo aver ascoltato gli appelli israeliani di evacuare le loro case.

Alcuni degli alti funzionari israeliani, invocando il successo di Hamas nelle elezioni parlamentari palestinesi del 2006, hanno in effetti dichiarato che tutti gli abitanti di Gaza fanno parte dell’infrastruttura terroristica di Hamas e sono complici delle atrocità del gruppo, e sono quindi obiettivi legittimi della rappresaglia israeliana.

L’argomentazione secondo cui l’intera popolazione di Gaza può essere ritenuta responsabile delle azioni di Hamas viene rapidamente però screditata quando si guardano i fatti.

Arab Barometer, una rete di ricerca di cui siamo co-investigatori principali, ha condotto un’indagine a Gaza e in Cisgiordania pochi giorni prima dello scoppio della guerra tra Israele e Hamas.

I risultati, pubblicati qui per la prima volta, rivelano che invece di sostenere Hamas, la stragrande maggioranza degli abitanti di Gaza è stata frustrata dall’inefficace governo del gruppo armato, che sta sopportando estreme difficoltà economiche.

Anche la maggior parte degli abitanti di Gaza non si allinea con l’ideologia di Hamas. A differenza di Hamas, il cui obiettivo è distruggere lo Stato israeliano, la maggior parte degli intervistati è a favore di una soluzione a due Stati con una Palestina indipendente e Israele che coesistono fianco a fianco.

Le continue violenze non avvicineranno il futuro che la maggior parte degli abitanti di Gaza spera. Invece di eliminare la simpatia per il terrorismo, le passate repressioni israeliane che rendono la vita più difficile ai comuni abitanti di Gaza hanno aumentato il sostegno ad Hamas.

Se l’attuale campagna militare a Gaza avrà un effetto simile sull’opinione pubblica palestinese, farà un ulteriore passo indietro alla causa della pace a lungo termine.

Frustrazione crescente

L’indagine di Arab Barometer sulla Cisgiordania e Gaza, condotta in collaborazione con il Palestinian Center for Policy and Survey Research e con il supporto del National Endowment for Democracy, fornisce un’istantanea delle opinioni dei cittadini comuni alla vigilia dell’ultimo conflitto.

Il progetto sull’opinione pubblica più longevo e completo della regione, Arab Barometer ha condotto otto ondate di sondaggi che coprono 16 paesi del Medio Oriente e del Nord Africa dal 2006.

Tutti i sondaggi sono progettati per essere rappresentativi a livello nazionale, la maggior parte di essi (compresa l’ultima indagine in Cisgiordania e Gaza) sono condotti in interviste faccia a faccia nei luoghi di residenza degli intervistati e i dati raccolti sono resi pubblici.

In ogni paese, le domande del sondaggio mirano a misurare gli atteggiamenti e i valori degli intervistati su una varietà di questioni economiche, politiche e internazionali.

Le nostre interviste più recenti sono state condotte tra il 28 settembre e l’8 ottobre, intervistando 790 intervistati in Cisgiordania e 399 a Gaza. (le interviste a Gaza sono state completate il 6 ottobre, quindi prima degli eventi del 7 ottobre).

I risultati dell’indagine rivelano che gli abitanti di Gaza hanno pochissima fiducia nel loro governo guidato da Hamas. Alla richiesta di identificare il livello di fiducia che avevano nelle autorità di Hamas, una pluralità di intervistati (44%) ha dichiarato di non avere alcuna fiducia. “Non c’è molta fiducia” è stata la seconda risposta più comune, con il 23%. Solo il 29 per cento degli abitanti di Gaza ha espresso “molta” fiducia nel proprio governo.

Inoltre, il 72 per cento ha affermato che c’era una grande (34 per cento) o media (38 per cento) quantità di corruzione nelle istituzioni governative, e una minoranza pensava che il governo stesse adottando misure significative per affrontare il problema.

Marwan Barghouti è ancora il leader preferito dai palestinesi

Alla domanda su come voterebbero se le elezioni presidenziali si tenessero a Gaza e la scheda elettorale presentasse Ismail Haniyeh, il leader di Hamas, Mahmoud Abbas, il presidente dell’Autorità palestinese, e Marwan Barghouti, il dirigente del comitato centrale di Fatah, il partito guidato da Abbas, imprigionato dal 2002 da Israele.

Solo il 24% degli intervistati ha detto che avrebbe votato per Haniyeh. Barghouti ha ricevuto la quota maggiore di sostegno con il 32 per cento e Abbas ha ricevuto il 12 per cento. Il 52% degli intervistati ha dichiarato che non parteciperà.

Le opinioni degli abitanti di Gaza sull’Autorità Palestinese, che governa la Cisgiordania, non sono molto migliori. Una leggera maggioranza (52 per cento) crede che l’Autorità Palestinese sia un peso per il popolo palestinese e il 67 per cento vorrebbe vedere Abbas dimettersi. La popolazione di Gaza è disillusa non solo da Hamas, ma dall’intera leadership palestinese.

A Gaza aumento spaventoso della povertà

L’importanza dei problemi economici di Gaza è emersa chiaramente anche nei risultati del sondaggio.

Secondo la Banca Mondiale, il tasso di povertà a Gaza è passato dal 39% nel 2011 al 59% nel 2021. Molti abitanti di Gaza hanno lottato per assicurarsi i beni di prima necessità a causa sia della scarsità che dei costi.

Tra gli intervistati, il 78 per cento ha affermato che la disponibilità di cibo è un problema moderato o grave a Gaza, mentre il 75 per cento ha detto che non è affatto un problema.

Una percentuale simile (75%) ha riferito di avere difficoltà da moderate a gravi a permettersi il cibo anche quando era disponibile; Solo il 51% ha dichiarato che l’accessibilità economica del cibo non è un problema.

Le famiglie di Gaza hanno risentito acutamente dell’impatto della scarsità di cibo. Il 75% degli intervistati ha riferito di aver esaurito il cibo e di non avere i soldi per comprarne altro per i 30 giorni successivi. Rispetto al 2021 nel sondaggio Arab Barometer il 51%, ha affermato lo stesso.

Questo cambiamento in soli due anni è allarmante. Gli abitanti di Gaza sono stati costretti a modificare le loro abitudini per cercare di sbarcare il lunario, con il 75% che ha dichiarato di aver iniziato a comprare cibo meno preferito o meno costoso e il 69% che ha dichiarato di aver ridotto le dimensioni dei propri pasti.

La maggior parte degli abitanti di Gaza ha attribuito la mancanza di cibo a problemi interni piuttosto che a sanzioni esterne. Israele ed Egitto hanno imposto un blocco a Gaza dal 2005, limitando il flusso di persone e merci in entrata e in uscita dal territorio.

La forza del blocco è variata, ma è diventata notevolmente più severa dopo che Hamas ha preso il controllo di Gaza nel 2007. Ciononostante, una pluralità di intervistati (31 per cento) ha identificato la cattiva gestione del governo come la causa principale dell’insicurezza alimentare a Gaza e il 26 per cento ha identificato la cattiva gestione del governo a Gaza.

Scarsa fiducia nella politica

Nel complesso, le risposte al sondaggio indicano che gli abitanti di Gaza desiderano un cambiamento politico. In un calo di otto punti dal 2021, solo il 26% ha affermato che il governo è stato molto (23%) o in gran parte (40%) sensibile ai bisogni della popolazione.

Alla domanda su quale sia il modo più efficace per la gente comune di influenzare il governo, una pluralità ha risposto che “niente è efficace“.

La seconda risposta più popolare è stata quella di utilizzare le connessioni personali per raggiungere un funzionario governativo. La maggior parte degli abitanti di Gaza non vedeva alcuna strada per esprimere pubblicamente le proprie rimostranze nei confronti del governo guidato da Hamas.

Solo il 40 per cento ha affermato che la libertà di espressione è garantita in misura maggiore o moderata, e il 68 per cento ritiene che il diritto di partecipare a una protesta pacifica non sia protetto o sia protetto solo in misura limitata sotto il governo di Hamas.

Circa la metà degli abitanti di Gaza ha espresso sostegno per la democrazia: il 48% ha affermato che “la democrazia è sempre preferibile a qualsiasi altro tipo di governo“. Una percentuale minore di intervistati (23%) ha indicato una mancanza di fiducia in qualsiasi tipo di regime, concordando con l’affermazione: “Per le persone come me, non importa che tipo di governo abbiamo“.

Solo il 26 per cento concorda sul fatto che “in alcune circostanze, un governo non democratico può essere preferibile“. (Quest’ultimo risultato è simile ai risultati dei sondaggi negli Stati Uniti, dove in in un sondaggio del 2022, un adulto su cinque di età pari o inferiore a 41 anni era d’accordo con l’affermazione: “La dittatura potrebbe essere buona in determinate circostanze“).

Data la bassa opinione che la maggior parte degli abitanti di Gaza ha del proprio governo, non sorprende che la loro disapprovazione si estenda ad Hamas come partito politico. Solo il 27 per cento degli intervistati ha scelto Hamas come partito preferito, un po’ meno della percentuale che ha favorito Fatah (30 per cento), il partito guidato da Abbas e che governa la Cisgiordania.

Anche la popolarità di Hamas a Gaza è diminuita, passando dal 34% di sostegno del sondaggio del 2021 al 27%.

C’è anche una notevole variazione demografica nelle risposte recenti. Il 33% degli adulti sotto i 30 anni ha espresso sostegno per Hamas, rispetto al 23% di quelli dai 30 anni in su. E gli abitanti di Gaza più poveri erano meno propensi delle loro controparti più ricche a sostenere Hamas.

Tra coloro che non riescono a coprire le spese di base, solo il 25 per cento è favorevole al partito al potere. Tra coloro che possono, la cifra è salita al 33 per cento. Il fatto che le persone più colpite dalle terribili condizioni economiche e coloro che ricordano la vita prima del governo di Hamas fossero più propensi a rifiutare il partito sottolinea i limiti del sostegno degli abitanti di Gaza al movimento di Hamas.

La soluzione dei due popoli due stati è ancora quella più favorita

Lo stile di leadership non è l’unica cosa che i gazawi trovano discutibile di Hamas. In generale, i gazawi non condividono l’obiettivo di Hamas di eliminare lo Stato di Israele.

Quando sono state presentate tre possibili soluzioni al conflitto israelo-palestinese (oltre all’opzione “altro”), la maggioranza degli intervistati (54%) ha preferito la soluzione dei due Stati delineata negli accordi di Oslo del 1993.

In questo scenario, lo Stato di Palestina si affiancherebbe allo Stato di Israele, con confini basati sui confini de facto che esistevano prima della Guerra dei Sei Giorni del 1967. Il livello di sostegno a questa risoluzione non è cambiato molto dal 2021; in quel sondaggio, il 58% degli intervistati a Gaza aveva scelto la soluzione dei due Stati.

Ma questo avveniva prima dell’inizio delle recenti ostilità, dato che la soluzione dei due Stati sembra ora poco plausibile.

Il sondaggio ha presentato altre due opzioni: una confederazione israelo-palestinese – in cui entrambi gli Stati sono indipendenti ma rimangono profondamente legati e permettono la libera circolazione dei cittadini – e un unico Stato per ebrei e arabi. Queste opzioni hanno raccolto rispettivamente il 10% e il 9% dei consensi.

Le opinioni dei gazawi sulla normalizzazione delle relazioni tra gli Stati arabi e Israele, invece, sono sempre state negative. Solo il 10% ha espresso approvazione per questa iniziativa nell’ultimo sondaggio, la stessa percentuale del 2021.

Molti gazawi probabilmente riconoscono che la solidarietà araba è fondamentale per garantire un accordo politico che includa uno Stato palestinese indipendente. Se i Paesi arabi dovessero appianare le loro divergenze con Israele senza fare della risoluzione del conflitto israelo-palestinese una precondizione per la normalizzazione, ogni residua speranza di una soluzione a due Stati svanirebbe.

Convergenze e divergenze con la politica Usa

Prima dell’attacco di Hamas a Israele, le opinioni dei gazawi in materia di politica estera suggerivano sia l’allineamento con alcune priorità politiche statunitensi sia la diffidenza nei confronti degli Stati Uniti.

Il 71% si è opposto all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Il 37% ha espresso il desiderio che Gaza sviluppi legami economici più forti con gli Stati Uniti, una percentuale superiore a quella che desidera approfondire le relazioni economiche con l’Iran o la Russia (32% in entrambi i casi).

Solo il 15% dei gazawi, tuttavia, ritiene che le politiche del presidente americano Joe Biden siano state buone o molto buone per il mondo arabo. Nelle ultime settimane, l’approvazione di Biden e degli Stati Uniti è certamente diminuita, data l’ampia percezione a Gaza, in Cisgiordania e nei Paesi arabi della regione che Washington sia venuta in aiuto di Israele a spese di Gaza.

Un’ultima constatazione – ora supportata da innumerevoli resoconti dei media sull’angoscia dei gazawi che, con l’intensificarsi della violenza, sono costretti a fuggire dalle loro case – è la forza del legame delle persone con la terra in cui vivono.

La stragrande maggioranza dei gazawi intervistati – il 69 per cento – ha dichiarato di non aver mai pensato di lasciare la propria terra.

Si tratta di una percentuale più alta rispetto ai residenti di Iraq, Giordania, Libano, Marocco, Sudan e Tunisia a cui è stata posta la stessa domanda. (Per tutti questi Paesi, i dati disponibili più recenti provengono dall’ondata di indagini del Barometro arabo del 2021-22).

I gazawi devono affrontare una serie di sfide, dal peggioramento della crisi economica a un governo poco reattivo e a un percorso apparentemente impossibile verso l’indipendenza dello Stato, ma sono fermi nel loro desiderio di rimanere a Gaza.

I risultati del sondaggio Arab Barometer dipingono un quadro desolante di Gaza nei giorni precedenti gli attacchi del 7 ottobre. Il governo di Hamas, incapace di affrontare le preoccupazioni vitali dei cittadini, aveva perso la fiducia dell’opinione pubblica.

Pochi abitanti di Gaza hanno sostenuto l’obiettivo di Hamas di distruggere lo stato di Israele, il che ha lasciato i leader di Gaza e la sua popolazione divisi sulla direzione futura del conflitto israelo-palestinese.

La stragrande maggioranza degli abitanti di Gaza era fortemente a favore di una soluzione pacifica e desiderava ardentemente leader in grado di fornire una tale soluzione e migliorare la qualità generale della vita degli abitanti di Gaza. Finora, tuttavia, le politiche del loro governo e del governo israeliano hanno impedito progressi su entrambi i fronti.

La situazione in Cisgiordania

Le condizioni di vita dei palestinesi sono migliori in Cisgiordania che a Gaza, ma la situazione economica e politica è ancora cupa.

Quasi la metà degli intervistati in Cisgiordania (47 per cento) ha riferito di aver sofferto la fame nell’ultimo mese, e solo il 19 per cento si è fidato del governo della Cisgiordania guidato da Fatah, una percentuale ancora più bassa di quella degli abitanti di Gaza che si fidavano del governo di Hamas.

Eppure i fallimenti della governance non hanno spinto i palestinesi della Cisgiordania a sostenere Hamas. Alla domanda su quale partito si sentano più vicini, solo il 17% degli intervistati in Cisgiordania ha dichiarato di sostenere Hamas.

L’ammontare del sostegno a Fatah è stato lo stesso di Gaza (30 per cento). Per quanto riguarda i singoli leader, tuttavia, le risposte dei residenti della Cisgiordania riflettono una diffusa disaffezione e una particolare insoddisfazione nei confronti di Abbas.

In un’ipotetica elezione presidenziale, Barghouti era la loro prima scelta, lo stesso dato emerso a Gaza, con il 35 per cento, mentre solo l’11 per cento ha scelto Haniyeh, il leader di Hamas, e il 6 per cento ha scelto Abbas, il leader in carica in Cisgiordania. Quasi la metà degli intervistati, il 47%, ha dichiarato che non parteciperà.

In termini di atteggiamenti nei confronti del processo di pace israelo-palestinese, il sostegno alla soluzione dei due Stati in Cisgiordania è stato leggermente inferiore a quello di Gaza (49 per cento contro 54 per cento), e l’opposizione alla normalizzazione arabo-israeliana è stata leggermente superiore.

Solo il 5% degli intervistati in Cisgiordania ha approvato il riavvicinamento regionale, rispetto al 10% degli abitanti di Gaza. Anche se le differenze erano piccole, questi atteggiamenti relativamente induriti in Cisgiordania erano probabilmente il risultato delle tensioni tra palestinesi e coloni e soldati israeliani negli ultimi mesi.

Il fatto che circa la metà dei palestinesi sostenga ancora la soluzione dei due Stati può offrire qualche speranza di pace a lungo termine, ma i risultati non ispirano molta fiducia nella stabilità a breve termine.

La profonda impopolarità della leadership palestinese, in particolare in Cisgiordania, mette in discussione la fattibilità di ristabilire il controllo dell’Autorità Palestinese su Gaza, che alcuni media indipendenti hanno suggerito come il prossimo passo nella ricostruzione dopo il completamento della campagna militare israeliana contro Gaza.

Con l’intensificarsi delle operazioni israeliane a Gaza, la guerra avrà un tributo insostenibile per i civili. Ma anche se Israele dovesse “radere al suolo Gaza”, come hanno chiesto alcuni falchi negli Stati Uniti, fallirebbe nella sua missione di spazzare via Hamas.

Le nostre ricerche hanno dimostrato che le repressioni israeliane a Gaza portano il più delle volte a un aumento del sostegno e della simpatia per Hamas tra i gazawi comuni.

Hamas ha ottenuto il 44,5% dei voti palestinesi alle elezioni parlamentari del 2006, ma il sostegno al gruppo è crollato dopo il conflitto militare tra Hamas e Fatah del giugno 2007, conclusosi con la conquista di Gaza da parte di Hamas.

In un sondaggio condotto dal Palestinian Center for Policy and Survey Research nel dicembre 2007, solo il 24% dei gazawi ha espresso atteggiamenti favorevoli nei confronti di Hamas.

Negli anni successivi, mentre Israele inaspriva il blocco di Gaza e i gazawi comuni ne sentivano gli effetti, l’approvazione di Hamas è aumentata, raggiungendo circa il 40% nel 2010. Nello stesso anno Israele ha parzialmente allentato il blocco e il sostegno di Hamas a Gaza si è stabilizzato prima di scendere al 35% nel 2014.

Nei periodi in cui Israele si accanisce su Gaza, l’ideologia integralista di Hamas sembra esercitare un maggiore fascino sui gazawi. Pertanto, anziché portare israeliani e palestinesi verso una soluzione pacifica, le politiche israeliane che infliggono dolore a Gaza in nome dell’eliminazione di Hamas rischiano di perpetuare il ciclo della violenza.

Per spezzare il ciclo, il governo israeliano deve ora esercitare moderazione. Il governo guidato da Hamas può non essere interessato alla pace, ma è empiricamente sbagliato che i leader politici israeliani accusino tutti gli abitanti di Gaza della stessa cosa.

In realtà, la maggior parte degli abitanti di Gaza è aperta a una soluzione permanente e pacifica del conflitto israelo-palestinese. Eppure le opinioni delle persone che vivono a Gaza sono ancora spesso travisate nel discorso pubblico, anche se sondaggi come Arab Barometer mostrano costantemente quanto queste narrazioni siano diverse dalla realtà.

Nell’immediato, i leader israeliani e soprattutto statunitensi devono garantire la sicurezza dei civili di Gaza, 1,4 milioni dei quali sono già stati sfollati.

Gli Stati Uniti dovrebbero collaborare con le Nazioni Unite per creare corridoi umanitari chiari e zone protette, e Washington dovrebbe contribuire all’appello delle Nazioni Unite per 300 milioni di dollari in aiuti per proteggere i civili palestinesi, un passo che decine di senatori statunitensi sosterranno.

Infine, Israele e gli Stati Uniti devono riconoscere che il popolo palestinese è un partner essenziale nella ricerca di una soluzione politica duratura, non un ostacolo sulla strada di questo nobile obiettivo. Se i due paesi cercheranno solo soluzioni militari, probabilmente spingeranno gli abitanti di Gaza nelle braccia di Hamas, garantendo nuove violenze negli anni a venire.

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Il genocidio in diretta

Occorre interrogarsi sulle conseguenze sul piano internazionale della situazione a Gaza. Il massacro in corso è senza precedenti. Come accennato dagli esperti delle Nazioni Unite c’è il rischio di un genocidio. Sembra applicabile alla fattispecie la Convenzione sul genocidio del 1948, il cui art. II definisce come segue la fattispecie di genocidio: “Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; (…).”.

L’intento di massacrare la popolazione di Gaza in quanto tale è del tutto esplicito. Si vedano al riguardo le dichiarazioni del presidente israeliano Herzog sulla complicità della stessa in quanto tale coll’attacco del 7 ottobre e sul fatto che quindi i civili a Gaza costituiscono un obiettivo militare legittimo, o le farneticanti dichiarazioni dell’ex ambasciatore israeliano a una televisione italiana secondo il quale occorre distruggere Gaza.

Per la prima volta nella storia dell’umanità stiamo assistendo a un genocidio in diretta. Le vittime civili palestinesi sono ad oggi oltre seimila e la prospettiva della cosiddetta invasione di terra appare immancabilmente destinata a moltiplicare tale cifra fino a dimensioni inimmaginabili.

Se esistesse una qualche forma di governo internazionale razionale (aggettivo espressamente ripudiato dall’ambasciatore appena citato), suo compito dovrebbe essere evidentemente quello di porre fine all’insensato massacro in corso e di punire in modo adeguato i crimini finora commessi, da chiunque essi siano stati commessi, e di richiamare fermamente tutte le parti in causa al rispetto del diritto internazionale umanitario.

Ma tale governo non esiste. Probabilmente non è mai esistito ma a maggior ragione non esiste nella fase attuale, che vede un’evidente spaccatura della comunità internazionale con da un lato gli Stati Uniti e i loro “alleati” (in realtà subordinati) europei e dall’altro il resto del mondo che, ripudiando qualsiasi crimine finora commesso, chiede una pace con giustizia per il popolo palestinese, unica garanzia per la pace mondiale.

Non si tratta di una guerra di religione. Essa viene contrabbandata come tale da Netanyahu, ma anche da governanti europei improvvidi come Macron, che chiamano a una sorta di crociata “della luce contro le tenebre”, linguaggio fondamentalista che costituisce l’humus ideologico adatto per una guerra senza quartiere suscettibile di estendersi ben oltre la regione medio-orientale.

L’approccio degli irresponsabili governanti occidentali dà anche modo di manifestarsi a un certo antisemitismo, di cui si fa portavoce per ora solo qualche idiota, ed è fortunatamente contrastato dalle posizioni assunte da importanti settori ebraici come gli Ebrei per la pace che hanno occupato il Congresso statunitense per protestare contro il massacro in atto.

Il ruolo di Hamas non può essere esorcizzato mediante un improprio parallelismo con l’ISIS. Infatti l’attacco del 7 ottobre, nel corso del quale sono stati commessi con ogni evidenza anche gravi crimini, costituisce, come ravvisato dal Segretario generale delle Nazioni Unite Guterres, il risultato di frustrazioni, oppressioni, crimini contro il popolo palestinese che vanno avanti da troppo tempo. Il diritto alla lotta armata contro l’occupazione coloniale è del resto riconosciuto dal diritto internazionale, anche se ovviamente deve svolgersi nei limiti consentiti dal diritto internazionale umanitario e non avalla crimini come quelli commessi nei confronti dei civili israeliani durante l’attacco del 7 ottobre.

Come avvertito dalla rivista statunitense Foreign Affairs , il genocidio in atto è inevitabilmente destinato a rafforzare ulteriormente Hamas, sia politicamente che militarmente, e del tutto illusoria e autolesionistica appare la prospettiva di “sradicarla” accoppando decine di migliaia di Palestinesi.

Occorre invece un cessate il fuoco immediato, per porre fine alla strage degli innocenti che è in corso, così come occorrerebbe l’immediato invio di un forte contingente di interposizione, ma una tale soluzione è in netta contraddizione sia con la linea seguita dal governo israeliano, che con quella di quello statunitense.

Il primo, tuttora dominato da Beniamin Netanyahu, ha visto nella situazione attuale, un’occasione di sopravvivenza politica in un momento nel quale la stessa era fortemente messa a repentaglio anche da un forte movimento di protesta interno alla società israeliana e continua a puntare tutte le sue carte sullo sterminio e la pulizia etnica, anche perché il suo sostegno principale è offerto dai movimenti dei coloni che hanno il proprio referente politico nella destra nazifascista dei Ben Gvir e degli Smotrich.

Il secondo sta vivendo un declino epocale senza precedenti che sarebbe senza dubbio accelerato da una sconfitta della linea genocida di Netanyahu cui il malfermo Biden ha legato il suo destino, già fortemente pericolante anche in vista delle prossime elezioni presidenziali dell’ottobre 2024, che vedranno con ogni probabilità la sua irrimediabile fine politica (e sarebbe ora).

I due compari, cui si sono agganciati stolidamente gli obbedienti governanti europei, tra i quali purtroppo la “nostra” Giorgia in prima fila, sono con ogni evidenza in un vicolo cieco, e la continuazione del massacro rende sempre più probabile l’allargamento del conflitto fino a conseguenze oggi inimmaginabili.

Unica alternativa il negoziato tra Israele e le forze palestinesi (Hamas compresa). Come nel caso dell’Ucraina possiamo chiederci quante migliaia di innocenti dovranno ancora perire prima di giungere a questa inevitabile conclusione, e se essa giungerà in tempo per evitare la guerra mondiale in gestazione da tempo.

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L’Italia all’Onu fa come Ponzio Pilato

L’astensione dell’ambasciatore Massari sulla risoluzione in cui l’Onu chiede il cessate il fuoco a Gaza è un penoso tentativo di non assumersi responsabilità.

Il pretesto è la “non esplicita condanna di Hamas”.

Un’equidistanza ipocrita e perniciosa: se si chiede il cessate il fuoco immediato, è proprio perché le cause del conflitto non possono essere risolte con l’uso delle armi; il diritto all’autodifesa non può tollerare le migliaia di morti civili; il richiamo al diritto internazionale da parte di chi non si assume la responsabilità di azioni concrete per ristabilirlo è un insopportabile ipocrisia.

Lo statuto dell’Onu ha in comune con la Costituzione della Repubblica Italiana il ripudio della guerra per risolvere le controversie tra stati.

Fare duemila anni dopo come Ponzio Pilato – e per giunta proprio in Palestina – è un brutto episodio di fellonia, che sembra ormai essere diventata la cifra della politica estera italiana.

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Roma - Sabato di nuovo in piazza contro le guerre e per la libertà della Palestina

Sabato scorso per le strade di Roma è successo qualcosa che in Italia non accadeva da anni ormai.

Un fatto politico determinato dalla partecipazione combattiva e di massa degli abitanti di questo paese che hanno espresso senza mezzi termini la propria posizione sulla questione internazionale par excellence di questo momento: il popolo sta dalla parte della Palestina!

I media mainstream si sono subito messi al lavoro per provare ad annebbiare il messaggio gridato forte da Porta San Paolo a San Giovanni, passando per il Colosseo.

Prima con una serie di numeri sconclusionati sulla partecipazione, (“centinaia” per il Messaggero, “tre mila” per Tpi, “più dei cinque mila attesi” per Repubblica, “quindici mila” per il Corsera), poi adeguandosi sui numeri al ribasso comunicati della Questura (“venti mila” in piazza), poi relegando il fatto a mera cronaca locale, finito in ultimo nei fondo-pagina alle edizioni online.

Un’isteria dettata dal fatto che il coperchio non tiene più la pressione spinta contro la cappa della menzogna.

50 mila in piazza a Roma

Che infatti salta e straripa in una partecipazione che si attesta al minimo sulle 50 mila persone vere in carne e ossa (contate, non numeri per la propaganda), con slogan duri contro il regime di apartheid israeliano, la complicità occidentale e il silenzio degli indifferenti nei confronti dell’eroica e pluridecennale Resistenza palestinese.

È indubbio che il 7 ottobre rappresenta una di quelle date che entreranno nella storia della Resistenza palestinese, che adesso ha bisogno di tutto l’appoggio possibile, in Palestina come qui in Italia, per squarciare il velo di ipocrisia misto a silenzio sotto cui sembrava essere costretta la causa palestinese.

Niente di tutto questo invece, dimostrazioni di solidarietà umana e internazionalista hanno letteralmente invaso le strade delle capitali d’Europa e del mondo intero, sfidando divieti, polizia e intimidazioni sioniste e fasciste.

Tuttavia, in Palestina lo Stato di Israele continua nei bombardamenti criminali e indiscriminati sulla Striscia e praticamente su tutti i paesi confinanti, mentre da Gaza e dalla Cisgiordania la Resistenza chiama all’azione tutti coloro che sono solidali con la causa.

Sabato 4 novembre si replica

Per questo, sabato 4 novembre a Roma ci sarà un’altra occasione per dimostrare tutto il sostegno al popolo palestinese in lotta.

Alle ore 14:00 in piazza Vittorio infatti partirà una manifestazione nazionale contro le guerre e la partecipazione dell’Italia ai conflitti in tutto il mondo, per la libertà della Palestina e per la revoca degli accordi militari tra Italia e Israele.

Il governo Meloni, in questo sostenuto in maniera bipartisan dalla totalità dell’arco parlamentare, si schiera senza indugio dalla parte del sionismo e della guerra come soluzione finale dei conflitti.

Invia armi in Ucraina e aumenta le tasse ai più deboli, si dice per la pace ma giura fedeltà alla Nato, appoggia Israele e reprime il dissenso interno, manganellando gli studenti solidale con la Palestina fin dentro le università, come accaduto a Torino.

Una scelta di campo

Roma ancora una volta è chiamata a una risposta di responsabilità contro la barbarie generata dall’Occidente imperialista e guerrafondaio, fascista e colonizzatore.

Contemporaneamente, a Milano Salvini sfilerà “contro gli islamici” e per la “difesa dei valori occidentali” (quelli perfettamente rappresentati da Israele in Medio Oriente), nel giorno della fine della Prima guerra mondiale che il governo vorrebbe contrapporre come sostrato ideologico dell’unità nazionale contro la Repubblica nata dai fucili della Resistenza e immortalata nel 25 aprile.

Noi sappiamo da che parte stare!

Fuori l’Italia dalle guerre, con la Palestina, il 4 novembre manifestazione nazionale a Roma

Stop all’invio di armi per la guerra in Ucraina; riconoscimento dello Stato Palestinese; revoca dell’accordo di cooperazione militare tra Italia e Israele; via l’Italia dalla Nato; tagliare le spese militari per finanziare le spese sociali; stop al genocidio a Gaza.

Appuntamento: ore 14:00, piazza Vittorio – Roma.

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La Nato occupa il Mediterraneo. Che bolle in pentola?

di Francesco Dall'Aglio

La portaerei USS Dwight D. Eisenhower ha passato nella notte lo stretto di Gibilterra e si dirige nel Mediterraneo orientale.

Quando arriverà ci troveremo in presenza della più grande concentrazione di navi NATO in assetto operativo da parecchi decenni: tutto compreso saranno 43, esclusi i sommergibili il cui numero non è noto.

Potete vedere nome e tipo delle imbarcazioni nell’infografica che allego, prodotta da un NAFO [un amico – friend – della Nato, ndr] che crede che questa sia una cosa buona.

In realtà le navi sono potenzialmente molte di più, perché dal 23 ottobre al 6 novembre in acque italiane si tengono le esercitazioni Dynamic Mariner 23 del NATO Allied Maritime Command (MARCOM), che comprendono altre 30 navi, tra cui il Cavour, di 14 nazioni NATO.

Queste esercitazioni sono parecchio importanti per l’Italia (e spiegano forse in parte la smania di azione meloniana, o meglio crosettiana) perché nel 2024 la nostra marina sarà a capo del NATO Response Force Maritime Element (NRF/M), che è una bella responsabilità e “dobbiamo fare bella figura”.

Infatti contemporaneamente a Dynamic Mariner altre navi della marina italiana sono impiegate nelle esercitazioni solo Mare Aperto 23-2, che terminerà il 17 novembre – l’area delle due esercitazioni la trovate nella seconda carta.

Ora io non capisco molto di navi e non mi piacciono molto perché puzzano e si dimenano (in questa casa l’artiglieria è la regina delle battaglie, già questi “aeroplani” non so se avranno successo), però è molto probabile che la Eisenhower vada a rilevare l’altra portaerei già presente nel Mediterraneo orientale, la USS Gerald R. Ford, che è in mare ormai da sei mesi e il cui ritorno alla base è stato già ritardato per la crisi in Medio Oriente.

Due portaerei con i rispettivi gruppi navali sarebbero un po’ troppo. Se anche così fosse, ci troveremmo comunque con 37 navi NATO, sempre che il numero non aumenti al termine di Dynamic Mariner (cosa ovviamente non sicura e non so quanto probabile).

Ad ogni modo, al momento c’è una settantina di navi nel Mediterraneo, perfettamente armate.

E se la Ford non se ne va una volta arrivata la Eisenhower vuol dire che si prevedono cose molto sgradevoli, non limitate a Palestina e Israele.

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Quel linguaggio “messianico” che rivela la crisi

Chi parla male, pensa male perché sta male. In tempi di guerra questo diventa particolarmente evidente, è sempre andata così. Ma in questa – tra Gaza e Tel Aviv – sta emergendo qualcosa di più grave.

La mostrificazione e disumanizzazione del nemico è quasi fisiologica, in qualsiasi guerra. Bisogna motivare i propri combattenti, convincerli a morire per una “causa giusta”, stringere la popolazione intorno allo sforzo bellico e ai “sacrifici” che ne derivano come qualità della vita, perdita di benessere, ecc.

Niente di nuovo...

Ma in qualsiasi guerra – ha provato a ricordare Massimo Cacciari, e non solo lui – ci deve essere una recta intentio, ossia un obiettivo politico razionale e raggiungibile (fondato su interessi particolari, ci mancherebbe...) che dovrebbe inaugurare un nuovo periodo di assenza di guerra (la ‘pace perpetua’ è una speranza nobile, ma tale resta).

Il che significa che il nemico sarà di nuovo accettato come interlocutore, in altre condizioni “a noi” più favorevoli. Non che “cesserà di esistere”.

È la visione interpretata al meglio, sul piano della teoria militare, da von Clausewitz – “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” – che è poi la chiave del “realismo politico”. Inutile insomma porsi obiettivi “ipergalattici” o metafisici, perché sicuramente non saranno mai raggiunti.

Eppure, se guardiamo alle “strategie comunicative” delle cancellerie occidentali – a partire da Israele – e del sistema dei media che ne dipende (la “stampa libera” è una foglia di fico; sono ben poche, e non primarie, le testate che possono fregiarsi a ragione di questa definizione), vediamo che predomina la retorica ultra-ideologica o addirittura religiosa.

“Il bene contro il male”, “la luce contro le tenebre”. “il giardino contro la giungla” e via infilando metafore da scemi di guerra.

Proviamo a fare un brevissimo volo sulle espressioni usate in queste ore, senza alcuna pretesa di completezza (parlano tutti, parlano male e l’elenco andrebbe aggiornato di minuto in minuto).

Il premier israeliano Netanyahu ha dato il suo nuovo imprinting alla comunicazione occidentale, ieri, arrivando a dire che “Israele combatte per tutta l’umanità”.

Calcolando che Gaza è grande quanto un terzo della città di Roma e Hamas è una organizzazione “proporzionale” a quel territorio, l’umanità deve essere ridotta veramente male se affida a gente come “Bibi” o il suo vice Ben-Givr la “difesa finale”.

Qualcuno potrebbe dire che, in fondo, Netanyahu sta solo pescando nella sua limitata formazione culturale, dove le letture della Torah (non proprio un testo della “modernità illuministica”, diciamo) offrono una spolverata di citazioni utili per giustificare scelte militari genocide.

Stiamo del resto parlando di un ex membro dei commandos dell’esercito israeliano incaricati di “operazioni speciali” – protagonista, nel maggio del 1972, dell’assalto all’aereo Sabena all’aeroporto di Lod, dirottato da quattro guerriglieri palestinesi. Rimasero uccisi due sequestratori, uno degli ostaggi (altri due e lo stesso “Bibi” restarono feriti).

Stiamo per di più parlando di un malfattore politico, capace di far pubblicare un tweet in cui – in piena offensiva che il mondo vorrebbe fermare – attacca i vertici del suo stesso esercito e servizi segreti, asserendo di “non essere stato avvertito” di quel che stava per accadere; e poi di cancellare tutto, come fosse un gioco da sottobosco parlamentare.

Da uno così ci si può attendere “determinazione” e menzogne a gogo, certo, ma non ragionamenti che tengono conto della complessità del mondo.

Com’è pensabile che l’“intera umanità” si riconosca nelle sue parole e, soprattutto, nel bombardamento di due milioni e mezzo di persone per “estirpare il male” (rappresentato da circa 30.000 miliziani)? Eppure ci prova lo stesso. E qualcuno lo trova, in Occidente...

Cosa ne pensi il resto dell’umanità, a gente come lui, non interessa affatto. Al di là delle centinaia di manifestazioni e dei milioni di persone che le hanno frequentate, in tutto il pianeta, c’è in ogni caso il voto all’Assemblea Generale dell’Onu, due giorni fa, in cui 120 governi hanno chiesto a Israele di fermarsi per una “tregua umanitaria” e solo 13 – oltre a Tel Aviv – si sono opposti (dei 45 astenuti inutile parlare; don Abbondio ha seguaci ovunque).

Tredici complici di “Bibi” che comunque, Stati Uniti a parte, rappresentano una quota di popolazione piuttosto ristretta e un “ruolo politico internazionale” totalmente dipendente da Washington, spesso in mano a governi di destra (Tonga, Papua, Nuova Guinea, Paraguay, Fiji, Guatemala, Nauru, Micronesia, Isole Marshall, oltre ad Austria, Cechia, Ungheria, Australia, Croazia).

A voler essere precisi, insomma, l’azione di Israele è rifiutata dalla stragrande maggioranza dell’umanità. E davanti a questo – a meno di non considerarsi “il popolo eletto” da un dio fuori di testa – ci si dovrebbe fermare.

Persino il confindustriale Sole24Ore è a questo punto molto allarmato. “Israele ha pericolosamente alzato il livello dello scontro. Per una coincidenza forse non del tutto casuale, l’assalto d’Israele si è fatto più duro mentre al Consiglio di Sicurezza Onu il mondo chiedeva il contrario.
Israele è sempre più isolato: non se ne è accorto o non gliene importa.”


Al contrario, però, la retorica bellica israeliana è stata fatta propria da tutto l’Occidente neoliberista.

Qualche perla qua e là. “Ucciso il capo delle forze aeree di Hamas: era la mente dietro i raid coi deltaplani”, hanno titolato tutti i maggiori quotidiani e i Tg, riprendendo la “rivendicazione” dell’esercito di Tel Aviv.

Se basta qualche deltaplano per fare delle “forze aeree” allora, simmetricamente, si potrebbe mandarne a Zelenskij una fornitura ordinata da Decathlon, invece degli F-16 che continua a chiedere...

Stesso discorso per l’altro “omicidio mirato”, relativo al “capo della marina militare di Hamas”, che aveva inutilmente provato a far arrivare qualche gommone sulle coste israeliane.

La “tecnica” retorica è piuttosto rozza: si innalza fino al ridicolo la “potenza distruttiva” che sarebbe in mano al nemico per poter giustificare il massacro che concretamente sta avvenendo in un carcere a cielo aperto e senza vie di fuga.

È la stessa tecnica con cui brevi spezzoni di video provenienti da Gaza – con migliaia di persone che ne soccorrono altre migliaia sotto le bombe e tra le macerie – vengono alternati con lunghi “quadretti” incorniciati intorno a poche persone in Israele. Il massacro a Gaza è invisibile, le molto minori sofferenze israeliane sono in onda h 24.

Il “trattamento” riservato alle manifestazioni per la pace e la libertà della Palestina segna la stessa logica, ma con “specializzazioni” differenti tra testate laico-europeiste e fogliacci clerico-fascisti.

Il Corriere traccia la linea. Non se ne deve parlare proprio, per lo meno in prima pagina. Dove campeggia semmai “la folla antisemita” che in Dagestan ha accolto un aereo proveniente da Tel Aviv, riproponendo l’ormai stantia e truffaldina identificazione tra “ebrei”, “semiti” e Israele (per la precisione: anche i palestinesi sono semiti...) che autorizzerebbe uno Stato all’impunità in virtù del tentativo di genocidio subito da un popolo definito sulla base di una religione.

Oppure – sempre il Corriere“Il doppio standard di Erdogan sul genocidio”. E sicuramente il massacratore turco applica la stessa “tecnica” dell’Occidente. Solo che per lui “i terroristi” da sterminare con qualsiasi mezzo sono i curdi, mentre considera strumentalmente Hamas un “movimento di liberazione”.

È la conferma di quanto scriviamo da sempre: “terrorista” è una parola-stigma, che pretende di vietare ogni ulteriore ragionamento, ma non ha un significato internazionalmente condiviso, venendo usata per qualificare il “nemico” che si vuole sterminare. E ogni Stato ha un nemico diverso...

Definisce insomma una “collocazione arbitraria” che può cambiare nel corso degli anni senza alcun preavviso, e ognuno può passare dall’essere “il nostro figlio di puttana” al “nuovo Hitler” (Noriega, Saddam Hussein, ecc.).

E proprio quello che era una volta unanimemente riconosciuto come “il male assoluto” – il nazismo, appunto – è diventata la cartina tornasole della “sterzata ideologica” in atto nell’Occidente neoliberista.

Da una parte devono infatti “angelicare” i nazisti veri e propri (specie in Ucraina, tra battaglione Azov ed eredi di Stepan Bandera), dall’altra qualificare come “nuovi nazisti” tutti coloro che si oppongono o contrastano l’egemonia occidentale, qualsiasi sia il loro “credo” o sistema valoriale.

Anche se sono, come i comunisti, storicamente la parte più importante della lotta al nazifascismo (lo sbarco americano in Normandia avviene un anno e mezzo dopo la vittoria sovietica a Stalingrado, che rovesciò il corso della guerra).

Compito difficile, specie se condotto da falsari di bassa lega, poco abituati a maneggiare concetti complessi. A meno di non ricorrere alle balle pure e semplici...

Il corto circuito è continuo, sul piano politico, e quindi la tentazione di “buttarla sul religioso” è immediata (tipo Salvini che agita il rosario e chiama manifestazioni “in difesa dell’Occidente”).

Altra complicazione: Bergoglio sorveglia quel versante attentamente, e non avalla le stronzate del primo che passa.

Dunque, scartato il “dio ufficiale”, non resta che parlare di lotta del “bene contro il male”, della “luce contro l’ombra”, dell’“umanità contro i mostri” (“gli orchi” di Tolkien, sintetizzano a Kiev). Parole che ognuno poi riempie come sa e come vuole, con esempi tratti dalla cronaca quotidiana (di guerra e non).

Alla fine resta forte l’impressione che tutto questo straparlare messianico e “da santoni” nasconda un pensiero indicibile o comunque malato. È come se l’ansia tutta occidentale di non essere più in grado di “ordinare il mondo” – e al mondo – non riuscisse a produrre una visione del prossimo futuro accettabile anche per il resto del pianeta (a partire dai soggetti statuali più forti e naturalmente dai diversi popoli).

Se esistesse davvero, ai vertici dell’Occidente neoliberista, una visione razionale da proporre come “nuovo ordine internazionale”, non si lascerebbe ad Israele la possibilità di bruciare ciò che resta del vecchio edificio istituzionale – l’Onu, in primo luogo – ergendo il proprio interesse nazional-religioso (la propria follia) a punta di lancia di un fronte minoritario sicuramente schierato al suo seguito, ma altrettanto certamente sull’orlo di una crisi di panico.

Se esistesse davvero quella visione razionale, gli “adulti nella stanza” (Usa, Cina e Russia) disporrebbero tutta la forza di persuasione necessaria a ricondurre “Bibi” e i suoi forsennati “arraffa-terre” nell’alveo della “guerra politica”, e quindi a un tavolo o una “conferenza di pace” sufficientemente mediata da risultare accettabile per Israele, i palestinesi, l’intero (e spesso “disponibile”) mondo arabo.

E invece no. Tutti, qui in Occidente, a sposare “un linguaggio” messianico che non prevede mediazioni, ma solo la soluzione finale.

Non è un caso – e dovrebbe apparire un problema anche ai diretti interessati – che in questa fogna linguistico-ideologica si siano buttati con entusiasmo i peggiori arnesi della galassia neofascista e neonazista.

Loro sì che hanno la “strumentazione retorica” adeguata al compito.

Loro sì che hanno la determinazione allo scontro, anche sul piano interno (contro la propria popolazione), per collegare la guerra al nemico esterno con i “necessari sacrifici” dell’economia di guerra.

Loro sì, ricordiamo noi, che sanno come aggredire tutto il mondo fino a provocarne la reazione e restarne annientati.

Non certo quei “mollaccioni” dei liberali a proprio agio nei corridoi di Bruxelles...

Avevamo capito che l’imperialismo occidentale faceva fatica a razionalizzare efficacemente la crisi del capitalismo. Ma non credevamo foste ridotti così male...

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La pulizia etnica a Gaza nei documenti dell’intelligence israeliana

Il primo giorno della guerra israeliana contro la Striscia di Gaza, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, aveva lanciato un avvertimento provocatorio a circa 2,3 milioni di civili nell’enclave costiera assediata: “Andatevene ora”, ha detto, sapendo che le persone erano intrappolate e non potevano farlo.

Tuttavia, con il passare del tempo e la fuga di documenti, sembra esserci una vera e propria spinta dall’interno del regime israeliano per la pulizia etnica della popolazione di Gaza verso il deserto del Sinai in Egitto.

Un think tank israeliano, il “Misgav Institute for National Security & Zionist Strategy” ha pubblicato un documento il 17 ottobre, in cui ha delineato la sua proposta di piano di pulizia etnica, dichiarando che “al momento c’è un’opportunità unica e rara di evacuare l’intera Striscia di Gaza in coordinamento con il governo egiziano”.

Questo è stato poi seguito, poco dopo, da un rapporto pubblicato sull’agenzia di stampa israeliana, Calcalist, che ha delineato un documento che proponeva la stessa strategia. In questo caso, però, il documento portava il simbolo ufficiale del ministero dell’Intelligence israeliano, guidato da Gila Gamliel.

Entrambi i piani, che sostengono lo stesso progetto per la pulizia etnica di Gaza dalla sua popolazione civile palestinese, cercano palesemente di trarre vantaggio dalla situazione attuale per creare una “soluzione” al “problema di Gaza” per Israele.

L’idea è quella di fornire all’Egitto un incentivo economico – anche se questo deve essere di 20-30 miliardi di dollari, secondo il documento del think tank – per convincerlo ad accettare gli sfollati.

C’è anche un elemento di adattamento, che viene evidenziato nel piano del ministero dell’Intelligence israeliano, che parla di istituire una zona di sicurezza/cuscinetto all’interno del territorio egiziano, “larga diversi chilometri”; proponendo di fatto un’occupazione de facto della terra egiziana al solo scopo di impedire alla popolazione di Gaza di tornare alle proprie case.

Fin dal primo giorno della brutale guerra israeliana contro la popolazione di Gaza, il piano è stato reso chiaro attraverso le azioni del regime di Tel Aviv.

La leadership israeliana ha dichiarato di voler cercare di distruggere Hamas, annunciando piani e attuandoli in un modo da prendere di mira quasi esclusivamente la popolazione civile palestinese all’interno di Gaza.

Il 9 ottobre, il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ordinò un assedio completo della Striscia di Gaza. “Non ci sarà elettricità, né cibo, né carburante, tutto è chiuso”, ha detto, aggiungendo: “Stiamo combattendo gli animali umani e stiamo agendo di conseguenza”.

Per anni, all’interno dei circoli di potere israeliani, si è parlato di costringere la popolazione di Gaza a trasferirsi nel Sinai egiziano come soluzione, con questa proposta che risale a una strategia simile, che è stata proposta dalle Nazioni Unite nel 1950, quando Gaza era sotto il dominio del presidente egiziano, Gamal Abdul Nasser.

La proposta dell’ONU è stata fortemente osteggiata e l’intera idea è andata in pezzi a seguito di forti proteste contro di essa. Eppure, per il governo israeliano, che non sa cosa fare con la Striscia di Gaza, questa idea sembra essere più allettante che mai.

Se leggiamo tra le righe, è chiaro che il governo israeliano ha, fin dal primo giorno, cercato di bloccare l’ingresso a Gaza di forniture mediche, cibo, acqua, carburante, elettricità e altri aiuti umanitari chiave.

Ha anche raso al suolo alcune delle aree più ricche e delle aree più popolari all’interno della Striscia di Gaza, nel tentativo di distruggere completamente le infrastrutture civili del territorio.

Insieme a questo, la vastità delle atrocità che vengono commesse contro i civili è alla pari con qualsiasi grande guerra che abbiamo visto negli ultimi decenni, se non peggiore per alcuni aspetti.

Se foste un governo che tenta di costringere 2,3 milioni di persone a fuggire dalle loro case, questa sarebbe la strategia da adottare per spaventarle e sottometterle.

Tuttavia, ci sono alcuni grossi problemi per il regime israeliano. Il primo e più ovvio è il fatto che il presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sisi si è fermamente opposto all’idea di assorbire così tanti rifugiati palestinesi in tendopoli nel Sinai.

Il secondo problema più grande per gli israeliani è il fatto che, nel caso in cui si verificasse una tale spinta, Hezbollah libanese quasi certamente lancerebbe una guerra contro di loro da nord.

Mentre i politici israeliani continuano a usare un linguaggio genocida e parlano di cancellare completamente Gaza dalla carta geografica, la realtà sul terreno è qualcosa di piuttosto diverso.

Israele non è più nella posizione in cui si trovava nel 1948, dove i suoi crimini potevano essere nascosti ed era molto più potente militarmente dei suoi vicini arabi. Nonostante la dura retorica e la continuazione del massacro della popolazione civile di Gaza, l’esercito israeliano è nella sua posizione più debole di sempre.

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