È appena stato pubblicato il primo rapporto su scala mondiale elaborato dal EU Tax Observatory, istituto fondato nel 2020 e finanziato dalla UE per combattere gli abusi fiscali.
Il sunto di questo sforzo di ricerca non è nulla di nuovo e nulla che non abbiamo già denunciato in ogni modo: i ricchi evadono, e lo fanno sistematicamente con vari strumenti pensati appositamente per questo scopo, arrecando danno alla collettività.
La prima frase di presentazione dello studio su X (il fu Twitter) è decisamente esplicativa: “l’evasione fiscale non è una legge di natura. È una scelta politica“. E il peso di questa scelta è evidenziato attraverso il lavoro di oltre 100 ricercatori, che hanno raccolto e analizzato la gran mole di dati riportati nel documento.
Varie holdings “si trovano in una zona grigia tra elusione ed evasione“, e sono create “con lo scopo di evitare l’imposta sul reddito“. In questo modo i super ricchi riescono a farsi imporre aliquote che rimangono addirittura sotto l’1%, mentre i comuni lavoratori si trovano a pagare aliquote che oscillano tra il 20% e il 50%.
Attraverso l’uso di shell companies (ovvero aziende che sono assimilabili a prestanome) il mercato immobiliare, soprattutto nelle città più costose, fornisce uno dei canali più importanti per evitare l’imposizione fiscale. E questo tipo di società non sono individuabili dagli strumenti pensati per combattere l’evasione, come lo scambio automatico di informazioni bancarie, operato da un centinaio di paesi.
“Finora non è stato fatto alcun serio tentativo per affrontare questa situazione, che rischia di minare l’accettabilità sociale dei sistemi fiscali esistenti“, dice il rapporto, ribadendo come l’evasione sia una scelta politica. Per questo l’Osservatorio chiede di intervenire in questo senso al prossimo G20, previsto a novembre 2024 in Brasile.
La misura che si consiglia di adottare è un’imposta globale minima del 2%, da far valere sulla ricchezza invece che sul reddito dei super-ricchi. Quasi tre mila miliardari, il cui patrimonio si aggira sui 13 trilioni di dollari, sarebbero così costretti a sborsare almeno 250 miliardi annualmente.
Lo spunto è l’accordo del 2021 tra 140 paesi per l’introduzione di una tassa globale minima del 15% sulle multinazionali più grandi.
Gabriel Zucman, l’economista alla guida dell’Osservatorio, ha affermato che la sua proposta è “il logico passo successivo” dell’intesa appena citata.
Il rapporto mette in guardia anche sui sussidi per la transizione ecologica. Essi, infatti, si stanno trasformando in esenzioni assai ampie che pongono grossi problemi alla concorrenza fiscale, ovvero tradotto vanno ad “aumentare la disuguaglianza aumentando i profitti post-tassazione degli azionisti“.
Sempre Zucman ha spiegato che “la tassa sui miliardari aiuterebbe i governi a finanziare spese importanti come l’istruzione, le infrastrutture e la tecnologia, e ad attenuare il colpo delle crisi imminenti“, che siano sanitarie, economiche o climatiche.
E questo tipo di considerazione mette in luce tutta la fallacia di un ragionamento del genere.
Al di là del fatto che questo tipo di investimenti sono pensati evidentemente con una logica di competizione, vi sono due ordini di contraddizione nelle parole dell’economista. Da una parte, almeno nel caso UE, i vincoli di bilancio hanno strutturalmente strozzato le capacità pubbliche di intervenire in quei settori, dall’altro le proposte fatte sono chiaramente dei palliativi che non vanno al fondo del problema.
Pensare di tamponare con due imposte – tra l’altro irrisorie – le storture di un sistema fondato sulla libera circolazione dei capitali e sulla ricerca del profitto senza responsabilità sociale è come cercare di tappare una falla di uno scafo con un tappo di sughero.
Le ragioni alla base della crisi (la perdita dei margini di valorizzazione, con il conseguente scontro internazionale che scivola diretto verso la guerra) rimangono invariate.
A Bruxelles lo sanno, ma non possono di certo ammetterlo. E così si mostreranno sensibili al tema della tassazione, per poi continuare a far pagare ai settori popolari i costi del disastro in cui ci hanno cacciato, così come del tentativo di assumere un ruolo più importante sullo scenario globale... a meno che questi non si organizzino per lottare.
Solo lo sviluppo di un’ipotesi politica alternativa, che abbia come orizzonte il porre nelle mani del pubblico la proprietà almeno dei settori strategici e l’indirizzare gli investimenti verso i bisogni collettivi, può prendere di petto le contraddizioni che viviamo e vivremo. Tutto il resto è solo un tentativo senza futuro di salvare il capitale preso in una spirale di crisi irreversibile.
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