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31/10/2023

“Il rapporto del giudaismo verso l’emancipazione del mondo di oggi”

La fallace equazione tra antisionismo e antisemitismo e la “Questione ebraica” di Karl Marx

Uno dei nodi ideologici posti in luce dalla eroica resistenza del popolo palestinese alla bestiale politica di aggressione, sterminio e deportazione dello Stato d’Israele, è quello del rapporto tra antisionismo ed antisemitismo, o meglio antigiudaismo (giacché anche gli arabi sono etnicamente semiti).

Si tratta allora di opporsi nel modo più fermo, pur continuando ad usare il termine ideologicamente deviante di ‘antisemitismo’ ormai invalso nell’uso, alla fallace equazione tra antisionismo e antisemitismo, che costituisce il pernio della propaganda filosionista sul “diritto ad esistere dello Stato d’Israele”.

La premessa storica fondamentale da cui occorre partire è che il sionismo come fenomeno politico e ideologico, indipendentemente dall’ispirazione messianica ed emancipatrice che animò le prime generazioni di militanti (ispirazione che indusse l’Unione Sovietica a sostenere nel 1948 la nascita dello Stato d’Israele, salvo rendersi poi conto del grave errore politico che era stato commesso), si è progressivamente identificato con un movimento di chiaro stampo colonialistico su base razziale e religiosa, che punta, usando tutte le armi possibili (compreso lo sterminio e la deportazione), a modificare radicalmente la composizione demografica della Palestina in nome della colonizzazione di quel territorio da parte di nuclei etnici ebraici provenienti da tutto il mondo.

Sennonché non va sottaciuto il fatto che, essendo gli elementi storici (natura ideologica del sionismo), gli elementi economici (sfruttamento di risorse petrolifere marittime e di forza-lavoro a basso prezzo) e gli elementi politici (strategia di colonizzazione integrale del territorio palestinese) tra loro strettamente connessi, questi ultimi seguono necessariamente la logica complessiva dei primi due.

Una siffatta connessione dovrebbe indurre anche l’osservatore più moderato ed equanime ad interrogarsi sulla natura complessiva del sionismo.

Al contrario, vengono accusati di “antisemitismo” non solo i critici storici del sionismo come fenomeno complessivo, ma anche i critici della politica di Israele a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, allorché questo Stato, dopo gli accordi di Oslo del 1993, tese a moltiplicare gli insediamenti di coloni nei territori della cosiddetta Cisgiordania.

Con questa sciagurata politica – che la ‘Road Map’, lungi dal modificare, finì sostanzialmente con l’avallare – Israele mostrava, per un verso, di non accettare la coesistenza con uno Stato palestinese e, per un altro verso, di voler perseguire la strategia della colonizzazione integrale dei territori, confinando l’autonomia palestinese all’interno di ‘bantustan’ privi di una reale sovranità politica ed economica.

Orbene, è giusto riconoscere che vi sono casi in cui, effettivamente, sul piano storico e politico, ragioni e torti sono talmente mescolati tra loro che non è facile trovare un criterio oggettivo e preciso di giudizio per definire secondo un ordine di precedenza le ragioni ed i torti: basti pensare al conflitto greco-turco a Cipro o a quello fra gli indiani e i pakistani in Kashmir, o ancora a quello fra indiani e cinesi sui rispettivi confini.

Ma nel caso del conflitto israelo-palestinese il dilemma dell’equidistanza non si pone per nulla, poiché è evidente a chiunque non sia ipnotizzato dalla propaganda bellica dell’imperialismo, o animato dalla malafede, che i palestinesi hanno completamente ragione e gli israeliani hanno completamente torto.

Di conseguenza, vanno isolati e politicamente combattuti, poiché in realtà gettano fango sulla resistenza palestinese e fanno il gioco dell’imperialismo euroamericano e del sionismo, i sostenitori della formula ‘né con Israele né con i palestinesi’, così come taluni gruppi di estrema sinistra che, negando il significato antimperialista e il valore strategico della lotta per l’autodeterminazione nazionale del popolo palestinese, coprono il loro opportunismo con una fraseologia pseudorivoluzionaria e un uso distorto delle categorie leniniane.

Tutto ciò è vero, ma è altrettanto vero che, quando si pensa al contributo che ha dato al patrimonio filosofico, scientifico e letterario dell’umanità, non si può non provare una grande ammirazione verso la cultura ebraica: e mi limito a citare, fra i tanti, i nomi di Spinoza, di Marx, di Freud, di Einstein e di Kafka.

L’identità ebraica va dunque rispettata sul piano culturale, ma senza concedere ad essa alcuna immunità giuridica e politica. Va quindi respinta nel modo più energico e più convinto l’idea secondo cui gli ebrei, a causa di quanto hanno dovuto sopportare sotto Hitler ed i suoi alleati, non possono essere né giudicati né puniti.

È da ritenere, al contrario, che proprio questo sia oggi il vero antisemitismo, anche se di ciò non vi è alcuna consapevolezza. Quella consapevolezza che indusse, invece, un testimone ebraico della ‘Shoà’ come Primo Levi a prendere le distanze dalla politica delle rappresaglie e della ‘guerra totale’ praticata in permanenza dallo Stato d’Israele, pronunciando le seguenti parole: «Quello che non potrò mai perdonare ai nazisti è di averci fatto diventare come loro».

L’equazione fra l’antisionismo e l’antisemitismo (equazione per sua natura storicamente infondata e culturalmente offensiva, se si pensa al gran numero di ebrei antisionisti che hanno popolato la storia del Novecento) sta oggi scivolando sul piano inclinato dell’equazione fra l’antisemitismo e la semplice critica ad Israele, come risulta dall’isteria filosionista dei ‘mass media’ e dalla politica repressiva di totale appoggio allo Stato israeliano assunta da alcuni governi europei come la Francia, la Germania e l’Inghilterra, i quali hanno persino vietato le manifestazioni popolari a favore della Palestina nei rispettivi paesi.

A questo punto, non si capisce neppure più quali sarebbero i limiti della “critica legittima” ad Israele, dal momento che anche l’appoggio a coloro che si battono per liberare i territori occupati nel 1967 viene ormai qualificato come espressione di “antisemitismo”.

In realtà, la crisi dell’Occidente imperialista si manifesta anche in Israele e obbliga questo Stato ad intraprendere azioni politico-militari funzionali non solo alla propria difesa, ma a quella di tutto l’Occidente oggi incalzato dall’impetuoso sviluppo economico dei paesi emergenti.

In tal modo il ruolo di cane da guardia delegato ad Israele dall’imperialismo euroamericano nel Vicino Oriente si va inciprignendo, nel mentre si acuisce la crisi politica al suo interno, come risulta nell’ultimo periodo dalle continue mobilitazioni di massa contro la politica autoritaria del governo retto da Netanyahu.

Ecco perché oggi occorre dichiarare a tutte lettere che la politica israeliana e, alle sue spalle, quella statunitense, con il sostegno permanente del vassallo britannico e la complicità della quasi totalità dei governanti europei – tra i quali figura il valvassino italiano, divenuto da tempo uno dei maggiori fornitori dei micidiali sistemi d’arma con cui l’esercito israeliano semina a Gaza e nella Cisgiordania morte e distruzione sulla popolazione civile, sul territorio e sull’ambiente – costituiscono una fonte permanente di guerra.

E sono il pericoloso vettore di un conflitto bellico generalizzato a tutto il Vicino Oriente (non Medio Oriente, come in genere si dice adottando, senza neanche accorgersene, l’ottica geografica anglosassone): un conflitto che vedrebbe entrare direttamente in azione il vero gigante di questa regione asiatica, che è l’Iran, avversario tanto irriducibile quanto temibile dell’Occidente e del suo ascaro israeliano.

Tornando al tema iniziale e tirando le fila del discorso che qui si è cercato di svolgere, va detto che se si vuole comprendere come mai, con la creazione dello Stato d’Israele, la “questione ebraica” sia diventata insolubile, occorre ancora una volta richiamare quanto scrive Karl Marx, un ebreo antisionista ‘ante litteram’ per l’appunto, ne “Questione ebraica”:

«La capacità ad emanciparsi dell’ebreo d’oggi è il rapporto del giudaismo verso l’emancipazione del mondo di oggi...

Qual è il fondamento mondano del giudaismo? Il bisogno pratico, l’egoismo. Qual è il culto mondano dell’ebreo? Il traffico. Qual è il suo Dio mondano? Il denaro.

Perciò l’emancipazione dal traffico e dal denaro, dunque dal giudaismo pratico, reale, sarebbe l’autoemancipazione del nostro tempo», la quale, va da sé, è certamente anche emancipazione umana dello stesso ebreo dal suo giudaismo.

La conclusione di Marx è tratta con rigore geometrico, e valendo nei confronti di qualsiasi altro Stato borghese, capitalistico e imperialista, vale ‘a fortiori’ anche nei confronti dello Stato d’Israele: «Se l’ebreo riconosce come non valida questa sua essenza pratica e lavora per la sua eliminazione, egli si svincola dal suo passato verso l’emancipazione umana senz’altro, e si volge contro la più alta espressione pratica dell’autoestraneazione umana».

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