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31/05/2021

Lazzaro Felice (2018) di Alice Rohrwacher - Minirece

In Europa scomparsi 250 mila minori in un anno

Nel 2020 sono scomparsi in Italia 7672 minori. Significa che all’incirca ogni ora sparisce un bambino o una bambina, in parte italiani ma ben 5511, il 71,8%, sono stranieri. Ne sono stati ritrovati 3.332, il 43,3%, il 75% dei quali sono italiani. Il Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse Silvana Riccio ha presentato la consueta relazione annuale e i dati sono allarmanti. Dal primo gennaio 1974 al 31 dicembre 2020 il totale delle denunce presentate per la scomparsa di minori è stato 136.884, di cui 43.655 di nazionalità italiana e 93.229 di nazionalità straniera. I minori di sesso femminile costituiscono il 36,37% delle denunce. Secondo lo studio il numero dei minori stranieri spariti potrebbe essere però ridimensionato. La fascia d’età in principale rilievo è quella tra i 14 e i 17 anni di età, adolescenti identificati solo con il nome al momento dell’arrivo, che una volta giunti in Italia hanno qualche contatto a cui rivolgersi per proseguire il viaggio verso altri paesi europei e dove l’Italia è soltanto un momento di passaggio.

Alcuni casi arrivano in tv. Ma migliaia di minori scomparsi restano senza volto.

A questi vanno aggiunti quelli che finiscono nel circuito dell’accoglienza, strutture da cui è consentito uscire. La casistica dei minori italiani segue invece un percorso diverso. Le cause principali sono allontanamenti volontari e fughe da casa legate a problemi familiari, altre forme di disagio giovanile, problemi di rendimento scolastico. A questi vanno aggiunti i casi di sottrazione tra genitori che diventano intrighi legali internazionali tra genitori separati, spesso legati ai matrimoni misti. In misura minore ma da non sottovalutare ci sono poi i casi legati al mondo del web, al cyberbullismo, all’adescamento online o all’estorsione sessuale, sfere di attività controllate dalla polizia postale ma in costante aumento a causa del tempo sempre più lungo che ragazzi e bambini trascorrono davanti agli schermi di pc, tablet e smartphone.

Analizzando il fenomeno regione per regione su base 1974-2020 troviamo in testa per denunce di scomparsa di minori la Sicilia, con 25.528 di cui 20.535 stranieri, la Lombardia, 21.463 denunce di cui 13.857 stranieri, e Lazio con 15.740 di cui 11.401 stranieri. In Sicilia la percentuale delle denunce di scomparsa relative a minori stranieri è superiore all’80% del totale regionale, in Lombardia è di circa il 64%, nel Lazio del 72% circa. In Sicilia sono stati ritrovati 9.478 minori, 5.073 stranieri, in Lombardia 17.027, 9.715 stranieri, e nel Lazio 11.450, 7.390 stranieri. Le percentuali più basse di denunce di scomparsa le troviamo in Valle d’Aosta, 124 minori scomparsi, in Basilicata, 589, in Molise, 604, e in Umbria, 1.070.

In tutta Europa sono invece 250.000 i bambini e gli adolescenti spariti in un anno, uno ogni due minuti. Il 60% sono adolescenti vittime di abusi, violenze e disagi, il 23% vittime di sottrazione nazionale o internazionale, il 10% sono minori stranieri arrivati nel vecchio continente da soli, i più esposti alle trappole delle organizzazioni criminali che operano su scala transnazionale. Un aspetto particolare della questione è rappresentato dai numeri sui minori forniti dalla Romania. Li hanno ribattezzati gli “orfani bianchi”, 5.924 minori spariti solo nel 2020, 206 di loro hanno meno di 10 anni, 1.453 hanno tra i 10 e i 14 anni e 4.263 hanno più di 14 anni. Negli ultimi cinque anni, il numero di denunce di scomparsa di minori è quasi raddoppiato, tanto che nel 2015 le denunce sono state 3.736 e oggi le denunce sono 9.924. Si ritiene comunque che il fenomeno sia ancora sottostimato e poco studiato. La definizione di “orfani” in realtà non è appropriata perchè si tratta per la maggior parte di figli di persone andate a cercare fortuna in altri Paesi d’Europa, con i bambini che scappano, dopo essere stati affidati a parenti e amici, in primo luogo dall’ambiente scolastico. È un aspetto collaterale dell’emigrazione verso altri Paesi della Ue dei genitori. Secondo l’Unicef nel 2008 erano 350 mila i bambini abbandonati in Romania.

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I Riva condannati per disastro ambientale all’ex Ilva

Impossibile dar conto di tutte le reazioni a seguito della sentenza della Corte d’Assise di Taranto. Qui vi diamo quelli che ci sembrano più significativi, sul piano politico e sindacale.

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Processo Ilva per disastro ambientale: arrivano le condanne in primo grado

Taranto è una città violentata, e la storia dell’ex Italsider è l’emblema dei disastri provocati dall’interesse privato, perseguito senza alcuno scrupolo nei confronti della collettività.

Questa prima sentenza conferma che quando il puro guadagno deve farsi largo tra vincoli ambientali e normativi, i capitani d’industria ricorrono a qualsiasi strumento. A cominciare dalle forti “pressioni” sulla classe politica perché tenga a freno gli enti di controllo. Senza guardare in faccia né la salute dei lavoratori, né quella dei cittadini della comunità circostante; ossia di chi ha fatto la fortuna di quella azienda.

Per ora questa verità si è imposta anche in un’aula giudiziaria. Non sempre ci riesce. Di fronte alla possibilità che venga a galla anche in cento altri casi, del tutto simili, c’è sempre il rischio che si mettano in moto manovre distorsive.

Nelle vicende legali intorno alle tante stragi che costellano la storia di questo paese, la giustizia è in genere lontana dall’essere conquistata. Proprio nelle ultime 24 ore abbiamo assistito alla “strana” decisione del Gip sulla strage del Mottarone – che ha rimesso in libertà il titolare e il direttore dell’impianto – e all’allargamento delle indagini ai lavoratori incaricati dell’esecuzione materiale degli ordini provenienti dall’alto.

È come se a Taranto, per il disastro ambientale, si fosse indagato sugli operai degli altoforni...

Marta Collot, Portavoce Nazionale di Potere al Popolo

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Ex Ilva, i condannati dovranno risarcire USB: riconosciuta la nostra battaglia in difesa di Taranto, dei cittadini e dei lavoratori

La Corte d’Assise di Taranto, presieduta da Stefania d’Errico, giudice a latere Fulvia Misserini, oltre a infliggere pene durissime agli imputati nel processo Ambiente Svenduto, ha disposto una serie di risarcimenti alle parti civili, tra le quali figura l’Unione Sindacale di Base nelle sue articolazioni nazionale, di categoria e territoriali.

A USB, assistita dall’avvocato Francesco Nevoli, sono state riconosciute provvisionali immediatamente esecutive per un totale di 25mila euro, oltre al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede, e al pagamento delle spese legali.

I risarcimenti a USB sono a carico di 23 del 47 imputati: tra loro Fabio e Nicola Riva (condannati a 22 e 20 anni); l’ex direttore dello stabilimento, Luigi Capogrosso (21 anni); l’ex responsabile delle relazioni istituzionali Ilva, Girolamo Archinà (21 anni e 6 mesi); l’ex avvocato dei Riva, Francesco Perli (5 anni e 6 mesi); i cinque fiduciari Gianfranco Legnani, Alfredo Ceriani, Giovanni Rebaioli, Agostino Pastorino ed Enrico Bessone, tutti condannati a 18 anni e 6 mesi; l’ex consulente della Procura, Lorenzo Liberti (15 anni e 6 mesi); l’attuale direttore generale di Acciaierie d’Italia, Adolfo Buffo (4 anni); i manager Ivan Di Maggio, Salvatore De Felice e Salvatore D’Alò (17 anni); l’ex presidente della Regione Nicola Vendola (3 anni e 6 mesi); l’ex presidente della Provincia di Taranto, Giovanni Florido (3 anni); l’ex assessore provinciale all’Ambiente, Michele Conserva (3 anni).

Al di là del valore delle cifre che saranno stabilite, conta più di tutto il riconoscimento della battaglia che USB ha condotto e continua a sostenere contro un’industria che sotto tutte le varie denominazioni ha massacrato Taranto, i suoi abitanti, il suo territorio.

USB Confederazione nazionale

USB Lavoro Privato


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Sentenza ex Ilva, USB: condannato un sistema che ha barattato salute e ambiente con il profitto, ora il governo inverta la rotta

La sentenza del Tribunale di Taranto sull’ex Ilva, con pesanti condanne soprattutto ai Riva e ai vertici dello stabilimento siderurgico, rappresenta un momento di straordinaria importanza perché condanna un metodo tutt’altro che virtuoso utilizzato da chi ha gestito in passato la più grande acciaieria d’Europa e dalla politica che non ha saputo imporsi.

I giudici intervengono per colmare lacune della politica e riparare i danni fatti dalla stessa, che mai come in questa circostanza ha mostrato tutta la sua inadeguatezza. Da qui deve ripartire il governo, interpretando e leggendo la sentenza odierna soprattutto attraverso il grande bisogno di cambiamento della città di Taranto.

Oggi non possiamo che prendere esempio dal passato per evitare di fare gli stessi errori che puntualmente ricadrebbero sulla pelle dei cittadini, dei lavoratori e delle relative famiglie. Il lavoro e l’impresa vanno intesi mettendo al primo posto la persona e la vita stessa.

Per questo motivo il governo è chiamato a invertire immediatamente la rotta e a prendere finalmente in considerazione la piattaforma stilata dall’USB che va nella chiara direzione della riconversione economica del territorio attraverso un accordo di programma. Taranto vuole voltare pagina.

Franco Rizzo

Coordinatore provinciale USB Taranto


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Franz Rosenzweig: intelligenza sana e malata


«Della comune intelligenza sana e di quella malata», edito da Quodlibet, è un libricino scritto da Franz Rosenzweig nel 1921 e pubblicato solo nel 1953.

Nel 1921 l’editore della «Stella della redenzione» aveva chiesto a Rosenzweig di scrivere un piccolo testo introduttivo alla sua opera maggiore, apparsa, sin da subito, persino agli addetti ai lavori, come un testo di difficile comprensione. Rosenzweig non si sottrasse al compito, anche se infine decise di non pubblicare il libretto.

L’interesse per Rosenzweig non è dovuto solo al legame con Benjamin, il quale, come dimostrano molti suoi scritti, era un lettore appassionato della Stella della redenzione (Scholem). L’interesse è dovuto al fatto che oggi – ancora di più oggi – in un momento in cui si vuole la soluzione subito, il giorno stesso, e la si vuole qui, partorita dalla mera ragione; oggi che si concepisce lo smarrimento come errore logico e l’angoscia come arresto della computazione; ebbene, oggi Rosenzweig è di grande attualità. Dunque, vi invito a leggere questo bellissimo libricino.

Il mainstream impone di credere che da una causa segua necessariamente l’effetto e che dalla conoscenza dell’effetto dipenda la conoscenza della causa e che, dunque, data la causa, non solo è necessario che segua un determinato effetto, ma sarebbe contraddittorio che quell’effetto non seguisse.

Tutto ciò si è trasferito sui giornali e nelle trasmissioni di intrattenimento politico, iniziate con Milano-Italia, dove c’era ancora una dose minima di pudore e le farneticazioni logiche (narrazioni) non avevano la pretesa di sussumere l’esperienza, e terminate con PropagandaLive, dove questo difetto è stato emendato e con supponenza si crede di poter risolvere la realtà come si risolve un problema logico-matematico.

Ci siamo sorbiti 30 anni di meccanicismo; abbiamo assunto dosi giornaliere di questa droga, convinti che macchine erano il computer e la fabbrica, mentre le macchine eravamo noi, proprio quando stavamo faccia a faccia a discutere delle cose che più ci stanno a cuore.

Invece di andare avanti pensando a quello che si fa e facendo quello che si pensa, ci si pensa «sopra», dice Rosenzweig, si penetra a fondo nel «problema», nel «tema» e nell’«oggetto».

Così, al posto del flusso vivo del mondo, con tutti i suoi inciampi, le difficoltà, il brancolare nel buio, la possibilità – che è possibilità di sfangarla o di perire, dunque potere di cambiare il corso della storia e potere di non poter far nulla – invece di addentrarci nella vita, ci addentriamo nell’«oggetto» e chiediamo e domandiamo «che cos’è?».

E qualsiasi risposta va bene, a patto che sussista la domanda, a patto che si possa continuare a chiedere e a parlamentare.

Sia come sia, dice Rosenzweig, se la realtà la si infila nello spiedo della domanda «che cos’è?», di essa non rimane nulla, all’infuori di un «oggetto» immortalato.

Chiusi nelle nostre bolle parlamentari, ripetiamo all’infinito la stessa solfa, e all’infinito cerchiamo di ricondurre l’effetto alla causa, e in aggiunta pretendiamo, come se ciò fosse logico – ed in effetti è più che logico – che se ciò non dovesse succedere, il tutto ci apparirebbe contraddittorio.

Incardinati nelle sue leggi, come sonnambuli siamo trascinati dalla storia, siamo chiamati a immetterci nel presente, nel nostro presente, e nel nostro intimo, in noi stessi. Ma dove eravamo prima? – chiede Rosenzweig.

Forse nel passato, forse fuori.

Sì – dice. Eravamo in potenza del passato, e in malia del «fuori» [dell’essenza, della sostanza]. Eravamo un pezzo di mondo. Obbedivamo alle sue leggi, che sono sempre leggi del passato e dell’agire esterno, leggi della causalità.

Cosa libera dall’incardinamento nell’ordine degli effetti e delle cause, cioè del passato?

È la chiamata – dice Rosenzweig.

La chiamata libera da queste leggi. La chiamata ci libera dal mondo nel quale eravamo prigionieri e ci chiama a rientrare nel nostro presente, in un presente sopra il quale, finché la chiamata risuona, nessun passato e nessun «fuori» hanno potere. La chiamata viene sempre dal futuro e sveglia in un istante il sonnambulo.

L’istante, dice Rosenzweig, può salvarsi dalla potenza eternamente invecchiante del passato e della sua legge, che stabilisce cose e cause originarie, soltanto in quanto viene generato nuovo a ogni istante. Questo incessante rinnovamento del presente è opera del futuro.

Il futuro – la Rivoluzione – è l’inesauribile scaturigine dalla quale a ogni istante la forza liberatrice della speranza salta per una stretta porticina, ma solo se la si attende e la si invoca – vieni, vieni.

Il bersaglio principale di Rosenzweig è Hegel.

– Ho ritenuto che la filosofia di Hegel fosse dannosa già fin da quando iniziai a scrivere «Hegel e lo Stato» (nel 1912), dice Rosenzweig a Rudolf Stahl in una lettera del 1925.

– Avrei voglia di dire una volta in maniera così chiara che lo capiscano anche coloro che hanno la libera docenza che il sistema hegeliano è errato nel suo insieme e nelle sue parti (lettera a Nahum Glatzer del 1928).

Nella Prefazione alla seconda edizione (italiana) della Stella, Gianfranco Bonala, che è anche il traduttore del Libretto, dice che la Stella è un’opera tanto originale e teoreticamente trasgressiva da lasciare sconcertati e rendere arduo lo sforzo di definirne il genere e, ancora più, la portata.

Ecco un altro motivo per leggere il Libretto.

Poi aggiunge qualcosa che complica ulteriormente la lettura di questo straordinario libro: la dipendenza di Rosenzweig da Hegel.

Hegel, dice Bonola, è l’avversario principale che Rosenzweig sfida, ma dalla cui stretta non riesce, infine, a sottrarsi davvero. “L’aspetto che ora più mi balza agli occhi, dice, è che proprio l’individuazione del momento epocale in cui il nuovo pensiero di Rosenzweig può venire alla luce è ancora determinata da una concezione del percorso del pensiero occidentale totalmente dipendente dalla storia hegeliana della filosofia, e dalla sua proclamata conclusione nel momento in cui, hegelianamente, la teoresi arriva a inglobare la storia della filosofia come suo oggetto“.

Infatti, dice Bonola, la fuoriuscita dalla filosofia hegeliana può venire proclamata solo se si condivide l’idea hegeliana di un pensiero concepito come unitario, interconnesso e mosso da una dinamica interna, onninclusivo.

Volersi liberare di Hegel, andare oltre Hegel, ignorare Hegel non ha alcun senso.

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L’Unione Europea va alla guerra

Seguiamo attentamente l’evoluzione dell’intervento militare dei Paesi dell’Unione Europea in Africa, in particolare della Francia, ex potenza coloniale che sta allargando i confini della sua iniziativa – che difende innanzitutto gli interessi delle multinazionali francesi – oltre i propri tradizionali perimetri di penetrazione coloniale.

Allo stesso tempo, abbiamo cercato di monitorare le responsabilità europee nella feroce repressione nei confronti dei movimenti di opposizione a regimi funzionali ai progetti dell’Unione Europea, grazie a corpi militari addestrati ed in parte armati dal Vecchio Continente: Sudan, Mali e Ciad, per fare solo alcuni esempi recenti.

Potremmo allargare il discorso al ruolo di gendarme affidato alla Turchia o al Marocco per ciò che concerne il controllo dei flussi migratori, per non parlare del nefasto ruolo della Guardia Costiera Libica.

Prendiamo poi in considerazione quanto l’Unione Europea, di nuovo Francia in primis, chiuda un occhio nei confronti di veri e propri dittatori funzionali al mantenimento della propria egemonia che minano la possibilità di intraprendere processi realmente democratici nei rispettivi Paesi. Il che incrementa legittimamente, per reazione, l’ostilità soprattutto delle nuove generazioni nei confronti non solo di politici corrotti filo-francesi ma anche degli interessi economici di Parigi in loco, dal momento in cui ormai l’emigrazione non ha quasi più uno sbocco praticabile lungo i flussi tradizionali.

La cronaca ci offre ogni giorno spunti sufficienti per comprendere come la tenuta dei vecchi attori neo-coloniali in Africa sia in crisi – anche a causa di una insorgenza jihadista che ormai riguarda tutto il continente. Mentre l’influenza economica cinese, o quella militare russa, stanno lentamente destabilizzando gli storici “equilibri” africani, quasi sempre disegnati da un modello di sviluppo neo-coloniale che ha avvantaggiato una ristrettissima porzione della popolazione, drenato la rendita di importanti risorse verso l’Europa (materie prime in particolare), imposto la servitù monetaria, impoverendo i più e cristallizzando un quadro politico difeso militarmente in prima persona dalla vecchia potenza coloniale o da una più larga alleanza.

In questo quadro l’Italia si è andata ad infilare in un sempre più pericoloso ginepraio nel Sahel (ma non solo), che pensiamo non tarderà ad avere le sue ricadute negative a tutto campo, come le ha avute prima in Afghanistan e poi in Iraq. Teatri dove abbiamo subalternamente appoggiato missioni militari di natura neo-coloniale, di cui il tempo si è incaricato di mostrare empiricamente la natura fallimentare (dal punto di vista della politica estera del nostro Paese), oltreché micidiali soprattutto per le popolazioni che le hanno subite.

Ma non sembra che l’attuale classe politica nostrana abbia fatto tesoro di questa lezione, restando serva di due padroni: la Nato e l’Unione Europea.

Nell’articolo che abbiamo qui tradotto appare chiaro come l’Unione Europea, con lo European Peace Facility, compia un “salto di qualità” nell’articolazione delle politiche neo-coloniali in Africa, trovando tra l’altro un mercato di sbocco alla sempre più fiorente industria bellica continentale, per tagliare quindi la strada a possibili competitor nel proprio “giardino di casa”.

Come riporta Peel: «I soldi arriveranno da un nuovo fondo da 5 miliardi di euro in sette anni stranamente noto come European Peace Facility. L’EPF è la più significativa espansione ad oggi nell’accrescimento dei tentativi dell’UE di proiettare “hard power” in modo da influenzare conflitti internazionali particolarmente in regioni vicine ai propri confini come l’Est Europa e l’Africa».

La proiezione dell’hard power dell’Unione potrebbe portare alla creazione di un corpo di proiezione rapida (preconizzato da tempo) a trazione franco-tedesca da impiegare nei teatri di guerra fuori dai confini europei.

«La nuova postura militare emergente dell’UE», afferma il giornalista del Financial Times, «potrebbe includere il riavvio di una forza a reazione rapida che intervenga nelle crisi internazionali. Nel 2007, il blocco creò due gruppi di battaglia pronti ad intervenire in varie aree calde del mondo, ma non sono mai state messe in campo. Ora 14 paesi, tra cui Francia e Germania, stanno studiando la creazione di un’unità di 5.000 soldati che possa essere sorretta da navi e aerei.»

Di fatto, un salto di qualità nell’affermazione di quell’auspicata autonomia strategica, attraverso una stretta cooperazione europea a fini operativi, che riguarderebbe due storici strumenti di affermazione militare come l’aviazione e la marina per “portare gli scarponi” di un esercito europeo lì dove più serve.

Nel far questo, si è cercato di aggirare quei meccanismi decisionali che avrebbero potuto rilevarsi dei “colli di bottiglia” per l’articolazione pratica del progetto, di fatto creando una sorta di Europa a due velocità anche per la governace militare: si marginalizzano i governi dei Paesi non disposti ad entrare nel progetto della EFP, in modo da non mutilare le aspirazioni imperialiste dei Paesi core.

Spiega infatti l’autore che: «Le nazioni che non si sentono particolarmente favorevoli all’EPF possono semplicemente uscirne piuttosto che porre un veto. Non contribuiranno finanziariamente al progetto e quindi non potranno dire di aver partecipato (...) Se un paese membro particolarmente forte decide di dover intervenire, altri paesi sarebbero riluttanti nel confrontarlo. Questi piani sarebbero bloccati solo se si astenesse un terzo dei paesi che rappresenta un terzo dei cittadini membri».

Considerando che chi tiene in mano le leve del potere politico-economico ed i cordoni della borsa ha la capacità di influenzare ampiamente l’opinione degli altri governi in UE, questo “potere di veto” concede un ampio margine alle future imprese belliche dell’Unione Europea per mantenere o imporre i propri “figli di puttana” (parafrasando un diplomatico nord-americano).

Un deciso passo in avanti nel processo di integrazione europea in uno degli aspetti in cui mostrava ancora i suoi limiti, ed un completamento del complesso militar-industriale di cui si osservano puntuali cadute nella bozza di Recovery Plan inviata a Bruxelles dall’Esecutivo Draghi.

E chi vuole la guerra si prepara alla guerra, altro che chiacchiere.

Buona lettura.

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La morte in aprile del dittatore del Ciad, Idriss Déby, sul campo di battaglia, ha prodotto numerosi omaggi da parte di Bruxelles. Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione Europea, ha twittato ricordando un “alleato nella lotta contro il terrorismo”.

Josep Borrell, capo della politica estera europea, ha acclamato una “figura politica storica”, i cui sforzi per mantenere la sicurezza regionale sono stati “duraturi e solidi”. Queste sono affermazioni che colpiscono. L’Unione Europea si impegna retoricamente per la democrazia e i diritti umani, ma...

Déby è stato un signore della guerra trasformatosi in cleptocrate che ha governato brutalmente il proprio paese senza sbocco sul mare per più di trent’anni. Le lodi sono state il presagio di un importante cambiamento nella politica estera e securitaria dell’UE.

Per la prima volta, al blocco europeo è concesso di armare regimi quali quello di Déby nel nome della “lotta al terrorismo”, proteggendo i cittadini e stabilizzando stati fragili. I soldi arriveranno da un nuovo fondo da 5 miliardi di euro in sette anni, stranamente noto come European Peace Facility (chiamare “pace” uno strumento di guerra è un classico, nella letteratura distopica dopo Orwell, ndr).

L’EPF è ad oggi la più significativa espansione nell’accrescimento dei tentativi dell’UE di proiettare “hard power” – in modo da influenzare conflitti internazionali, particolarmente in regioni vicini ai propri confini come l’Est Europa e l’Africa.

Borrell ha definito la logica dell’uso delle armi come risolutore di conflitti con tipica schiettezza, affermando l’anno scorso che “per fermare le armi, dispiace dirlo, ma abbiamo bisogno di armi”. “Non fermeremo i terroristi semplicemente facendo la morale”, dice. “Abbiamo bisogno di armi. Abbiamo bisogno di capacità militari e questo è ciò che abbiamo bisogno di provvedere per aiutare i nostri amici africani. Perché la loro sicurezza è la nostra sicurezza”.

La mossa è ambigua, nonostante l’insistenza dell’UE che ha come obiettivo il “rafforzamento di forze armate democratiche e responsabili”. I critici descrivono l’invio diretto di armi tramite l’EPF come un cambiamento pericoloso e dicono che minaccia di consolidare una dittatura e il conflitto perenne in uno dei paesi più poveri al mondo.

Alcuni scettici affermano che l’UE ha imparato la “lezione sbagliata” dopo decenni di campagne militari occidentali distruttive, come quelle in Iraq o Afghanistan. Pensano sia perverso che l’UE suggerisca che la risposta sia maggior intervento militare.

“C’è una crescente contraddizione nell’approccio europeo a conflitti e crisi”, spiega Lucia Montanaro, capo dell’ufficio dell’Unione Europea di Saferworld, un’agenzia non-governativa che si occupa di conflitti. “I suoi forti impegni nel promuovere i diritti umani, l’uguaglianza di genere e il controllo sulle armi stanno venendo profondamente oscurati dagli sforzi nel migliorare le capacità combattive di partner autoritari. Questo potrebbe mettere in pericolo la pace e la stabilità in stati fragili e a peggiorare la reputazione stessa dell’Unione Europea.”

L’Unione Europea ha avuto per anni difficoltà nel diventare la potenza che vorrebbe essere in tema di politica estera. Il suo ruolo di successo nel coordinare gli accordi nucleari con l’Iran nel 2015 ha stabilito un elevato punto diplomatico che ha finora avuto difficoltà a raggiungere nuovamente.

Come ministro degli esteri spagnolo, Borrell si è lamentato del fatto che il rituale incontro con i propri omologhi era di solito “una valle di lacrime”, incapace di influenzare gli eventi globali. Il blocco europeo, vincitore del Premio Nobel per la Pace nel 2012, storicamente si è approcciato come conciliatore, ma molti dei suoi membri hanno stabilito che deve avere un profilo più securitario.

Il blocco si scontra più frequentemente con la Russia e una Cina assertiva e si sta focalizzando maggiormente sul “terrorismo” dopo numerosi attentati avvenuti sul proprio suolo.

Ha inoltre preso maggiori misure securitarie dopo l’ondata di migrazioni nel Mar Mediterraneo dall’Africa del 2015-2016. L’arrivo di 6mila persone nell’enclave nord africana spagnola di Ceuta la scorsa settimana ricorda quanto è diventata nevralgica la questione migratoria per molti leader europei.

Altre pressioni esterne hanno convinto gli europei ad espandere i propri obiettivi militari. Gli Stati Uniti sperano da molto tempo che [gli europei] spendano di più per le proprie forze armate e prendano più responsabilità a stabilizzare paesi vicini ai propri confini, come l’Ucraina e la Georgia.

Allo stesso tempo, l’addio del Regno Unito ha rimosso un grande ostacolo nella possibilità di cooperazione militare tra i vari paesi membri. La nuova postura militare emergente dell’UE potrebbe includere il riavvio di una forza a reazione rapida che intervenga nelle crisi internazionali.

Nel 2007, il blocco creò due gruppi di battaglia pronti ad intervenire in varie aree calde del mondo, ma non sono mai stati messi in campo. Ora 14 paesi, tra cui Francia e Germania, stanno studiando la creazione di un’unità di 5.000 soldati che possa essere supportata da navi e aerei.

L’EPF è al cuore dei piani di sicurezza dell’UE. I suoi sostenitore lo descrivono come un importante strumento in un mondo “a somma zero” dove se l’Unione Europea non interviene, i suoi rivali lo faranno.

Florence Parly, il ministro della difesa della Francia, descrive la Repubblica Centrafricana, dove la Russia sta attualmente aiutando il governo locale a combattere un movimento di ribelli, come un esempio preoccupante. I paesi africani più preoccupanti, dal punto di vista della sicurezza dell’UE, sono stati tutti occupati in passato dalla Francia.

“Se vuoi valorizzare quello che si sta facendo, bisogna ammettere che viviamo in un mondo difficile”, ha detto Parly a febbraio, parlando della necessità dell’EPF. “Altrimenti se si lascia la stanza vuota, ci saranno altri che la verranno ad occupare immediatamente”.

João Gomes Cravinho, ministro della difesa portoghese, asserisce che l’EPF sarà un’”aggiunta indispensabile” alla “cassetta degli attrezzi” della sicurezza europea. Permetterebbe di cambiare l’”assurda situazione” nella quale si addestrano le forze armate africane, ma non le si equipaggiano.

Cravinho riconosce le “esperienze negative” delle precedenti campagne militari occidentali, ma dice che le conseguenze del non far nulla sono potenzialmente “devastanti”, particolarmente in zone dove gruppi di militanti islamisti sono attivi.

“Lo sviluppo di una regione di ingovernabilità in larga parte d’Africa avrà sicuramente ripercussioni negative sulla sicurezza in Europa”, aggiunge Cravinho, riferendosi ad un grande numero di paesi che vanno dalla Mauritania sulla costa ovest al Sudan su quella est. “Ciò è qualcosa che non possiamo permetterci”.

Un papabile obiettivo specifico dell’EPF è la regione del Sahel, schiacciata tra la costa tropicale dell’Africa occidentale e il nord desertico. Una missione d’addestramento militare dell’UE supporta una campagna innescata dalla Francia ed altre forze locali per disarcionare gruppi islamisti. Potrebbe coinvolgere più di 1.000 unità provenienti da 25 paesi.

L’UE ha distribuito 1,3 miliardi di euro per missioni di assistenza alla sicurezza e progetti nel Sahel negli scorsi sette anni, secondo ricerche provenienti da Saferworld. Le attività spaziavano dall’addestrare forze di controterrorismo maliane al rafforzamento delle truppe di confine del Ciad.

L’equipaggiamento fornito include veicoli corazzati, droni, barche, aerei ed equipaggiamento da controllo delle persone, ma non armi, escludendo quelle fornite dagli stati membri individualmente e secondo le proprie leggi nazionali. L’UE dice di aver speso circa l’80% dei 4,7 miliardi di euro di spese per 5 paesi del Sahel dal 2014 ad oggi per sviluppo e stabilizzazione.

L’EPF è il tentativo di sintetizzare e ed espandere l’investimento istituzionale europeo. I diplomatici suggeriscono che i finanziamenti futuri potranno essere utilizzati per infrastrutture quali piccoli magazzini per armi e sistemi di identificazione biometrici per prevenire furti, o anche per acquistare armi loro stessi.

Una preoccupazione sempre più centrale è la dinamica di forte cambiamento di zone di conflitto in cui tutte le parti in campo finiscono per commettere atrocità. Le armi europee potrebbero essere usate dalle forze a cui sono date per abusi di diritti, o potrebbero cadere nelle mani di forze ostili che rovesceranno il governo.

“Questo non aiuterebbe la credibilità dell’UE”, ammette un diplomatico di Bruxelles che supporta in genere l’EPF.

Il Mali cristallizza molte delle sue paure. L’UE ha sospeso la propria missione lì ad agosto, quando un colpo di stato ha rovesciato il governo. Ma ha deciso di tornare all’azione ad ottobre, quando è stato formato un nuovo ampio governo diretto da un colonnello in pensione.

Le forze armate del Mali ed altri paesi del Sahel rischiano di essere travolte dai militanti [jihadisti]. Le forze governative locali sono state più volte citate in giudizio per violazioni dei diritti umani ed esecuzioni sommarie.

Dal colpo di stato in Mali, sono emerse molteplici accuse di abusi perpetrate da parte di forze anti-terrorismo governative. I soldati hanno ucciso 34 residenti in villaggi, ne hanno rapito 16 e hanno maltrattato diversi prigionieri, tra ottobre e marzo, secondo testimonianze raccolte da Human Rights Watch.

L’UE si aspetta un’inchiesta sulle accuse e il Mali dice di averne aperta una. Le possibilità dell’EPF di rinforzare governi abusivi ha attratto diverse critiche da gruppi della società civile.

“Per noi in Mali, stabilizzazione significa stabilizzazione dello status quo militare”, dice Assitan Diallo, presidente dell’Associazione di Donne Africane per la Ricerca e lo Sviluppo. La Somalia, dove le truppe spesso si addestrano con fucili di legno e infradito, sottolinea altre potenziali difficoltà.

Le forze lì addestrate dall’UE dovrebbero essere all’altezza di combattere contro gruppi insorgenti come Al-Shabaab, ma rischiano di diventare parte di una ricerca del potere locale che rischia di amplificarsi. Le truppe governative somale e i sostenitori dell’opposizione si sono sparati addosso durante le proteste a Mogadiscio dello scorso febbraio.

La missione d’addestramento dell’UE lì ha fallito nel progettare meccanismi a lungo termine o risolvere le dinamiche sociali basate sui clan del paese, dice un esperto della Somalia. Omar Mahmood, un analista senior della Somalia all’International Crisis Group, rivela che l’UE ha trovato difficile addestrare battaglioni trans-clanici.

Paul Williams, un professore alla George Washington University, sostiene che la missione europea ha avuto un notevole apporto nel migliorare le prestazioni della fanteria leggera, ma ha fallito nel monitare e supportare i propri ex “studenti”.

L’UE dice di star lavorando per migliorare il monitoraggio. Le preoccupazioni riguardo le responsabilità sono familiari grazie all’esperienza europea precedente in zone di conflitto, alcune delle quali potrebbero essere degli obiettivi per l’EPF.

Le guardie costiere libiche addestrate dall’UE sono state accusate di violazioni dei diritti umani nelle loro operazioni di blocco dell’immigrazione tra il Mediterraneo e i paesi europei. Nel 2018, il consiglio di sicurezza dell’ONU ha imposto sanzioni causate da probabile traffico di esseri umani su Abd al-Rahman al-Milad, capo di un’unità della guardia costiera libica. L’UE dice di non aver addestrato Milad, ma non ha ancora fornito informazioni se abbia o meno addestrato uomini nella sua unità.

Nel Myanmar, l’UE ha bloccato i propri programmi di addestramento di polizia a febbraio, dopo il colpo di stato militare contro il governo di Aung San Suu Kyi. Riconosce che alcuni membri della polizia hanno preso parte alla brutale repressione dei manifestanti contro il golpe. L’UE ha riferito che non è dato sapere se sono stati coinvolti i 300 capi unità che aveva addestrato. “L’UE non ha mai inviato equipaggiamento a militari o polizia del Myanmar”.

Ci sono inoltre dubbi sull’EPF a livello governativo e legislativo nell’UE. Controlli dettagliati non sono mai stati pubblicati perché contengono “informazioni sensibili di natura militare e difensiva”, dice l’UE. Tuttavia, ogni supporto a forze armate alleate includerà compiti di vigilanza da parte del governo beneficiario per rendere sicuri che non sarà usato male, aggiunge l’Unione.

Una preoccupazione particolare riguarda il probabile uso da parte degli stati membri di una procedura speciale per mettere da parte i requisiti europei di unanimità negli affari militari esteri. Questo riguarda in particolar modo paesi quali l’Austria, la Svezia e l’Irlanda, che hanno storicamente preoccupazioni per i diritti umani o tradizionalmente sono paesi neutrali. Il processo sfrutterebbe uno strumento interno ai trattati Ue raramente usato chiamato “astensione costruttiva”.

Le nazioni che non si sentono particolarmente favorevoli all’EPF possono semplicemente uscirne piuttosto che porre un veto. Non contribuiranno finanziariamente al progetto e quindi non potranno dire di aver partecipato.

Un altro diplomatico europeo afferma che l’astensione sembra essere un modo per voltare le spalle mentre le decisioni vengono prese. “Potremmo pensare che è una cattiva idea, ma non è così malvagia. Vogliamo semplicemente prevenire che l’UE faccia questo”, dice l’ufficiale.

I critici argomentano che questo girare intorno ai problemi fiaccherà le misure di restrizione internazionali riguardo all’approvvigionamento di armi. Se un paese membro particolarmente forte decide di dover intervenire, altri paesi sarebbero riluttanti nel contrastarlo.

Questi piani sarebbero bloccati solo se un terzo dei paesi che rappresenta un terzo dei cittadini membri si astenesse. Lo scenario dell’astensione esemplifica una più ampia mancanza di responsabilità nella pianificazine dell’EPF, afferma Hannah Neumann, un’eurodeputata verde tedesca.

Membro del sottocomitato alla difesa e alla sicurezza del Parlamento Europeo, Neumann dice di non essersi opposta all’EPF, all’inizio. Ma ha paura che una mancanza di analisi del conflitto e un’osservazione democratica da parte dell’UE porterà ad una mancanza di controllo su come opererà.

“Spostandolo su un livello europeo significa un’ampia diffusione di responsabilità: vuol dire che ognuno sarà a capo di qualcosa e nessuno sarà a capo di qualcosa”, afferma Neumann. “È un ibrido senza trasparenza, supervisione parlamentare e staff adeguato“.

L’UE afferma che le preoccupazioni sull’EPF sono eccessivamente amplificate e che la sua governance è responsabile. Un ufficiale senior sostiene che l’Unione Europea non avrà mai il “grilletto facile”.

“Ci sono molti cittadini europei che sono preoccupati riguardo il danno politico, securitario e di reputazione che un singolo passo falso potrebbe recare”, afferma. “Il rischio sta proprio nel mantenerlo con troppa precauzione proprio perché conosciamo il rischio a cui andiamo incontro schierandoci sul campo.”

In Ciad, una dittatura militare capeggiata da Mahamat Idriss Déby Itno ha preso il potere immediatamente dopo la morte di suo padre. La presa di potere ha fatto esplodere proteste e repressione che ha portato a 6 morti e 700 arrestati. Giorni dopo aver partecipato al funerale del padre di Déby assieme al presidente francese Macron, il 23 aprile, Borrell è stato costretto a pubblicare un comunicato in cui si condannava la violenta repressione sotto la dittatura del figlio dell’ex presidente.

È stato un promemoria per la sottile linea che l’UE sta varcando in cerca della propria influenza internazionale.

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Spiarsi, tra "alleati" NATO

Gli Usa spiavano la Merkel, ma con l’aiuto dei danesi. Lo spionaggio tra “alleati” rischia di diventare norma. Ne avevamo già parlato sul nostro giornale in occasione dell’arresto di un ufficiale della Marina Militare italiana che avrebbe fornito informazioni riservate della Nato alla Russia.

Ma la vicenda è tornata a galla per una inchiesta del quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung. La NSA (Agenzia per la sicurezza nazionale) degli Stati Uniti ha spiato diversi esponenti politici europei con l’appoggio del Servizio per le informazioni della difesa (Fe), l’agenzia di intelligence militare della Danimarca.

Secondo il Suddeutsche Zeitung, l’attività di spionaggio è stata avviata nel 2012-2013 e rientra nello scandalo delle intercettazioni degli alleati europei degli Usa attuate dall’Nsa.

Con riguardo alla Germania, tra i politici spiati risultano esserci Angela Merkel, l’allora ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier – dal 2017 presidente della Repubblica – e Peer Steinbrueck, dal 2005 al 2009 ministro delle Finanze e nel 2013 candidato cancelliere del Partito socialdemocratico tedesco (SpD). Ma ad essere intercettati risultano essere stati anche politici di Francia, Svezia e Norvegia.

Le informazioni della Suddeutsche Zeitung costituiscono un nuovo sviluppo dello scandalo che ha travolto i servizi segreti della Danimarca (in sigla Fe) per la sua collaborazione con l’NSA statunitense.

Insomma gli alleati nella Nato che si spiano tra loro non è proprio una bella immagine, ma è la realtà.

Nel 2020, la vicenda ha costretto alle dimissioni l’intera dirigenza del servizio d’intelligence danese. Per paradosso, ma non troppo alla luce di quanto emerso, lo stesso direttore dell’Fe, Thomas Ahrenkiel, era stato addirittura nominato ambasciatore della Danimarca proprio a Berlino.

Ma in conseguenza dello scandalo delle intercettazioni, Ahrenkiel non ha potuto assumere tale funzione.

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Neocolonialismo blu /2

La seconda puntata dell’inchiesta di Kendall Dix (qui potete trovare la prima) sull'”ambientalismo finanziario”. Ossia su come sedicenti “organizzazioni ambientaliste” usano il debito pubblico di alcuni paesi per distruggerne le economie e ridurli a resort esclusivi per benestanti occidentali.

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The Nature Conservancy: un’organizzazione no profit con più soldi di alcune nazioni

TNC è stata fondata negli Stati Uniti nel 1951 ed è una delle più grandi organizzazioni no profit ambientali del mondo. La missione di TNC è di proteggere la natura dalle attività umane, un’idea fondata sulla convinzione che gli esseri umani e la natura non possono coesistere.

Il suo strumento preferito per la conservazione sono le servitù, che sono restrizioni allo sviluppo che possono essere attribuite alla proprietà attraverso contratti di vendita privati. Queste servitù possono fornire grandi agevolazioni fiscali per i ricchi donatori e partner di TNC, che includono compagnie petrolifere, Dow Chemical, e la divisione di beneficenza del gigante farmaceutico Eli Lilly and Co.

TNC è presente in 79 paesi e ha un finanziamento di 6 miliardi di dollari. Al contrario, l’intero PIL delle Seychelles è inferiore a 1,7 miliardi di dollari. TNC è finanziata da sovvenzioni di grandi fondazioni e quote associative, ma genera anche entrate attraverso redditi da investimento e donazioni di terreni.

Nel 2001, TNC ha ampliato il suo centro di attenzione per includere swap “debito per natura”, dove ha utilizzato uno schema simile nelle foreste del Sudest asiatico e dell’America centrale come alle Seychelles per acquistare il debito delle nazioni in cambio della creazione di più riserve naturali.

Nell’accordo con le Seychelles, TNC ha lavorato direttamente con la Banca mondiale (l’organizzazione sorella dell’FMI) per acquistare parte del debito del paese in cambio della creazione di 13 nuove AMP. TNC si prende il merito per la protezione delle barriere coralline dai pescatori, ma riceve anche pagamenti di interessi del 3% sul debito del governo seychellese.

La Banca Mondiale afferma che sta sostenendo le “obbligazioni blu” perché un oceano più sano creerà un’economia più sana. L’impegno dichiarato per un oceano più sano è ammirevole, ma l’attuazione dell’obiettivo da parte della Banca Mondiale coinvolge tattiche che sono paternalistiche, coercitive e avvantaggiano principalmente le grandi società.

Inoltre, il valore economico delle AMP è difficile da quantificare. Alcuni studi hanno scoperto che le AMP non offrono benefici ambientali, in particolare se confrontate con gli strumenti convenzionali utilizzati per la gestione della pesca, come limiti di cattura o restrizioni sull’attrezzatura.

Quindi, se i benefici ambientali ed economici sono dubbi, allora ci si deve chiedere se questo accordo debba davvero andare a beneficio del popolo seychellese. The Nature Conservancy e le grandi banche europee che detengono i loro debiti avrebbero potuto semplicemente condonare il debito delle Seychelles, ma nelle parole del colono Winston Churchill, ciò avrebbe lasciato che una buona crisi andasse sprecata.

Con una minore pressione del debito sulla sua economia, le Seychelles sarebbero state più libere di utilizzare le proprie risorse naturali e finanziarie come ritenevano necessario.

In qualità di più grande organizzazione no profit ambientale degli Stati Uniti, la TNC controlla vaste aree di terreno e genera entrate a livelli paragonabili alle piccole nazioni, in parte grazie al pagamento degli interessi da parte delle Seychelles e di altre nazioni del Sud del mondo.

Il denaro di TNC e la sua influenza le offrono opzioni notevolmente maggiori rispetto ad altre organizzazioni no profit ambientali per influenzare la direzione della protezione ambientale. Quando TNC adotta “soluzioni basate sul mercato“, i politici e altri gruppi ambientalisti iniziano a vedere queste tattiche come appropriate ed efficaci.

In altre parole, il notevole peso politico ed economico di TNC aumenta la legittimità percepita delle soluzioni basate sul mercato e indirizza gli altri a saltare sul carro dei vincitori.

Anche in questo caso, l’efficacia delle AMP rispetto ai benefici per l’ambiente è messa in discussione. Ma anche se le AMP offrono la migliore protezione dai danni causati dalla pesca, non fanno ancora nulla per proteggere le aree marine dai cambiamenti climatici o da altri fattori di stress ambientali sulla pesca.

Le AMP non prevengono i danni alle barriere coralline causati dall’inquinamento che ha origine sulla terraferma. Le Seychelles hanno perso il 90 per cento delle barriere coralline nel 1998 non a causa della pesca eccessiva, ma per lo sbiancamento dei coralli, che è aggravato dal riscaldamento delle acque e dai cambiamenti climatici.

Se le AMP non proteggono dai cambiamenti climatici o dalle minacce dello sviluppo e potrebbero non migliorare nemmeno la produzione della pesca, le obbligazioni blu iniziano ad assomigliare molto a una conservazione coercitiva progettata per avvantaggiare i ricchi stranieri.

Sappiamo anche che lo sviluppo immobiliare danneggia le barriere coralline, quindi è lecito ritenere che gli hotel costruiti durante il boom del turismo abbiano anche svolto un ruolo nella distruzione delle barriere coralline che ha contribuito a creare la giustificazione per l’emissione di “obbligazioni blu”.

Ironia della sorte, uno dei punti di forza economici delle obbligazioni blu è che la protezione delle barriere coralline manterrà a galla l’economia turistica, il che potrebbe creare la domanda di più hotel che danneggerebbero ulteriormente le barriere coralline.

Questo crea un ciclo di retroazione in cui la conservazione può effettivamente esercitare una maggiore pressione sull’ambiente, come documentato in luoghi come Machu Picchu in Perù e in diversi parchi nazionali statunitensi.

Una storia di estrazione

La descrizione della Banca Mondiale delle obbligazioni blu come “pionieristiche” è indicativa. La parola “pionieristico” evoca una storia di espansione coloniale europea, estrazione di risorse e dominio su persone dalla pelle più scura. Per diversi secoli, le Seychelles hanno funzionato come un avamposto europeo che utilizzava le risorse naturali dell’arcipelago a beneficio degli europei.

Si suppone che fossero disabitate fino a quando non furono colonizzate dai francesi nel 1700. Prima come colonia francese e poi britannica, le Seychelles erano principalmente una fonte di spezie, noci di cocco e altri prodotti agricoli che venivano prodotti nelle piantagioni con lavoro schiavistico. Oggi, la maggior parte della sua gente è creola o di discendenza mista europea e africana.

La colonizzazione iniziale delle Seychelles avvenne durante il periodo di massimo splendore del commercio triangolare, che fu uno dei primi modelli economici di globalizzazione nei secoli XVII e XVIII. Gli schiavisti europei e nordamericani deportavano persone dall’Africa per il mercato degli schiavi e le mandavano nelle colonie del cosiddetto Nuovo Mondo.

I coloni hanno usato questo lavoro forzato per trasformare le vaste risorse naturali del Nord America e inviare prodotti a valore aggiunto in Europa dove avrebbero ottenuto un prezzo più alto. Gli schiavisti europei potevano quindi scambiare in Africa questi prodotti fabbricati con più schiavi.

L’intero sistema è stato finanziato dalle banche europee. Fu in questo contesto che le Seychelles furono colonizzate. Lo stesso modello di estrazione e saccheggio dell’Africa basato sulle risorse continua ancora oggi attraverso la conservazione coercitiva.

Nel 1971, le Seychelles erano ancora sotto il controllo coloniale diretto. Gli inglesi costruirono un aeroporto internazionale e il turismo sostituì rapidamente l’agricoltura e la pesca come settore numero uno. Gli hotel germogliarono in tutto l’arcipelago e presto dominarono l’economia locale.

Nel 1976, un movimento indipendentista guidato dai socialisti ottenne il sostegno popolare e (con la benedizione del governo degli Stati Uniti che all’epoca stava costruendo una base militare su una delle isole) le Seychelles finalmente si liberarono politicamente dal Regno Unito.

L’economia, tuttavia, ha continuato a dipendere dal sostegno dei turisti e dagli investimenti stranieri. Entro il 2019, servizi come turismo e settore bancario rappresentavano oltre il 72% del PIL delle Seychelles. Tuttavia, molto poco del denaro è rimasto alle Seychelles. Dall’inizio del boom, i profitti del settore turistico sono stati catturati da società alberghiere e agenzie di prenotazione straniere.

Il futuro della conservazione?

Il modello delle obbligazioni blu potrebbe non essere ancora per molto tempo limitato alle Seychelles. TNC continua a promuovere i benefici delle obbligazioni blu e delle riserve marine, ma le obbligazioni blu potrebbero anche svolgere un ruolo crescente nella politica sul clima e sugli oceani del prossimo presidente degli Stati Uniti.

Heather Zichal, che era la vicepresidente per gli affari societari di The Nature Conservancy quando furono emesse per la prima volta le obbligazioni blu, ha fornito consigli per la campagna di Biden sulla politica ambientale. È stata anche brevemente direttrice esecutiva della Blue Prosperity Coalition, un’organizzazione concentrata sulla limitazione della pesca al 30% degli oceani.

La scellerata alleanza di The Nature Conservancy con le compagnie di combustibili fossili e le grandi banche rappresenta tutto ciò che è sbagliato nell’ambientalismo moderno.

In precedenza, Zichal aveva affermato di voler creare una politica ambientale che trovasse un “compromesso” con le compagnie petrolifere e del gas. Sembrerebbe incompatibile per qualcuno che lavora per conto dell’oceano trovare una causa comune con le aziende responsabili dell’acidificazione degli oceani attraverso il rilascio di emissioni di carbonio, mentre attivamente impediscono qualsiasi azione significativa per il clima.

Tuttavia, Zichal ha anche collegamenti finanziari con l’industria petrolifera e del gas. Era pagata più di $ 180.000 all’anno per fare parte del consiglio di amministrazione di Cheniere Energy, una compagnia di gas naturale. È stata nominata membro del consiglio di amministrazione di Cheniere poco dopo aver lasciato l’amministrazione Obama, dove ha servito come Vice assistente del Presidente per l’energia e il cambiamento climatico.

Zichal era stata identificata come una delle principali preoccupazioni da gruppi progressisti che non volevano che Biden la coinvolgesse nella nuova amministrazione.

Ora che Biden è presidente, Zichal è stata assunta per dirigere una nuova società di lobbying per le energie rinnovabili che cercherà di utilizzare i suoi collegamenti con la nuova amministrazione per spingere per un maggiore sostegno per l’eolico e il solare.

La carriera di Zichal è un perfetto esempio della “porta girevole” della politica, dove funzionari governativi di alto livello possono lasciare il lavoro nell’amministrazione federale per posizioni di rilievo nel mondo no profit / consulenza aziendale mentre lavorano nel consiglio di amministrazione di alcuni dei peggiori inquinatori del mondo.

Un approccio aziendale all’ambientalismo che perpetua i sistemi di dominio non è solo viziato; è destinato a fallire a lungo termine perché continua a potenziare le stesse forze che vedono la “natura” come qualcosa che può essere consumato fino a quando non è più redditizio.

TNC non è certamente l’unica organizzazione no profit che aiuta a sostenere un sistema economico globale fondato sull’estrazione, ma è una dei maggiori beneficiari no profit di donazioni di denaro e terreni da parte del sistema. E mentre un certo numero di scienziati e sostenitori di talento sono tra i membri ordinari dei loro 3.500 dipendenti, l’organizzazione nel suo complesso soffre di una mancanza di visione.

Sfortunatamente ci sono due problemi principali con TNC e con una gran parte del movimento ambientalista:

- molte persone al suo interno non sono in grado o non vogliono riconoscere che l’estrazione senza restrizioni di risorse ambientali è intrinseca al capitalismo;

- molti ambientalisti sostengono ancora l’idea malthusiana che gli esseri umani non siano in grado di coesistere con la natura.

La missione di TNC e di gruppi simili mirante a proteggere la natura nel suo stato “selvaggio” è di per sé una nozione problematica, radicata nella cancellazione degli indigeni. Prima dell’ascesa della colonizzazione europea e del commercio triangolare, centinaia di nazioni vivevano nel continente americano. Hanno vissuto, cacciato, coltivato, pescato e costruito cose dal Circolo Polare Artico alla Patagonia.

Quando creiamo una società che dice che alcuni luoghi sono per le persone e altri per la “natura”, rafforziamo l’idea che va bene distruggere i luoghi che sono per le persone.

Giustifica anche l’espulsione delle persone dagli spazi riservati alla “natura” e la negazione della relazione e dell’affinità tra i due. Invece, dobbiamo riconoscere che gli esseri umani nei nostri habitat sono intrinsecamente parte della natura e ricostruire i nostri sistemi di conseguenza.

Se le persone di TNC e altre organizzazioni no profit ambientali sono veramente interessate a vivere in armonia con la natura, dovrebbero trasformare radicalmente le proprie organizzazioni per concentrarsi sul fermare un sistema economico che si basa sullo sfruttamento delle risorse naturali. Dopotutto, è stato lo squilibrio globale del potere e del modello estrattivo che originariamente ha generato la dipendenza delle Seychelles dai turisti stranieri, dalle esportazioni straniere e dagli interessi stranieri relativi alla pesca.

Ma fino a quando TNC e la Banca Mondiale non faranno i conti con il capitalismo stesso, le obbligazioni blu aiuteranno solo a rafforzare l’ordine globale ineguale che rende le Seychelles dipendenti dagli aiuti esteri e dal debito.

Che le obbligazioni siano blu o verdi, il neocolonialismo con una giustificazione ambientale è ancora solo neocolonialismo.

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30/05/2021

Face/Off - Due facce di un assassino (1997) di John Woo - Minirece

John Carpenter - 1981 - Escape From New York (OST)

John Carpenter è uno dei registi più influenti della generazione americana degli anni '70 – decennio di rivalutazione dei cosiddetti B-movie – insieme ai coevi Brian De Palma e David Cronenberg. Con questi autori Carpenter ha sempre avuto varie caratteristiche in comune, in particolare quella di aver portato ad alti livelli un modo quasi artigianale di fare film, fatto di passione per il cinema di genere, pochi soldi e tante idee visionarie. Ma è stato soprattutto Carpenter, rivedendo con un'ottica personale i B-movie dei decenni precedenti (dai mostri della Universal ai film di fantascienza di Don Siegel e Wolf Rilla), a contribuire alla rinascita di un genere, regalandoci una serie di opere cult di enorme capacità visionaria.

Tutto questo però potrebbe non bastare a giustificare l'aura quasi mistica che avvolge il regista. Un aspetto senz'altro decisivo, che ha spinto al limite l'idea di cinema artigianale, è quello di essere stato anche l'autore delle colonne sonore di tutti i suoi film. Un risultato reso possibile dal fatto che Carpenter ha studiato musica sin dall'infanzia, grazie al padre musicista che lo ha fatto persino partecipare a diverse session con Frank Sinatra, Johnny Cash e Roy Orbison. Nonostante queste esperienze, di cui farà tesoro, John capisce presto che il suo futuro è il cinema e, forte delle sue idee chiare sin da subito, riesce a fondere la sua passione travolgente con gli studi musicali per creare qualcosa di unico.

Sia nel cinema che nella musica, Carpenter non ha mai la possibilità, né probabilmente la voglia, di realizzare opere ad alto costo, come altri registi della sua stessa generazione, partiti anch'essi con i B-movie di genere (Spielberg o Lucas, ad esempio), hanno avuto l'opportunità di fare. Questo approccio si traduce in un cinema prettamente artigianale, capace di sfornare cult-movie con budget minimi, coniugando scenari tipici del cinema di genere (horror, fantascienza) con una visione politica e sociale del tutto peculiare e alternativa (tra tutti, il film vicino alla sinistra anticapitalista "They Live" del 1988). Sul fronte delle colonne sonore, tutto ciò si traduce in musica elettronica fatta in casa, che non può rinunciare alla collaborazione di un professionista, Alan Howarth, necessaria per sopperire ai limiti tecnici di Carpenter.

Gli strumenti utilizzati da Howarth sono i sintetizzatori ARP e Prophet-5 e una drum machine Linn LM-1. A questi si aggiungono un pianoforte acustico e una o forse due chitarre elettriche. Tendenzialmente Carpenter pensa alle melodie e insieme a Howarth costruisce passo dopo passo e arrangia i brani. Nasce, quindi, una lunga e fruttuosa collaborazione, a partire dalle colonne sonore dei suoi primi film "Dark Star" (1974), "Assault On Precinct 13" (1976), "Halloween" (1978) e "The Fog" (1980), che trova il suo vertice proprio in "Escape From New York" (1981). Carpenter crea per l'occasione gli scenari di una distopia totalmente visionaria, a metà strada tra fantapolitica e fumetto. Il suo pessimismo sui destini umani non lascia spazio ad alcuna alternativa che non sia la fine di tutto. La New York degradata non è migliore del resto del mondo sopravvissuto a una guerra devastante, né di certo degli uomini che governano ciò che del mondo è rimasto. L'unico uomo diverso non è il classico "buono", ma un anti-eroe disilluso come Jena Plissken, che cerca in ogni modo di salvare se stesso ma rinuncia a salvare il mondo, ritenendolo ormai perduto per sempre.

Gli scenari oscuri (il film è interamente ambientato di notte) sono accompagnati da ritmi martellanti di elettronica e drum machine, come a scandire il tempo che continua ad avanzare verso un finale inevitabilmente disastroso. Fa eccezione il brano introduttivo, la celeberrima "Man Title". Se, a dire di Carpenter, le influenze principali di questo brano sono stati i Tangerine Dream e addirittura i Police, è impossibile non pensare a quanto importante sia stato l'ascolto delle colonne sonore dei film di genere italiani, dai Goblin a Morricone e a Micalizzi. La sintesi operata da Carpenter e Howarth è comunque perfetta: poche note di synth, un piano elettrico, un loop, una drum machine, una melodia memorabile e il gioco è fatto. Ma nonostante questo sia il brano che oggi tutti potrebbero riconoscere in pochi secondi, è probabile che non sia per questo che "Escape From New York" possa essere considerato una pietra miliare.

È nei brani successivi, infatti, che l'influenza anche musicale di Carpenter diviene davvero immensa. Quanto l'elettronica successiva debba alle sue intuizioni non è semplice dirlo. Un brano come "The Bank Robbery" è emblematico. Tutto si costruisce per aggiunta progressiva di elementi, uno dopo l'altro. Prima una cassa, poi una chitarra, poi un suono che ricorda una maracas, per andare avanti con rullanti, effetti elettronici, battiti di mani, percussioni. È una continua addizione di elementi sonori, sulle orme di esponenti del minimalismo americano come Steve Reich. Il brano tende a cambiare lentamente mantenendo una struttura sempre simile, con poche note di riferimento che si ripetono costantemente. La stessa operazione è ripetuta in altri due classici, "The Duke Arrives/The Barricades" e "President At The Train", dove semplicemente cambiano di poco le note ripetute della chitarra. Come sempre, la ripetizione crea ipnosi e i ritmi di Carpenter danno l'impressione di poter durare in eterno senza stancare mai. Addirittura in "He's Still Alive/Romero" e "Police Action" sono solo due note ribattute a creare la tensione necessaria.

Brani come "The President Is Gone" e "Romero And The President" sembrano anticipare band storiche della musica elettronica, penso ad esempio ai Boards Of Canada che è difficile immaginare senza alcune delle intuizioni di Carpenter. "Engulfed Cathedral" è un'interpretazione del preludio di Debussy "La Cathédrale engloutie (The Sunken Cathedral)", un tentativo molto rischioso che può considerarsi riuscito e ben inserito nelle immagini del film. Estremamente minimale e decisamente figli della colonna sonora di "Halloween", sono invece "Arrival At The Library" e "Across The Roof", i due momenti più legati al suono del pianoforte.

Se vi sono tracce di musica cosmica, queste vanno infine cercate nelle due versioni di "Back To The Pod", in particolare nella seconda che si accende nel momento dell'arrivo dei pazzi, e in "Descent Into New York", che ci fa cadere per la prima volta nelle tenebre di una città senza luce.

"Escape From New York OST" è pubblicato per la prima volta nel 1981 in una versione ridotta di tredici brani; nel 2000 sarà stampata la versione completa definitiva e rimasterizzata, contenente ventotto brani (di cui otto sono dialoghi tratti dal film). La recensione si riferisce alla versione completa del 2000. 

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Come stanno facendo morire Alitalia. Storia di questi anni

Intervista a Fabrizio Tomaselli, ex dipendente Alitalia ed ex coordinatore nazionale di Usb. Autore di un racconto on line su Alitalia sul blog Oggisivola dal quale verrà presto pubblicato il libro “Sulle ali della dignità”.

D: Quando avete avuto contezza che su Alitalia era cominciata una operazione tesa al suo smantellamento come compagnia di bandiera?

R: Sono circa 20 anni che si procede in questa direzione. Diciamo che dai primi anni 2000 si è strutturato e consolidato un filo conduttore che prevedeva la privatizzazione, ma se risaliamo anche a qualche anno prima troviamo il vero snodo attraverso il quale interpretare le ragioni per le quali si è iniziata a percorrere questa strada.

Mentre le altre grandi compagnie si sviluppavano, compravano aerei e aumentavano voli e attività collegate, Alitalia è rimasta al palo, senza investimenti produttivi importanti, con lo stesso numero di aerei che poi pian piano sono iniziati anche a diminuire. È proprio la mancanza di investimenti la causa prima dei successivi decenni di crisi continua di Alitalia. Crisi ricorrenti alle quali si è risposto con qualche aiuto, qualche ricapitalizzazione limitata e insufficiente per lo sviluppo che sarebbe stato invece necessario e soprattutto con il ridimensionamento continuo che ha avuto il suo culmine nel 2008 con la privatizzazione berlusconiana attraverso l’intervento dei “capitani coraggiosi”, poi con Etihad e ora con l’amministrazione straordinaria aggravata dalla pandemia.

D: Quante persone lavoravano in Alitalia e nell’indotto prima che iniziasse questa operazione? E quanti ne sono rimasti attivi?

R: Diciamo che un’Alitalia già ridotta all’osso prima della pandemia, quindi a fine 2019, faceva volare 118 aerei e il personale complessivo era poco più di 11.000 unità tra piloti, assistenti di volo, staff, manutenzione e handling. Se andrà in porto il ridimensionamento previsto con ITA si arriverà a circa la metà degli aerei ed a 4.500-5.000 dipendenti totali. Il resto sarà fuori dal perimetro aziendale o, peggio ancora, in cassa integrazione o in mobilità in attesa di licenziamento. Tra l’altro non si conoscono neanche gli ammortizzatori sociali specifici ai quali si potrà ricorrere. Fare un calcolo sull’indotto è difficile ma io penso che ci saranno pesanti ripercussioni su tutta la filiera industriale del trasporto aereo.

Per le aziende dell’indotto che girano intorno al trasporto aereo una cosa è lavorare con una compagnia come Alitalia, altro è servire una low cost o una compagnia straniera che svolge lavorazioni soprattutto nel proprio paese. Credo comunque che gli esuberi che si determineranno con questo ennesimo ridimensionamento di Alitalia, ancora non realmente quantificabili perché non si conoscono i numeri reali dell’operazione, avranno effetti moltiplicatori per due o per tre sui vari segmenti dell’indotto.

D: A tuo avviso la liquidazione di Alitalia è solo l’ennesimo episodio di “cattiva impresa” o hanno giocato la concentrazione del trasporto aereo europeo intorno al monopolio di Air France e Lufthansa?

R: Si sono verificate contemporaneamente entrambe le condizioni negative. Alla base di tutto c’è stata sicuramente la decisione, mai formalizzata ma evidente e sostanziale, presa qualche decennio fa in previsione dell’avvio della deregulation del trasporto aereo in Europa, di prevedere la concentrazione su poche compagnie aeree continentali: Air France, Lufthansa e British. Non Alitalia che in quel momento era però sulla stessa linea di partenza di questi vettori e produceva risultati per certi versi anche migliori.

Questa decisione fece parte evidentemente di una impostazione politica che prevedeva un ruolo secondario di Alitalia e della stessa Italia in molti settori produttivi europei. Certo è che quella decisione, per un paese a forte vocazione turistica, ha pesato enormemente sul futuro di Alitalia ed ha comportato perdite economiche ingenti per il paese.

La gestione del management e della proprietà (pubblica e privata) che si è succeduta da quell’inizio degli anni ’90 ad oggi, con pochissime eccezioni di segno diverso, è stata funzionale al ruolo subalterno assegnato a livello internazionale alla ex compagnia di bandiera: sopravvivere alla meglio e attraverso rapporti impari proprio con le compagne maggiori, far produrre utili a loro e perdite costanti a noi.

È altrettanto chiaro poi che i tagli continui ai voli e alla flotta hanno condannato Alitalia ad un ridimensionamento continuo. È difficile dire se questo lento e progressivo processo di destrutturazione industriale di Alitalia sia stato sempre compreso e condiviso da tutti i vertici aziendali e da tutti i governi ma il risultato non cambia.

Per anni Alitalia è stata fedele servitrice di Air France trasportando passeggeri ad alto costo verso Parigi per poi farli decollare con la compagnia francese con i più redditizi voli intercontinentali in tutto il mondo.

Per anni le compagnie low cost, con il consenso di governi di centro destra e centro sinistra hanno drenato risorse pubbliche e occupato il mercato del trasporto aereo italiano e Alitalia, senza sviluppo, senza investimenti e senza un progetto industriale serio, è rimasta a guardare prendendo colpi da tutte le parti senza reagire.

D: La nazionalizzazione di Alitalia era una proposta velleitaria o la migliore da praticare?

R: Sicuramente la nazionalizzazione era e rimane una proposta concreta e possibile, sicuramente l’unica per rimettere in moto industrialmente un settore che sembra ormai perso e al servizio di interessi legati alle low cost e ad aziende con sede in altri paesi europei. Viene ancora respinta e descritta come un provvedimento rivoluzionario e di rottura ma in effetti non è nulla di tutto ciò perché è un processo previsto dall’art. 43 della Costituzione italiana. È proprio la Costituzione, che a me non sembra proprio un testo “rivoluzionario”, a prevedere infatti la possibilità di trasferire allo Stato imprese di servizi pubblici che abbiano carattere di interesse generale. Addirittura prevedendo anche il possibile trasferimento direttamente ai lavoratori.

Altra bufala da sfatare è quella che la deregulation prevede la privatizzazione delle compagnie aeree e/o che tale condizione sia imposta dall’Unione europea. Non è vero assolutamente,

La deregulation è un processo economico e politico globale, parte di quella liberalizzazione dei mercati e dei capitali, che sicuramente vede di buon occhio le privatizzazioni ma non vieta formalmente agli stati di procedere alle nazionalizzazioni.

L’Unione europea distingue invece tra investimento di mercato o aiuto di stato ma non mette bocca sulla possibilità che a fare impresa sia lo stesso soggetto pubblico. Gli impone solo di seguire le “regole di mercato”, che poi si rivelano differenti asseconda del soggetto che si va a valutare, ma questo è un altro discorso e coinvolge il ruolo dell’Unione europea quale guardiano di specifici interessi economici e finanziari.

La virulenza con la quale si portano avanti queste tesi contrarie alla nazionalizzazione servono quindi soltanto a mantenere quell’equilibrio instabile che ha portato alla distruzione tante compagnie aeree nazionali europee e alla concentrazione sui tre vettori principali.

D: Insomma nel 2021 avremo ancora una compagnia di bandiera o una sorta di compagnia low cost subordinata alle grandi compagnie europee?

R: Se non ci sarà una rapida inversione di tendenza, decisioni chiare e nette del governo che vadano nella direzione della rivitalizzazione della compagnia e dello sviluppo di un progetto che, tenendo conto del blocco determinato dalla pandemia ma prevedendo comunque un ruolo diverso e da protagonista di Alitalia nel sistema del trasporto aereo nazionale ed internazionale, quello che mi aspetto è una nuova soluzione parziale e perdente. Una ITA, anche il nome ne descrive il ridimensionamento rispetto ad “alITAlia” con nessuna possibilità di sviluppo, un vettore di carattere regionale probabilmente legato a Lufthansa, così i passeggeri per i voli intercontinentali li porterà a Francoforte invece che a Parigi. Una lotta impari che continuerà con le low cost. Perdita di posti di lavoro e di reddito che si ripercuoterà sulle spalle dei lavoratori ed in parte sullo Stato e su molti enti locali, soprattutto del Lazio.

In definitiva, bene che vada, si tratterà di una nuova “pezza a colori”, colori sempre più sbiaditi, che porterà tra due o tre anni ad una nuova crisi.

Peccato perché in effetti il modo per uscirne ci sarebbe ancora: rivitalizzare Alitalia e non ITA, nazionalizzare o almeno prevedere un ruolo preminente del soggetto pubblico, costruire un progetto di vero sviluppo, finanziarlo adeguatamente, fare la voce grossa con l’Unione europea.

Paradossalmente anche io, come l’Unione europea, sono per la “discontinuità”.

Ma il governo italiano la legge e la decodifica come ulteriore ridimensionamento ed abbandono di un settore produttivo fondamentale per il paese: io invece la “discontinuità” la interpreto in modo opposto. Una radicale “discontinuità” rispetto a quel che di sbagliato è stato fatto sino ad oggi da decenni e la costruzione di una compagnia nazionale che nel giro di pochi anni potrebbe avere almeno 300 aerei e raddoppiare l’occupazione, avere un impatto positivo sull’indotto, sul turismo, sul made in Italy. Utilizzare quei 3 miliardi che sono stati stanziati solo pochi mesi fa e di cui sembra si sia persa traccia per ricostruire un asset industriale solido con un management degno di questo nome, un’azienda che fa sistema e che produce reddito e lavoro buono.

Vorrei essere ottimista ma questo governo, al pari di quelli che lo hanno preceduto, non mi sembra purtroppo in sintonia con queste mie convinzioni.

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Centinaia di musicisti internazionali per la Palestina

Sono ormai centinaia i musicisti che a livello internazionale hanno preso posizione a sostegno dei diritti del popolo palestinese e deciso di boicottare sul piano artistico Israele. Tra questi spiccano Roger Waters, Serj Tankian, Rage Against the Machine, Run the Jewels e Patti Smith.

È la storica rivista del settore – Rolling Stone – a far sapere che insieme ad altri 600 musicisti, hanno firmato una lettera aperta per chiedere agli artisti di boicottare i concerti in Israele finché non ci sarà una «Palestina libera».

Tra gli artisti che hanno aderito – i “Musicians for Palestine” – ci sono anche Julian Casablancas, Black Thought e Questlove dei Roots, Godspeed You! Black Emperor, Thurston Moore, Bun-B, Royce Da 5’9’’, Talib Kweli, Cypress Hill e molti altri.

“In quanto musicisti non possiamo restare in silenzio. Oggi è essenziale schierarsi con la Palestina. Chiediamo ai nostri colleghi di esprimere pubblicamente la loro solidarietà verso il popolo palestinese. La complicità con i crimini di guerra di Israele si trova nel silenzio, e oggi il silenzio non è un’opzione”, dice la lettera di Musicians For Palestine.

“Oggi parliamo insieme e chiediamo giustizia, dignità e il rispetto del diritto all’autodeterminazione per il popolo palestinese e per tutti quelli che combattono l’esproprio coloniale e la violenza in tutto il pianeta”.

Ma c’è di più anche sul piano dell’assunzione di responsabilità. I musicisti chiedono infatti ai loro colleghi “di rifiutarsi di suonare per le istituzioni culturali israeliane complici, e di sostenere con fermezza il popolo palestinese e il loro diritto alla sovranità e alla libertà. Siamo convinti che sia cruciale vivere in un mondo senza segregazione e apartheid”.

I Rage Against the Machine avevano già commentato il conflitto a Gaza con un post su Instagram. “La violenza e le atrocità di cui siamo testimoni a Sheikh Jarrah e Gaza sono il proseguimento di decenni di apartheid brutale e dell’occupazione violenta della Palestina da parte di Israele”. Nel post hanno dichiarato che “Siamo schierati con il popolo palestinese mentre resiste al terrore coloniale in tutte le sue forme”.

Una domanda corre d’obbligo. Ma tra i musicisti italiani ce n’è qualcuno che trovi lo stesso coraggio politico e coscienza civile sui diritti del popolo palestinese? Se ci sono è tempo che si facciano sentire, al momento il loro silenzio è assordante, e non solo per lo stop ai concerti dovuto alle restrizioni della pandemia.

Per guadagnarsi autorevolezza – e magari anche tante rogne – non bastano le comparsate al concertone del 1 Maggio, serve un pizzico di coraggio in più e la causa palestinese lo merita tutto.

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Colombia - Spari contro i manifestanti a Cali, quattro morti

Nel settore La Luna, nel centro di Cali, un gruppo di manifestanti che stava effettuando un sit-in ha denunciato di essere stato aggredito con armi da fuoco da due persone in abiti civili. Sulla strada risultano quattro morti.

I manifestanti hanno linciato il presunto aggressore. Secondo i manifestanti e i video degli eventi, la persona che avrebbe aperto il fuoco sui cittadini era a bordo di una motocicletta accompagnata da un altro soggetto.

Dopo gli spari, alcuni manifestanti sono riusciti a bloccarlo e l’uomo sarebbe stato linciato. Nei suoi documenti personali c’era una carta che lo identificava come un membro della CTI.

Ed infatti il procuratore generale Francisco Barbosa ha identificato l’autore degli spari, che era in abiti civili, come Freddy Bermúdez Ortiz, assegnato al Corpo investigativo tecnico (CTI). Secondo le informazioni, il procuratore ha affermato che Bermúdes “ha sparato su diverse persone, provocando la morte di alcuni civili”.

Barbosa ha assicurato che l’aggressore era stato arruolato nel 2012 e, al momento dell’accaduto non era in servizio.

L’agente in borghese avrebbe tentato di attraversare i posti di blocco, quando è stato avvicinato dai manifestanti che bloccavano la strada. Secondo questa versione, quando è stato identificato come agente di polizia, l’uomo ha reagito violentemente e ha sparato indiscriminatamente contro le persone più vicine.

Il sindaco della capitale, Jorge Iván Ospina, ha assicurato che tre persone hanno perso la vita ed ha chiesto alla Procura di indagare sugli eventi per avere giustizia contro la morte di queste persone. “Non possiamo permettere che queste circostanze continuino a verificarsi a Cali. Non dobbiamo cadere nella tentazione della violenza e della morte. Al contrario, abbiamo bisogno di giustizia e dialogo per poter determinare cosa è successo su La Luna, ma anche per poter raggiungere un consenso e una tranquillità cittadina”, ha affermato il sindaco.

Di tutt’altro tono le decisioni prese dal presidente della Colombia, Iván Duque, che ha ordinato a partire da venerdì il massimo dispiegamento militare nella città di Cali e nel dipartimento della Valle del Cauca, dopo gli scontri che si registrano ormai un mese per le manifestazioni dello sciopero nazionale contro le politiche neoliberali del suo governo.

“Questo dispiegamento triplicherà la nostra capacità in meno di 24 ore in tutto il dipartimento, garantendo assistenza nei centri nevralgici“, ha sottolineato il presidente.

A Cali, la giornata si è conclusa con almeno quattro morti. Attraverso i social è stata inoltre segnalata la presenza di civili armati che hanno sparato su concentrazioni di manifestanti, senza che ci fosse l’intervento dei membri della Polizia Nazionale.

Venerdì era il 31° giorno dello sciopero nazionale, con migliaia di colombiani che continuano a mobilitarsi nelle strade di molte città chiedendo che Duque soddisfi le richieste della popolazione presentate dal Comitato, e non risponda con gli interventi della forza pubblica, che ad oggi registrano più di 3.000 atti di violenza della polizia nelle proteste.

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Israele, il tramonto di Netanyahu

L’era Netanyahu potrebbe finalmente essere arrivata al capolinea. Dopo l’ultima guerra contro i palestinesi nella striscia di Gaza, le fortune politiche del primo ministro israeliano sembravano poter essere rilanciate, grazie a un possibile ricompattamento della destra, ma le ultime ore hanno invece registrato un passo avanti forse decisivo nella formazione di un nuovo gabinetto senza il Likud e il più longevo capo di governo nella storia dello stato ebraico.

Il coalizzarsi di forze estremamente eterogenee con l’obiettivo di rimpiazzare Netanyahu è stato stimolato dal persistere di uno stallo politico che minaccia di portare Israele al quinto voto anticipato in due anni e mezzo. La volontà di evitare il precipitare della crisi, anche nel caso il nuovo governo dovesse effettivamente nascere, non porterà comunque a una stabilizzazione del sistema. Anzi, il possibile prossimo governo sarà segnato da una grandissima fragilità, dovuta sia al margine risicato della potenziale maggioranza in Parlamento (Knesset) sia alla necessità di mettere d’accordo l’estrema destra con la sinistra e, addirittura, con gli arabo-israeliani.

L’eventuale fine dell’era Netanyahu lascerebbe spazio anche a un nuovo primo ministro per certi versi ancora più a destra del premier uscente. Secondo l’accordo che sarebbe vicino a essere ratificato, il leader del partito di estrema destra Yamina, Naftali Bennett, dovrebbe infatti assumere la carica di capo del governo per primo e fino all’autunno del 2023. Solo allora l’incarico passerà al numero uno della forza politica che ha ottenuto il numero maggiore di seggi dopo il Likud nelle elezioni dello scorso marzo, vale a dire Yair Lapid del partito centrista Yesh Atid (“C’è un Futuro”).

Proprio Bennett ha rotto gli indugi nella serata di domenica e, con una drammatica dichiarazione televisiva, ha chiuso ogni ipotesi di trattativa con Netanyahu e annunciato la sostanziale accettazione della proposta di governo di Lapid. Bennett era stato in forte dubbio circa le scelte del suo partito dopo il voto. Nelle fasi precedenti l’inizio dell’aggressione israeliana di Gaza, i leader di Yamina e Lapid sembravano essere vicini a un’intesa per la formazione di un nuovo governo. Il clima di guerra venutosi a creare aveva però congelato i negoziati e per Bennett l’interlocutore principale era tornato a essere Netanyahu.

Domenica, invece, Bennett ha detto di aver preso atto dell’impossibilità di mettere assieme un governo fatto soltanto di forze di destra. Dopo avere attaccato Netanyahu per la sua doppiezza, come testimonia anche il mancato rispetto dell’accordo di governo precedente con Benny Gantz, Bennett ha annunciato di voler dedicare “tutte le sue energie” alla costruzione di un governo di “unità nazionale” con “l’amico Yair Lapid” per “rimettere Israele in carreggiata”.

L’ex consigliere e ministro di Netanyahu è ben consapevole del rischio politico di entrare in una coalizione con il centro-sinistra, considerando anche il già modesto risultato ottenuto nelle ultime elezioni. Per questa ragione, ha dedicato buona parte del suo intervento di domenica a schivare preventivamente gli attacchi che Netanyahu avrebbe iniziato a rivolgerli poco più tardi. Bennett ha dovuto anche far fronte a forti resistenze nel suo partito, tanto che uno dei sette deputati di Yamina aveva da tempo fatto sapere di non avere intenzione di appoggiare un governo con Lapid.

I malumori tra gli elettori di Yamina sono già sfociati in alcune manifestazioni contro la decisione di Bennett, il quale ha provato a spiegare che, tutto sommato, il governo che potrebbe nascere non sarà poi così di “sinistra”. Anzi, ha spiegato il premier in pectore, il prossimo esecutivo sarà “leggermente più di destra di quello attuale” di Netanyahu, visto che i partiti di centro-sinistra hanno dovuto accettare “difficili compromessi”.

In particolare, Bennett ha sottolineato come la “sinistra” abbia concesso la carica di primo ministro a un ex leader del principale movimento dei coloni israeliani in Cisgiordania. Il ministero della Giustizia dovrebbe andare inoltre a un altro irriducibile della destra, Gideon Sa’ar, uscito qualche mese fa dal Likud per fondare il partito della Nuova Speranza. Bennett ha infine assicurato che Yamina, anche se al governo con la “sinistra”, non “abbandonerà i propri valori”, cioè non farà passi indietro sugli insediamenti illegali né “il contesto politico” creerà scrupoli nel condurre operazioni militari contro Gaza, se ciò risulterà necessario.

Sulla nuova coalizione rimangono ancora non poche incertezze e, se anche tutto dovesse andare secondo i piani di Bennett e Lapid, la nuova maggioranza sarà la più ristretta possibile, cioè di 61 deputati su 120. Il mandato esplorativo di Lapid scade alla mezzanotte di mercoledì e, per il momento, un accordo informale è stato raggiunto con tre partiti, quello dell’ultra destra laica Yisrael Beytenu dell’ex ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, il Partito Laburista e quello di sinistra Meretz. Oltre a Yamina, da convincere restano il Partito Blu e Bianco del vice-primo ministro Benny Gantz e Nuova Speranza di Sa’ar. Discorso a parte riguarda il partito arabo-israeliano Ra’am. I quattro membri della Knesset di quest’ultimo sarebbero decisivi, ma fornirebbero comunque solo un appoggio esterno al gabinetto Bennett.

Vista la situazione, le incognite sono molteplici, soprattutto perché la strategia già messa in atto da Netanyahu è di fare appello ai singoli deputati eletti nei partiti di destra che stanno trattando con Lapid per respingere l’accordo di governo. La speranza è che anche un numero minimo di essi finisca per defezionare e rendere impossibile il raggiungimento della soglia dei 61 deputati. In ogni caso, non sembrano esserci prospettive per un nuovo incarico a Netanyahu, ma l’obiettivo del premier uscente è ora quello di una quinta elezione anticipata, in modo da rimanere in carica e quanto meno rimandare le conseguenze del processo per corruzione che lo vede alla sbarra.

Nelle sue prime dichiarazioni dopo le parole di Bennett, Netanyahu è andato subito all’attacco sollevando dubbi sull’impegno della nuova coalizione di governo per la “sicurezza” di Israele, sia in relazione all’Iran sia ad Hamas, ma anche alla difesa degli insediamenti illegali e, addirittura, ai possibili procedimenti per crimini di guerra che potrebbe aprire il Tribunale Penale Internazionale.

Netanyahu, peraltro, aveva cercato in tutti i modi di convincere Bennett e Sa’ar ad accettare un’intesa per un governo di destra. La stampa israeliana ha scritto che era stata messa sul tavolo una proposta che prevedeva l’assegnazione dell’incarico di primo ministro a Sa’ar, il quale dopo quindici mesi avrebbe riconsegnato l’incarico a Netahyanu che, a sua volta, dopo due anni si sarebbe avvicendato con Bennett. L’offerta è stata discussa e messa da parte dal direttivo di Yamina, mentre Sa’ar l’ha rispedita subito al mittente, nonostante le pressioni per accettarla di almeno un deputato del suo partito.

Visti i tempi ristretti per chiudere la crisi politica, letteralmente nelle prossime ore si conoscerà la sorte di Netanyahu e le chances del nuovo governo. Anche solo un “ribelle” nelle file dei partiti di Bennett e Sa’ar potrebbe far saltare l’operazione per liquidare Netanyahu, ma il fatto che l’ipotesi di accordo sia sopravvissuta alla recente guerra contro Gaza lascia ben sperare i suoi promotori.

Il gabinetto che eventualmente nascerà dopo dodici anni di governo ininterrotto di Netanyahu avrà davanti delle sfide formidabili che renderanno molto difficile il completamento del mandato quadriennale. Ad esempio, la questione palestinese è tornata prepotentemente al centro del dibattito sia in Israele sia a livello internazionale e sarà perciò improbabile che possa rimanere del tutto fuori dall’agenda del governo, com’è stato ipotizzato in queste ore per evitare uno scontro prematuro tra le varie anime della nascente maggioranza.

Da valutare sarà anche la risposta del prossimo governo al riassetto delle politiche mediorientali dell’amministrazione Biden dopo quattro anni di quasi idillio tra Trump e Netanyahu. Il portafoglio degli Esteri dovrebbe finire a Yair Lapid, così da evitare frizioni eccessive tra Washington e Tel Aviv. Gli orientamenti ultra-nazionalisti delle principali anime dell’esecutivo che dovrebbe essere guidato inizialmente da Naftali Bennett lasciano tuttavia intravedere pericolose tensioni se la Casa Bianca intenderà andare fino in fondo con alcuni dei propri obiettivi regionali, come il ristabilimento dell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) o il rilancio dei negoziati per la creazione di uno stato palestinese.

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“Quando i capitalisti saranno scomparsi, si potrà parlare di libertà”

In nessuna delle società post-rivoluzionarie, in cui esiste un “socialismo realizzato”, il mercato e il valore sono realmente scomparsi o sono stati aboliti. Karl Marx lo aveva previsto e nei suoi testi va oltre la rivoluzione comunista e, guardando al futuro, riformula 30 anni di riflessioni ed esperienze, alla luce della Comune di Parigi.

Il filosofo tedesco lo fa partendo dalla prima critica allo Stato borghese, per poi concentrarsi sul successivo programma del Manifesto del 1847-1848, e poi ancora “Le lotte di classe in Francia”, fino alla “Critica dell’economia politica”.

Marx è consapevole ed è convinto che l’umanità si stia avviando verso un periodo di grandi sconvolgimenti rivoluzionari ed è in grado di descrivere con grande lucidità il processo di transizione dal capitalismo al comunismo, chiamato anche “periodo di transizione”.

Queste anticipazioni avranno un impatto sulla società del tempo e sulla secolare storia del movimento comunista in diversi paesi.

La “Critica al programma Gotha” fu l’ultimo grande prodotto teorico scritto da Karl Marx per un intervento politico immediato.

Tale intervento era diretto alla fazione Eisenach del movimento socialdemocratico in Germania, con la quale Marx ed Engels avevano forti contatti.

Ma fu nella primavera del 1875, due anni e mezzo dopo quel settembre 1872, che il Congresso dell’Aja prese la decisione di trasferire in America il Consiglio Generale della Prima Internazionale. Questo cambiamento è coinciso, infatti, con la fine di quell’esperienza.

Ormai la Comune di Parigi era stata schiacciata e il movimento rivoluzionario era stato quasi distrutto in Francia; allo stesso tempo, le tendenze democraticiste ed economiciste stavano prendendo piede in Inghilterra. In altri paesi, inoltre, la dissidenza dei Bakuniniani aveva colpito duramente l’organizzazione. Mentre in Germania il movimento operaio era rimasto arretrato, diviso e chiuso nella sua ristrettezza nazionale.

Nonostante ciò, la fazione madre di Eisenach, che come detto era abbastanza vicina a Marx ed Engels, aveva registrato il suo primo successo elettorale nel 1874. Questa vicinanza, che sarebbe culminata nell’unificazione dell’ala di Lassalle, non impedì a Marx di rinunciare alla sua vecchia e amara avversione e critica nei confronti di Lassalle, uno scrittore e politico tedesco morto anni prima, che aveva conosciuto i due pensatori tedeschi e dai quali si era separato ideologicamente per la sua proposta politica considerata troppo moderata, soprattutto se confrontata con le idee rivoluzionarie di Marx.

Il programma di Erfurt, infatti, “decorò” il Partito socialdemocratico con il marxismo di Kautsky, che però aveva banalizzato le idee di Marx. Engels al riguardo ha criticato il programma di Erfurt, ma semplicemente rilevando la mancanza di alcune rivendicazioni politico-economiche, senza rifiutare, anche in qualche modo legittimando, l’ispirazione marxista del testo, nonostante non contenesse più nulla dell’impostazione iniziale di Marx, che ha attraversato il processo rivoluzionario, il principio fondamentale della Critica.

Engels criticò anche l’idea della trasformazione pacifica del vecchio assolutismo, ma queste critiche, così come erano state formulate, furono poi riprese dal democratismo dell’epoca.

In effetti, la Critica circolava da anni nell’ambiente socialdemocratico russo, ma non ricevette un peso speciale e riapparve in Germania nel 1922, in reazione alla rivoluzione russa dell’ottobre.

Infatti, Lenin dice che solo quando i capitalisti saranno scomparsi e non ci saranno più classi, cioè in una società comunista, lo Stato cesserà di esistere, si estinguerà e si potrà davvero parlare di libertà.

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29/05/2021

Palestina - Esodo, memoria, identità

La questione palestinese oltre lo schermo del linguaggio mainstream (Intervista parallela a una dissidente israeliana e a un esule palestinese)

“Dopo l’Olocausto è diventato quasi impossibile occultare crimini contro l’umanità su larga scala. Il nostro mondo moderno, dominato dalla comunicazione, specialmente dopo l’avvento dei media elettronici, non permette più che le catastrofi prodotte dall’uomo rimangano nascoste al grande pubblico o vengano negate. Invece uno di questi crimini è stato quasi completamente cancellato dalla memoria pubblica mondiale: l’espropriazione delle terre palestinesi da parte di Israele nel 1948” (Ilan Pappé – La pulizia etnica della Palestina)

Quest’affermazione dello storico ebreo anti-sionista Pappé, che sintetizza la questione palestinese dalla Nakba (la catastrofe) del 1948 a oggi, ci pone inevitabilmente di fronte a un interrogativo: come è stato possibile nell’epoca di internet, dei social media, dei milioni di telefonini capaci di documentare i fatti, che la questione palestinese sia stata condannata alla damnatio memoriae? Come è stata possibile una tale gigantesca operazione di rimozione?

Senza pretesa di esaustività, tra fattori e cofattori, è possibile iscrivere la questione palestinese in quel particolare laboratorio della comunicazione costituito dalla narrazione occidentale, dal suo uso mistificatorio delle parole, dalla strumentalizzazione della Shoah.

In sintesi, l’apartheid, la pulizia e la sostituzione etnica, le illegittime detenzioni amministrative, l’esproprio sistematico, la strategia della tensione israeliana e il violento e terroristico regime di polizia, hanno la loro ragion d’essere ancor prima nelle parole che nei fatti.

Espressioni come “Stato ebraico”, “diritto ad esistere”, “sicurezza”, “conflitto israelo-palestinese”, “terrorismo”, attestano che le parole non sono mai neutrali e, soprattutto nel caso della questione palestinese, reificano in modo mistificatorio, le narrazioni occidentali. Ecco che la resistenza palestinese viene sistematicamente travisata e diventa terrorismo e la sospensione del diritto internazionale a danno dei palestinesi diventa “diritto alla difesa”.

Nello scritto del filosofo del linguaggio americano J.L. Austin, How to do things with words (Come fare cose con le parole) appare chiaro che il linguaggio deve essere inteso come azione e che non esiste cesura o contraddizione tra “dire” e “fare”: ogni dire è anche un fare, per cui il linguaggio svolge un’azione performativa, agendo sugli altri. Come si è potuto evincere anche dalla narrazione della recente aggressione sionista nei confronti di Gaza, il linguaggio è un sistema di potere con finalità manipolative.

La scelta di intervistare parallelamente due testimoni, Taffy Levav e Khaled Ayyad, nasce proprio dalla necessità di decostruire la narrazione mainstream.

Taffy si definisce dissidente israeliana o ex israeliana: “Quando io e il mio compagno abbiamo lasciato lo Stato di Israele, siamo partiti come dissidenti con l’idea di non far più parte di un posto come Israele, con la decisione di voler vivere in qualsiasi altro paese, non di scegliere un altro paese, ma di scegliere di non essere più appartenenti a Israele. La nostra identità deriva da una negazione, non da un’affermazione. Khaled è fortunato, almeno lui ha un’identità”.

Taffy Levav è un’ex soldatessa. Nel 1987 operava presso il servizio di intelligence nella base paracadutisti di Gerico e, durante la prima Intifada, si rifiutò di obbedire all’ordine di sgombero e distruzione di case abitate da donne palestinesi.

All’epoca solo le soldatesse potevano agire sulle donne palestinesi. Nel racconto di Taffy affiora la tristezza di chi, benché proveniente da una famiglia di sinistra e pacifista, facendo il servizio militare, pensava di fare solo il proprio dovere. Suo malgrado, invece, si rese conto di dover attuare forme arbitrarie di ritorsione contro i civili.

Come lei stessa racconta, si trattava dei primi casi di sgombero delle abitazioni palestinesi. Il suo atto di insubordinazione le è costato la galera e un regime punitivo.

Khaled, nato a Nazareth si definisce palestinese, termine che in Israele si è potuto utilizzare legalmente solo a partire dal 1976, dopo la “Giornata della Terra”. Fino ad allora i palestinesi potevano solo definirsi arabi in Israele.

Khaled ha completato gli studi secondari a Nazareth e ha militato nel partito comunista israeliano. Ha lasciato Israele dopo aver tentato inutilmente di iscriversi alla facoltà di medicina: non era così facile per un arabo. Khaled è diventato medico in Italia, dove ha deciso di rimanere a seguito del fallito tentativo di reinserirsi nella sua terra d’origine.

Si può parlare di conflitto israelo – palestinese?

Taffy: “Sì, è un conflitto tra due parti. In verità preferirei non usare le parole, le parole sono importanti... la cosa giusta sarebbe parlare di tragedia palestinese... ma questo deresponsabilizzerebbe Israele. Finché i palestinesi hanno un problema, gli israeliani hanno un problema. Se separassimo queste due parti gli israeliani starebbero bene, si sentirebbero a posto”.

Khaled: “Si tratta di un conflitto. I palestinesi subiscono la pulizia etnica e l’esproprio della loro terra... anche se la responsabilità principale di quanto accade ed è accaduto ricade in primo luogo sull’Occidente. L’esito, ad oggi, è l’occupazione israeliana del 78% della Palestina storica e lo sterminio continuo dei palestinesi.

La sottrazione della terra attraverso la colonizzazione israeliana ha impoverito la popolazione palestinese, costringendola a vendere la propria forza lavoro a Israele. Il problema non è tra arabi ed ebrei, il problema è il sionismo. Sì, c’è un conflitto, c’è un conflitto perché c’è un’occupazione militare e razzista e se c’è un’occupazione c’è una Resistenza”.

“Israele ha diritto a difendersi”: questa è la giustificazione addotta dalla narrazione mainstream a garanzia delle azioni politiche che Israele intraprende in Cisgiordania e a Gaza. Ha ragion d’essere tale preoccupazione?

Taffy: “Quello che stanno facendo a Gaza non rientra nel diritto, è un’occupazione. Cosa vuol dire diritto? Io non capisco questa parola, diritto legittimato da chi? Da Dio? Cosa significa difesa? La difesa non è un attacco”.

Khaled: “Quali sono le cause del conflitto? L’occupazione. La migliore difesa per Israele sarebbe porre fine all’occupazione. È l’occupazione che provoca la reazione dei popoli oppressi”.

Si può parlare di Israele come unica democrazia del Medio Oriente?

Taffy: “No. È una cosa ridicola. È un paese che separa due popoli…non è un paese democratico nemmeno verso gli ebrei che non possono decidere di vivere dove vogliono e sposare chi vogliono. Inoltre, in Israele tutti i non ebrei sono considerati esseri umani di serie B. Il razzismo sionista viene esercitato non solo nei confronti dei palestinesi ma anche verso i lavoratori immigrati, asiatici o africani. In Israele c’è un regime di apartheid”.

Khaled: “Come può essere democratico un paese che ha confiscato le terre ai contadini palestinesi? Come può essere democratico un paese che distribuisce diversamente le risorse alle pubbliche amministrazioni a seconda della composizione etnica dei comuni.

Anche al giorno d’oggi, se pensiamo allo sciopero generale effettuato a maggio, mi domando come possa essere democratico un paese nel quale la polizia spara contro la popolazione palestinese e i coloni aggrediscono i palestinesi protetti dalla polizia e dall’esercito. Comunque, non può esserci democrazia in una situazione di malessere globale”.

I recenti fatti di Gaza e Gerusalemme rappresentano una delle tante interruzioni di annunciati periodi di “tregua” o costituiscono una crepa che apre uno squarcio nella narrazione ordinaria?

Taffy: “Spero proprio che accada qualcosa di nuovo. Rispetto al passato, oggi gli abitanti di Gaza ritengono che Hamas stia facendo di tutto per proteggerli. E questo è molto diverso rispetto a quanto accadeva prima. Il 30% della popolazione di Gaza ha meno di 29 anni. I giovani non ce la fanno più.

Forse accadrà qualcosa. Forse c’è proprio bisogno di un’escalation perché il mondo si svegli. Il fatto che Tel Aviv sia per la prima volta in pericolo potrebbe far cambiare qualcosa... prima erano solo gli israeliani poveri che abitavano al Sud a rischiare... forse ora i cittadini privilegiati di Israele avranno voglia di cambiare qualcosa”.

Khaled: “Taffy ha ragione, questi ultimi fatti di Gerusalemme, i fatti della spianata delle moschee e di Gaza hanno determinato una risposta unitaria da parte di tutti i palestinesi. Lo stesso sciopero generale è stato coordinato dai comitati popolari che riuniscono tutti i palestinesi all’interno dello Stato d’Israele. Hanno aderito tutti: i palestinesi della Cisgiordania, di Gaza e quelli della diaspora, di tutti i partiti politici.

Ma torniamo al punto cruciale. Ormai i coloni sono ovunque. Non è più possibile parlare di due stati. Oggi bisogna costruire un unico Stato democratico, uno Stato per tutti”.

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