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20/05/2021

Questo è il G20, non l’antico G8

L’Italia sta per ospitare il G20 sulla salute, e l’occasione – per quanto casuale – diventa particolarmente importante dopo un anno e mezzo di pandemia. Perché si può mettere in chiaro, senza tema di smentite, quanto il cosiddetto “mondo liberal-democratico” abbia messo la salute sullo sfondo, privilegiando soprattutto la produzione e il Pil.

Possiamo studiare i dati ufficiali e vedere come i paesi più attenti ad applicare le ricette neoliberiste siano anche quelli dove maggiore è stata la strage. Usa, Gran Bretagna, Brasile, Unione Europea (nel suo insieme, senza distinzioni significative) guidano la classifica.

Eppure stiamo parlando (Brasile escluso) dei paesi più ricchi del mondo, quelli industrialmente più avanzati, quelli che hanno le tecnologie per individuare i vaccini prima degli altri (e poi se li tengono stretti).

La ragione di questo disastro è almeno duplice: da un lato la predominanza della fame di profitto, che ha impedito confinamenti veri di almeno parti di territorio (le aree “focolaio”), facilitando la circolazione per “ragioni di lavoro” e dunque la diffusione del virus ovunque.

Dall’altra le politiche di privatizzazione della sanità, lo smantellamento fortemente “voluto e consigliato” di quella pubblica e universale e soprattutto della medicina territoriale. Sembrava una genialata quella di riservare le cure e la ricerca solo agli interventi in ospedale o a quei “clienti” che si potevano permettere di pagare cifre da paura, risparmiando invece sulle cure per tutti.

Ma una pandemia non guarda quanto è gonfio il portafoglio. Colpisce potenzialmente tutti. E se anche risparmia chi si può proteggere meglio, è la società nel suo insieme che subisce colpi duri, bloccando – insieme ai corpi che si ammalano – anche grandi fette dell’economia. E dunque la stessa dinamica del profitto.

Le perdite di vite sono state più alte là dove più era stata indebolita la sanità universale, pubblica, semi o del tutto gratuita. Ma anche le perdite di Pil hanno seguito la stessa strada.

Il G20 ci mette davanti anche la diversità delle risposte alla pandemia. E non è soltanto la Cina ad aver dimostrato con i fatti e i numeri che si poteva (e doveva) fare altrimenti. Anche se è proprio la Cina ad aver meglio chiarito che preoccuparsi in primo luogo della salute dei propri cittadini significa anche ridurre al minimo i danni economici, tanto da poter avviare “la ripresa” assai prima e in misura più grande dei feroci competitors.

Ma non sono solo quantità dei morti e stato dell’economia a rendere questo G20 un evento molto diverso dai G7-G8 che in Italia ricordiamo con rabbia e con dolore, a partire da quello del 2001 a Genova.

Sono diverse le condizioni del mondo e i rapporti reciproci tra i Paesi partecipanti.

Nel 2001 si stava ancora celebrando la vittoria dell’Occidente neoliberista sul “socialismo reale”, il “pensiero unico” si dispiegava in tutta la sua arroganza senza ammettere alternative. La stessa presenza di Putin, con la Russia distrutta dal periodo eltsiniano, serviva a confermare la certezza di quella vittoria, più che ad arricchire “il discorso”.

Tutt’altra la composizione di questo G20 e il tempo in cui cade.

Pochi l’avranno notato, ma il 4 maggio si è riunito il G7 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti), che ha esplicitato un salto nell’ostilità a due dei principali componenti del G20: Russia e Cina.

Il terreno scelto è quello solito: “diritti umani, “democrazia” identificata con il solo processo elettorale, fino a pretendere un “diritto di ingerenza” negli affari interni di quei paesi (ispettori internazionali “indipendenti”, ecc.).

Non serve essere degli esperti di geopolitica per capire che l’atteggiamento e gli argomenti usati nei confronti di paesi più piccoli e deboli (dalla Siria alla Libia di Gheddafi, dall’Iraq al Venezuela, ecc.), se ripetuti con potenze atomiche, può innescare dinamiche non esattamente pacifiche.

La mossa appare un “rischio mal calcolato” anche sul piano strettamente politico della credibilità dei paesi occidentali come “difensori della democrazia” anche agli occhi delle proprie popolazioni.

Un sondaggio, commissionato a Latana dalla Alliance of Democracies Foundation, condotto in 53 Paesi, rivela infatti che quasi la metà (il 44%) teme che gli Stati Uniti rappresentino una minaccia per la democrazia nel proprio Paese. Il “faro della libertà” è tale solo nella propria narrazione, supportata dal sistema dei media internazionali, ma non risulta più convincente.

E proprio la pandemia, gestita in quel modo “produttivistico” che abbiamo visto, ha fatto da spartiacque nelle opinioni pubbliche occidentali: i cittadini dei “paesi democratici” valutano la gestione della pandemia di Covid-19 da parte dei loro governi meno positivamente rispetto alle persone dei paesi “meno democratici”.

In Europa la percentuale dei soddisfatti è precipitata al 45%, in Asia al contrario si raggiungono picchi del 76%.

Peggio ancora. Nonostante l’arrivo del “democratico Biden”, certo meno rozzo e “scostumato” di Trump; nonostante la campagna di beatificazione portata avanti da tutti i media principali... nell’ultimo anno la percezione dell’influenza degli Stati Uniti come una minaccia alla democrazia in tutto il mondo è aumentata in modo netto (+14%).

E non paradossalmente questa visione degli Usa come pericolo è stata maggiore in Germania (+20) che non nel bersaglio quotidiano del presidente Usa e del suo governo, la Cina (+16).

Come preoccupazioni principali, a livello mondiale, sono balzate le disuguaglianze sociali e il potere delle grandi multinazionali hi-tech, che risultano una “minaccia alla democrazia” ben più immediata e vicina dei “grandi nemici” indicati dalle cancellerie.

Questi dati – ovviamente volatili come tutti i sondaggi – raccontano un mondo molto più articolato e differenziato di quello “narrato” quotidianamente e da quello dei vecchi vertici del G8.

È ormai un mondo multipolare dal punto di vista strategico, con più potenze in competizione e l’ambizione di disegnare un “nuovo ordine mondiale” in sostituzione di quello ad egemonia Usa. Ma è soprattutto un mondo in cui le contraddizioni sociali emergono con forza maggiore di prima, sotto la spinta delle peggiorate condizioni di vita e l’evidente “odio di classe” mostrato con la gestione neoliberista della pandemia.

La protesta contro il G20 ha necessità di tener presenti queste profonde differenze rispetto all’esperienza fatta – su ben altra scala – con il G8 di venti anni fa. Allora avevamo davanti un blocco compatto di potenze, alleate e allineate contro “il 99%”.

Oggi c’è un gruppo di rissaioli impegnati nel darsele di santa ragione.

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