Più e meglio d’una pianificazione politica, sia rispetto all’immobilismo cariatico di Fatah sia dell’islamismo più o meno intransigente, l’intervista che la psicanalista palestinese Samah Jabr ha concesso ieri alla rivista online Lundimatin, pone punti chiarissimi nell’incistata questione palestinese, tornata a insanguinare vari angoli abitati dal suo popolo. La linea che Israele ha intrapreso da oltre un ventennio – secondo la regìa di Netanyahu e non solo, diciamo noi – gioca sul binomio: palestinesi barbari terroristi o sottomessi disumanizzati. Nell’uno, con omicidi mirati e bombardamenti generici, e nell’altro caso, tramite lo stillicidio d’una frammentazione d’un popolo: i fuoriusciti tenuti lontani da una terra che si chiamava Palestina, chi vive sotto embargo (Striscia di Gaza), chi è sotto occupazione (Cisgiordania), chi nella precarietà dei campi profughi in Giordania, Libano, Siria, a tutti costoro s’impedisce di ricreare una dignità comunitaria, un’essenza economica, una rappresentanza degna d’autorevolezza, di ascolto e accettazione mondiale. Teoricamente questo era previsto nel 1993, non è mai stato così. A tal punto che il sostegno al popolo palestinese, non solo e non tanto per le angherie subìte, ma per la propria capacità di resistenza è riconosciuta da Paesi solidali, limitata però da iniziative come i recenti ‘Accordi di Abramo’, dall’attivismo internazionale, minuto o organizzato, non dalle parolaie istituzioni internazionali come l’Onu reso impotente da veti e aggiramento delle risoluzioni. La stessa Autorità Nazionale Palestinese tende a passivizzare il suo popolo, relegandolo al ruolo di beneficiario di carità internazionale. Una linea che Israele gradisce perché gli toglie dal panorama geopolitico un interlocutore attivo e rivendicativo.
Perciò, sostiene la psicoterapeuta che vive e lavora a Gerusalemme e della capitale scippata dal sionismo prim’ancora che dai coloni ultraortodossi conosce le mille e una contraddizioni, i palestinesi devono uscire dal ruolo di vittima che molti vogliono cucirgli addosso. Esiste un’ampia gioventù palestinese, straniata dallo stallo d’una condizione bloccata, la cui prospettiva è unicamente quella di reiterare azioni già viste, se non per esperienza diretta per informazione acquisita. C’è il desiderio d’uscire dal tunnel – materiale e metaforico – non per diventare bersaglio o supplice d’aiuto, bensì per vivere un’esistenza degna della dignità che anima chi sente di voler affermare una differente vita personale e collettiva. D’altra parte Jabr non dimentica come i traumi per i connazionali siano sempre presenti e s’aggravino. Essi vivono sotto perenne minaccia di repressione, prigionìa, espulsione, massacro. Per loro la Nakba esiste da 73 anni e continua a perpetuarsi giorno dopo giorno. Questa gente subisce quotidianamente la ripetizione di un’illegalità davanti ai propri oppressori. Non possono che conseguirne angoscia, depressione, frustrazione, umiliazione psicologica, sofferenza sociale. Il male creato dall’occupazione va oltre gli episodi anche cruenti e luttuosi in sé, l’impotenza viene interiorizzata, si perde l’autostima soggettiva e collettiva di poter trovare uno sbocco a una condizione asfittica. L’impotenza paralizza i più, al di là dell’invecchiamento, della mancanza di energie e di soluzioni a medio termine. Però la resistenza contribuisce a tener viva la voglia di vivere, per quanto tutto ciò appaia un paradosso nei giorni in cui a Gaza la morte saetta improvvisa, azzerando anche la vita dei bambini. Eppure la resistenza umanizza, mostra come gli interventi esterni non sono in grado né vogliono proteggere i palestinesi. La resistenza è un diritto e un dovere. E sebbene la solidarietà internazionale dal basso sia una linfa benefica, quel che manca è una ripoliticizzazione interna, unica salvezza per la gente che soffre, da cui può e deve emergere una rigenerata leadership nazionale.
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