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25/05/2021

Il gioco delle tre dighe. Grandi Opere e «Partecipazione» al porto di Genova

[WM: A ritmo serrato di Recovery si annunciano in questi giorni devastanti Grandi Opere, compreso quel bolo indigerito del berlusconismo che è il ponte sullo stretto di Messina. Nel contempo si affinano i già noti strumenti di cattura del consenso e marginalizzazione del dissenso, primo tra tutti quel «dibattito pubblico» di cui ci siamo già occupati a proposito del Passante di Bologna. A Genova, in occasione di una nuova diga del porto al servizio degli oligopoli del trasporto merci, si celebra il primo «débat public» dell’era (post?)covid. E alcuni dei protagonisti sono esattamente gli stessi. Com’era quella frasetta? «Nulla sarà più come prima»? Buona lettura.]

di Wolf Bukowski *

Lo scorso febbraio ho scritto per Internazionale del proliferare di magazzini e infrastrutture logistiche nella pianura bergamasca. Ognuna delle storie di cemento e autostrade che avevo incontrato da quelle parti rimandava a un altrove. Un altrove lontano, com’erano i luoghi in cui le merci erano prodotte, e un altrove prossimo, come il porto in cui le merci, raccolte in container, approdavano. Il tabernacolo della logistica, il luogo sacro della sua produzione di valore, si manifestava ancora una volta come radicato nell’altrove. E infatti stanarlo, precipitarlo almeno temporaneamente a un qui preciso – per esempio bloccando una rotonda o l’accesso a un magazzino – si era dimostrato il solo modo efficace per contrastarne lo strapotere.

Con questi pensieri in testa compulsavo i progetti del magazzino «intermodale» di Medlog nel comune di Cortenuova. Medlog è la società di logistica di Msc, secondo operatore al mondo nel trasporto merci marittimo. Il suo magazzino bergamasco era un esempio di quella che un utilissimo podcast di ReCommon indica come «fagocitazione» dell’intera catena logistica da parte dei giganti dello shipping. Dagli oceani fino a terra, fin nelle strade provinciali della bassa Bergamasca, potenzialmente fin sotto casa tua.

A Cortenuova sarebbero arrivati treni di container da Genova: quello era il suo altrove più prossimo. E guardando verso Genova avevo osservato gli stessi processi, e gli stessi interessi, all’opera. Anzi, alla Grande Opera: si progettava infatti una nuova diga davanti al porto che consentisse alle navi giganti di attraccare, per poter scaricare sempre più merci da immettere nella catena logistica del valore.

La nuova diga raccoglieva un opprimente unanimismo politico, tutto fondato sul «non avere limiti allo sviluppo dei traffici» e sull’ipotetico sgocciolamento di ricchezza che per dogma ne sarebbe derivato. Alle confuse promesse occupazionali, invece, nessuno sembrava credere granché. Di tutto questo avevo dato conto in un secondo reportage per Internazionale, La nuova diga di Genova serve ai giganti del trasporto marittimo.

1. Peccato, abbiamo perso il Tav

Il consenso delle «istituzioni democratiche» non significava che la proposta non suscitasse alcuna contrarietà. Nel reportage avevo parlato degli abitanti oppressi dal traffico; potenziali attriti potevano venire anche da operatori economici esclusi da quella monocoltura dei container che andava affermandosi nei grandi porti. Ne aveva scritto già nel 2015 Andrea Olivieri. Altra minaccia al coro unanime poteva venire dalle preoccupazioni ambientali. Ma dubbio e discordia non dovevano disturbare la melodia monocorde, così si era provveduto a impacchettarli e pettinarli, dotando la diga in progettazione del suo «dibattito pubblico».

Avevamo già parlato del «dibattito pubblico» – spesso evocato come «débat public» in omaggio alle origini francesi – un lustro fa, in più articoli a firma mia e dei tenutari di questo blog. Ne Il passante di Bologna: arrivano i facilitatori raccontavamo una deprimente seduta del «percorso partecipativo» per l’allargamento della tangenziale cittadina, un percorso che il sindaco Merola considerava uno «strumento di democrazia»:

L’importante, per la facilitatrice, è arrivare a “formulare una domanda” a cui le autorità e “gli esperti” risponderanno. La [partecipante] deve essere propositiva affinché il “giro di tavolo” possa proseguire. Dopo di lei intervengono due donne. Parlano con l’esperienza di chi abita vicino alla tangenziale da decenni, non con il lessico affinato da chilometriche riunioni di “antagonisti”. Esprimono, in altri termini, il proverbiale concetto “chi semina strade, raccoglie traffico”. Ma alla facilitatrice non va bene, bisogna... “provare a tradurre questa preoccupazione in una domanda”. Le signore ci cascano e accettano di chiedere informazioni dettagliate sulle... barriere acustiche.

La facilitatrice era un’addetta della società Avventura Urbana, che gestiva il «percorso partecipativo» per conto delle istituzioni e di Autostrade per l’Italia. A conforto della nostra ipotesi, ovvero della miseria di quello «strumento di democrazia», citavamo l’antropologo Franco La Cecla, che ascriveva Avventura Urbana al «grande campo dell’animazione sociale […] il vastissimo campo del filtro sociale tra utenti sempre meno abituati a far valere direttamente i propri diritti e pianificatori che non vogliono direttamente essere implicati». Un grande campo che, come era ovvio, non faceva un graffio ai rapporti di forza nelle scelte urbanistiche.

Citavamo anche un’altra voce accreditata, in quell’articolo. Era quella di un’esperta di mediazione dei conflitti, Iolanda Romano, che proponeva il «dibattito pubblico» come modello in cui, «e questo è importantissimo» premetteva, «non si discute solo del come, ma anche del se, dell’opportunità dell’opera. E deve svolgersi in una fase anticipata rispetto al progetto definitivo». Nell’articolo de Il Fatto che nel 2012 raccoglieva le parole di Romano ci si rammaricava che fosse «tardi per il Tav», intendendo con questo la linea Torino – Lione, la cui opposizione era la spina del fianco delle classi dirigenti italiane. Classi dirigenti che dal «dibattito pubblico» potevano forse sperare di trarre un aiuto.

2. Ma si è fatto tardi anche per la tangenziale...

In realtà nel «confronto pubblico» bolognese, come scriveva Ariele Di Mario in una tesi di laurea dedicata all’Etnografia dei conflitti attorno al Passante di Mezzo, «i cittadini si [erano] ritrovati di fronte a un progetto già decisamente definitivo (redatto in pochi mesi […]), potendo discutere solo del “come” della sua realizzazione − non del “se” − e soprattutto con un campo d’azione piuttosto limitato (se non nullo)».

Si trattava di un esempio quella estrema «mancanza di agency, connessa alla fretta capitalistica di implementare tutto l’implementabile» che ne La Q di Qomplotto veniva indicata tra le cause che spingono le persone sulla via contorta del cospirazionismo, dove cercano una spiegazione immaginaria a situazioni e rapporti su cui sentono di aver perduto ogni controllo. A chi aveva partecipato al «confronto pubblico» bolognese, più prosaicamente per così dire, rimaneva l’amarezza di aver sbattuto la testa contro uno «strumento di democrazia». Scriveva Di Mario:

«[Il confronto pubblico] sembra aver avuto la funzione di ratificare una decisione già presa piuttosto che ascoltare le proposte e le alternative dei cittadini. Ed è per questo che […] i comitati contrari all’allargamento si sono ritrovati invece meno coinvolti nel processo decisionale e hanno anzi acuito la loro diffidenza nei confronti delle amministrazioni. “I confronti pubblici sono stati una ferita sacra, per me” mi ha riferito un cittadino […]».

Così invece l’urbanista Giorgio Pizziolo nel 2010 a proposito dei percorsi curati da Avventura Urbana in Toscana: «i rigidi metodi adottati da questa struttura spesso hanno un effetto di boomerang per le popolazioni che hanno avuto questa esperienza, le quali non vogliono più sentire parlare di partecipazione, e per le quali la partecipazione stessa è ormai bruciata.»

Di Mario segnalava che c’era chi, in seguito all’esperienza bolognese, aveva messo l’accento sulla differenza tra «confronto pubblico» e «dibattito pubblico»; ma la vicenda genovese avrebbe dimostrato che il marcio era proprio nell’idea di una «partecipazione» ancillare alle infrastrutture. Nella cosa insomma, non nel nome occasionalmente assegnatole. Quello genovese era infatti un vero e proprio «dibattito pubblico» e, sorpresa delle sorprese, conteneva anche l’«opzione zero», ovvero l’ipotesi di non fare l’opera.

Nell’articolo in cui raccontavamo le sedute del «confronto pubblico» bolognese, coordinate da Andrea Pillon, avevamo segnalato la distanza stellare tra quanto sosteneva Iolanda Romano sul «dibattito pubblico» e la prassi di Avventura Urbana.

Il paradosso era che Romano era fondatrice ed era stata presidente di Avventura Urbana fino a pochi mesi prima. Cioè fino a quando, nel gennaio di quel 2016, aveva assunto l’incarico di Commissario governativo alla Tav Terzo Valico. Era passata, dunque, dalla promozione della «partecipazione» attorno alle Grandi Opere all’impegno contrattuale di doverle realizzare.

3. Il rosario delle opere

Quasi cinque anni dopo, per organizzare il «dibattito pubblico» di Genova, erano stati individuati Andrea Pillon (come responsabile) e la società Avventura Urbana. Tra gli esperti reclutati figurava Romano, che aveva lasciato sia l’incarico governativo che uno successivo, per Airbnb. Era della compagnia anche Pierluigi Coppola, consulente ministeriale che, certamente con un certo grado di semplificazione giornalistica, veniva considerato «pro Tav».

Il groviglio di grandi opere e di «partecipatori» era inestricabile. Nel dossier di progetto della diga si nominava il Terzo Valico fin dalla diciassettesima riga dell’introduzione, e a pagina 16 lo si magnificava come incentivo al turismo crocieristico. Di tutte le espressioni turistiche forse la più tossica, seconda solo ad Airbnb.

Ma non bastava: la nuova diga risvegliava lo zombie di un’opera da anni in stallo, la Gronda di Genova. Per la quale nel lontano 2009 le migliori teste della «partecipazione», Pillon compreso, avevano organizzato un precoce «débat public» che in molti ricordano come «turbolento». La Gronda è una tratta autostradale che secondo Legambiente «sarebbe usata da pochi, non risolverebbe il problema dei nodi di traffico della città e soprattutto andrebbe a bucare montagne, ancora».

Per il leghista Edoardo Rixi, già viceministro del governo Conte I, tanto il Terzo Valico quanto la Gronda erano irrinunciabili per «riuscire a smaltire» la mole di container che sarebbe arrivata via mare grazie alla nuova diga. E nel «Te Deum» di fine 2020 monsignor Marco Tasca aveva recitato un rosario di infrastrutture:

«Anch’io sento indispensabile ed urgente, la necessità di mettere mano a grandi progetti, da lungo attesi quali Terzo Valico, Gronda, Diga Foranea, ribaltamento del Cantiere Navale di Sestri, raddoppio della ferrovia Genova-Ventimiglia, riassetto del Distretto Riparazioni Navali, interventi per la viabilità autostradale!»

L’esclamativo era arcivescovile, non mio, e rende bene l’idea della compattezza ideologica e sociale che si raccoglieva attorno alle grandi opere, nella quale diventava impossibile distinguere tra opere buone e dannose piaghe d’Egitto di cemento.

4. Come sterilizzare l’«opzione zero»

Della diga si parlava da quasi un decennio. Per indicare una data precisa si potrebbe generosamente scegliere il 4 luglio 2012, quando il presidente dell’Autorità portuale aveva presentato un piano che già indicava come linea di sviluppo lo spostamento al largo della diga frangiflutti. Da allora al 9 gennaio 2021, quando si era aperto il «dibattito pubblico», erano passati 3110 giorni. In questi tremilacentodieci giorni le istituzioni avevano deliberato in modo spesso poco comprensibile (i piani regolatori portuali sono esoterici quanto quelli di terra), avevano proclamato urbi et orbi l’ineluttabilità dell’opera, avevano determinato chi avrebbe dovuto gestire le procedure di gara (cioè Invitalia)... E infine, rigorosamente dopo tutto questo, avevano convocato il «débat public»!

Venite cittadini, esprimetevi, fate la vostra parresia, dite tutta la vostra verità che le istituzioni, finalmente, vi ascoltano. Ma fate in fretta, perché il «dibattito pubblico» si chiude il 19 febbraio, cioè fra 41 giorni, «con la presentazione della relazione finale del Coordinatore». Anzi: 21 giorni se si considera solo il lasso di tempo previsto per gli incontri pubblici. Fosse stata, poniamo, una partita a calcetto tra Imposizione f.c. e Partecipazione a.s., il risultato sarebbe stato l’inenarrabile 3110 a 41. Anzi: ventuno.

Ma c’era l’«opzione zero»: questa volta si faceva sul serio! L’opzione zero in effetti era richiamata nelle faq del dibattito pubblico, in un pastone enciclopedico che, in sole 18 domande, si muoveva tra temi planetari e questioni puntuali, tra la rotta artica delle navi (che il riscaldamento globale sta aprendo e che potrebbe tagliare fuori il Mediterraneo da molti traffici) e la linea ferroviaria di Sampierdarena. Ma era nel documento alla base del dibattito, l’Analisi costi-benefici, che la questione veniva trattata. E lì si prevedeva un’«ineluttabile contrazione fino all’annullamento dei traffici con l’Asia, l’Oceania e le Americhe» nel caso non si facesse la nuova diga. Mentre si metteva in piedi, al contrario, la promessa di un raddoppio e più dei traffici con la nuova diga (si veda il reportage su Interazionale per capire come erano state fatte queste proiezioni.)

Le proiezioni potevano essere ricalcolate, riportate a dati molto più cauti, come aveva fatto Fridays for Future Genova nel «quaderno» presentato al «dibattito pubblico». Altri elementi ancora potevano essere richiamati, compreso il fatto che il gigantismo navale potrebbe non essere un destino eterno (il blocco del canale di Suez ha fatto emergere molti dubbi), oppure che mantenere una caratterizzazione mediterranea potrebbe anche essere più congeniale al porto di Genova.

Ma soprattutto: scegliere di puntare sul «non avere limiti alla crescita dei traffici» è una scelta di fondo politica e filosofica che non può essere ridotta a un «dibattito pubblico» interno alla procedura di realizzazione dell’opera. Chi la vuole costruire mai ritornerà sulle proprie scelte, quale che sia l’esito del «dibattito», e se anche un «débat» si concludesse con la bocciatura dell’opera da parte di una forte maggioranza ciò non avrebbe alcuna conseguenza, perché il suo esito non è vincolante. Lo spiegano, in un testo del 2020, numerosi professionisti della «partecipazione», compresi i «nostri»:

«Il dibattito pubblico […] non è vincolante per il decisore pubblico ma permette di individuare e trattare con anticipo possibili conflitti che rischierebbero di rallentare la realizzazione degli interventi, come si è verificato in numerosi casi di infrastrutture controverse. […] Il dibattito pubblico è uno strumento nato per gestire una conflittualità latente o esplicita e per migliorare la qualità della progettazione delle opere, serve ad aiutare e facilitare la decisione. Non è un elemento di complicazione o rallentamento delle procedure […].»

L’odor di esorcismo del movimento No Tav trasudava da ogni poro della pur trattenuta formulazione. Non a caso uno dei disegni di legge sul «dibattito pubblico» discussi nel corso degli anni portava come primo firmatario un senatore che sull’ostilità al movimento aveva costruito la propria sbracata visibilità mediatica (visibilità che non vogliamo alimentare neppure nominandolo).

Il presidente dell’Autorità portuale di Genova e, in mascherina nera, Andrea Pillon, durante la conclusione del «dibattito pubblico»

5. Il gioco delle tre dighe

Poiché non c’era nulla da decidere, dalla diga veniva lanciato un amo: la scelta tra tre ipotesi progettuali. Con solo qualche colpetto di mouse nella pagina principale del sito del «dibattito» si arrivava infatti al gran dilemma: «A seguito di approfonditi studi sono state individuate tre alternative progettuali, selezionate in quanto più vantaggiose per la minore quantità di nuove costruzioni e demolizioni, con la conseguenza riduzione dei costi.»

Le alternative non erano chiamate con un banale uno, due e tre – avrebbe ricordato troppo facilmente Mike Bongiorno – ma 2, 3 e 4, perché erano state individuate nell’ambito di cinque «famiglie» di soluzioni, dopo aver scartato la prima e la quinta. Alle tre ipotesi veniva dedicata un’intera sezione del sito: scorrendola si poteva apprezzare l’inconsistenza «pubblica» del dilemma. Le differenze erano straordinariamente tecniche: le conseguenze sociali ed economiche della diga, quale che fosse la «busta» scelta, sarebbero state precisamente le stesse.

La scelta tra queste tre ipotesi era necessariamente di competenza di chi conosce il porto da vicino. E infatti il Dossier di progetto presentato in apertura del «dibattito» avvertiva che i servizi tecnico-nautici del porto, per capirci i piloti, avevano «espresso una preferenza per la soluzione 3». Si invitava insomma a discutere di qualcosa che non era in alcun modo opinabile, invece di discutere di ciò che doveva essere discusso, ovvero la scelta politica di fondo.

Facile, a questo punto, prevedere la conclusione dello spettacolo. Posso ormai rivelarlo senza guastare nulla: c’è stato il lieto fine.

Mi piace immaginare così l’ultima scena, prima che cali il sipario: il proponente esprime la sua preferenza per l’opzione tre, e un sospiro di sollievo seguito da applausi si leva dal pubblico. Tutti preregistrati, come nelle sitcom.

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