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30/04/2021

Blow Out (1981) di Brian De Palma - Minirece

Liberati i compagni a Parigi, si sgonfia la “grande operazione”

Partiamo con la buona notizia. I nove compagni arrestati a Parigi su richiesta del governo italiano sono stati rimessi in libertà dopo poco più di 24 ore.

Libertà vigilata, con misure diverse (dall’obbligo di firma, all’obbligo di residenza), ma libertà. Del resto, come ha potuto constatare chi qualche volta è andato a trovare uno di loro, la “vigilanza” nei loro confronti non è mai stata interrotta.

L’obbligo per tutti di “non lasciare il territorio francese” sa quasi di scherzo: nessuno degli esuli, da quando è arrivato in Francia, ha mai lasciato neppure per un giorno il Paese. Troppo rischioso, vista la giungla delle normative europee sulle estradizioni e la possibilità di essere comunque “rapiti” da una delle tante polizie italiche (è accaduto davvero a Paolo Persichetti, sequestrato per strada a Parigi e trasportato nottetempo in Italia senza passare né per un commissariato e tanto meno per un giudice).

Resta al momento irreperibile soltanto Maurizio Di Marzio, che starà decidendo cosa fare, anche alla luce della libertà concessa anche ai due – Luigi Bergamin e Raffaele Ventura – che non erano in casa al momento della “visita” della polizia e che si erano poi spontaneamente presentati ieri mattina. Anche loro sono stati rimessi in libertà.

I giudici – secondo la legge francese – hanno notificato agli arrestati la nuova richiesta di estradizione da parte del governo italiano e chiesto, come da codice, se accettavano di essere rimandati in Italia. Ovvio il “no”, ripetuto da tutti e nove.

La palla ora passa alla Chambre de l’Instruction, che svolgerà il normale processo individuale previsto dalla legge, con tanto di esame delle carte, verifica delle prove e delle procedure, avvocati difensori, testimonianze, ecc. Nonché diritto all’appello. Alla fine, nel caso l’estradizione fosse concessa, la parola andrebbe al presidente della Repubblica e al primo ministro per la firma dell’atto.

Lo stesso Eliseo si è premurato di far sapere ai “colleghi” italiani che ci vorranno “non meno di due o tre anni”. E nel frattempo Macron avrà molto probabilmente lasciato la carica che indegnamente ricopre. Dunque – anche se l’iter giudiziario fosse negativo per i compagni – la parola finale sarà pronunciata da qualcun altro.

Finita la parte di cronaca, vediamo cosa significa.

I due governi hanno fatto una figura di merda. La “grande operazione antiterrorismo” – come è arrivato a definirla l’immaginifico gost writer di Luigi Di Maio – si è rivelata un puro atto di vendetta postuma su un gruppo di ex ribelli ormai piuttosto anziani e senza una seria base giuridica.

Un bel paradosso per i “campioni della legalità” che raccontano la favola horror della “giustizia che deve fare il suo corso”.

Vediamo perché. Dal lato italiano ci sono naturalmente le condanne comminate alcuni decenni fa. Il che darebbe una patina di “legalità” alla richiesta attuale. Ma se si va a guardare nei dettagli escono fuori “marachelle” che la dicono lunga sull’uso politico-poliziesco della legge da queste parti.

Per esempio. La fine costituzionalista Marta Cartabia, oggi ministro della giustizia, ha inserito l’”urgenza” tra le motivazioni della richiesta di estradizione. Sul piano logico e storico è una cosa priva di senso. Dopo 40 anni, infatti, l’unica “urgenza” immaginabile è legata al “rischio” che alcuni degli esuli muoiano prima di poter essere riportati in Italia (è già accaduto per diversi altri compagni ospitati in Francia).

A ben guardare, però, l’”urgenza” è legata anche allo scadere dei termini per la prescrizione del reato (il doppio della pena comminata), almeno per i non condannati all’ergastolo (che non prevede prescrizione).

Sappiamo che per almeno uno dei compagni – proprio Maurizio Di Marzio – quella scadenza arriva tra 10 giorni. Quindi “ora o mai più”, devono essersi detti ai piani alti dei vari ministeri coinvolti. Serviva proprio un fine costituzionalista per immaginare un inghippo del genere...

Per Bergamin, invece, il meccanismo della prescrizione era stato interrotto trovando un giudice disponibile ad affibbiargli la qualifica di “delinquente abituale”. Ossia una “etichetta” riservata a chi vive di reati contro il patrimonio (ladri, scippatori, truffatori, ecc.), che insomma “fa reddito” in quel modo e quindi “abitualmente” infrange le leggi.

Quale giustificazione possa essere addotta per appiopparla a uno che da 40 anni vive lavorando, sotto il controllo discreto delle forze dell’ordine di un altro paese, è davvero un mistero. È immaginabile però il tono della riunione in cui qualcuno ha diramato l’ordine “cercate un giudice che si inventa una formula per non farlo arrivare a scadenza, e poi se lo pijiamo...”.

L’abitudine a fare delle leggi carni di porco è una delle caratteristiche più costanti della classe dirigente italiana, forze repressive in primis. Basterebbe forse la testimonianza di una legatitaria senza se e senza ma, come Michela Murgia, minacciata da un poliziotto – con tanto di “mi dia i documenti” – per un suo articolo contro l’abitudine del generale Figliuolo a girare in divisa per i centri vaccinali...

Il passo falso di Macron

Da parte francese la situazione è ovviamente più complicata. Lì la “legislazione d’emergenza” non è ancora diventata un’abitudine. E nonostante la polizia sia forse ancora più brutale che in Italia, sembrano non esserci altrettante “pezze legali” per giustificare sempre e comunque l’arbitrio del potere.

Gestire un paese non è come gestire un fondo di investimento. Strano che un banchiere come Macron non ci abbia pensato...

Però i giudici che hanno preso in mano “la pratica” già ieri, e quelli che lo faranno nelle prossime settimane, si troveranno davanti fascicoli piene di decisioni già prese dalla magistratura francese; faldoni dove le “prove” esibite dai tribunali italiani sono state spesso smontate, messe in dubbio, contestate anche dal punto di vista del codice di procedura penale (naturalmente diverso tra i due paesi).

Come provavamo a spiegare in un altro articolo, i processi ai gruppi della lotta armata erano celebrati in modo decisamente “sbrigativo”. E l’unica condizione posta per l’ospitalità dalla “dottrina Mitterand” – “non aver commesso reati di sangue” – si scontrava fattualmente con sentenze in cui un imputato “poteva essere condannato per un ‘fatto di sangue’ anche se non vi aveva partecipato direttamente. Chi ha avuto la dubbia fortuna di poter leggere i dispositivi delle sentenze nei processi contro la lotta armata – si possono leggere ancora oggi – ha visto condannare in genere anche 20 o 30 imputati per una azione materialmente compiuta da 4 o 5 persone.”

Se un giudice è una persona normale, e non un “combattente in prima linea”, capisce immediatamente che la stragrande maggioranza dei condannati per un singolo reato “di sangue” sono, se non del tutto “innocenti” sul piano politico, sicuramente “estranei al fatto” su quello giudiziario.

E certamente molti giudici francesi hanno dovuto esaminare con occhio scandalizzato certe condanne – anche all’ergastolo, in primo grado! – comminate a persone che avevano al massimo incontrato un paio di volte un “clandestino”.

Ma il segreto del codice penale italiano è quel “concorso morale” che nessun paese di media cultura giuridica accetta di adottare. Specie in materia di “fatti violenti”, dove le condanne sono ovviamente pesantissime. In base a quel “trucco” giuridico, se un’azione viene compiuta da poche persone è comunque possibile condannarne decine come se fossero stati tutti presenti, partecipanti, attivi.

Non c’è dubbio, insomma, che i giudici francesi si ritroveranno ancora una volta a percorrere il museo degli orrori giuridici messo su dalla magistratura e dai legislatori italiani (molte delle leggi dell'”emergenza” furono scritte materialmente dagli stessi magistrati “antiterrorismo”).

Le infamie di casa nostra

Una parola va infine spesa per la classe dirigente italiana, in queste vicende. Compresa naturalmente la casta di giornalisti, intrattenitori, imbonitori tv, ecc.

Gente capace di strafalcioni storici come quello pubblicato da Domani, secondo cui anche Lotta Continua era un'”organizzazione terroristica” (chissà che ne pensano i Gad Lerner, i Guido Viale, le decine di giornalisti, manager, ecc. passati da quelle parti).

Presenzialisti senza professionalità che si ritrovano ora a dover disfare le borse con l’attrezzatura di ripresa per l’arrivo del “volo di stato” a Ciampino...

La narrazione falsaria ripetuta in coro in questi giorni è una sintesi sloganistica di quella decisa oltre 40 anni fa. Senza alcuna variazione. “Sono stati assassini senza alcuna ragione, non c’è stata alcuna guerra civile...” E altre stronzate del genere. Il peggiore, a parte i fascisti dichiarati, è forse Marco Travaglio...

Allora, a tutti questi immemori che blaterano, vorremmo ricordare le centinaia di morti uccisi dallo Stato (tramite i fascisti reclutati alla bisogna, ma a volte anche direttamente) mettendo bombe sui treni, nelle stazioni e nelle banche (Piazza Fontana docet).

Stragi per cui non c’è un solo condannato (se non il fascista Vinciguerra, per quella di Peteano, ma solo perché reo confesso), anche se persino la magistratura è arrivata ad identificare con certezza i responsabili... che non possono essere riprocessati perché assolti nel primo processo.

A quelle centinaia aggiungiamo necessariamente le decine di uccisi direttamente dalla polizia nelle manifestazioni, in tutto il dopoguerra e ancora fino a Genova 2001.

E poi le denunce, i millenni di galera, le vite rovinate per sempre di migliaia di persone che chiedevano diritti sul lavoro e nella società, salari migliori, un futuro per i figli...

Forse non è stata una “guerra civile” vera e propria, anche se qualche risposta violenta è arrivata, conferendole le caratteristiche della “bassa intensità”.

È stata certamente un massacro unilaterale, sempre.

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La “Tav baltica” per i bisogni della NATO

La Commissione Europea non finanzia solamente progetti di ristrutturazione ferroviaria dalla Francia fino a Kiev, come dettagliatamente illustrato su questo giornale. Ma, con l’obiettivo di «improve military mobility within the EU» e renderla «dual-use compatible, meeting both civilian and military needs», va anche oltre, per coprire le reti ferroviarie di quei Paesi che, a differenza dell’Ucraina golpista, membri della NATO lo sono già dal 2004.

È così che, piano piano (il disegno è in discussione: nel senso che i Paesi interessati stanno litigando su di esso) va avanti il progetto di “Rail Baltica”, per adeguare il vecchio scartamento sovietico (1,520 m) dei Paesi baltici – che copre tuttora gran parte della rete ferroviaria a est della Polonia – allo scartamento europeo (1,435 m) e ovviare così alle soste cui i convogli sono costretti per il cambio degli assi.

Grandi lavori sono da tempo iniziati nell’area della stazione centrale di Riga, scrive Jurij Alekseev su Vzgljad.ru: il progetto «per collegare per ferrovia le capitali delle “tigri baltiche” – Estonia, Lettonia e Lituania – con l’Europa, passando per Varsavia, è nato all’alba del XXI secolo, ancor prima che questi grandi stati aderissero all’Unione Europea».

Così, vent’anni fa, si cominciò a parlare di un “hyperloop” lungo il mar Baltico, che portasse i convogli a 300 all’ora da Tallinn a Riga, a Vilnius, Varsavia e poi fino a Berlino, Parigi, Londra, Roma... L’Unione europea non stette a pensarci tanto: «Disegnate il progetto, assegneremo fondi per l’85% e il resto lo aggiungete voi».

Ma non è stato così semplice: il disegno è andato avanti per quasi 15 anni. Infatti, scrive Alekseev, per tutto questo tempo, «i focosi fratelli estoni, lettoni e lituani» non hanno fatto altro che litigare. Al pari di estoni e lettoni, anche i lituani volevano che la “Rail Baltica” passasse per la loro capitale, mentre lettoni e estoni puntavano su Kaunas, per evitare una deviazione di 150 km verso Vilnius. Il compromesso è stato trovato, inserendo nel percorso una diramazione da Kaunas a Vilnius.

Ma non è finita. Due anni fa, la Corte dei conti UE ha «scoperto frodi evidenti nella parte finanziaria del progetto, il cui budget è passato da 2,7 a 5,8 miliardi di euro e, secondo le previsioni, raddoppierà ancora»: è forse una novità?

Non basta: nella cifra non era stato inserito il costo del materiale rotabile. Inoltre, i famosi 300 km all’ora non tenevano conto dei burroni baltici, così che la velocità è stata ridotta a 250, poi a 160 e, in alcuni tratti, a 120 km/h: come andare in auto.

Ovviamente, chi se ne frega: la “Rail Baltica” non è mica per i passeggeri. Alekssev ha fatto due conti: prima della pandemia, tra Tallin e Vilnius, via Riga, transitavano in media 20 autobus interurbani, con circa 30-35 passeggeri l’uno; in pratica, 700 persone, tante quante due treni normali, uno al mattino e uno alla sera. E nemmeno il traffico di auto private è così elevato, tranne forse che «il venerdì sera, in particolare tra Estonia e Lettonia. Il segreto è che in Lettonia le accise sull’alcol sono notevolmente inferiori rispetto all’Estonia. E, proprio al confine, i lettoni hanno costruito un enorme spaccio di alcolici».

Ma, a parte i pochi passeggeri, gli scarsi turisti, c’è forse un «enorme giro di affari tra i Paesi baltici, con milioni di tonnellate di carico da lanciare a folle velocità sulla nuova ferrovia? No. In questi paesi salvati da Dio, non ci sono praticamente industrie o risorse naturali. Da tempo immemorabile, tutti i carichi di notevole importanza per i porti di Tallinn, Riga, Klaipeda, provenivano dalla Russia. E ora sono quasi ridotti a zero».

Ormai da alcuni anni, ad esempio, le esportazioni lituane di frutta e verdura in Russia rappresentano appena il 2,70% dell’export totale del paese e anche l’acquisto da parte russa del 46,3% della produzione industriale lituana è poca cosa, considerato il piccolo volume di tale produzione.

In tutte e tre le repubbliche, la produzione nazionale del periodo post-sovietico è infima e si sono ridotti di un terzo (e in alcuni casi scomparsi) gli scambi con la Russia che, in periodo sovietico, assicuravano la maggior parte degli introiti di transito, ad esempio, di tutti i maggiori porti baltici, da Riga a Klajpeda, Tallin, Ventspils, Liepāja, solo in minima parte sostituiti dalle importazioni da Germania, Svezia, USA. I trasporti merci ferroviari, poi, sono diminuiti di circa cinque volte rispetto al periodo sovietico.

Oggi, il PIL lituano è di circa 55 miliardi di dollari, con una incidenza del 30% del settore industriale e del 67% per i servizi. È di 31 miliardi per l’Estonia, con incidenze più o meno simili; di 34 mld per la Lettonia, con il 22% al settore industriale e il 73% ai servizi. Dunque. A che serve questa “alta velocità” baltica?

Come mai, si domanda Alekseev, la UE «finanzia una linea ferroviaria ad alta velocità con scartamento “europeo” nelle sue province baltiche in via di estinzione? Ho solo una risposta a questa domanda. Un binario ferroviario europeo unico, da Varsavia a Tallinn, serve solo per il rapido trasferimento di mezzi militari pesanti e truppe NATO lungo il confine russo. Nella terminologia militare, tali percorsi ferroviari si chiamano rocade chemin de fer»; in italiano: passante ferroviario, lungo la linea del fronte.

Proprio per questo, già 3-4 anni fa, gli esperti della NATO avevano effettuato un sopralluogo sulle autostrade baltiche, concludendone che carreggiata e capacità di carico dei ponti non consentirebbero il trasporto dei carri armati “Abrams” su rimorchi affidabili e veloci.

Dalla valutazione generale dello stato di ferrovie e ponti del cosiddetto “Corridoio viario delle aree del Baltico e del Nord” (Paesi baltici, Olanda, Germania, Polonia, Finlandia, Belgio) era risultato che moltissimi tipi dei moderni mezzi militari NATO, per massa e ingombro, non possono transitare alla dovuta velocità sulla rete viaria e ferroviaria di tali paesi.

Così, l’Alleanza atlantica aveva posto all’ordine del giorno l’adeguamento delle infrastrutture viarie ai propri mezzi militari. Pare infatti che, all’epoca del Patto di Varsavia, nei Paesi dell’Europa dell’Est, i ponti venissero costruiti per reggere a un peso non superiore alle 55 tonnellate, giusto quanto basta per carri T-72, T-80, T-90 e Armata, ma insufficienti, secondo Breaking Defense, a reggere le 60 tonnellate di Abrams M-1, Leopard II, Changeller II, e anche dei leggeri Leclerc.

Proprio da allora, il progetto della linea ferroviaria “Rail Baltica” a scartamento europeo ha ripreso impeto.

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Austerità e riforme: il Piano di Draghi è servito

Dopo una lunga attesa, la nuova versione del Piano di Ripresa e Resilienza (PNRR) firmata dal premier Draghi è finalmente tra noi. Si tratta del programma di investimenti che il Governo deve presentare alla Commissione europea entro la fine di aprile per poter spendere la quota italiana del Next Generation EU, lo strumento che l’Europa ha messo in campo per rispondere alla crisi da Covid-19.

Mentre la stampa ci racconta di una straordinaria capacità programmatica dei competenti, materializzatasi in un documento chiave per accedere ai fantastiliardi in arrivo dall’UE nei prossimi anni, ad un’attenta lettura le cifre di cui stiamo parlando si rivelano purtroppo per quei due spicci che sono. Non solo, il contenuto del Piano si presenta come l’ennesimo addentellato di un percorso di pericolose riforme e di austerità lacrime e sangue.

I soldi, per prima cosa, vanno contati

Già, perché quando parliamo di ‘risorse europee per risollevarci dalla crisi‘ stiamo parlando, conti alla mano, di circa 200 miliardi di euro spalmati su sei anni. Si tratta, in larga parte, di prestiti, e di risorse che finanzieranno progetti già in programma e in bilancio.

Per la realizzazione di questo programma di investimenti (il PNRR), l’Italia potrà infatti attingere dal Next Generation EU risorse pari a 205 miliardi di euro: 191,5 miliardi del Recovery and Resilience Facility (2021-2026), cui si sommano 13,5 miliardi del React EU (2021-2023). Rispetto alla versione precedentemente circolata, registriamo una diminuzione di circa 5 miliardi di euro, dovuta al ricalcolo dei prestiti del RRF destinati all’Italia, che passano da 127,6 a 122,6 miliardi. Insomma, già erano spicci, e diminuiscono pure.

Per avere un termine di paragone, ci basta pensare che il Next Generation EU, i millemila miliardi che ci raccontano riceveremo dall’Europa, finanzierà su sei anni investimenti per un importo minore di quanto già speso dal Governo italiano nei primi 15 mesi della pandemia (circa 210 miliardi).

Il PNRR è altresì finanziato da un fondo complementare, alimentato da risorse nazionali e non europee, che porta l’ammontare del programma a 235,6 miliardi. Ciononostante, nel suo discorso alla Camera Draghi è persino arrivato a ventilare la cifra di 261 miliardi, facendo riferimento a 26 miliardi aggiuntivi, derivanti in parte da un’anticipazione delle risorse riconducibili al Fondo Sviluppo e Coesione (15,5 miliardi) e in parte da altre fantomatiche risorse nazionali (10,5 miliardi) stanziate per opere specifiche – tra cui la TAV sulla tratta Salerno-Reggio Calabria, per fare un esempio. Le prime rappresentano un esborso anticipato di risorse già previste, cui aveva già fatto ricorso il PNRR Conte. Tali risorse rientrano tuttavia tra i prestiti, e pertanto andranno restituite, concorrendo ad aumentare l’ammontare del debito ed entrando dunque in conflitto con la disciplina di bilancio insita nel Patto di Stabilità e Crescita. Sulle seconde al momento è presto per sbilanciarsi, ma è bene precisare che, oltre all’esiguità dell’importo, si tratta di risorse con un orizzonte temporale di spesa talmente lontano (2032) da poter difficilmente ipotizzare un impatto immediato sull’economia.

In soldoni, le risorse messe a disposizione dell’Italia dall’Unione europea nell’ambito del Next Generation si fermano a 205 miliardi, da spendere su sei anni. Per giunta, se escludiamo i prestiti che dovranno comunque essere rimborsati e conteggiamo invece la quota che l’Italia apporterà al Multiannual financial framework (2021-2027), le risorse aggiuntive messe a disposizione dall’Europa non superano i 50 miliardi divisi su sei anni. In altri termini, gran parte del PNRR sarà finanziato, prima o poi, con risorse nazionali.

Pochi soldi in cambio di grandi riforme: i veri pericoli del Piano

Proviamo, ad ogni modo, ad analizzare il contenuto del programma appena presentato. Lungi dal distaccarsi dalla versione presentata dal governo Conte bis, il PNRR si articola nelle stesse sei missioni previste dalla versione precedente: transizione digitale (missione 1) ed ecologica (2), infrastrutture per la mobilità sostenibile (3), istruzione e ricerca (4), inclusione e coesione (5), e salute (6). Non sembrano nemmeno enormi le novità rispetto alla versione precedente (al netto dei circa cinque miliardi in meno) per quanto riguarda la distribuzione delle risorse tra le diverse missioni. Tuttavia, sono rintracciabili delle variazioni all’interno delle singole missioni e sui singoli interventi, come possiamo vedere dalla tabella riportata di seguito.

Variazioni assolute e relative risorse NGEU 

 PNRR Governo
Conte-bis (miliardi)*
Quota
sul totale
PNRR Governo
Draghi (miliardi)
Quota
sul totale
1. Transizione digitale43,920,9%41,5320,3%
2. Transizione ecologica 67,532,1%60,6429,7%
3. Infrastrutture per mobilità sostenibile29,714,1%25,1312,3%
4. Istruzione e Ricerca26,212,5%32,8116,0%
5. Inclusione e coesione25,312,0%27,0613,2%
6. Salute17,48,3%17,348,5%
Totale NGEU210100%204,5100%
*Le risorse attribuite nel PNRR Conte alle varie missioni sono state calcolate sottraendo dai fondi totali attribuiti a ciascuna la medesima quota (1/6) dei circa 13 miliardi del Fondo Sviluppo e Coesione, ipotizzando dunque che questi fossero distribuiti proporzionalmente tra le sei missioni.

La differenza sostanziale tra i due piani, tuttavia, risiede nel dettaglio con cui le cosiddette riforme strutturali sono state esplicitamente inserite all’interno del PNRR nella versione Draghi. Questo insieme di riforme rappresenta il cavallo di Troia della condizionalità rispetto all’elargizione delle risorse. Ad avere un ruolo decisivo nel processo di approvazione del Piano da parte dell’UE potrebbe dunque essere non tanto il novero dei progetti di investimento inseriti nel documento, quanto la previsione dettagliata rispetto all’attuazione delle riforme che dovranno accompagnare l’implementazione del Piano. Mentre il piano del governo Conte-bis le menzionava sinteticamente, in un’unica pagina, il piano Draghi definisce con dovizia di particolari le riforme da implementare e i relativi campi di attuazione: pubblica amministrazione, giustizia, concorrenza e semplificazione. Stiamo parlando di ben 60 pagine delle 337 dell’ultima versione del piano.

Tuttavia, le riforme a cui dobbiamo prestare più attenzione, quelle ritenute imprescindibili per l’accesso alle risorse del Next Generation EU, non sono così dettagliate nel documento presentato in Parlamento, come nel caso del mercato del lavoro. In una sua versione precedente, il PNRR Draghi prevedeva preoccupanti “iniziative di modernizzazione del mercato del lavoro” (p. 7). Nella versione finale del Piano c’è, tuttavia, molta enfasi sulle politiche attive del lavoro e sulle possibili riforme degli ammortizzatori sociali (p. 79-80). In primo luogo, si pone l’accento su una serie di misure che dovrebbero riqualificare, attraverso, ad esempio, corsi di aggiornamento e formazione, chi ha perso il proprio lavoro, come se la colpa di essere disoccupati sia dei disoccupati stessi, responsabili di essere poco appetibili per le imprese. In secondo luogo, il Piano menziona la riforma degli ammortizzatori sociali programmata dal Governo, che mira a universalizzare le tutele per tutti i lavoratori, a prescindere dalla condizione occupazionale: una proposizione ambigua, che inserita nel quadro complessivo di austerità e precarietà rischia di livellare al ribasso le garanzie attualmente in essere.

Non solo: in quest’ultima versione del PNRR si afferma che, “[s]e pure non ricomprese nel perimetro delle azioni previste dal Piano, queste riforme sono destinate ad accompagnarne l’attuazione, concorrendo a realizzare gli obiettivi di equità sociale e miglioramento della competitività del sistema produttivo già indicati nelle Country Specific Recommendations rivolte al nostro paese dall’Unione Europea” (p. 107). Belle parole, peccato che le riforme ‘di accompagnamento’ in questione e le raccomandazioni specifiche comportino tanto per cominciare una significativa riduzione della spesa pensionistica legata alle pensioni di vecchiaia.

Tra le altre riforme a cui il Piano fa riferimento, è possibile menzionare le liberalizzazioni e semplificazioni, che tornano in più parti del documento, nell’ottica che togliere lacci e lacciuoli crei un miglior ‘clima economico’. Ad esempio, a p. 91 si fa riferimento alle semplificazioni in materia di appalti e contratti pubblici (che permetteranno in sostanza di andare spediti sulle verifiche antimafia), nonché alla possibilità di limitare la responsabilità per danno erariale per le imprese. A p. 94, si parla inoltre di snellire le procedure per autorizzazioni in materia ambientale, un punto in aperto contrasto con la missione della transizione green. Ancora, a p. 104 si rimanda all’incentivazione della concorrenza, anche nei trasporti pubblici: tradotto, privatizzare il trasporto pubblico locale. Simile indirizzo, a p. 106, in cui si scrive di completare la piena liberalizzazione della vendita di energia elettrica: in altre parole, privatizzare la fornitura di luce. Sempre a p. 106, in materia di servizi pubblici locali, si restringe il raggio d’azione delle società in house, per affidare delle commesse alle quali dovrà essere fornita un’adeguata motivazione da parte delle Amministrazioni: una restrizione che apre la strada alle esternalizzazioni. Insomma, riforme e indirizzi di politica economica che vanno nella direzione di privatizzare quanto non ancora privatizzato, in una prospettiva marcatamente liberista stando alla quale ‘meno pubblico è meglio’, mentre il privato sarebbe più efficiente nel produrre e distribuire servizi. Altre possibili nefandezze del PNRR si nascondono nella riforma fiscale prossima ventura e nella riorganizzazione delle misure di welfare.

Ciò che è certo, nel frattempo, è il graduale ritorno all’austerità, con il progressivo riaffermarsi della disciplina di bilancio attraverso il contenimento del rapporto debito/PIL. Tale percorso si articola già nel DEF, attraverso una diminuzione costante del disavanzo primario. Per giunta, le congetture del DEF si basano su stime ottimistiche circa la crescita italiana: se questa crescita non ci sarà, per far tornare i conti toccherà, ancora una volta, tagliare le spese. Una strategia drammatica, come dimostrano gli ultimi 30 anni di tagli e contenimento della spesa pubblica.

Come se non bastasse, questo PNRR legherà mani e piedi agli esecutivi che verranno nei prossimi anni: questo programma non impegna solo questo governo, ma di fatto è il programma di governo dei prossimi esecutivi, per i prossimi 6 anni. Infatti, l’occhio della Commissione europea vigilerà sull’attuazione di questo programma, sotto la minaccia di essere soggetti alla scure del definanziamento qualora il Piano non sarà rispettato. A dircelo è un insospettabile: il commissario europeo Paolo Gentiloni. Nel suo intervento, Gentiloni dice testualmente che sarà la Commissione europea, probabilmente due volte l’anno, a decidere se erogare la parte di finanziamento, e che lo farà, oltre che sulla base della spesa sostenuta, anche alla luce dello stato di attuazione delle riforme e del rispetto delle ‘raccomandazioni’ europee. In altri termini, con il PNRR si sta decidendo di appaltare la nostra politica di bilancio e quella regolamentare per anni. 

Come ampiamente previsto, il Governo Draghi non è venuto in pace e la condizione per il Recovery Fund è l’austerità. La vera ragione per cui Bruxelles darà il beneplacito al PNRR Draghi è riconducibile alla disponibilità di questo governo di implementare quelle riforme lacrime e sangue che ci hanno condotti dove siamo. Ma non è finita, perché come dice qualcuno “[o]ra inizia la vera corsa contro il tempo del governo Draghi: rispettare i tempi delle riforme strutturali che Bruxelles attende per staccare a luglio il primo assegno del Recovery” e questo copione si ripeterà incessantemente per i prossimi sei anni: se vogliamo i soldi del Next Generation EU toccherà piangere, e parecchio.

Senza una mobilitazione di massa e una seria organizzazione politica, i prossimi anni potrebbero rivelarsi ancora peggiori di quelli passati per le classi popolari.

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Che gioia la scuola in estate!

Al termine di un anno scolastico travagliato e snervante come quello che si sta concludendo, con una situazione pandemica che lascia tutt’altro che tranquilli, la preoccupazione del governo dovrebbe essere quella di preparare adeguatamente il rientro in classe di settembre, procedendo a fare ciò che a cui in quattordici mesi di pandemia non si è provveduto: assumere nuovo personale e risolvere il problema del precariato per ridurre drasticamente il numero di alunni per classe e procedere a quei lavori di edilizia scolastica necessari a tal fine.

Per quanto riguarda studenti e insegnanti, al lumicino delle forze fisiche e nervose dopo un anno di alternanza tra scuola in presenza (poca) e a distanza (tanta), dubbi sulla sicurezza delle scuole mai risolti, discussioni ancora in corso sulla doverosa ammissione di tutti gli studenti alla classe successiva, sarebbe saggio dar loro un meritato momento di riposo, il più ritemprante possibile.

Al contrario la coppia Draghi-Bianchi, che sembra avere una fissazione per tenere le scuole aperte in estate, ne ha inventata un’altra: Il Progetto Scuola Estate, a cui sono destinati oltre 500 milioni di finanziamento, che dovrebbe costituire un “ponte” verso il prossimo anno scolastico.

Il progetto, a cui le scuole, il personale e gli studenti potranno aderire volontariamente, è persino scandito in tre tappe rispettivamente per il periodo di giugno, di luglio e agosto e infine di settembre. In pratica, per chi desidera, sarà possibile trascorrere l’intera estate negli inadeguati edifici scolastici.

Cosa si dovrebbe fare in quei mesi, al di là del polverone dei soliti termini di anglo-italiano, ormai abitudine del ministero, che contribuiscono a confondere le idee, non è chiaro.

Infatti, la Summer school (cioè scuola estiva), dovrebbe aiutare i giovani a recuperare le competenze rimaste incerte a causa della didattica a distanza, ma anche proporre attività socializzanti, di educazione tra pari, laboratori di arte, di musica d’insieme (con quali strumenti non si sa) e di sport.

Il tutto, naturalmente, condito da un’asfissiante e tecnocratica digitalizzazione che dovrebbe farla da padrone in tutte le attività, come se la didattica a distanza non ne avesse già provocato un’indigestione.

È invece chiaro il quadro di riferimento generale dell’iniziativa. Infatti in tutta la circolare occhieggia a più riprese la funzione, ritenuta strategica, dei “Patti educativi di comunità” più volte sostenuta dal ministro Bianchi, che prevede la collaborazione tra scuola pubblica, enti locali e privati, individuati nelle imprese, nelle organizzazioni del terzo settore e in agenti territoriali e sponsor vari.

Infatti, già nelle prime righe si legge che la scuola estiva dovrebbe proporre “approfondimenti per la conoscenza del territorio e delle tradizioni delle realtà locali“; l’incontro con “mondi esterni”, delle professioni o del terzo settore.

Sappiamo cosa possa celarsi dietro al “mondo delle professioni”, soprattutto in un contesto di ingerenza delle imprese nella scuola come quello delineato dalle pagine sulla scuola del Next Generation Fund, di cui ci occuperemo presto.

Non è possibile sapere oggi quale sarà l’adesione delle scuole, degli studenti e delle famiglie a questa iniziativa, ma è possibile che un certo numero di queste ultime vi aderisca, purtroppo in una logica più custodialista che pedagogica, visto il deserto istituzionale che si è creato attorno alla scuola, che rende a volte difficile per le famiglie la gestione del tempo libero dei bambini.

Ma si tratterebbe di una dequalificazione del ruolo della scuola, da istituzione formativa a luogo di custodia. Inoltre, esiste un fondato rischio di aumento della concorrenza tra le scuole, tra istituti che offriranno un servizio alle famiglie e altre che non lo faranno, ma anche tra insegnanti che, nella logica di gerarchizzazione delle professionalità, saranno più “responsabili” e “disponibili” e invece meno.

Ma tutto ciò è perfettamente nella logica del ministro Bianchi.

In ogni caso, é probabile che l’adesione degli insegnanti al progetto non sia massiccia e a questo proposito è legittimo chiedersi quali figure e con quale contratto di lavoro gestiranno la scuola estiva. Nella circolare si accenna a studenti universitari ed esperti che potranno condurre esperienze di imprese simulate o di processi e situazioni complessi risolvibili con software dedicati (ancora le famigerate competenze).

Francamente, temiamo che dietro alle figure degli “esperti” possano celarsi imprese private e sponsor che vedono nella scuola un possibile mercato. Oppure, insegnanti precari senza lavoro che saranno probabilmente retribuiti con salari miseri. Infine, come già accennato, ci sarà forse un’apertura al terzo settore, vale a dire alle cosiddette “cooperative” che forniranno personale ipersfruttato a basso costo.

Una delle tante vie della privatizzazione della scuola, che consentirebbe ai privati di lucrare sulla logica del Patto educativo di comunità, cioè della deleteria sussidiarietà.

La circolare sembra, nel suo tono, rimandare all’idea di una scuola che recupera relazioni e affettività, e ricorda la difficoltà per i bambini di prima elementare di apprendere i fondamenti della scrittura in una situazione cosi difficile.

Tuttavia, il rientro in presenza degli alunni e degli studenti è stato salutato in modo tutt’altro che accogliente, poiché ha coinciso con la somministrazione degli astrusi e discriminatori test INVALSI (e in qualche scuola anche i test PISA), che con la socialità e l’affettività non hanno nulla da spartire. Per le classi seconde elementari, che forse davvero hanno ancora incertezze nella scrittura e la lettura, gli implacabili test INVALSI sono in programma il 6 maggio, in spregio a tutti i discorsi sul favorire un recupero sereno e socievole della vita scolastica.

Proprio il 6 maggio è previsto lo sciopero indetto da USB, Unicobas e Cobas Sardegna per protestare contro un governo che alle esigenze di maggior personale e strutture per la scuola risponde con la digitalizzazione forzata e con i test INVALSI.

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Arresti in Francia, Jean-Luc Mélenchon denuncia “un atto di vendetta”

“È un atto di vendetta piuttosto che un atto di giustizia“. Mercoledì, poche ore dopo l’arresto di sette italiani – tra cui ex membri delle “Brigate rosse” condannati dall’altra parte delle Alpi per atti di terrorismo commessi negli anni ’70 e ’80 – Jean-Luc Mélenchon si dice “angosciato nel vedere che non c’è memoria, né discernimento, né senno di poi, e che mettiamo segni di uguale tra tutto e niente“. “Questo non va bene per la Francia, sono dispiaciuto e angosciato“, ha insistito di nuovo.

Il deputato LFI di Bouches-du-Rhône si è detto “radicalmente ostile” alla scelta di Emmanuel Macron, acclamato dall’Italia. Per lui è “demagogia” ma anche “un duro colpo da quattro soldi” per soddisfare la destra.

“Stiamo infrangendo la nostra parola data“, ha detto il candidato insoumis alle presidenziali, considerando che “il nostro onore ci impone di non dire oggi il contrario di quanto abbiamo detto quarant’anni fa”.

Jean-Luc Mélenchon afferma infine che parteciperà alla mobilitazione, se questa ci sarà.

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Bertolaso lascia la Lombardia

Guido Bertolaso ha annunciato che lascerà la Lombardia e rientrerà nel suo domicilio romano. Tuttavia, secondo il presidente Fontana, continuerà a collaborare con la Regione, in modalità telematica. Non sappiamo cosa farà Bertolaso con il telelavoro, così come è difficile capire cosa abbia fatto come commissario alle vaccinazioni della Lombardia dal 2 febbraio a oggi.

Ne ricordiamo l’altisonante proclama quando assunse il compito affidatogli dall’assessora e vicepresidente Moratti: “vaccineremo sette giorni su sette e ventiquattro ore su ventiquattro, entro giugno tutti i lombardi saranno vaccinati”. Propositi entusiasmanti che non hanno avuto riscontro.

La scelta di Moratti e di Bertolaso di affidarsi alla piattaforma di prenotazioni elaborata da ARIA (costo tra 18 e 22 milioni) si è rivelata fallimentare. I danni causati dalle difficoltà di prenotazione e gli infiniti disguidi provocati da tale piattaforma sono purtroppo difficilmente quantificabili, ma è certo che il ritardo nella vaccinazione dei cittadini ultraottantenni e fragili ha provocato centinaia, forse migliaia di decessi che si potevano evitare.

Il passaggio alla piattaforma di prenotazione delle Poste, assolutamente gratuita e molto più efficiente, ha rimesso la campagna vaccinale lombarda su binari meno incerti, ma il disastro procurato dalle scelte sbagliate della giunta e del commissario non è recuperabile.

Ricordiamo peraltro che Bertolaso, commissario berlusconiano a tutto, visto che lo fu per il terremoto dell’Aquila, poi al G8 e altre emergenze sino ai mondiali di ciclismo, era già stato protagonista, a Milano, della sciagurata costruzione dell’ospedale della Fiera, nella primavera scorsa, che costò, sembra, 26 milioni (i conti esatti non sono stati resi pubblici) per accogliere una trentina di degenti affetti da Covid 19 nei momenti finali della “prima ondata”.

Non contento, Bertolaso aveva replicato lo stesso copione in Sicilia e nelle Marche, con risultati egualmente sconfortanti: spese enormi e utilità poca.

In ogni caso, la notizia della partenza di Bertolaso non giunge inattesa, poiché da settimane si sapeva di contrasti tra il commissario e la giunta, dovuti probabilmente alla definizione dei ruoli e ai rinfacci sui tanti pasticci che hanno rallentato oltre ogni limite la campagna vaccinale.

Cosa farà ora Bertolaso è ignoto, farà telelavoro dalla sua casa romana o si lancerà, come desidera Salvini, in imprese di più ampio respiro, come la candidatura per il centro-destra a sindaco della capitale?

Al di là degli auspici del capo leghista, Bertolaso sembra poco incline ad accettare la candidatura. Forse si ricorda quanto accadde cinque anni fa, quando già candidato del centrodestra scivolò su una frase sessista contro la sorella d’Italia Giorgia Meloni, che, sostenne, non avrebbe potuto fare il sindaco perché mamma. Cercò pure di rimediare, dicendo di avere voluto essere “protettivo” verso Meloni, ma la pezza fu peggio del buco.

Quindi è probabile che i romani abbiano la fortuna di non vedere candidato sindaco Guido Bertolaso, che starà a casa a fare telelavoro per Fontana e Moratti. Ma sul futuro dell’omnicommisario ci sorge una domanda: non sarebbe meglio prendesse la pensione?

Lo diciamo per proteggerlo dall’affaticamento...

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29/04/2021

La “nuova Europa” passa anche per gli arresti di Parigi

Davvero qualcuno crede che pretendere l’estradizione e la morte in carcere per dei settantenni (in media), che hanno combattuto contro lo Stato tra i 50 e i 40 anni fa, sia qualcosa di diverso dalla pura vendetta?

L’assurdo è tale che non è possibile considerarlo un assurdo. Non possiamo “immaginarci” il Potere – la classe dirigente di questo disgraziato paese – come un gruppo di ottusi semplicemente ossessionato dal fatto che alcuni (percentualmente pochi) dei suoi nemici di allora siano sfuggiti al carcere.

Dopo 40 anni, e “due repubbliche” dopo (siamo alla Terza, giusto?), anche la peggiore ossessione dovrebbe essere spenta sotto l’urgenza di problemi ben più presenti.

Dunque la ragione profonda degli arresti di Parigi non può essere quella ufficialmente raccontata. Non per “complottismo”, ma perché riteniamo che almeno una parte di questa classe dirigente sia capace di fare un mestiere da macellaio, ma con una certa “creatività” e una buona dose di furbizia, se non proprio di intelligenza.

Perciò, se ci danno una spiegazione stupida, non possiamo crederci.

Per questi arresti si sono mossi personalmente Mario Draghi e Marta Cartabia, non due buzzurri a metà strada tra la Lega e Fratelli d’Italia. Sono riusciti là dove Salvini e Bonafede avevano fallito, pur gestendo esattamente lo stesso dossier.

E se Macron ha cambiato linea rispetto a due anni fa, è evidente che stia maturando un diverso rapporto tra i vari paesi membri dell’Unione Europea.

Per questo conviene alzare lo sguardo leggermente al di sopra della pura cronaca, che stimola sempre “letture psicologiche” devianti, e capire cosa sta maturando nelle pieghe della crisi moltiplicata dalla pandemia – gestita in modo criminale in tutto l’Occidente – e tra i tentativi di risposta all’evidente declino del Vecchio Continente.

La Francia e la “dottrina Mitterand”

I compagni italiani esuli Oltralpe da quasi 40 anni – un po’ più di 200 in tutto – erano lì per un “patto informale” tra Italia e Francia, allora guidate da Bettino Craxi e Francois Mitterand. Era il 1985 quando venne formalizzata la “dottrina” che prese il nome del presidente francese, ma il lavoro preparatorio e quello di “consolidamento” è stato un po’ più lungo, prima e dopo.

In Italia, in quegli anni, il potere stava ragionando su come praticare una soluzione politica che chiudesse la stagione della lotta armata. Sul piano militare il più era stato fatto, i militanti ancora attivi si potevano contare sulla dita di poche mani, mentre le carceri erano piene di prigionieri politici. Combattenti, certo, ma sicuramente per ragioni politiche.

L’ipocrisia regnava anche allora. E dunque si sapeva che così era, ma non lo si poteva mettere nero su bianco in una legge. Dunque la “soluzione politica” non avrebbe dovuto comportare il “riconoscimento politico” postumo di una insurrezione armata. Ci fu anche un processo con questa imputazione, e finì con una clamorosa assoluzione di centinaia di imputati. Condannarli per insurrezione sarebbe equivalso a riconoscere la politicità della loro azione.

Ma non si poteva tenerli tutti in galera, spesso in carceri speciali, perché anche questo era di fatto un riconoscimento della politicità di una lotta.

Una prima soluzione, infame, fu la legge sulla “dissociazione”, che vide la luce proprio in quei mesi. Ma era solo una versione edulcorata della legge sui “pentiti” (non c’era più molto da sapere sui fatti e le motivazioni della lotta) e quindi non poteva – e non riuscì – a risolvere il problema.

Di lì a poco, alla fine degli anni ‘80, si cominciò perciò ad applicare la normativa penitenziaria ordinaria – nota come Legge Gozzini – anche ai prigionieri politici “irriducibili”. Un meccanismo di svuotamento delle carceri molto lento, continuamente ostacolato da problemi locali (la magistratura non è uguale dappertutto, e la Procura di Milano – per esempio – allora sembrava applicare un diverso codice), che durò in pratica per tutti gli anni ‘90.

Poi c’era il problema degli “esuli”. E la Francia di Mitterand accettò di farsene carico, ospitando e integrando nella vita civile quelli che altrimenti sarebbero stati dei “latitanti”, dunque “problematici”. Unico limite: “non aver commesso reati di sangue”.

Altra formula ipocrita, cui non a caso si è aggrappato Macron per sostenere di aver solo “applicato rigorosamente la dottrina Mitterand”.

In realtà quasi tutti gli esuli erano stati condannati in Italia anche per “fatti di sangue”, ma in virtù di un reato che il codice penale francese non prevedeva: il “concorso morale”.

Che significa? Che un prigioniero poteva essere condannato per un “fatto di sangue” anche se non vi aveva partecipato direttamente. Chi ha avuto la dubbia fortuna di poter leggere i dispositivi delle sentenze nei processi contro la lotta armata – si possono leggere ancora oggi – ha visto condannare in genere anche 20 o 30 imputati per una azione materialmente compiuta da 4 o 5 persone.

In pratica, un appartenente a una “banda armata” poteva essere condannato per ogni singola azione realizzata da quel gruppo mentre era in libertà (ma qualcuno persino per fatti avvenuti quando era già in carcere).

La Francia non riconosceva le condanne comminate in questo modo sbrigativo e dunque gli esuli potevano essere considerati “non direttamente colpevoli” anche se condannati in Italia in via definitiva.

La “dottrina Mitterand”, a ben vedere, non era insomma un atto “contro l’Italia”, ma un modo di collaborare con questo paese a risolvere un problema che la classe politica d’allora non riusciva a chiudere (le responsabilità del Pci e di Andreotti, per questo, sono infinite).

Politica armata o “crimine comune”?

Su questo punto forse è meglio lasciare la parola al più duro e cattivo dei ministri dell’interno di allora, poi anche presidente della Repubblica:
Ritengo che l’estremismo di sinistra, che era non un terrorismo in senso proprio (non credeva infatti che solo con atti terroristici si potesse cambiare la situazione politica), ma era “sovversione di sinistra” come agli albori era il bolscevismo russo, e cioè un movimento politico che, trovandosi a combattere un apparato dello Stato, usava metodi terroristici come sempre hanno fatto tutti i movimenti di liberazione, Resistenza compresa (l’assassinio di un grande filosofo, anche se fascista, che camminava tranquillamente per strada, Giovanni Gentile, da parte di Gap fiorentini si può giudicare positivamente o negativamente, ma da un punto di vista teorico è stato pur sempre un atto di terrorismo) pensando di innescare – e qui era l’errore anche formale – un vero e proprio movimento rivoluzionario.

Voi siete stati battuti dall’unità politica tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano, e per il fatto che non siete stati in grado di trascinare le masse in una vera e propria rivoluzione.

Ma tutto questo fa parte di un periodo storico dell’Italia che è concluso; e ormai la cosiddetta “giustizia” che si è esercitata e ancora si esercita verso di voi, anche se legalmente giustificabile, è politicamente o “vendetta” o “paura”.
Francesco Cossiga si muoveva con la logica della guerra di classe, e dunque sapeva meglio di chiunque che in guerra si mente (e si nega il “riconoscimento politico” al nemico), si spara, uccide, imprigiona, ma poi bisogna mettere in atto iniziative per chiudere davvero il periodo della guerra. Tra cui, ovviamente, rimandare a casa i prigionieri.

Togliatti, pasticciando molto e concedendo troppo, aveva fatto lo stesso con i fascisti, ad appena un anno dalla fine della guerra.

Troppo complicato da capire, per una classe politica di infimo livello come quella uscita nella seconda e nella terza Repubblica.

Cosa c’è di nuovo?

Tuttavia c’è qualcosa di eccessivo in questa esibita ansia di vendetta, e non ci riferiamo a nessun aspetto “psicologico” o “ideologico”. Nessun vero potere campa con la testa volta all’indietro.

Una prima ammissione viene dal commento di Carlo Bonini, vicedirettore di Repubblica (giornale della famiglia Agnelli, ora): “Se dovessimo dirla in una parola sola oggi 28 aprile si chiude la storia del Novecento italiano e probabilmente si chiude anche una fase della storia europea“.

Uno “spartiacque”, un qualcosa di “costituente”, non un gesto fine a se stesso e men che mai conforme a un “desiderio di giustizia”. Un qualcosa che serve per l’oggi e in futuro, insomma. Che delinea un tratto essenziale di un “nuovo mondo”.

Anzi. Di una “nuova Europa”.

Lo prendiamo sul serio non solo perché ha un ruolo importante come “comunicatore” al servizio della classe dirigente, ma anche e soprattutto perché da oltre venti anni (forse anche da quando stava a il Manifesto) Bonini è professionalmente considerato “molto attento” ai servizi strettamente intesi. E se si va a guardare il numero infinito di volte che ha intervistato Franco Gabrielli (neo sottosegretario ai servizi, appunto, nonché ex capo della Digos, del Sisde e della Polizia) vien da credere che la vox populi non sia proprio campata in aria.

In Italia in questi giorni stiamo vivendo – in silenzio e quasi come beoti – i primi passi di un “cambiamento” economico e sociale al termine del quale “il paese non sarà come prima” (Draghi dixit in Parlamento). Un percorso fatto di “riforme” di cui si intravedono le caratteristiche, niente affatto amichevoli con i ceti popolari.

Ma il senso ultimo del “progetto” non viene descritto in modo chiaro, esaustivo, esaminabile alla luce del sole.

In Francia – da buoni vecchi colonialisti – c’è qualche ipocrisia in meno e qualche accenno esplicito abbastanza chiaro.

La “nuova Europa” è qualcosa di molto più definito. Aveva iniziato per esempio il ministro dell’economia, Bruno Le Maire, a chiedere (retoricamente): “volete che l’Europa sia un mercato unico o non volete piuttosto che sia un progetto politico, nobile e idealista? […] Non mi interessa lavorare 17 ore al giorno per costruire un mercato. […] Vi ricordate ancora chi siete e da dove venite? Veniamo da nazioni e da imperi. Siamo in fondo una idea politica che ha costruito nei secoli il Sacro Romano Impero, l’Impero Napoleonico, l’Impero Romano. […] Agli europei dico quindi di non dimenticare da dove discendiamo».

Poi, pochi giorni fa, è toccato a Françoise Dumas, presidente della Commissione per la difesa nazionale e le forze armate dell’Assemblea nazionale, che ha presentato una Revue particolarmente esplicita: “Davanti ai nostri occhi, l’unilateralismo americano, le guerre ibride russe, l’interventismo turco e l’espansionismo cinese hanno chiuso un’epoca; le promesse degli anni ‘90, già indebolite dal terrorismo islamico, sono crollate dopo trenta anni, come spesso tendono a fare le illusioni”.

Pensavate davvero che l’Unione Europea fosse quella comunità multietnica che finalmente aveva eliminato la guerra al proprio interno (sorvolando sull’attacco alla Jugoslavia, ovviamente)? Beh, dice Dumas, “vi siete illusi”.

E infatti, prosegue: “In questo contesto, l‘ipotesi di un confronto diretto di alta intensità, sotto la soglia nucleare, ma ibridato da molteplici approcci indiretti, non può più essere ignorata. È necessario prepararsi”.

Non si dimentica ovviamente l’ipocrisia di fondo: “perché la pace, cuore del progetto europeo, non può fiorire che all’ombra di una potenza che si afferma e di spade che la rafforzano”.

Volendo sintetizzare molto, il quadro strategico è questo. La crisi pandemica ha evidenziato quello che già si intravedeva: l’Europa è in declino, gli Usa anche ma stanno reagendo, la Russia è un quasi-nemico (ma ci deve rifornire di gas e petrolio), la Cina è il competitore inarrivabile che non sappiamo come fronteggiare, qualsiasi tentativo di recuperare il declino passa per un conflitto (economico, tecnologico, ecc.) che rischia facilmente di finire in guerra vera e propria. Magari non nucleare, ma guerreggiata su molti piani (blocco delle reti informatiche, delle infrastrutture strategiche, ecc.).

Questa è la “nuova Europa” che supera “il Novecento”. L’Europa che chiude con le differenze politiche, culturali, giuridiche, tra i vari paesi membri e si attrezza per fronteggiare lo stesso “nemico interno” (classi popolari e chi pretende di rappresentarle anche in termini di diverso sistema economico e regime politico) e gli stessi nemici esterni.

Se per cementare questo nuovo rapporto qualcuno – Draghi – chiede una libbra di carne umana sotto forma di una decina di anziani ex combattenti, beh, è un prezzo così basso che un banchiere come Macron non può che accettare di pagare...

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NO alla privatizzazione dell’acqua. Dieci anni fa la vittoria nel referendum, ma non è finita

Dieci anni fa una coalizione ampia e determinata ha sancito una vittoria storica nel nostro Paese: con 27 milioni di sì ai referendum su acqua, servizi pubblici e nucleare abbiamo costretto ad un passo indietro chi per decenni ha imposto privatizzazioni e estrattivismo. A Marano, grosso comune dell’area metropolitana di Napoli, la mobilitazione popolare ha costretto il consiglio comunale a bocciare la delibera che intendeva reintrodurre la privatizzazione dell’acqua pubblica. È la dimostrazione che quella battaglia vinta non è ancora finita, al contrario occorre vigilare e mobilitarsi affinché non venga rimessa in discussione dai numerosi tentativi in corso.

Dieci anni dopo, in piena pandemia, quella vittoria basata sulla difesa dei beni comuni e sull’affermazione dei diritti di tutt@ sui profitti di pochi, ha un significato ancora più attuale. Secondo il Forum per l’Acqua Pubblica, questo non è un anniversario da celebrare, ma da far vivere attraverso migliaia di voci e di corpi per guardare avanti, forti dei mille colori che hanno reso possibile quella vittoria, compreso il rosso della nostra passione e rabbia per i tentativi di cancellarla.

Il 2021 si configura come un anno di svolta per l’acqua. Da dicembre 2020 questo bene, al pari di una qualsiasi altra merce, è stato quotato in Borsa negli USA. Uno scempio che testimonia il venir meno di qualsiasi limite di fronte al profitto e che costituisce una minaccia reale per l’intera umanità e per la prosecuzione della vita stessa sulla Terra.

Inoltre, la cosiddetta “riforma” del settore idrico contenuta nel Recovery Plan così come aggiornato dal governo Draghi punta ad un sostanziale obbligo alla privatizzazione, in particolare nel Mezzogiorno.

D’altronde Draghi non ha mai dissimulato la volontà di calpestare l’esito referendario visto che solo un mese e mezzo dopo firmò insieme al Presidente della Banca Centrale Europea Trichet, la lettera all’allora Presidente del Consiglio Berlusconi in cui indicava come necessarie le privatizzazioni su larga scala.

L’attuale versione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza risulta in “perfetta” continuità con queste indicazioni e rimane, dunque, una risposta del tutto errata alla crisi sindemica, riproponendo le stesse ricette che hanno contribuito a crearla.

La crisi ecosistemica, climatica, economica, sociale e l’emergenza sanitaria impongono una radicale inversione di rotta che metta al centro la tutela dei beni comuni, dell’acqua e dell’ambiente e che garantisca a tutte e tutti i diritti fondamentali.

Oggi più di ieri è importante riaffermare il valore umano e universale dell’acqua bene comune come argine alla messa sul mercato dei nostri territori e delle nostre vite. Oggi più che mai la straordinaria partecipazione a quella campagna referendaria è l’atto di accusa della deriva antidemocratica che il Paese sta attraversando.

Proponiamo a tutte e tutti di avviare un confronto per organizzare insieme una grande mobilitazione il 12 e 13 giugno in occasione del decennale del referendum su acqua e nucleare, per ribadire insieme che i beni comuni sono un valore fondante delle comunità e della società senza i quali ogni legame sociale diviene contratto privatistico e la solitudine competitiva l’unico orizzonte individuale. Per rilanciare con forza e rimettere al centro del dibattito pubblico i temi paradigmatici e fortemente attuali emersi da quel percorso che negli anni successivi diverse esperienze hanno saputo coltivare e arricchire.

Per questo vi invitiamo a partecipare ad un’assemblea nazionale on line che si svolgerà giovedì 29 Aprile alle ore 18.00 per condividere proposte, idee e riflessioni in previsione di questo appuntamento.

Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua

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AstraZeneca: iniziata la causa intentata dalla Ue. Problemi sul Pfizer in Israele

A Bruxelles è iniziata oggi a la causa avviata dalla Commissione europea nei confronti della multinazionale anglo-svedese AstraZeneca per le mancate forniture del suo vaccino anti-Covid. I legali della Ue chiedono consegne immediate dei vaccini concordati nel contratto da tutti i siti produttivi della società, inclusi quelli nel Regno Unito. La prima udienza è terminata dopo un’ora e le parti hanno concordato di tenerne altre due il prossimo 26 maggio. La decisione dei giudici è attesa per giugno.

Durante l’udienza, uno dei legali della Commissione europea ha precisato che la Ue pretende spedizioni anche dagli impianti di AstraZeneca situati in Gran Bretagna, nonostante questa non faccia più parte dell’Unione europea.

Uno dei legali che rappresenta AstraZeneca ha replicato che non esistono obblighi contrattuali di inviare i vaccini da tutti i siti di produzione. Oltre agli impianti in Gran Bretagna, l’azienda conta stabilimenti anche in Belgio e Olanda. “AstraZeneca accoglie con profondo rammarico la decisione della Commissione europea di avviare questa azione legale in relazione all’accordo di fornitura dei vaccini”, ha sottolineato Hakim Boularbah, legale dell’azienda, per poi aggiungere: “Ci auguriamo di risolvere questo contenzioso il prima possibile”.

Ma se AstraZeneca è stata portata in tribunale per le mancate forniture, qualche problema sta emergendo anche sul vaccino della Pfizer che fino ad oggi ha potuto godere ampiamente delle disgrazie della concorrente AstraZeneca (anche aumentando i prezzi delle proprie dosi di vaccino e quindi incassando molto di più). La Pfizer infatti, secondo quanto dichiarato dall’amministratore delegato Ugur Sahin, starebbe raccogliendo dati in Israele sui casi di infiammazione cardiaca riscontrati tra le persone alle quali è stato inoculato il suo vaccino.

Secondo alcuni giornali israeliani i dettagli di un rapporto inedito del Ministero della Salute di Israele sugli effetti collaterali del vaccino Pfizer-BioNtech, hanno sollevato preoccupazioni sul fatto che potrebbe esserci un collegamento tra la seconda dose del vaccino e diverse dozzine di casi di miocardite, un’infiammazione del muscolo cardiaco, in particolare negli uomini sotto i 30 anni.

Le preoccupazioni emergono da un rapporto intermedio che è stato presentato al consiglio dei ministri e alla Pfizer nelle ultime settimane. Alcuni passaggi dal rapporto trapelati alla stampa, hanno sottolineato che gli investigatori non hanno dimostrato in modo definitivo un collegamento, ma che manifestano preoccupazioni significative.

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Amnistia, altro che estradizione dalla Francia

Non tutta la stampa italiana ha seguito l’ordine di scuderia dei grandi gruppi editoriali stretti intorno a Mario Draghi, Confindustria e il “partito della vendetta” (oltre che del pil). Non si tratta di molti articoli, ma è comunque giusto segnalarli.

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Rifugiati politici in Francia, che senso ha arrestare ed estradare degli ottantenni?

«C’è anche in programma una visita di Stato in Francia del presidente Sergio Mattarella e dovrebbe essere firmato il Trattato Quirinale per rafforzare i rapporti bilaterali. In questo contesto Macron potrebbe dare il via libera alle estradizioni chieste alla Francia dalla ministra Marta Cartabia nell’ultima riunione con il suo omologo francese».

Intervistato da Repubblica lo scrittore francese Marc Lazar risponde alla domanda su un possibile cambiamento di linea del governo d’Oltralpe sulla presenza a Parigi di persone condannate in Italia per fatti di lotta armata. Lazar polemizza con gli intellettuali francesi che avevano nei giorni scorsi firmato un appello a favore della dottrina Mitterand «perché sul tema c’è ancora troppa ignoranza».

Eppure a proposito di cambiamenti di linea va registrato che Lazar dieci anni fa intervistato da Paolo Persichetti sul quotidiano Liberazione aveva detto: «Dopo la dietrologia e le commissioni parlamentari di inchiesta ora è il tempo degli storici».

Quindi ora non sarebbe più il caso di storicizzare ma di consegnare all’Italia una dozzina di protagonisti di una stagione politica lontanissima e di portarli in carcere adesso che hanno tutti un’età più vicina agli 80 che ai 70.

Lazar aggiunge che dietro la scelta di Macron che lui ipotizza ci potrebbero essere anche ragioni di politica interna. «Forse lui pensa di lanciare un messaggio agli elettori di destra come sta facendo su altri temi come sicurezza e laicità. Macron è già in campagna per la sua rielezione e concentra la sua strategia su questo elettorato».

Lazar afferma che i suoi connazionali difensori dei rifugiati politici italiani «non prendono quasi mai in considerazione il punto di vista delle vittime del terrorismo». Dieci anni fa Lazar voleva affidare la questione agli storici mentre adesso invita a tener conto della posizione dei parenti delle vittime, mostrando almeno un po’ di invidiare le repubbliche islamiche dove i familiari decidono anche le pene dei colpevoli. Lazar accusa gli intellettuali suoi connazionali di essere ideologici, ma anche lui non scherza. Anzi.

Il riferimento alla visita prossima di Mattarella a Parigi non è casuale. Il giorno del rientro in Italia di Cesare Battisti, aveva detto: «E adesso gli altri», parlando di altri condannati e rifugiati all’estero.

Il presidente della Repubblica è un politico di grandissima esperienza. Non è un caso che insieme a Giorgio Napolitano suo predecessore al Quirinale abbia fatto prevalere le ragioni della politica firmando la grazia a cinque agenti della Cia condannati per il sequestro e le torture all’imam Abu Omar.

In quel caso Mattarella mise in secondo piano gli anni di carcere da scontare. C’era di mezzo la ragion di Stato o meglio degli Stati perché dall’altra parte c’era il governo degli Stati Uniti d’America.

Per le vicende dei cosiddetti “anni di piombo” invece non sarebbe possibile una deroga, una soluzione politica, un provvedimento di amnistia che chiuda un periodo storico, come era scritto nell’appello degli intellettuali francesi che avevano sposato la proposta dell’avvocata Irene Terrel.

Terrel aveva spiegato di trovare assurdo l’accanirsi e la vendetta a decenni di distanza. È pura ideologia in fondo anche il non voler prendere atto dell’impossibilità di una memoria condivisa. A Milano in piazza Fontana ci sono due lapidi. In una si legge che l’anarchico Pinelli morì innocente, nell’altra che venne ucciso. Una al fianco dell’altra.

La storia la scrivono i vincitori ma gli sconfitti non sono obbligati a condividerla.

Frank Cimini – Il Riformista

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Perché Sergio Mattarella dovrebbe graziare brigatisti e militanti estradati dalla Francia

Oggi la Francia ha estradato in Italia sette tra ex militanti dell’estrema sinistra ed ex brigatisti, tra loro l’ex leader di Lotta Continua Giorgio Pietrostefani. Sergio Mattarella ha ora la possibilità di chiudere la pagina dei lunghi anni ’70 italiani concedendo la grazia a prigionieri spesso anziani e ammalati, riconoscendo la complessità della stagione della lotta armata non solo come un fatto criminale.

Questa mattina la Francia ha arrestato, su richiesta dell’Italia 7 ex brigatisti e militanti dell’estrema sinistra da tempo rifugiati Oltralpe. Si tratta di Enzo Calvitti, Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella e Sergio Tornaghi, tutti delle Brigate Rosse, Giorgio Pietrostefani di Lotta Continua e di Narciso Manenti dei Nuclei Armati per il Contropotere Territoriale. A loro vanno aggiunti i nomi dei tre brigatisti Luigi Bergamin, Maurizio Di Marzio e Raffaele Ventura.

La notizia è stata resa nota questa mattina dell’Eliseo, e rappresenta forse la definitiva archiviazione della cosiddetta Dottrina Mitterand, che ha permesso a partire dagli anni ’80 a molti militanti delle formazioni armate e non solo italiane di riparare in Francia.

La ragione di questa politica inaugurata dall’ex presidente socialista François Mitterrand non era certo la consonanza con le idee di chi trovava un rifugio in Francia, ma la constatazione che la guerra al terrorismo in Italia non garantiva un equo e giusto processo con gli strumenti della legislazione d’emergenza. Posizioni e un dibattito che suonano oggi desueti all’opinione pubblica italiana e francese, ma che ebbero una loro forza e ragione d’essere.

Ogni ministro dell’Interno e della Giustizia delle ultime legislature in Italia si è battuto per potersi intestare l’estradizione degli ultimi fuggiaschi della storia delle formazioni armate italiane, chiedendo alle istituzioni francesi di fare la loro parte con risultati altalenanti fino a questo mattina.

La stampa si è mobilitata per riavere indietro i condannati in contumacia da sbattere in cella. Eppure anche se è cambiato il clima politico non sembrano essere venute meno le ragioni che giustificarono la dottrina Mitterand.

Si tratta di uomini e donne che da decenni vivono lontani dall’Italia. Nella quasi totalità dei casi hanno condotto una vita lontano dai riflettori, che in pochissimi casi si sono dedicati all’impegno politico e sociale rifacendosi una vita. Quella dello Stato italiano più che giustizia assomiglia a una vendetta esercitata fuori tempo massimo.

I prigionieri in arrivo in Italia sono anziani, spesso malati, le organizzazioni di cui hanno fatto parte così come le loro gesta (compresi sequestri e omicidi), sono solo oggetto di riflessione storiografica. Perché allora non si riesce a storicizzare la memoria politica degli anni ’70?

Tra gli arrestati oggi spicca il nome di Giorgio Pietrostefani che è stato uno dei dirigenti di vertice di Lotta Continua e che oggi ha 77 anni. Pietrostefani è stato protagonista di uno dei processi più discussi della storia italiana, quello che lo voleva come mandante dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi assieme ad Adriano Sofri.

Con Sofri e Pietrostefani furono processati anche Ovidio Bompressi e Leonardo Marino per essere gli esecutori materiali dell’omicidio. Come è noto Marino era il pentito che accusava gli altri tre imputati sempre dichiaratisi innocenti. Bompressi fu graziato per il suo stato di salute, mentre Adriano Sofri è stato definitivamente scarcerato nel 2012 senza mai interrompere la sua attività di saggista e giornalista.

Oggi Pietrostefani è un uomo anziano e malato – nel 2016 è stato sottoposto a un delicato intervento chirurgico – i reati di cui è accusato stanno per cadere in prescrizione. Nel 2000 era riparato in Francia in attesa della revisione di un processo che ha lasciato molti dubbi nell’opinione pubblica e negli storici. Che senso ha punirlo oggi strappandolo dalla sua casa dopo 21 anni per portarlo in una cella dove evidentemente non potrà rimanere?

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha un’occasione importante oggi: concedere la grazia ai cittadini italiani estradati dalla Francia. Sarebbe l’occasione per strappare da un discorso esclusivamente giustizialista la stagione politica dei lunghi anni ’70 italiani, restituendolo a una sua piena storicizzazione voltando finalmente pagina.

Per farlo sarebbe necessario che lo Stato riconoscesse la complessità del contesto in cui la lotta armata nel nostro paese coinvolse in modo diverso decine di migliaia di uomini e donne, che si trattò di un fenomeno politico e sociale e non di un fenomeno criminale, anche quando le condanne riguardano fatti estremamente gravi come omicidi e sequestri di persona.

Non si tratta di punire poche belve assetate di sangue come vengono presentati oggi gli arrestati, ma di esercitare una giustizia giusta su uomini e donne che già hanno pagato con decenni di esilio molti dei fatti per cui sono stati condannati.

 Valerio Renzi – Fanpage

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La lucida analisi di Vasapollo sulla potente macchinazione italo-francese. E Scalzone cita Primo Levi

C’è molto dolore in chi per la sua storia personale si sente (e sempre è rimasto) vicino agli esuli italiani a Parigi, contro i quali si è mossa una potente macchinazione italo-francese, segno di un’alleanza stretta tra due governi che cercano a destra la loro legittimazione.

Ma non è solo una reazione basata su sentimenti individuali, c’è anche l’analisi politica, lucida e oggettiva di quanto sta accadendo nell’indifferenza generale. Un’operazione che mette a rischio democrazia e stato di diritto in due paesi che ne sono in un certo modo i fondatori.

“Questa è una vendetta sugli anni Settanta, si gioca una partita di vendetta contro chi ha cercato di mettere in discussione già allora gli attuali assetti dichiarando oggi che non c’è una possibilità di rottura, di trasformazione, respingendo senza appello le istanze che portano avanti il movimento operaio e il movimento studentesco”.

Conversando con FarodiRoma, Luciano Vasapollo, della segreteria della Rete dei Comunisti e autorevole firma di questo giornale online, sottolinea “le contraddizioni dell’Italia di oggi, il paese delle stragi impunite, dei killer fascisti e dei servizi segreti deviati, che l’hanno sempre fatta franca, di stragi che non si sa chi le ha fatte, mentre i compagni sono stati ammazzati, vittime di una guerra civile strisciante”.

“Davanti a queste cose – si chiede il professore – che senso ha prendersela con gli esuli a Parigi, che hanno pagato il prezzo alto dell’esilio mentre i fascisti, rei confessi delle stragi, dichiarandosi pentiti circolano liberamente per le nostre strade?”.

“I compagni – rivendica Vasapollo – tutti hanno pagato duramente, con il carcere o con l’esilio. E ora, dopo 40 anni, li porti in galera, qui nel paese delle stragi impunite, dei colpi di stato, dei processi fondati sulle mezze verità dette da un pentito che, relata refero, le riporta da altre fonti incontrollabili e su questa base si prende l’ergastolo...”.

Gli arresti dei sette terroristi a Parigi “sono più di una vendetta, non basterà mai. I familiari delle vittime saranno più frustrati e infelici di prima, e si chiederà sempre di più: l’assassinio dell’anima”, afferma Oreste Scalzone, co-fondatore di Potere Operaio da sempre strenuo difensore dei “terroristi” che con lui soggiornano impuniti a Parigi grazie alla copertura delle autorità francesi, contrariamente a chi vede in questi arresti un tributo di giustizia per le vittime, parlando da Parigi con l’Adnkronos, dice che siamo davanti a qualcosa che va oltre la “vendetta”.

“Stamani – racconta Scalzone – parlando degli arresti qualcuno mi ha detto: ‘Sembra essere tornati indietro di 40 anni. Ma no, non è così, sembra di essere saltati avanti, verso un orrore verso cui stiamo andando. Il Novecento è cominciato con l’immane macelleria della prima guerra mondiale, poi sono seguiti gli altri orrori. Tutto questo breve secolo è stato un ‘libro nero’ ma il punto nuovo è la velocizzazione, l’intensità”.

Gli arresti di oggi hanno riportato alla mente di Scalzone le parole di Primo Levi. “C’è come una accelerazione all’annichilimento totale, una vendetta vertiginosa, assoluta ma esiste anche l’oblio, il perdono per cose atrocissime. In tutte le società ci sono stati gli oblii che hanno permesso di tornare a respirare, ecco perché dico che questa è più di una vendetta”.

Oreste Scalzone dice che “non è solo la vendetta tardiva dello Stato, è qualcosa che va oltre. Qui non c’è la ‘damnatio memoriae’ c’è anche la volontà di assassinio dell’anima”. Secondo Scalzone “il Novecento italiano non si chiuderà mai perché si punta ad assassinare l’anima”.

E il tributo di giustizia alle vittime di tante atrocità? “Questi arresti – replica Scalzone – non consoleranno le vittime. I familiari delle vittime saranno come prima se non più infelici e frustrati di prima. Mi vengono in mente le parole del figlio di una vittima che dopo l’esecuzione di un condannato a morte col veleno disse: ‘Non mi è bastato. Sto come prima perché è durata troppo poco’. Le vittime sono vittime anche di questo. Non è come morire due volte?”.

IlFarodiRoma

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La svolta verde? Parte col silenzio-assenso sull’impatto ambientale

Sarà una svolta davvero “green”, di quelle che fanno diventare verdi per il travaso di bile.

Era già stato intuibile quando Draghi ha messo Roberto Cingolani sulla poltrona di ministro della “transizione ecologica”. Uno scienziato che arriva dritto dritto dal settore militare di Leonardo, holding a partecipazione pubblica che prima si chiamava Finmeccanica.

Ma il primo atto legislativo concreto che esce dalla sua fucina di pensiero conferma quanto di peggio ci si poteva attendere.

Siccome la parte più grande della torta da 248 miliardi (teorici) descritta nel Pnnr (o Recovey Plan) andrà a finire proprio dalle sue parti (68,6 miliardi), ecco pronto un nuovo “sistema di regole” che consenta di effettuare gli investimenti “senza lungaggini burocratiche”.

Bello, bene, bravo, bis...

Ma quali sono le lungaggini che di solito bloccano gli investimenti “ecologici”? Quel piccolo inciampo chiamato Via – valutazione di impatto ambientale – ossia un esame, condotto da poteri pubblici, sugli effetti che produrrà sull’ambiente circostante una certa azione industriale (investimento).

In effetti, la Via arriva di solito dopo parecchio tempo, in media quasi due anni. Dopo di che c’è la Vas (valutazione di assoggettabilità alla stessa Via), per cui si attendono di solito circa 11 mesi, da minimo di 84 giorni a un massimo di 634. Totale medio: tre anni. In effetti, decisamente troppo tempo...

Il problema è anche una delle principali “condizionalità” del Recovery Fund decise in sede di Commissione Europea: ogni azione finanziata dovrà essere verificabile in tempi abbastanza brevi.

Dunque, se tocca aspettare tre anni prima di mettere a terra un pilone o una pala eolica, i soldi europei rischiano di restare a Bruxelles (mentre comunque risulterebbero debito per l’Italia).

Ecco allora la prima pensata: semplifichiamo, come il prode Calderoli di circa 20 anni fa (divenne ministro alla semplificazione, senza però lasciar traccia di attività reale).

Ma Cingolani è uno scienziato dall’animo militare, dunque non si perde d’animo. E trova la soluzione, racconta l’Huffington Post (insospettabile di antipatie per il governo Draghi): “Una Commissione tecnica Pniec-Pnrr: le opere previste nel Recovery passeranno da qui, da una con tempi più rapidi per la conclusione del procedimento. Saranno 40 i componenti della commissione che già nella sua denominazione ingloba la logica del Recovery con quella del Pniec, il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima che guarda al 2030.”

Questa commissione – strutturata secondo la “logica” e le condizionalità del Recovery Fund – darà una corsia preferenziale ai progetti che hanno un valore economico superiore ai 5 milioni, “ovvero una ricaduta in termini di maggiore occupazione attesa superiore a 15 unità di personale”. La “robetta” di portata inferiore resta indietro e si privilegiano le opere più significative. È già una rarefazione degli “assembramenti” sulle scrivanie ministeriali...

Ma non basta.

Ecco allora il coniglio dal cappello: le “norme di semplificazione in materia di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili” incorporano una novità sostanziale.

Per queste opere la Commissione competente si deve esprimere al massimo entro 170 giorni dalla presentazione della documentazione e predispone il provvedimento della valutazione di Via. Se entro un mese il direttore generale del ministero dell’Ambiente non ottiene il parere del Mibact (ministero per i beni culturali, ecc; insomma, quello di Franceschini), allora il parere del Mibact si intende acquisito.

In altri ambiti si chiama silenzio-assenso. Se Franceschini non risponde al telefono, vuol dire che “se po’ ffa“...

La stessa logica, mutatis mutandis, si applica un po’ a tutti gli altri ambiti (dissesto idrogeologico, bonus del 110%, ecc.).

Non c’è dubbio insomma che sarà tutto molto verde. Basta la parola...

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Alitalia - La lotta vista da vicino

Stamattina sono stato a Roma con le lavoratrici e i lavoratori dell’Alitalia. Anche quando dalla polizia sono volate un po’ di manganellate per impedirne l’accesso nella piazza di Palazzo Chigi (poi ottenuto!).

Ero con loro per denunciare il piano del Governo di farne una compagnia regionale, con una cura dimagrante che farà tanto male a migliaia di uomini e donne. E non parlo solo dei dipendenti.

Tuttavia, la scelta più facile oggi sarebbe stata rimanere a casa. Fare finta di niente.

Perché su Alitalia da tempo tira una brutta aria. “Abbiamo già buttato miliardi su miliardi in Alitalia”, “ci sono migliaia di addetti perché è stato un carrozzone politico buono per le clientele e nulla più”, “ma poi che ce ne frega di un vettore pubblico?”.

La scelta più facile: far finta di niente. Linea di condotta della maggior parte dei politici. Perché per questi personaggi politica è stare con gli occhi sui sondaggi e seguire la presunta corrente.

Le cose facili, però, non sono sempre quelle che servono.

Su Alitalia c’è da essere chiari: per anni un management e una politica inadeguati l’hanno di fatto spolpata, incapaci di darle un orizzonte strategico all’altezza delle sfide: tutelare i lavoratori, ma anche ragionare sull’importanza di un vettore aereo nazionale in mani pubbliche.

Perché non è “solo” una flotta aerea e la possibilità di spostarsi da un punto all’altro su una mappa. Alitalia comporta un indotto enorme: capacità, conoscenze, ricerca, catene produttive che mai vengono alla luce e che oggi sono a rischio.

Pubblico deve significare eccellenza. È questa la sfida che si pone alla politica oggi.

Politica è strategia e visione di futuro. Ed è su queste basi che dobbiamo ragionare su Alitalia e sul trasporto aereo.

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L’Unione Europea è la tomba del diritto. No all’estradizione dei compagni/e arrestati/e in Francia!

La stretta collaborazione italo-francese che ha portato all’arresto di sette compagni e compagne da tempo residenti in Francia è l’ennesimo salto nel baratro della civiltà giuridica europea.

È l’affermazione della cancellazione delle residuali garanzie del diritto dei singoli Paesi che appartengono all’Unione.

Un salto di qualità che avevamo già visto all’opera con la votazione a Bruxelles per togliere l’immunità parlamentare agli eurodeputati catalani esuli in differenti Paesi europei coinvolti nella lotta indipendentista; nel silenzio complice delle istituzioni continentali durante lo sciopero della fame e della sete del prigioniero politico Dimitris Koufodinas in Grecia (privato dei suoi elementari diritti di detenuto); e nella pervicace volontà proprio della Francia di non concedere la libertà, nonostante ce ne siano da tempo tutti i prerequisiti, a George Ibrahim Abdallah, detenuto palestinese cresciuto in Libano, uno dei più anziani prigionieri politici detenuti nell’Esagono.

Non ultimo l’atteggiamento sostanzialmente pavido, nonostante l’indignazione di facciata, della UE nei confronti del regime turco, che tra l’altro vuole rendere illegale il maggiore partito politico d’opposizione, l’HDP.

L’Unione Europea è pronta ad agitare il tema dei diritti umani strumentalmente ai propri fini di politica estera, ma è incapace di rispettarli all’interno dei suoi confini.

Appare chiaro, anche ai più scettici, che il processo di integrazione europea ha fatto assumere al Continente sempre più il duplice profilo di un Leviatano dal punto di vista giuridico e di un tecnocrate dal punto di vista politico.

Un Giano bifronte che ha la sensibilità del Boia per la giustizia umana ed il cinismo di quei “tagliatori di teste” che mettono il profitto prima della vita delle persone, come dimostra la criminale gestione del contenimento del Covid-19 e la genuflessione agli interessi delle grandi case farmaceutiche, per ciò che concerne i vaccini.

In questo contesto la volontà di vendetta dello Stato italiano è stata fino ad ora soddisfatta con i 10 mandati di cattura dell’Operazione “Ombre Rosse”, per reati, tra l’altro, prossimi alla prescrizione.

Macron vuole stralciare l’impegno preso dall’ex Presidente francese Mitterrand nel 1985, e fino a qui garantito dai governi che si sono succeduti, di non estradare i militanti italiani condannati in processi che non rispettavano i minimi requisiti della civiltà giuridica, risultato di una guerra a bassa intensità che lo Stato italiano ha combattuto contro il movimento di classe e rivoluzionario nel nostro Paese.

Una vera e propria guerra “a bassa intensità” che non ha disdegnato fin dall’inizio la strategia stragista, la micidiale violenza poliziesca contro i manifestanti, l’uso sistematico della tortura nella sua stagione più buia, la detenzione in carceri speciali e processi costruiti anche sui teoremi giudiziari frutto di “pentiti” con condanne in contumacia.

Chi invoca oggi la forca, e si fa forza sulla vittime della violenza politica maturata in quel contesto, deve ricordare la lunga scia di sangue che già dal dopoguerra ha caratterizzato l’operato dei vari apparati dello Stato in un Paese dove le più elementari conquiste politiche, sociali e civili si sono ottenute al prezzo di un ecatombe.

L’ingombrante arsenale legislativo e il mastodontico apparato repressivo ereditato dal fascismo dalla nostra Repubblica, implementato grazie alle varie legislazioni emergenziali negli Anni Settanta, non è mai stato dismesso – anzi è stato implementato – ed anche oggi chi si oppone in vario modo allo stato di cose presenti ne sperimenta il fardello in un contesto in cui il conflitto sociale è divenuto un crimine tout court.

Siamo consci che una ampia amnistia per i reati politici e sociali è il viatico per rompere quella gabbia del “diritto del nemico” in cui si sono imprigionati gli Anni Settanta e si vuole tutt’ora detenere la lotta di classe nel nostro Paese.

Entro 48 ore dal loro arresto la Corte d’Appello di Parigi dovrà decidere sulla loro permanenza in carcere o sulla concessione della libertà sotto controllo giudiziario, il tempo dell’esame della giustizia francese sulla richieste di estradizione italiana.

L’avvocatessa Irène Terrel, che ha seguito per lungo tempo la situazione, parla esplicitamente di “tradimento” della Francia che aveva loro concesso l’asilo. E non possiamo che essere d’accordo.

NO ALL’ESTRADIZIONE DEI COMPAGNI/E ARRESTATI!

AMNISTIA PER I REATI POLITICI E SOCIALI!

LOTTARE INSIEME!

Rete dei Comunisti, 28 aprile 2021

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Cile - Terzo ritiro dei Fondi AFP e forse pure di Piñera?

La destra di potere e di governo, quella che con poche famiglie possiede il Cile, ha una gran paura! Come a novembre 2019 (allora riuscì a restare al potere in modo truffaldino, purtroppo) trema di fronte al furore popolare e si trova costretta a cedere alla potente protesta dei portuali, che ieri hanno bloccato oltre 20 porti in tutto il Cile da Iquique a Puerto Montt. Barricate e incendi di copertoni bloccano gli inutili tentativi di recuperare gli spazi portuali da parte governativa.

Anche altri sindacati si sono uniti alla protesta, da quello degli impiegati pubblici, ANEF, a quelli del mondo accademico – sia studentesco sia degli insegnanti, che per venerdì 30 aprile invitano a uno sciopero generale della salute. Infatti alla vertenza per il terzo ritiro dei fondi dalle AFP si uniscono una serie di tematiche di fondo, le stesse che hanno dato vita alla “esplosione sociale” iniziata il 18 ottobre 2019 ed ancora in corso.

Piñera aveva fatto ricorso al Tribunale Costituzionale per impedire che venisse attuata la possibilità del terzo ritiro dei fondi dei pensionati dalle AFP. Il Tribunale gli ha rilanciato la palla bocciando il suo ricorso per 7 voti contro 3.

Ora tocca a lui, in quanto Presidente della Repubblica, decidere se promulgare la “legge del terzo ritiro” o bloccarla definitivamente. A seguito della bocciatura del ricorso di Piñera da parte del Tribunale Costituzionale, ormai sembra che a Piñera non resti che promulgare il decreto per il terzo ritiro del 10% dei fondi previdenziali.

Anche Evelyn Mattei, della UDI, uno dei partiti governativi, suggerisce tassativa a Piñera che “non rimane che promulgare oggi stesso la legge del ritiro”. Voci di dimissioni del gabinetto politico si rincorrono freneticamente nei corridoi della Moneda, e anche qualche mezza ammissione del Ministro degli Interni, Rodrigo Delgado.

Per salvarsi in blocco, anche i partiti governativi questa volta chiederanno le dimissioni di Piñera?

No, non tutti. Il Partido Republicano sostiene che quella del Tribunale Costituzionale è una scelta di “resa incondizionata di fronte a una sinistra antidemocratica che per vie di fatto cerca di usurpare il potere e una destra vigliacca che ha messo gli interessi elettorali avanti al suo impegno con la Costituzione e la legge”. Comunque Piñera sa che è arrivato alla frutta.

Il 25 aprile, aveva fatto un tentativo disperato per salvare le sue motivazioni del no al ritiro dei fondi, presentando un progetto di legge che rappresenta la classica toppa che è peggio del buco. Con questa proposta, infatti, in qualche modo concede il ritiro, ma finanzia comunque le AFP e spese dell’erario e quindi di tutto il popolo cileno. Questo ha fatto infuriare ancora di più la popolazione, ovviamente. Inaccettabile. E non è passata.

Ormai è fuor di dubbio: le AFP sono la scintilla, come i 30 pesos del biglietto della metro. Il popolo cileno in tutte le sue espressioni non sopporta più le angherie neoliberiste spinte dei suoi governanti. È altrettanto certo che tutti cercheranno di intestarsi la vittoria, che invece appartiene solo al popolo organizzato.

Il giornale la Izquierda (qui sotto l’articolo) fa anche notare come il PCC non si sia esattamente posto alla guida di questa seconda ondata di ribellione, che probabilmente riuscirà ad ottenere la testa di Piñera. Ed ha ragione...

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Piñera assume la sconfitta e decreterà il ritiro del 10 % di fronte alla minaccia di estensione di scioperi e proteste

Il governo è stato sconfitto. L'”opposizione parlamentare” cercherà di dimostrare che è stato “il suo trionfo” con le sue manovre. Niente di più lontano dalla realtà. Sono stati gli scioperi portuali, i cacerolazos, la protesta popolare, e la sua minaccia di estenderla, soprattutto, ai settori strategici della classe operaia, a portare alla sconfitta di Piñera.

Pablo Torres

Direttore La Izquierda Diario Chile / Partido de Trabajadores Revolucionarios

Martedì 27 aprile | 18:24


Pochi minuti fa Piñera ha tenuto una conferenza stampa annunciando che oggi stesso promulgherà la legge per il terzo ritiro del fondo pensioni approvato dal parlamento. Questo dopo che il Tribunale Costituzionale, il più grande difensore di Piñera fino ad oggi, basato sulla difesa della “costituzione”, ha sbattuto la porta in faccia allo stesso Piñera – con 7 voti contro 3 – negandogli la stessa ammissibilità del ricorso che aveva presentato per fermare il terzo ritiro e che ha innescato una crisi politica nel governo, suscitato disordini con scioperi nei porti, proteste popolari e cacerolazos che hanno acceso il “fantasma” di una “nuova esplosione”.

Questa minaccia è stata quella presa in considerazione dal Tribunale Costituzionale, organo in mano a una casta di magistrati politici milionari nominati dal regime (dai tre poteri), per votare contro la stessa cosa per la quale qualche mese fa avevano votato a favore.

“Le condizioni sociali sono cambiate e ciò che il tribunale esaminerà non è da dove viene la legge, ma come essa aiuta i cittadini“, aveva detto in mattinata il Ministro Aróstica.

Piñera ha subito una sconfitta a causa del malessere sociale e dei primi scioperi e proteste che si sono manifestati in molti settori.

Già ieri abbiamo assistito a tagli, blocchi e scontri in quasi tutti i porti del Paese. I lavoratori portuali erano ancora mobilitati, dopo un violento sciopero nazionale dei lavoratori portuali dal secondo turno in 25 porti del paese. Si sono concentrati, hanno bruciato pneumatici, gridato e si sono mobilitati. Nella zona centrale, San Antonio, ci sono stati scontri con la polizia, anche a Valparaíso.

L’odio contro Piñera è stato espresso in scioperi e picchetti. Il sostegno popolare ai lavoratori portuali, che dimostrano ancora una volta la loro importanza, è grande. A Chuquicamata, nel pomeriggio, i dirigenti sindacali hanno bloccato per un po’ il percorso verso la miniera. I grandi sindacati minerari si sono dichiarati in allerta, così come numerosi sindacati. E questo venerdì c’è uno “sciopero generale della salute” che ha ricevuto il sostegno di molti settori.

E questo è stato accompagnato la scorsa settimana dal ritorno dei cacerolazos e dalle proteste nelle città. Inoltre, nel quadro del massimo isolamento per la pandemia e con il coprifuoco dalle 21.

Il governo è stato sconfitto. L'”opposizione parlamentare” cercherà di dimostrare che è stato “il suo trionfo” con le sue manovre. Niente di più lontano dalla realtà. È stata la minaccia che scioperi e proteste si estendessero e generalizzassero, soprattutto nei settori strategici della classe operaia, quella che ha propinato la sconfitta a Piñera.

La vecchia Concertación proverà a dimostrare di essere “opposizione” a un governo del 9% di una coalizione Chile Vamos, in crisi. Ma hanno sempre tenuto la mano a Piñera.

Il FA [n.d.t..Frente Amplio] dirà che loro promuovono l’accusa costituzionale, ma lo fa solo per fare pressione e di lotta non se parla nemmeno. Il PC, che con la CUT sta promuovendo lo sciopero generale della salute, non ha proposto di prendere l’esempio dei portuali per estenderlo a livello nazionale e fare di venerdì un enorme sciopero per conquistare un piano di emergenza, perché ci sono forze che vogliono ottenere un reddito universale di emergenza, salari e pensioni in linea con il paniere familiare, la fine dei licenziamenti e delle sospensioni, la libertà ai prigionieri politici, la fine delle AFP e che la crisi non la paghiamo noi ma le grandi imprese.

Il suo calendario “elettorale” è ciò che definisce la sua agenda, non la promozione di questa lotta.

Ci sono le forze per conquistare tutte le misure d’emergenza di cui abbiamo bisogno ora. Non possiamo lasciare quella lotta per domani. Non possiamo continuare a pagare la crisi mentre le grandi imprese, i banchieri e i “padroni del Cile” stanno vincendo come mai prima d’ora.

C’è la forza perché questo venerdì ci sia uno sciopero nazionale, con un piano di lotta per conquistarli e aprire la strada per farla finita con questo governo criminale. Con i minatori, i forestali, i trasporti, i servizi, insieme alla sanità e agli insegnanti che prendono l’esempio dei lavoratori portuali, e con le popolazioni, è la forza per vincere.

Questa crisi dimostra che Piñera avrebbe dovuto andarsene da tempo, nella ribellione, e che la classe lavoratrice ha la forza di rimuoverlo se avanza verso uno sciopero generale. Non saranno né le accuse parlamentari né le manovre del regime a rovesciarlo.

È necessario convocare assemblee, comitati di sciopero e coordinare la lotta. Come l’esempio del coordinamento sorto ad Antofagasta e che viene convocato in altri settori come a Puente Alto per preparare la giornata del 30.

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