Nel suo recente Fiscal Monitor, rapporto semestrale di analisi della finanza pubblica degli Stati, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha invocato la necessità di frenare la tendenza verso una rapida crescita delle disuguaglianze economiche tra ricchi e poveri acuitasi spaventosamente nel primo anno di pandemia. Tra gli strumenti per lenire questa piaga, il FMI suggerisce l’adozione di una tassa straordinaria temporanea che colpisca i redditi dei più ricchi, insieme ad una tassa ad hoc sui sovraprofitti delle grandi imprese multinazionali che si sono arricchite in modo esorbitante durante i mesi dell’emergenza sanitaria. Ebbene sì, stiamo parlando dello stesso organismo che solo tre anni fa proponeva per l’Italia tutt’altre misure, quali tagli alla spesa sociale, consolidamento fiscale, taglio alle pensioni, ‘razionalizzazione’ della sanità, riduzione dei contributi sociali a carico dei padroni, aumento dell’IVA...
Che le disuguaglianze nel mondo siano terribilmente cresciute negli ultimi decenni è tema tristemente noto. A partire dagli anni Ottanta-Novanta dello scorso secolo si è andato consolidando il divario tra ricchi e poveri all’interno dei Paesi e tra Paesi ricchi e Paesi poveri, con una sempre maggior polarizzazione della distribuzione delle risorse economiche, sia in termini di reddito (flusso) che di ricchezza (stock dell’insieme dei redditi accumulati nel tempo). In un paio di immagini significative si può cogliere molto bene quanto accaduto negli ultimi 40 anni e lo stato dell’arte della disuguaglianza attuale.
Nel primo grafico (fonte: Piketty, Saez and Zucam, World inequality report, 2018) è riportata la variazione della quota percentuale di reddito posseduta dall’1% di popolazione più ricco (top 1%) e dal 50% più povero (bottom 50%) negli Stati Uniti e in Europa dal 1980 al 2017: un’univoca tendenza all’arricchimento dei primi e all’impoverimento dei secondi (tendenza smisurata negli USA, marcata in Europa).
Le cose non vanno meglio quando facciamo riferimento alla ricchezza posseduta. Vediamo a titolo di esempio il caso del nostro Paese nel secondo trimestre del 2019 (prima dell’esplosione della crisi): il 20% più ricco possedeva quasi il 70% della ricchezza nazionale, mentre il 20% più povero soltanto l’1,3% e il 40% intermedio uno sparuto 12% (fonte: Global Wealth Databook 2019 di Credit Suisse, rielaborazione Oxfam).
L’accelerazione della disuguaglianza è stata intensa anche negli anni più recenti. In particolare, la crescita dei plurimiliardari ha avuto un andamento spettacolare. Negli USA, ai 400 patrimoni più ricchi corrispondeva, nel 2020, il 18% del PIL. Solo 10 anni prima, tale cifra ammontava al 9% del prodotto del Paese. Inoltre, il recente rapporto Oxfam ci ricorda che a livello mondiale, alla fine del 2019, la ricchezza delle 42 persone più ricche del mondo equivaleva a quella dei 3,7 miliardi di più poveri. Dati spaventosi, che in quest’ultimo anno non hanno fatto altro che rafforzarsi, in Italia, in Europa e nella gran parte del resto del mondo: tra marzo e dicembre 2020 il patrimonio complessivo dei circa tremila superricchi del mondo (ossia, coloro che possiedono oltre 1 miliardo di dollari di ricchezza ciascuno) è aumentato del 40%, raggiungendo quasi 12.000 miliardi complessivi, una cifra che corrisponde allo sforzo di spesa pubblica praticato da tutti i paesi del G20 messi insieme nello stesso periodo temporale.
Sempre stando al succitato rapporto Oxfam, Jeff Bezos, l’uomo più ricco del mondo, proprietario di Amazon, nel 2020 avrebbe potuto concedere un bonus da 105.000 euro a tutti i suoi 876.000 dipendenti mantenendo in tal modo un livello di ricchezza personale identico a quello posseduto alla fine del 2019, ossia prima che la pandemia facesse schizzare il già mostruoso ammontare di profitti della regina del commercio online.
Numeri semplici, diretti e terrificanti, che dovrebbero turbare la coscienza anche dei più convinti assertori delle virtù delle economie di mercato. Numeri che non discendono dal nulla né dal caso, ma da un quarantennio di ostinate politiche neoliberiste scientemente finalizzate a produrre una delle più grandi redistribuzioni regressive della ricchezza mondiale mai verificatesi nella storia moderna. L’aumento delle ricchezze dei più abbienti, infatti, non porta a uno “sgocciolamento” delle stesse dall’alto verso il basso come sostengono i liberisti, ma solamente a una maggiore povertà dei meno abbienti, essendo il frutto di un “rubinetto aperto” che trasferisce ricchezze dal basso verso l’alto.
Di fronte a queste odiose contraddizioni, persino il FMI, campione del neoliberismo globale, evidentemente preoccupato da un collasso macroeconomico fuori controllo, propone di riprendersi qualche briciola dagli straricchi, dopo decenni di banchetti e stravizi.
Ma dov’era il FMI negli anni in cui questo scempio distributivo andava consolidandosi? Dov’era il FMI quando la tendenza storica ad una lenta, ma significativa riduzione delle disuguaglianze socioeconomiche tra Paesi e nei Paesi, veniva bruscamente arrestata e poi invertita?
Il FMI era lì, in primissima linea a combattere la guerra storica, decisiva, a favore dei ricchi del mondo, prescrivendo con implacabile rigore ai Paesi in via di sviluppo pacchetti devastanti di politiche economiche basate sul più ambizioso neoliberismo dei manuali di economia: i cosiddetti piani di aggiustamento strutturale. Prestiti concessi per tamponare le crisi debitorie scatenate dalle asimmetrie del commercio internazionale, in cambio di rigide applicazioni di programmi economici sempre uguali: taglio della spesa pubblica e dei servizi sociali, aumento delle tasse su poveri e classe media, taglio dei salari, smantellamento dei sindacati, privatizzazioni, liberalizzazioni, deregolamentazioni. Un mix esplosivo di austerità e liberismo, insomma, che ha messo sul lastrico decine e decine di Paesi della periferia del mondo nel decennio a cavallo tra gli anni ’80 e ‘90. Provate a nominare ad un messicano, ad un etiope, ad un ghanese o ad un argentino – e l’elenco sarebbe lunghissimo in quasi tutti i continenti del mondo – cosa ne pensano di FMI, della Banca mondiale e dei piani di aggiustamento strutturale. Trent’anni dopo, ritroviamo l’FMI sul teatro europeo a braccetto con la Commissione europea e la BCE (la famigerata Troika) a dettar legge alla Grecia, alla Spagna, al Portogallo e all’Irlanda nella definizione dei pacchetti di austerità in cambio del salvataggio finanziario. Stesse ricette, stessa implacabilità, stesso rigore, stessi obiettivi: trasferire enormi quote di reddito e ricchezza dalla maggioranza alla minoranza, dalla massa di persone che vivono del proprio lavoro alla minuscola oligarchia di capitalisti privilegiati che dominano il mondo.
Dopo quaranta anni di sballo neoliberale, sempre in prima linea, l’FMI, indiscusso protagonista della stagione più oscura della regressione socioeconomica di miliardi di persone, ci illumina sui pericoli di una distribuzione troppo diseguale delle risorse nel mondo e propone una tassa una tantum sui super profitti e sui redditi più alti per far fronte alla pandemia e alla crisi economica.
Per porre freno alla barbarie della mostruosa disuguaglianza dilagante a livello planetario non bastano di certo sovrattasse al contagocce, né lenitivi emergenziali proposti da chi comprensibilmente teme ormai il collasso delle fondamenta di un sistema di sfruttamento che si cerca in tutti i modi di preservare e difendere. Occorre, all’opposto, un’inversione di marcia totale che rifiuti in blocco tutto l’insieme di politiche disastrose che hanno portato alla situazione attuale, capovolgendo di 180 gradi il paradigma neoliberale, rimettendo al centro dell’azione politica il problema della distribuzione della ricchezza a partire dalla radice dei meccanismi della produzione.
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