Bisognerebbe quasi ringraziare chi ha avuto l’idea di promuovere una “Superlega” nel calcio europeo. Scherziamo, ovviamente, ma è la verità.
È sempre difficile, a volte “noioso”, spiegare in termini semplici, popolari, con esempi immediatamente illuminanti, cosa significa “concentrazione e centralizzazione dei capitali”, quel processo immanente al processo di accumulazione capitalistica, che porta ai monopoli.
Poi ci pensa un Agnelli di seconda fila – quello messo a dirigere la Juventus, non la Fiat ed evoluzioni successive – a mettere sul piatto la prova evidente, il fatto solare, scatenando la reazione dei capitali “minori” (quelli che hanno gestito fin qui il calcio europeo, pur miliardario) e quella molto meno decisiva dei tifosi di qualsiasi squadra.
Anche in questo caso la pandemia ha accelerato una crisi che covava già da anni. Molti club, di qualsiasi livello, erano pieni di debiti. Frequenti i cambi di proprietà, e ad ogni passaggio di consegne si sono fatti avanti o grandi gruppi multinazionali (per i club più titolati) o avventurieri dall’incerta biografia.
Sia i primi che i secondi cercavano e cercano un modo per rompere la tradizione (“a gestire una squadra si diventa famosi, ma ci rimettono soldi”), “valorizzando” progetti edilizi (“un nuovo stadio!”) e/o scambi impropri (deroghe al piano regolatore, costruzione di centri commerciali, “edilizia in compensazione”, ecc).
Ma alla fin fine, in un mondo che va anch’esso mutando le proprie coordinate fondamentali, il vero business sono i diritti televisivi. I miliardi da investire in strutture, allenatori, calciatori, ecc, vengono di lì.
Ma se il cuore dell’industria calcistica – i suoi proventi principali, per dimensione e certezza (si firmano contratti ad inizio stagione) – è la televisione, si vengono a rompere tutti i legami atavici, territoriali, culturali, economici, sociali, persino politici (do you remember Berlusconi? da presidente del Milan a “nuovo leader della società civile”). E anche quel tanto di condivisione della torta tra club di punta e piccole società.
Un esempio semplice per capirci. Qualche anno fa il presidente della Lazio, Claudio Lotito, fu intercettato in una telefonata in cui – incidentalmente – spiegava la questione: “Ho detto ad Abodi (presidente di Lega B): se me porti su il Carpi, se me porti squadre che non valgono un cazzo, noi tra due o tre anni non c’abbiamo più una lira. Se c’abbiamo Frosinone, Latina, chi li compra i diritti?”
Detto in parole più educate: il mercato televisivo di massa viene riempito con le star, non con gli sparring partner. Tutti conoscono e guardano le partite con le squadre più forti, i calciatori migliori, che assicurano lo spettacolo più divertente (oggi Nereo Rocco o Helenio Herrera non verrebbero assunti da nessuno).
Le squadre “territoriali”, espressione di comunità più o meno larghe ma non troppo, possono avere quel che vogliono: bravi calciatori scovati da talent scout attenti a spendere pochissimo, allenatori geniali che fanno necessariamente le prime prove nelle categorie inferiori, alcune migliaia di tifosi fedelissimi ogni domenica e disposti a svenarsi pur di vedere “i nostri ragazzi” calcare le scene più importanti.
Ma non garantiscono un pubblico di milioni – anzi, decine di milioni – di spettatori.
Per capirci. Quando Giuliana Sgrena, giornalista de il manifesto, venne sequestrata in Iraq, molte star si fecero fotografare con la maglietta “Liberate Giuliana”. Tra questi Francesco Totti, non ancora campione del mondo. Le foto fecero il giro del pianeta al punto che, scrisse poi Sgrena, “Uno dei due guardiani, il più religioso, è venuto da me esterrefatto, sia perché la tv mostrava i miei ritratti appesi nelle città europee, e sia per Totti. Sì, Totti. Lui si è dichiarato tifoso della Roma ed era rimasto sconcertato che il suo giocatore preferito fosse sceso in campo con la scritta ‘liberate Giuliana’ sulla maglietta“.
Chiaro?
La pandemia, si diceva, ha costretto per oltre un anno a giocare in stadi vuoti. Le entrate provenienti dei biglietti e il merchandising – già insufficienti prima a coprire anche una minima parte dei costi di gestione – sono sparite. Diritti televisivi e sponsorizzazioni pubblicitarie sono rimaste le uniche fonti profitto commerciale.
Ma se la dinamica è quella “selettiva”, assolutamente naturale e senza alternativa – si tende a vedere lo spettacolo migliore – allora quella torta dei diritti televisivi non può più essere spartita “tra tutti”, club di star e squadre di onesti pedatori pieni di voglia di emergere.
Di qui la mossa di Agnelli minor e altri undici “consigli di amministrazione” di multinazionali del calcio europeo. “Tutta la torta a noi”.
Per capire qualcosa di questo processo di concentrazione del capitale e centralizzazione del business non bisogna guardare alla storia dei club, alle dimensioni o alle tradizioni della tifoseria, al “peso” identitario. Bisogna guardare alla proprietà e agli investitori finanziari.
Tra questi ultimi il primo a confermare la partecipazione, con 3,5 miliardi, è JpMorgan, la banca d’affari Usa che – ricorderete – si scagliò contro le Costituzioni vigenti in Europa (“I sistemi politici dei paesi europei del Sud e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano caratteristiche inadatte a favorire l’integrazione. C’è forte influenza delle idee socialiste”).
Gli altri finanziatori sono ancora ignoti, ma “voci di mercato” assicurano l’interesse di fondi statunitensi e sauditi.
Quanto alle proprietà.
Delle tre italiane aderenti alla nuova Superlega due sono appendici di gruppi finanziari cinesi (Inter e Milan), la terza – la Juventus – è una frazione della nuova multinazionale Stellantis, che riunisce i marchi francesi Peugeot e Citroen, le italiane Fiat e Lancia (e qualcos’altro), l’americana Chrysler (con Jeep, Dodge, ecc). Peraltro è l’unica frazione controllata da un Agnelli e, quest’anno, fa fatica persino ad entrare nel ristretto numero degli aventi diritto a partecipare alla Champions.
Ha un grande passato sportivo, tifosi e telespettatori in tutto il mondo, quindi può “legittimamente” (sul piano economico) fare a meno di doversi conquistare ogni anno una sudata qualificazione. Tanto vale partecipare al “campionato dei migliori” e mettersi a contare i soldi dei diritti tv e degli sponsor.
L’inglese Chelsea è del “dissidente” russo Roman Abramovic. L’Arsenal appartiene alla Kroenke Sports & Entertainment, holding americana di sport e intrattenimento con sede a Denver. Il Manchester United è una società con sede nel Regno Unito, controllata dalla famiglia dell’uomo d’affari americano Malcom Glazer, attivo attraverso la società di investimento First Allied Corporation in diversi settori industriali.
La cugina Manchester City, allenata per ora da Pep Guardiola, è di proprietà della Abu Dhabi United Group for Developement and Investments (ADUG), società interamente controllata dallo sceicco Mansour bin Zayed Al Nahyan, componente della famiglia reale di Abu Dhabi.
Il Liverpool, che fa commuovere anche i non tifosi per il suo splendido e solidale inno (You’ll never walk alone), è controllato invece dalla UKSV Holdings Company Limited, a sua volta controllata da UKSV I LLC con sede nello Stato del Delaware (un paradiso fiscale made in Usa). Quest’ultima società fa capo a Fenway Sports Group, società americana che centralizza diversi investimenti nel settore sportivo, tra cui la squadra di baseball dei Red Sox di Boston. Il principale azionista di Fenway Sports Group è l’uomo d’affari americano John W. Henry.
Il Tottenham Hotspur Limited è controllato da Enic International Limited, società registrata alle Bahamas. Il principale azionista di quest’ultima società è con il 70,59% l’uomo d’affari inglese (residente a New Providence, Bahamas) Joe Lewis.
Apparentemente diversa è la struttura proprietaria del Real Madrid: una polisportiva costituita sotto forma di associazione privata di persone fisiche “senza scopo di lucro”. Ma è difficile associare Florentino Perez a qualcosa “senza fini di lucro”.
Stessa situazione per il Barcellona, che ha effettivamente una struttura di azionariato diffuso con quasi 200.000 soci.
Più tradizionale, infine, la struttura dell’Atletico Madrid, acquistato nel 1987 da Jesus Gil. Oggi il socio di maggioranza della società è Miguel Angel Gil Marin.
Queste dodici società sono anche quelle – più pochissime altre – di maggior valore economico in Europa (ma senza calcolare quelle francesi e tedesche, che per ora non partecipano all’”affare”).
Questo è il processo di concentrazione e centralizzazione dei capitali in un settore “industriale” molto specifico. Ma funziona nello stesso modo nell’automotive (l’esempio di Stellantis è sufficiente, forse) e in qualsiasi altro settore.
Diciamo che le “disuguaglianze” diventano il vero tratto distintivo del capitale giunto a questo punto. E non parliamo soltanto delle immani differenze di reddito tra lavoratori e “azionisti di riferimento”, tra precari e general manager, ma anche all’interno dei capitali stessi.
Chi ha la forza per diventare “multinazionale” va avanti, chi può soltanto gestire un’attività locale resta indietro, e probabilmente, prima o poi, sarà costretto a chiudere.
Nel mondo del calcio la (eventuale) nascita reale della Superlega ha (avrebbe) un effetto esplosivo. La concentrazione degli investimenti, trainata dai diritti tv, creerebbe un “mondo a parte”, con 15 “soci a vita” e cinque “invitati”, scelti anno per anno tra i migliori dei vari campionati nazionali.
Fuori da questo mondo ricchissimo tutti gli altri club, a cascata, si ritroverebbe con entrate drasticamente decurtate (i diritti tv trascinano con sé quelli pubblicitari) e quindi nell’impossibilità materiale (“mecenati” a parte) di costruire squadre importanti e competitive.
Entrerebbero in crisi le scuole calcio, che si finanziano con le carissime rette degli allievi calciatori (le famiglie che inseguono il sogno di un figlio campione, o almeno “onesto professionista della pedata”) e con le plusvalenze della vendita del cartellino dei “prodotti” migliori.
Soprattutto, però, si verrebbe fisicamente a interrompere il legame sociale e politico tra calcio e popoli. E questo è il solito problema di qualsiasi centralizzazione dei capitali. Ogni squadra della ristretta élite europea non sarebbe più (o molto meno) il simbolo identitario di un territorio e di “un modo d’essere” (chiedete agli interisti...).
Ogni proprietario futuro, come avviene a volte negli Usa con la Nba, potrebbe “cambiare franchigia” e associare quella squadra con un’altra città. Forse anche con un diverso paese.
Tra le “vittime” qualcuno conterà anche i capi delle curve, i gestori dello spaccio, i canalizzatori del consenso politico, ecc.
Questo è il capitalismo, bellezza.
Può darsi che per ora questa “iniziativa” non abbia successo. L’assenza di squadre tedesche e francesi (soprattutto Paris Saint Germain e Bayern) toglie molto alla pretesa di rappresentare davvero l’élite immodificabile del calcio, a meno che le tre società non ancora “scoperte” non siano proprio di quei paesi.
Anche la reazione della “politica europea” minaccia piuttosto seriamente la fattibilità del progetto. Escluse dai campionati nazionali le squadre, e di conseguenza anche i calciatori dalle rispettive nazionali, l’appeal della superlega sarebbe molto minore. E la “competitività” scenderebbe di parecchio (una cosa sono i Los Angeles Lakers, tutt’altra gli Harlem Globe Trotter).
Ma la tendenza di medio periodo appare chiara. Chi vuol fare davvero i soldi con il calcio spinge nella direzione della centralizzazione e concentrazione in poche mani di uno spettacolo.
Ed è inutile spargere lacrime sui nostri miti minacciati e/o perduti, sui “valori dello sport”, la “meritocrazia”, ecc.
Già 165 anni fa i due saggi ammonivano:
“Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo “pagamento in contanti”.
Ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli.
In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d’illusioni religiose e politiche.
La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l’uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi.
La borghesia ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare e lo ha ricondotto a un puro rapporto di denaro.”
Pensavate davvero che il calcio potesse subire altra sorte?
Fonte
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