Il Montenegro ha richiesto a Bruxelles un prestito del valore di 1 miliardo di dollari, necessario per ripagare parte del debito contratto dal Paese balcanico nei confronti della Cina per finanziare la creazione – tutt’ora non terminata – di un importante progetto autostradale: Bar-Boljare, costruita dal colosso China Road and Bridge Corporation.
La richiesta avrebbe potuto aprire un nuovo capitolo nelle relazioni tra Podgorica e Bruxelles ma le parole del portavoce di Josep Borell, Peter Stano – riportate dall’agenzia ANSA il 12 aprile – sono state piuttosto nette: “L’Europa non ripagherà i prestiti” che il Montenegro e altri Stati partner nei Balcani “hanno contratto con parti terze”.
L’85% dei costi preventivati di questa struttura era stata finanziata nel 2014 dall’istituto di credito dalla China’s Exlm Bank a tassi più che convenienti, e la prima tranche deve essere restituita a Luglio.
Si tratta del progetto cinese più importante, insieme alla costruzione di una centrale termica, ad opera di un consorzio sino-montenegrino del valore di 54 milioni di dollari, firmato dal governo precedente che ha dominato per un trentennio la scena politica del Paese fino al dicembre scorso, secondo quanto riporta il Financial Times.
La Cina detiene il 40% del debito esterno montenegrino – secondo una relazione del Dipartimento di Stato degli Usa, citata dall’Osservatorio Balcani Caucaso il 7 aprile – il più alto (in proporzione) di un Paese aderente all’Alleanza Atlantica nei confronti di Pechino.
Separatosi dalla Serbia nel 2006, il Montenegro è divenuto infatti un membro della NATO dieci anni più tardi nel 2017, nonostante l’opposizione della Russia e di una parte rilevante della propria opinione pubblica. È uno dei Paesi interni al processo di integrazione europea e già usa l’Euro come moneta di scambio, pur senza essere parte dell’Eurozona.
Non solo gli Usa, ma anche l’Unione Europea, temono l’”espansione cinese” nei Balcani.
Il think tank European Council on Foreign Relations (ECFR) ha ammonito, in un suo rapporto, che il Montenegro rischia di perdere il controllo del porto di Bar, lo “sbocco sul mare” di cui la Serbia era stata mutilata con l’indipendenza montenegrina, e che sarebbe il terminale sull’Adriatico dell’attuale progetto stradale.
Così si esprime il rapporto pubblicato il 2 febbraio: «Se i governi nei Balcani occidentali sono incapaci di pagare i prestiti su tali progetti, possono contrattualmente essere obbligati a trasferire la proprietà degli asset di vari porti e territori a Pechino. Questo potrebbe fornire alla Cina una reale leva nella regione».
In sintesi, l’Unione Europea teme l’estendersi degli scali portuali – dopo quello del Pireo o di Vado-Ligure, per esempio – che si potrebbero connettere alla “Nuova Via della Seta”, come si è intravisto nelle recenti vicende del Porto di Trieste, a dimostrazione di come l’attuale riconfigurazione della logistica continentale sia innanzitutto una questione squisitamente geopolitica.
Il possibile default del Montenegro, al di là delle narrazioni giornalistiche dei media mainstream occidentali, che parlano di “trappola del debito” cinese, ci spinge ad interrogarci nuovamente sulla natura della penetrazione economica di Pechino nei Balcani e sull’azione ricattatoria dell’Unione Europea in quello che sta diventando il suo “ventre molle”.
In questo contesto infatti i Balcani stanno diventando uno snodo tutt’altro che secondario della Nuova Guerra Fredda – come stiamo cercando di analizzare a più riprese sulle colonne di questo giornale – in cui vecchi e nuovi attori internazionali (USA, Russia, Cina, Turchia ed Unione Europea) si contendono questo spazio geopolitico.
Nel fare questo è necessario allargare lo sguardo a livello temporale, andando ad indagare quale è stata l’azione di uno dei maggiori attori politici dei balcani già dagli Ottanta – gli Stati Uniti – come fa il contributo di Paja qui sotto.
Allora, la loro azione – svolta attraverso la propria rete di agenzie dopo la morte del Maresciallo Tito – contribuì ad indebolire le basi materiali che permettevano il patto sociale progressista su cui si reggeva la Jugoslavia, unico esempio di sbocco “rivoluzionario” autoctono in Occidente, insieme all’Albania, della Resistenza al Nazi-Fascismo durante la Seconda Guerra Mondiale.
Contro l’oblio imperante è sempre bene ricordare che l’azione politica della Jugoslavia, in rottura anche con l’URSS ed il “campo socialista”, svolse un ruolo fondamentale all’interno dei Paesi Non-Allineati, sottraendo di fatto i margini di egemonia statunitense su quei Paesi che avevano conquistato l’indipendenza dopo il dominio coloniale europeo, sperimentando un proprio modello di sviluppo socialista dalle peculiari caratteristiche.
L’intervento statunitense ha assunto la forma di guerra ibrida che dal logoramento economico è passata allo smembramento politico ed infine alla vera propria Guerra guerreggiata, terminata con l’aggressione della NATO alla Serbia a fine anni '90 ed il criminale bombardamento su Belgrado avvallato dalle socialdemocrazie europee degli Stati che non erano meno complici degli USA nell’opera di smembramento.
Dalle ceneri di quel conflitto ha preso forma l’attuale mosaico balcanico dove piccole entità statali mostrano la loro strutturale debolezza che li pone in balia degli interessi contrastanti dei maggiori attori dell’area e oltre.
Buona lettura.
La richiesta avrebbe potuto aprire un nuovo capitolo nelle relazioni tra Podgorica e Bruxelles ma le parole del portavoce di Josep Borell, Peter Stano – riportate dall’agenzia ANSA il 12 aprile – sono state piuttosto nette: “L’Europa non ripagherà i prestiti” che il Montenegro e altri Stati partner nei Balcani “hanno contratto con parti terze”.
L’85% dei costi preventivati di questa struttura era stata finanziata nel 2014 dall’istituto di credito dalla China’s Exlm Bank a tassi più che convenienti, e la prima tranche deve essere restituita a Luglio.
Si tratta del progetto cinese più importante, insieme alla costruzione di una centrale termica, ad opera di un consorzio sino-montenegrino del valore di 54 milioni di dollari, firmato dal governo precedente che ha dominato per un trentennio la scena politica del Paese fino al dicembre scorso, secondo quanto riporta il Financial Times.
La Cina detiene il 40% del debito esterno montenegrino – secondo una relazione del Dipartimento di Stato degli Usa, citata dall’Osservatorio Balcani Caucaso il 7 aprile – il più alto (in proporzione) di un Paese aderente all’Alleanza Atlantica nei confronti di Pechino.
Separatosi dalla Serbia nel 2006, il Montenegro è divenuto infatti un membro della NATO dieci anni più tardi nel 2017, nonostante l’opposizione della Russia e di una parte rilevante della propria opinione pubblica. È uno dei Paesi interni al processo di integrazione europea e già usa l’Euro come moneta di scambio, pur senza essere parte dell’Eurozona.
Non solo gli Usa, ma anche l’Unione Europea, temono l’”espansione cinese” nei Balcani.
Il think tank European Council on Foreign Relations (ECFR) ha ammonito, in un suo rapporto, che il Montenegro rischia di perdere il controllo del porto di Bar, lo “sbocco sul mare” di cui la Serbia era stata mutilata con l’indipendenza montenegrina, e che sarebbe il terminale sull’Adriatico dell’attuale progetto stradale.
Così si esprime il rapporto pubblicato il 2 febbraio: «Se i governi nei Balcani occidentali sono incapaci di pagare i prestiti su tali progetti, possono contrattualmente essere obbligati a trasferire la proprietà degli asset di vari porti e territori a Pechino. Questo potrebbe fornire alla Cina una reale leva nella regione».
In sintesi, l’Unione Europea teme l’estendersi degli scali portuali – dopo quello del Pireo o di Vado-Ligure, per esempio – che si potrebbero connettere alla “Nuova Via della Seta”, come si è intravisto nelle recenti vicende del Porto di Trieste, a dimostrazione di come l’attuale riconfigurazione della logistica continentale sia innanzitutto una questione squisitamente geopolitica.
Il possibile default del Montenegro, al di là delle narrazioni giornalistiche dei media mainstream occidentali, che parlano di “trappola del debito” cinese, ci spinge ad interrogarci nuovamente sulla natura della penetrazione economica di Pechino nei Balcani e sull’azione ricattatoria dell’Unione Europea in quello che sta diventando il suo “ventre molle”.
In questo contesto infatti i Balcani stanno diventando uno snodo tutt’altro che secondario della Nuova Guerra Fredda – come stiamo cercando di analizzare a più riprese sulle colonne di questo giornale – in cui vecchi e nuovi attori internazionali (USA, Russia, Cina, Turchia ed Unione Europea) si contendono questo spazio geopolitico.
Nel fare questo è necessario allargare lo sguardo a livello temporale, andando ad indagare quale è stata l’azione di uno dei maggiori attori politici dei balcani già dagli Ottanta – gli Stati Uniti – come fa il contributo di Paja qui sotto.
Allora, la loro azione – svolta attraverso la propria rete di agenzie dopo la morte del Maresciallo Tito – contribuì ad indebolire le basi materiali che permettevano il patto sociale progressista su cui si reggeva la Jugoslavia, unico esempio di sbocco “rivoluzionario” autoctono in Occidente, insieme all’Albania, della Resistenza al Nazi-Fascismo durante la Seconda Guerra Mondiale.
Contro l’oblio imperante è sempre bene ricordare che l’azione politica della Jugoslavia, in rottura anche con l’URSS ed il “campo socialista”, svolse un ruolo fondamentale all’interno dei Paesi Non-Allineati, sottraendo di fatto i margini di egemonia statunitense su quei Paesi che avevano conquistato l’indipendenza dopo il dominio coloniale europeo, sperimentando un proprio modello di sviluppo socialista dalle peculiari caratteristiche.
L’intervento statunitense ha assunto la forma di guerra ibrida che dal logoramento economico è passata allo smembramento politico ed infine alla vera propria Guerra guerreggiata, terminata con l’aggressione della NATO alla Serbia a fine anni '90 ed il criminale bombardamento su Belgrado avvallato dalle socialdemocrazie europee degli Stati che non erano meno complici degli USA nell’opera di smembramento.
Dalle ceneri di quel conflitto ha preso forma l’attuale mosaico balcanico dove piccole entità statali mostrano la loro strutturale debolezza che li pone in balia degli interessi contrastanti dei maggiori attori dell’area e oltre.
Buona lettura.
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La crisi del soft power europeo ed americano nei balcani si acuisce: un suicidio assistito?
La crisi del soft power europeo ed americano nei balcani si acuisce: un suicidio assistito?
Kevin Paja
È di questi giorni la notizia che il Montenegro si trova ad un passo dal default. Il paese infatti è ricorso ad un prestito cinese per finanziare il progetto di autostrada che da Bar (Antivari) si dirige verso la località montana di Boljare, cittadina serba oltre il confine.
Nel 2014 il governo del DPS di Milo Đukanović, il fautore dell’indipendenza montegrina e della sua adesione alla NATO, aveva raggiunto un accordo per un prestito da 1 miliardo di dollari presso la banca ExImp Bank of China, subordinata all’esecutivo cinese. Il governo di Đukanović aveva infatti approvato il progetto di costruzione di un’autostrada che avrebbe dovuto aumentare il volume degli scambi commerciali del Montenegro con i paesi vicini, e favorire il passaggio delle merci tramite il suo porto di Bar, il maggiore del paese.
Tuttavia le previsioni fin da allora indicavano che difficilmente il volume degli scambi sarebbe aumentato in maniera così esponenziale nel giro di pochi anni e, in realtà, nonostante il bisogno concreto del Montenegro di infrastrutture efficienti, l’iniziativa si è rivelata per lo più un elemento sul quale fare campagna elettorale, e ottenere sostegno elettorale in cambio di promesse di appalto ai grandi magnati dell’edilizia, con non poche somiglianze con la vicenda italiana della tratta TAV Torino-Lione.
Ma quello che non viene detto dalla stampa europea è che, benché alcuni termini del prestito fossero controversi, come ad esempio la clausola che riguarda la cessione di concessioni sul territorio nazionale (d’importanza strategica), al piccolo paese balcanico è stato assicurato un tasso d’interesse del 2 per cento massimo sull’importo dell’intera cifra, da pagare nell’arco di vent’anni (sia capitale che interesse) e di cui la prima rata sarebbe stata riscossa con sei anni di “grazia”, nei quali non sarebbero stati applicati i tassi d’interesse.
La prima rata del prestito dovrebbe essere riscossa a luglio e, il nuovo governo del Montenegro, eletto lo scorso autunno, ha cercato di mediare con l’Unione Europea una soluzione che prevedesse la ristrutturazione del debito tramite i fondi dell’Unione Europea in caso di insolvenza. Incassando però un sonoro “NO”, accompagnato dalle solite litanie di rito sulla preoccupazione dell’UE in merito alla situazione di un suo paese da lungo tempo candidato all’ingresso nell’Unione.
Insomma la toppa peggiore del buco.
Le motivazioni sono che se una cosa del genere accadesse, allora altri stati potrebbero contrarre debiti con parti terze e chiedere all’ultimo una ristrutturazione del debito in sede europea, l’Unione Europea quindi si trasformerebbe nel “bancomat” dei paesi indisciplinati.
La vicenda del Montenegro serva quindi da lezione a tutti gli altri: la UE sembra così affermare: “attenti a dove chiedete i soldi in prestito, chiedeteli a noi, o al FMI o alla Banca Mondiale, istituzioni sicuramente più umane degli istituti di credito cinesi”.
Ma una domanda sorge spontanea: com’è possibile che il Montenegro si sia trovato a dover fronteggiare tutto questo in piena solitudine ed è possibile che questa sia la conseguenza diretta della dissoluzione della Jugoslavia?
Il Montenegro, una volta parte della Jugoslavia, è un paese popolato da appena 600.000 abitanti, meno di quelli della provincia di Perugia e con un PIL pari a meno di un terzo. Ed un economia fortemente dipendente dalle influenze esterne, oltre che particolarmente stagnante.
Il primo boom economico in Montenegro avvenne durante la Jugoslavia, quando divenne località turistica low cost che attirava turisti da tutta l’Europa oltre che dalla Jugoslavia stessa. Il Montenegro allora poteva contare su investimenti in opere pubbliche e welfare a fondo perduto, sulle entrate del turismo, e sulle rimesse dei migranti interni ai confini della Jugoslavia.
Per non parlare dal fondo comune della Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia. In un quadro in cui le direzione macroeconomica era rimasta prerogativa dello stato che permetteva la coesistenza dell’economia pianificata con forme di economia e management privati.
Insomma, la cosiddetta “Via jugoslava al socialismo” elaborata da Tito e dal futuro dissidente Milovan Đilas, che si basava sull’autogestione (samoupravljanje) delle imprese locali e sull’organizzazione elastica delle reti di potere. Un’economia, per alcuni versi, molto simile a quella della Cina attuale.
Sappiamo con certezza che sul piano geopolitico l’unica importanza del Montenegro è data da alcuni snodi marittimi secondari che servono principalmente al contenimento marittimo della Serbia, con il quale il Montenegro continua ad avere fitti legami di tipo culturale e linguistico, così fitti da rendere impossibile da definire una differenza tra serbi e montenegrini.
E al di là dei beni di importanza culturale e paesaggistica non dispone di alcuna risorsa primaria particolarmente redditizia e nemmeno di un industria particolarmente sviluppata, oltre che un estensione territoriale e una popolazione molto piccola.
Che rilevanza ha avuto la dissoluzione della ex-Jugoslavia in tutto questo?
Il Montenegro, come abbiamo già detto era parte della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia, ed era una repubblica costituiva della citata federazione.
Negli anni '80, dopo la morte di Tito, la SFRJ si è trovata a gestire la crisi finanziaria più grave della sua storia.
Questa storia comincia nel 1984, la Jugoslavia stava ospitando le Olimpiadi Invernali a Sarajevo, e l’amministrazione Reagan stava approfittando della morte di Tito per permettere la penetrazione dell’influenza nord-americana nella zona, e a questo proposito firmò una direttiva segreta (la famigerata National Security Directive nr 133) che riportava testualmente che “the U.S. Policy will be to promote the trend toward an effective, market oriented yugoslav economy structure”, che fotografava un strategia presente da ben più tempo e che, grazie alla crisi del blocco orientale, stava trovando numerosi punti di approdo.
Nel 1988, infatti l’amministrazione Reagan non perse tempo e promosse, ad hoc, la creazione un’associazione destinata a diventare famosa: la NED (National Endowment for Democracy) una proxy organization della CIA dedita alla promozione del valori liberali e democratici nel mondo, tornata di recente agli onori della cronaca per aver favorito il colpo di stato contro Morales in Bolivia, l’opposizione neofascista venezuelana al governo di Maduro, e la fabbricazione di bufale sulla situazione della minoranza Uigura nello Xinjiang, provincia occidentale della Repubblica Popolare Cinese.
Reagan inviò vari consiglieri della neocostituita NED in Jugoslavia, con l’incarico di organizzare gruppi di opposizione al governo comunista in seno alle comunità che popolavano la Jugoslavia, di pagare giornalisti in cerca di carriera per scrivere articoli contro il governo e di foraggiare tutti i gruppi politici che si dichiarassero a favore delle politiche economiche del FMI, spesso in contatto con gruppi di estremisti di destra esiliati all’estero e sconfitti durante la Seconda Guerra Mondiale, come gli Ustascia ed estremisti islamici.
La NED controlla inoltre anche il CIPE, un centro di consulenza privata di carattere finanziario rivolto agli stati, che è anche uno dei più grandi finanziatori dell’organizzazione non governativa “G-17”.
Cos’era il G-17?
Il G-17 era un’organizzazione politica composta da 17 economisti jugoslavi di orientamento neoliberale, di cui i principali esponenti erano Dušan Vujović, Branko Milanović, Željko Bogetić e Veselin Vukotić, tutti in strettissimi contatti con la Banca Mondiale e residenti a Washington.
Quest’ultimo grazie alle pressioni della Banca Mondiale riuscì a ottenere la nomina a Ministro delle Privatizzazioni durante il debole governo del primo ministro Ante Marković, quello che passerà alla storia come l’ultimo della Jugoslavia unita prima della guerra civile.
Il biennio del suo ministero fu caratterizzato da ampi interventi di macelleria sociale e di ristrutturazione del debito per opera anni della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Questo fenomeno è stato definito dalla Banca Mondiale stessa come “Trigger economy”, con lo scopo dichiarato di creare artificialmente un crisi che avrebbe portato la bancarotta in Jugoslavia, di far precipitare il valore delle azioni delle più grandi aziende di stato e di ripartirne le quote ipotecate tra i creditori. Processo noto come “Privatizzazione Tramite Liquidazione”.
Sotto le direttive di Vukovic vennero liquidate più di 100 industrie tra il gennaio del 1989 e settembre 1990. Da lì ad un anno la qualità della vita diminuì del 18 per cento, la disoccupazione aumentò del 20 per cento, l’inflazione arrivò al 200 per cento nel 1992, e tutto questo arrivò, com’è evidente, aumentò la tensione tra le repubbliche.
Fu a quel punto che Ante Markovic si recò a Washington per chiedere l’intercessione del governo americano e per ripristinare la linea di credito, convinto che agli americani non convenisse un focolaio di instabilità nel cuore dell’Europa. Serviva un aiuto economico per ristrutturare il debito e fu proprio sul più bello che il presidente George H.W. Bush si pronunciò al Congresso (novembre 1990), affermando che non ci sarebbe stato alcun aiuto nei confronti della Jugoslavia, accusata di promuovere politiche discriminatorie nei confronti dei non-serbi e che l’aiuto sarebbe arrivato a ciascuna repubblica singolarmente, a cui prometteva il ripristino delle linee di credito e anche il riconoscimento diplomatico a patto che dichiarassero la secessione dalla Jugoslavia.
Tornando all’attualità
È quindi stata questa la soluzione politica alla crisi jugoslava, sicuramente il piano di rimborso del debito cinese contiene alcuni punti controversi, ma si può dire che la Banca Mondiale e gli istituti di credito a base occidentale agiscano senza eseguire un’agenda politica ben più criminale? E il diniego dell’Unione Europea alla richiesta di Krivokapic è per caso meno grave?
Nessuna sanzione, nessun embargo o boicottaggio è mai stato promosso nei confronto di chi ha esercitato questa policy e scatenato una guerra da 300.000 morti nel cuore dell’Europa. Nessuno di questi criminali è finito di fronte all’Aja.
Ancora una volta ritorna l’amaro insegnamento di Giolitti: “La legge si applica per i nemici, per gli amici si interpreta”.
Si applica per la Grecia, per l’Argentina, per la Jugoslavia e per il Venezuela. S’interpreta nel caso della Germania e del Giappone.
Forse questo non sarebbe mai accaduto se non si fosse puntato alla disgregazione della Jugoslavia e alla sua ripartizione. La disgregazione di un paese che ha garantito pace e giustizia sociale come mai visto nei Balcani fino ad oggi, ed opportunamente sottratto il suo popolo alla contesa della Guerra Fredda.
Probabilmente la Jugoslavia non era il problema, ma la soluzione. Oggi come allora.
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