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21/04/2021

Populismo giustizialista e controllo sociale: come si è arrivati a tutto questo?

Negli ultimi decenni, una questione si è dimostrata trasversale a tutte le forze politiche, quella relativa alla sicurezza.

Oggi, l’idea di sicurezza è divenuta capace di generare consenso vasto e acritico per il solo fatto di essere nominata e abbiamo assistito al diritto penale divenire dominante manifestando tutti i sintomi del morbo populista: l’allarmismo sulla sicurezza che condiziona un’opinione pubblica che si sente sempre più insicura, eccitata dall’antipolitica e dalla spettacolarizzazione della giustizia; il ruolo moralizzatore assunto dalla magistratura; la strumentalizzazione delle vittime che trasfigura la giustizia in un risarcimento simbolico all’intera comunità e che rende insostenibile la presunzione d’innocenza.

Ma dietro alla criminalizzazione si profila lo spettro della guerra di tutti contro tutti in cui lo Stato, che non è più in grado di distribuire giustizia sociale, promette sicurezza. Il declino del welfare ha allargato le maglie del linguaggio della colpa e della pena, ha esteso l’uso delle istituzioni penitenziarie e del controllo sociale coattivo, come a compensare la fragilità dello stato sociale.

Nonostante le statistiche sulla criminalità descrivano una società più sicura e una diminuzione costante del numero dei reati nell’ultimo decennio, la percezione d’insicurezza e paura – alimentate da politica e media – genera consenso verso chi si propone come giustiziere.

Ma non è la morte della politica, come qualcuno sostiene, bensì la proliferazione della politica panpenalista: è una giustizia emotiva amministrata per soddisfare gli umori del popolo. Il populismo penale ha la sua forza principale, oltre che nella paura, nella carica emotiva che può vantare verso l’opinione pubblica attraverso la strumentalizzazione delle vittime.

Dopo ogni fatto di cronaca si attiva uno schema consolidato: la reazione dell’opinione pubblica che chiede di punire in nome delle vittime e della sicurezza, biasimando le istituzioni incapaci di reagire, e la politica che promette punizioni esemplari e interventi normativi. Spesso, creando confusione tra i concetti di colpa e di responsabilità.

La serie di riforme approvate, in questi ultimi anni, segue questo schema. La riforma della legittima difesa, le leggi sicurezza, la legge “spazzacorrotti”, la cancellazione della prescrizione, l’esclusione del giudizio abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo, la criminalizzazione del soccorso in mare sono la rivendicazione di un’ortodossia del populismo penale: ricerca del consenso e strumentalizzazione delle vittime, della paura, dell’insicurezza. Ma come si è arrivati a tutto questo?

Il populismo dell’invidia sociale, che sostituisce la lotta di classe, è iniziato negli anni ’90, del secolo scorso, con l’appoggio alla macchina giudiziaria intorno a Tangentopoli. È la fase della nascita della “piazza virtuale” nel duplice senso di canale di rappresentazione immediata della crisi sociale e di processo pubblico mediatico alle élite.

Una sinergia perversa tra partiti politici, stampa e opinione pubblica che hanno sostenuto questa “rivoluzione giudiziaria” mentre le posizioni critiche venivano ridotte a eresia anche all’interno dei grandi partiti, consolidando l’idea che la giustizia penale fosse la soluzione ai mali della democrazia. Nasce la figura del Grande Inquisitore come contro-potere, rafforzata dall’atteggiamento delle forze politiche che individuarono nella magistratura un alleato nella moralizzazione del paese.

Mani Pulite però non rafforza solo la cultura giustizialista (con la spettacolarizzazione degli arresti e l’abuso della custodia cautelare) ma anche l’offerta populista. Da allora la sicurezza diventa uno slogan universale, “né di destra, né di sinistra”, un mantra rinnovato a ogni campagna elettorale.

Dal 1994 in poi quasi ogni governo ha introdotto inasprimenti di pena e nuovi reati. Una trasformazione del giustizialismo a corrente di opinione e comunicazione mediatica in campo politico a fenomeno in grado di esercitare un’egemonia culturale. Uno stato d’ansia diffuso che ha fatto chiedere a gran voce misure eccezionali per far fronte alla situazione.

Ad esempio due o tre sbarchi di barconi carichi di migranti, in una sola settimana, danno la stura ai media per una campagna di allarme in nome dell’invasione. Descrivono la situazione in termini di emergenza fuori controllo, con una richiesta di sicurezza. L’intervento politico riconosce la gravità della situazione e assume solennemente l’impegno ad affrontare il problema.

Nasce cosi la retorica del “fare qualcosa al più presto” legittimando l’eccezione e l’emergenzialismo. L’emergenza, quindi, non è altro che una costruzione sociale, la produzione di panico per determinare un’intensificazione del controllo sociale e per un ulteriore legittimazione del potere costituito e delle istituzioni del controllo.

L’emergenza (e la paura che la legittima) si costruisce sui nemici, o meglio sulla rappresentazione di determinati soggetti come “nemici pubblici”. Migranti, marginali, tossicodipendenti, ultras, no tav, sono solo alcuni dei nemici pubblici tratti da emergenze recenti.

Ma la condizione essenziale affinché alcuni soggetti siano costruibili come nemici pubblici, è che esista un occultamento dei tratti reali della crisi italiana, una crisi economica e sociale che riversa sui cittadini i costi di politiche sociali, economiche e del lavoro sbagliate.

L’attribuzione ai sindaci di specifiche funzioni di polizia ha condotto l’Italia verso il “governo penale dell’insicurezza sociale”. Il sociologo Loic Wacquant, autore di “Punire i poveri” mise in evidenza il legame esistente tra le politiche economiche neoliberiste e l’espansione dell’intervento penale.

Wacquant ha analizzato soprattutto le politiche della “Tolleranza zero” negli Stati Uniti, che sono stati il laboratorio dell’intervento penale sulla popolazione marginale sostenendo che la penalizzazione serve da tecnica per rendere invisibili i “problemi” sociali che lo Stato non vuole o non può più affrontare fino in fondo e la prigione diventa una sorta di pattumiera giudiziaria dove gettare i rifiuti umani della società del mercato.

Una nuova e trasversale filosofia di gestione del territorio in cui la “sicurezza” viene riferita solo ai cittadini abbienti e diventa periodica strumentalizzazione politica, essendo gli altri (migranti, tossicodipendenti, senza casa e dimora e poveri in generale) evidentemente non cittadini, verso cui dismettere welfare e politiche di sostegno. E in questo contesto di paura e legalità si è declinata la versione italiana della law & order statunitense.

La retorica della legalità, associata alla programmatica “tolleranza zero”, è entrata di prepotenza nel vocabolario politico italiano, ma non nasce oggi è una delle eredità nefaste della sconfitta degli anni Settanta. Porta nomi e cognomi noti, anche di tanti “antifascisti”.

La cultura della legalità o ideologia legalitaria è entrata nel senso comune in modo capillare attraverso i professionisti della legalità, proposta nelle scuole di ogni ordine e grado da diversi anni ormai, propinata su giornali e media. È una delle strutture ideologiche del capitalismo nella sua fase neoliberista. Il messaggio è semplice da far passare, gli onesti da una parte e i delinquenti (a vario titolo) dall’altro.

Ma l’ideologia legalitaria mette al bando qualsiasi critica della società e del potere. Più cresce e si fortifica la cultura della “legalità”, più cresce, come risposta al malessere sociale, al posto del conflitto e della progettualità, il rancore individuale, l’altro percepito come concorrente, che è sempre un gradino al di sotto di noi o nella nostra stessa posizione, mai sopra.

È il prevalere del rancore e dell’ideologia vittimaria. È la sopraffazione del consenso sulla critica, in particolare la critica del potere. L’ideologia legalitaria è l’affermazione dell’unica ideologia permessa, quella del mercato, dove la politica è presentata come gestione dell’esistente.

Imporre la “legalità” come valore in sé significa negare il conflitto, le lotte sociali e politiche. Attraverso il cavallo di Troia di un concetto di legalità reso quasi sacrale, si è imposto il securitarismo e il populismo penale oggi ampiamente dispiegato.

Il “cavallo di Troia” delle politiche di sicurezza è stato prima costruito e poi utilizzato con l’obiettivo specifico di governo autoritario della povertà. Fare della legalità e della sicurezza un vessillo facendone un totem aprioristico e indiscutibile ha avuto effetti devastanti sia sulle scelte politiche, sia sull’involuzione della mentalità del paese o meglio sull’affermarsi di un’opinione pubblica essenzialmente repressiva.

Le forze politiche che hanno battuto sulla grancassa della “legalità” non hanno fatto altro che privilegiare la razionalizzazione repressiva e quindi il potere di chi negli apparati si presentava come “manager della sicurezza”, inserendosi all’interno del processo di aziendalizzazione dello Stato.

E l’oppio giustizialista ha contaminato anche buona parte delle culture della “sinistra”, mutandone profondamente l’universo simbolico. Per troppi a sinistra, colpire politicamente i “potenti” – cosi come i movimenti antagonisti negli anni '70 e '80 – è stato un obiettivo da raggiungere a tutti i costi, anche attraverso lo strumento giudiziario e limitando le garanzie previste dal codice.

Alla costruzione di ideali carichi di prospettive e speranze si è opposto il culto della vendetta e la furiosa libidine dell’azione penale. L’ideologia giudiziaria è apparsa come una risposta al disincanto di un mondo ormai percepito come decaduto e corrotto.

Abbandonando i luoghi di lavoro e le piazze, la “sinistra” si è arruolata a piene mani nel partito delle procure, e chi ha continuato ad agire da sinistra come soggetto di trasformazione sociale è stato criminalizzato e classificato come pericoloso “nemico pubblico”.

Il ricorso sfrenato alle scorciatoie giudiziarie ha cristallizzato umori forcaioli e reazionari. L’abbassamento generale del livello di garanzie giuridiche ha portato unicamente pregiudizio alle classi più deboli che da sempre hanno minori mezzi e strumenti di difesa, riempiendo le carceri e contribuendo ad edificare una legislazione sempre più minacciosa.

Questo modo di concepire il rapporto tra politica e magistratura si è sempre risolto a favore dei poteri forti e a scapito dei soggetti socialmente ed economicamente più deboli nonché dei movimenti politici conflittuali.

Antonio Bevere, magistrato e direttore della rivista “Critica del diritto”, scrisse un articolo dal significativo titolo “Il popolo di sinistra non deleghi ai magistrati il pensiero critico”:

“In piena offensiva berlusconiana, si avverte l’esigenza di difendere dignità e indipendenza della magistratura senza comunque riconoscerle il ruolo di superpotere comunque buono e affidabile e senza accettare la funzione riformatrice della repressione […] Ad essa è seguita, da parte della pubblica opinione progressista, una domanda morale diffusa, l’aspettativa di un’autorità che, nel campo politico, istituzionale e imprenditoriale, distinguesse i buoni e i cattivi. Questa autorità è stata individuata nella magistratura [….] L’illusione della democrazia diretta, attuata attraverso questa giurisdizione, ha avuto due negativi effetti politici: la deresponsabilizzazione partecipante del popolo di sinistra e la depoliticizzazione della democrazia”.

Le considerazioni di Bevere ci aiutano a ricordare che è indispensabile uscire da questa spirale perversa che ha caratterizzato la sinistra per questi lunghi anni, che è fondamentale riappropriarsi delle tematiche del garantismo e ribadire sempre e comunque che la via di uscita non può essere ricercata in scorciatoie giustizialiste.

L’estenuante richiamo al principio di legalità impone, oggi, un bilancio ed una decostruzione del concetto. Il richiamo alla legalità da Tangentopoli ad oggi è servito da legittimazione al passaggio brutale dallo stato sociale a quello penale. La legalità è stata in campo politico-giudiziario il corrispettivo dell’iper liberismo in materia economico-sociale. Un contesto dove i forti sono diventati più forti e i deboli più deboli.

Per questo è saggio almeno accogliere il suggerimento di Zarathustra: “ diffidate di coloro nei quali è potente l’istinto di punire “ e che senza un radicale mutamento di paradigma politico che si liberi una volta per tutte dell’ideologia giudiziaria e penale non si riuscirà a ricostruire nulla, anche la ripresa di eventuali temi di classe avrebbe le ali piombate.

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