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29/02/2024

In Fabric (2018) di Peter Strickland - Minirece

Anche i manganelli mandano in crisi Meloni

Il muro del governo Meloni mostra sempre più crepe. Dopo quasi un anno e mezzo i limiti diventano molto evidenti. E se prima riguardavano questo o quello degli uomini che Meloni aveva scelto in base al grado di fedeltà nei suoi confronti, ora la coinvolgono in prima persona.

Due sono stati gli eventi che hanno messo in luce questa quasi inattesa debolezza. Le manganellate agli studenti (a Pisa, ma non solo...) e ovviamente le elezioni in Sardegna. Su queste ultime in particolare, pesa il fatto che proprio non si può imporre una “narrazione” che in qualche modo attenui le sue responsabilità. I numeri stanno lì...

Ma anche sul fronte prediletto, quello dell’“ordine pubblico”, il brutale pestaggio di Pisa – la sua evidente sproporzione rispetto al “pericolo” rappresentato da un centinaio di ragazzi forse al loro primo corteo, per di più immortalato da diversi video ripresi dalle più diverse angolazioni – si comincia a sgretolare “il fronte della fermezza”.

La dirigente del reparto mobile della polizia responsabile del pestaggio, Silvia Conti, è stata trasferita ad altro incarico. E naturalmente si deve indorare la pillola amara assicurando che lo spostamento “non sarebbe legato alla gestione dell’ordine pubblico nell’occasione e sarebbe stato chiesto in precedenza dalla stessa dirigente”.

Ma naturalmente non ci crede nessuno. Tanto meno i peggiori sponsor del “manganello libero”, ossia i dirigenti dei vari sindacatini di polizia. Che provano – sì – a rovesciare l’accusa di “violenza” citando dati chiaramente taroccati, ma fanno solo figure ridicole.

Tipo “Nel corso delle migliaia di manifestazioni di piazza che si sono svolte negli ultimi sedici mesi ci sono stati quasi 200 feriti tra le Forze dell’Ordine; meno della metà tra i manifestanti, che non erano certo lì a rappresentare pacificamente le proprie idee.”

Per chi conosce le pratiche di caserma non è un mistero che dopo ogni “bravata” di piazza, comunque sia andata, un congruo numero di agenti si faccia refertare dai medici di polizia “contusioni e traumi” a volontà, scroccando così qualche giorno supplementare di licenza per malattia.

Ma tolti i piccoli Torquemada da caserma, appunto, o gli immancabili corvi dei giornalacci di estrema destra, quasi nessuno difende l’operato dei poliziotti in piazze che non sono mai state così “tranquille” come in questi ultimi anni.

Ma la Procura di Pisa, ravvisando nelle immagini comportamenti non in linea con le normali “regole di ingaggio”, ha aperto un’inchiesta per appurare chi ha preso le decisioni e chi ha dato l’ordine di caricare.

Da qui, secondo logica, sarebbe derivata la decisione di rispedire la dirigente Conti a Pescara, piazza decisamente meno impegnativa.

E comunque l’attenzione della Procura si rivolge a ben quindici poliziotti, evidentemente selezionati come i più esagitati. Troppe cose per far finta di nulla. E dunque dai palazzi ministeriali è partito un deciso – ma negato – scaricabarile.

Giorgia Meloni, dopo un lungo e imbarazzato silenzio, ha preso la parola sui fatti ma solo per dire che “Io penso che sia molto pericoloso togliere il sostegno delle istituzioni a chi ogni giorno rischia la sua incolumità per garantire la nostra. È un gioco che può diventare molto pericoloso”.

Ha provato a strumentalizzare i fatti di Torino – un gruppo di “anarchici” ha bloccato un’auto della polizia che aveva fermato un immigrato senza documenti – come a dire “vedete cosa può accadere se criticate troppo la polizia”. Ma è abbastanza chiaro che episodi come quelli di Pisa, Firenze e Catania possono solo aumentare – non certo diminuire – la critica popolare alle presunte “forze dell’ordine”.

“Gioggia” è stata insomma costretta a non indossare la faccia feroce per non aggravare la situazione e proporsi – a là Salvini – come la mandante delle bastonate agli studenti.

Una classica situazione lose-lose. Non puoi benedire quei manganelli, ma non puoi neanche criticarli. Qualsiasi cosa fai è sbagliata. Ed è questo il segnale più chiaro dei limiti che questo governo ormai incontra.

Un segnale di crisi, che ogni conflitto sociale può e deve accentuare.

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Il New York Times demolisce la narrazione della “guerra non provocata” in Ucraina

Negli ultimi due anni, quasi ogni riferimento dei media statunitensi all’invasione  russa dell’Ucraina  nel febbraio 2022 è stato preceduto da una parola obbligatoria: “non provocata”.

Al pubblico è stato detto che si trattava di una guerra senza causa, che l’Ucraina era irreprensibile e che l’invasione doveva essere spiegata interamente in termini di intenzioni e psicologia di un uomo, il presidente russo Vladimir Putin.

Tuttavia, nel fine settimana del secondo anniversario della guerra, il New York Times ha pubblicato un lungo articolo che rivela come l’invasione russa dell’Ucraina del 24 febbraio 2022 è stata istigata da una sistematica e diffusa campagna di aggressione militare e di intelligence da parte degli Stati Uniti.

L’articolo descrive in dettaglio le operazioni di lunga data della Central Intelligence Agency (CIA) in Ucraina, in cui l’agenzia ha sponsorizzato e costruito l’agenzia di intelligence militare ucraina HUR, utilizzandola come arma di spionaggio, assassinio e provocazione diretta contro la Russia per più di un decennio.

Scrive il Times:
Verso la fine del 2021, secondo un alto funzionario europeo, Putin stava valutando se lanciare la sua invasione su vasta scala quando ha incontrato il capo di uno dei principali servizi di spionaggio russi, che gli ha detto che la CIA, insieme all’MI6 britannico, stava controllando l’Ucraina e trasformandola in una testa di ponte per le operazioni contro Mosca.
Il rapporto del Times dimostra che questa valutazione dell’intelligence russa era assolutamente vera. Per più di un decennio, a partire dal 2014, la CIA ha costruito, addestrato e armato l’intelligence ucraina e le forze paramilitari che si stavano impegnando in omicidi e altre provocazioni contro le forze filo-russe nell’Ucraina orientale, contro le forze russe in Crimea e oltre il confine nella Russia stessa.

In un passaggio critico, il Times scrive:
Con l’approfondimento della partnership dopo il 2016, gli ucraini sono diventati impazienti verso quella che consideravano l’indebita cautela di Washington e hanno iniziato a inscenare omicidi e altre operazioni letali, che violavano i termini che la Casa Bianca pensava che gli ucraini avessero accettato. Infuriati, i funzionari di Washington minacciarono di tagliare loro il sostegno, ma non lo fecero mai.
In altre parole, le forze paramilitari ucraine armate, finanziate e guidate dagli Stati Uniti e dalla NATO, stavano sistematicamente assassinando le forze che sostenevano relazioni più strette con la Russia.

Il resoconto del giornale inizia con il colpo di stato di Maidan del febbraio 2014, quando forze di destra e neonaziste sostenute dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea rovesciarono il presidente filo-russo eletto e installarono un regime filo-imperialista guidato dal miliardario Petro Poroshenko.

Questo colpo di stato fu il culmine di due decenni di incursioni imperialiste nell’ex blocco sovietico, compresa l’espansione della NATO per includere praticamente tutta l’Europa orientale, in violazione degli impegni presi con i leader dell’ex Unione Sovietica. Il Times tace su questa storia precedente, così come sul ruolo della CIA negli eventi di Maidan.

Maidan ha posto le basi per una massiccia escalation dell’intervento della CIA, come dettagliato nel rapporto del Times. L’agenzia di intelligence statunitense ha svolto un ruolo centrale nell’alimentare il conflitto tra Ucraina e Russia, prima come guerra di basso livello contro i separatisti filorussi nell’Ucraina orientale, poi come guerra su vasta scala dopo l’invasione russa nel febbraio 2022. Tre le amministrazioni americane coinvolte: prima Obama, poi Trump e ora Biden.

Secondo il resoconto del Times, le operazioni della CIA includevano non solo lo spionaggio diffuso, ma anche l’assistenza a provocazioni dirette come l’assassinio di politici filo-russi nell’Ucraina orientale e attacchi paramilitari contro le forze russe in Crimea.

Il Times riferisce che un’unità ucraina, il Quinto Direttorato, è stata incaricata di condurre omicidi, tra cui uno nel 2016. Scrive il Times:
Una misteriosa esplosione nella città occupata dai russi di Donetsk, nell’Ucraina orientale, ha squarciato un ascensore che trasportava un alto comandante separatista russo di nome Arsen Pavlov, noto con il suo nome di battaglia, Motorola.

La C.I.A. apprese presto che gli assassini erano membri del Quinto Direttorato, il gruppo di spionaggio che aveva ricevuto l’addestramento della CIA. L’agenzia di intelligence interna ucraina aveva persino distribuito toppe commemorative al personale coinvolto nell'operazione, ognuna cucita con la parola “Lift”, il termine britannico per "ascensore".
Il rapporto descrive un’altra operazione di questo tipo:
Una squadra di agenti ucraini ha installato un lanciarazzi a spalla senza pilota in un edificio nei territori occupati. Era proprio di fronte all’ufficio di un comandante ribelle di nome Mikhail Tolstykh, meglio conosciuto come Givi. Usando un grilletto remoto, hanno sparato il razzo non appena Givi è entrato nel suo ufficio, uccidendolo, secondo funzionari statunitensi e ucraini.
Dallo scoppio della guerra su vasta scala, l’HUR ucraino ha esteso queste operazioni di assassinio a tutto il territorio della Russia, compresa l’uccisione di Darya Dugina, una delle principali polemiste pro-Putin nei media russi, e di funzionari del governo e dell’esercito russi.

La CIA ha trovato i suoi alleati ucraini molto utili nella raccolta di grandi quantità di dati sull’attività militare e di intelligence russa, tanto che l’HUR stesso non è stato in grado di elaborarli e ha dovuto inoltrare i dati grezzi al quartier generale della CIA a Langley, in Virginia, per l’analisi. Un precedente rapporto, meno dettagliato, su questa collaborazione di intelligence, sul Washington Post, citava la stima di un funzionario dell’intelligence ucraina secondo cui ogni giorno venivano raccolti “da 250.000 a 300.000” messaggi militari e di intelligence russi. Questi dati non erano solo relativi all’Ucraina, ma riguardavano l’attività di intelligence russa in tutto il mondo.

Molto prima dell’invasione russa, la CIA stava cercando di ampliare il suo attacco a Mosca. Il Times riporta:
Il rapporto [con l’HUR ucraino] ha avuto un tale successo che la CIA ha voluto replicarlo con altri servizi di intelligence europei che condividevano l’obiettivo di contrastare la Russia.

Il capo della Russia House, il dipartimento della CIA che sovrintende alle operazioni contro la Russia, ha organizzato una riunione segreta all’Aia. Lì, i rappresentanti della CIA, dell’MI6 britannico, dell’HUR, dei servizi olandesi (un alleato fondamentale dell’intelligence) e di altre agenzie hanno concordato di iniziare a mettere insieme più informazioni sulla Russia.

Il risultato fu una coalizione segreta contro la Russia, di cui gli ucraini erano membri vitali.
Tutte queste attività si sono verificate ben prima dell’invasione russa del febbraio 2022. Lo scoppio di una guerra su vasta scala ha portato a un impegno ancora più diretto della CIA in Ucraina. Gli agenti della CIA sono stati gli unici americani a non essere stati coinvolti nell’evacuazione iniziale del personale del governo degli Stati Uniti dall’Ucraina, spostandosi solo nell’Ucraina occidentale. Hanno continuamente informato gli ucraini sui piani militari russi, compresi i dettagli precisi delle operazioni mentre si stavano svolgendo.

Secondo il Times:
Nel giro di poche settimane, la CIA era tornata a Kiev e l’agenzia aveva inviato decine di nuovi ufficiali per aiutare gli ucraini. Un alto funzionario degli Stati Uniti ha parlato della considerevole presenza della CIA: “Stanno premendo il grilletto? No. Stanno aiutando con il targeting? Assolutamente.”

Alcuni ufficiali della CIA sono stati dispiegati nelle basi ucraine. Hanno esaminato gli elenchi di potenziali obiettivi russi che gli ucraini si stavano preparando a colpire, confrontando le informazioni che gli ucraini avevano con l’intelligence statunitense per assicurarsi che fossero accurate.
In altre parole, la CIA stava aiutando Kiev a dirigere la guerra, rendendo il governo degli Stati Uniti un partecipante a pieno titolo, un co-belligerante in una guerra con la Russia, Paese dotato di armi nucleari, nonostante l’affermazione di Biden che gli Stati Uniti stessero aiutando l’Ucraina solo da lontano. E tutto questo senza che il popolo americano abbia la minima voce in capitolo.

Il resoconto del Times fornisce anche un atto d’accusa involontario nei confronti dei media americani. Scrive il giornale:
I dettagli di questa partnership di intelligence, molti dei quali sono stati rivelati dal New York Times per la prima volta, sono stati un segreto gelosamente custodito per un decennio.
Questa ammissione significa che questi segreti erano “gelosamente custoditi” dallo stesso Times. Come ha osservato una volta l’ex direttore Bill Keller, libertà di stampa significa libertà di non pubblicare, e “questa è una libertà che esercitiamo con una certa regolarità”. Soprattutto, potremmo aggiungere, quando si tratta dei crimini dell’imperialismo statunitense.

L’articolo del Times non è tanto un’esposizione quanto un rilascio controllato di informazioni. Il “giornale di riferimento” statunitense riferisce che i due autori dell’articolo, Adam Entous e Michael Schwirtz, hanno condotto “più di 200 interviste” con “funzionari attuali ed ex in Ucraina, altrove in Europa e negli Stati Uniti”. Questa attività difficilmente avrebbe potuto aver luogo senza la conoscenza, il permesso, persino l’incoraggiamento della CIA, nonché del regime di Zelensky e dell’intelligence ucraina.

Nel frattempo, un vero giornalista, Julian Assange, è in attesa della decisione sul suo ultimo ricorso contro l’estradizione negli Stati Uniti, dove rischia 175 anni di carcere o addirittura la condanna a morte. Il crimine di Assange e WikiLeaks, che Assange ha fondato, è quello di non aver obbedito alle regole del giornalismo borghese e di non aver chiesto il permesso alle autorità militari e di intelligence prima di pubblicare rivelazioni sui crimini di guerra degli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan, sugli sforzi del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti per sovvertire e manipolare i governi, e sulle attività di spionaggio della CIA e della National Security Agency.

L’esposizione di un decennio di operazioni della CIA in Ucraina – chiaramente su richiesta dell’agenzia stessa – sembra essere legata al conflitto in corso all’interno dell’élite dominante degli Stati Uniti su quale politica adottare in quella guerra, sulla scia della debacle subita dal regime di Zelensky nell’offensiva dello scorso anno, che ha ottenuto poco a fronte di perdite umane e materiali colossali. I repubblicani del Congresso hanno bloccato ulteriori aiuti militari e finanziari all’Ucraina, dichiarando di fatto che gli Stati Uniti devono ridurre il proprio impegno e concentrarsi sul nemico principale, la Cina.

Riportando il controllo virtuale del regime ucraino da parte dell’apparato di intelligence militare degli Stati Uniti, il Times sta cercando di fare pressione sui repubblicani affinché sostengano il finanziamento della guerra in Ucraina. Sta sostenendo che questo denaro non va a un governo straniero, in una guerra straniera, a migliaia di chilometri dai confini degli Stati Uniti, ma a un subappaltatore dell’imperialismo americano, che conduce una guerra americana in cui il personale statunitense è profondamente e direttamente impegnato.

In tal modo, il Times ha rivelato che la sua copertura della guerra in Ucraina negli ultimi due anni non è stata altro che propaganda di guerra, volta a utilizzare una narrazione fraudolenta per trascinare il pubblico americano a sostenere una guerra di aggressione imperialista predatoria volta a soggiogare e smantellare la Russia.

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A Mosca i colloqui tra Fatah, Hamas e altre 10 organizzazioni palestinesi

La Russia scende in campo con più decisione nella crisi mediorientale e la guerra a Gaza e si offre di mediare tra Hamas e Fatah, il partito del presidente dell’Anp Abu Mazen, nemici dal 2007. Da oggi fino al 2 marzo si svolgerà a Mosca un incontro con 12 formazioni palestinesi finalizzato, almeno secondo alcune parti, a dare vita a un governo di unità nazionale, in sostituzione di quello guidato da Mohammed Shttayeh che ha dato le dimissioni a inizio settimana.

Tuttavia questo esecutivo, che la popolazione palestinese invoca da anni, difficilmente vedrà la luce. Il ministro degli esteri dell’Anp, Riad al Malki, ha avvertito che «non bisogna aspettarsi miracoli». L’Anp a Mosca ci va, a quanto pare, per preparare il terreno a un governo tecnico di cui Hamas non dovrà fare parte. A precisarlo è stato proprio Al Malki. «Ora non è il momento per un governo di coalizione nazionale... Non è il momento giusto per un governo di cui Hamas faccia parte, perché in questo caso verrà boicottato da diversi paesi, come è successo prima e non vogliamo trovarci in una situazione del genere. Vogliamo essere accettati e impegnarci nella comunità internazionale».

Parole che non hanno fatto piacere al capo dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, che ieri in occasione di una conferenza ha escluso che «ciò che non è stato ottenuto con la forza (a Gaza con l’offensiva militare israeliana, ndr) possa essere realizzato con manovre politiche». Haniyeh ha chiesto finanziamenti e armi al mondo arabo, affermando la volontà del movimento islamico di continuare a combattere le truppe israeliane se non sarà raggiunto il cessate il fuoco.

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Polonia - Gli agricoltori in rivolta si appellano a Putin

Nelle manifestazioni di protesta degli agricoltori polacchi contro le politiche del governo di Varsavia e l’importazione di grano e cereali ucraini a basso prezzo, per favorire la giunta di Kiev, che hanno strangolato i contadini locali, questo cartello/invito rivolto a Putin, con accanto una bandiera dell’URSS è stato definito scandaloso e criminale dal governo, la polizia polacca ha arrestato un contadino che lo aveva appeso sul suo trattore, tra le proteste e atti di solidarietà con esso, degli altri manifestanti.

La procura lo ha denunciato sulla base dell’articolo 256.1 del codice penale, che prevede una multa o una reclusione fino a due anni per incitamento all’odio. Con l’aggravante di “aver promosso un sistema statale totalitario relativo alla falce e martello sulla bandiera dell’URSS...”.

Dopo la seconda settimana di proteste dei contadini polacchi, ora essi hanno deciso un blocco quasi totale degli attraversamenti stradali al confine con l’Ucraina, stabilendo di bloccare anche il più importante passaggio automobilistico al confine polacco-ucraino di “Korchovaya – Krakovets”.

Ma l’aspetto più inaspettato, che dà l’idea delle tensioni in corso è che se prima i polacchi passavano liberamente attraverso tutti i posti di blocco, con autobus, automobili e camion, con carichi militari e umanitari, ora sono sorti problemi anche per questa categoria di veicoli e la circolazione anche di questi è fortemente limitata. Mentre prima i mezzi polacchi attraversavano il confine in numero anche quattro all’ora, ora il movimento dei camion in entrambe le direzioni è completamente bloccato.

La tensione si è innalzata ulteriormente a causa di insulti sui social del radicale ucraino Nazar Smyk, il quale però vive a Londra e che sui social si identifica come Nazikuk. Questo volontario ucraino ha pubblicato sui social network frasi come “...fottuti abitanti dei villaggi polacchi non hanno permesso l’ingresso nel territorio dell’Ucraina a diversi camion con attrezzature militari provenienti dalla Gran Bretagna, registrati e considerati come aiuti umanitari...”. Oppure “...sti c**** di polacchi...”.

In particolare si trattava di camion militari DAF dotati di gru per lo scarico delle casse di proiettili. Nella notte del 20 febbraio il carico, dopo l’intervento dell’esercito polacco, è stato poi fatto passare manu militari al posto di confine di Medyka-Shegini, ma al mattino questa dogana è stato poi nuovamente bloccata.

Allo stesso tempo, i contadini polacchi hanno bloccato anche la ferrovia che corre vicino a Medyka-Shegini, rimuovendo traversine dei binari e rovesciando il grano dai vagoni merci lungo il percorso, con slogan tipo “...Sosteniamo i polacchi, non gli ucraini...”.

Il portavoce del Ministero degli Affari Esteri dell’Ucraina, O. Nikolenko, ha pubblicamente attaccato le proteste e i manifestanti, denunciandone la natura politica …Il blocco del confine polacco-ucraino, a prescindere dagli slogan che lo accompagnano, non ha alcuna giustificazione... Le azioni dei manifestanti polacchi e dei politici polacchi che li sostengono, minano l’economia ucraina e la resistenza nel respingere l’aggressione russa. Il confine tra Polonia e Ucraina è anche il confine dell’UE...
Riteniamo inaccettabile l’atteggiamento aggressivo dei manifestanti nei confronti degli ucraini e delle merci ucraine che attraversano il confine polacco-ucraino. Gli slogan antiucraini sentiti al confine confermano la natura politicamente fondata dell’azione. Il suo obiettivo è provocare un ulteriore inasprimento delle relazioni bilaterali...
Chiediamo alle autorità polacche di fornire una risposta giudiziaria alle azioni dei manifestanti, di garantire lo sblocco del confine e di adottare misure per ridurre la retorica antiucraina, che si basa su argomentazioni infondate...”
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Queste ultime proteste con rivendicazioni economiche e sociali, in Polonia sono solo le ultime di una sempre più evidente insofferenza e incompatibilità che ha radici storiche con i nazisti ucraini, e anche di una ostilità diffusa verso l’UE e le sue strategie.

Storiche perché nel paese esiste una vera e propria avversione e intolleranza popolare verso gli autori dei massacri di centinaia di migliaia di polacchi, avvenuti nella Seconda guerra mondiale, dai nonni banderisti dei neonazisti attuali, che padroneggiano le autorità di Kiev.

Il Codice penale polacco, sanziona il “Banderismo” in termini molto specifici: la propaganda dell’ideologia dell’OUN, lodandone le sue attività, così come le attività dell’UPA (bandite anche nella Federazione Russa), e le persone coinvolte in queste organizzazioni, devono essere punite con tre anni di carcere.

Una nota esplicativa, aggiornata lo scorso anno, afferma chiaramente che ciò è dovuto all’arrivo di diversi milioni di cittadini ucraini, che provengono da un paese, l’Ucraina neonazista di oggi, dove le formazioni coinvolte nell’assassinio di centinaia di migliaia di polacchi sono onorate a livello statale.

L’ira radicata a livello popolare è molto profonda, e anche la consapevolezza che in questa Ucraina sono stati eretti 44 monumenti al criminale di guerra Stepan Bandera. Lo stesso Bandera è cittadino onorario di 26 città ucraine. Il 7 luglio 2016, il consiglio comunale di Kiev aveva votato (87 voti contro 10) per rinominare Moskovsky Prospekt in Stepan Bandera Prospekt .

Lo stadio cittadino di Ternopil prende il nome dal comandante del criminale esercito insorto ucraino, il nazista e genocida Roman Shukhevych, personalmente responsabile del massacro di Volyn, dove nel solo 1943 furono massacrati oltre 100.000 polacchi in Galizia e Volinia.

Tutti in Polonia sanno che in Ucraina si tengono regolarmente marce in onore di Stepan Bandera e dell’esercito ribelle ucraino UPA, che raccolgono migliaia di partecipanti.

Uno studio che ha analizzato questa questione nella società polacca, in particolare relativamente agli ultimi due anni, ha concluso che l’arrivo di immigrati ucraini da questo ambiente politico e sociale, rende la situazione in Polonia “tossica” e foriera di conflittualità difficili da gestire.

In Polonia si sono registrati nel 2023 anche numerosi casi di esposizione di bandiere rosso-nere e l’esecuzione pubblica dell’inno ufficiale dell’UPA “Chervona Kalina“, lodando la divisione SS “Galizia” e ricordando in modo positivo ogni sorta di “eroi” ucraini occidentali.

Da tempo il malcontento contro tutto ciò, si manifesta regolarmente in una varietà di forme informali, nella società polacca. Ad esempio, a Poznan, i tifosi della squadra di calcio locale il Lech, esasperati per il comportamento banderista di alcuni giovani ucraini, li hanno richiamati a comportamenti consoni al rispetto del paese e della sua storia, poi hanno annunciato pubblicamente l’inizio del pattugliamento delle strade, ammonendoli poi, che in quanto ospiti devono comportarsi in conformità con le leggi polacche, se vogliono continuare una vita sicura nel paese.

Altri gruppi di tifosi usano regolarmente le partite di calcio per ricordare a tutti i massacri della Volinia.

Sono sempre più numerose le manifestazioni, i convegni, le formazioni di movimenti dal basso che contestano le posizioni belligeranti del governo, il ruolo di “cuscinetto americano” nell’area e la prospettiva di diventare una prima linea. Il Polski Ruch Antywojenny ( Movimento Polacco contro la guerra) sta aumentando le sue attività di piazza, con slogan forti come “stop all’americanizzazione”, “stop all’ucrainizzazione”, “la guerra in Ucraina non è nostra”.

A. Lukawski, un noto esponente dei movimenti di piazza ha dichiarato: “...immaginate delegassimo tutte le nostre decisioni ai tedeschi, odiati da tutti i polacchi. Immaginate, che essi si riferissero a Hitler, indicandolo come un buon nonno, gli erigessero monumenti, venissero da noi con bandiere naziste e glorificassero gli eroi del Reich. Pensate che il popolo polacco glielo permetterebbe? E perché permettere tutto ciò, a questi ucraini?”.

Che accadesse o no tutto questo, va rilevato che, nella attuale Polonia, non c’è una classe politica che possa rappresentare in profondità le istanze degli strati popolari e della società polacca, se non con forze nazionaliste, che però, hanno limiti di programmi e strategie futuribili, per cui accade che non c’è ancora nessuno per cui votare, dichiarano nelle piazze gli esponenti di movimenti dal basso.

Il ceto politico predominante è quello rappresentato dal liberalismo paneuropeista di Donald Tusk, appena eletto alle ultime elezioni, che non scenderà mai su un terreno politico anti ucronazista e anti guerra, essendo completamente interno al quadro atlantista. Così come il panorama delle forze di “sinistra” istituzionali, che sono anch’esse interne a letture paneuropeiste e atlantiste.

I movimenti dal basso sono ancora troppo deboli e fragili, ma si stanno piano piano affacciando sulla scena politica e soprattutto nelle piazze, rendendo visibile una piccola alternativa all’attuale sistema.

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Tra le elezioni sarde e i manganelli, è iniziata la parabola discendente della destra

Gli indecenti pestaggi di studenti adolescenti che si sono svolti negli ultimi tempi in varie piazze italiane non sono affatto casuali. Chiunque conosce un minimo gli ingranaggi dello Stato, e specie di quella sua parte addetta a difendere il cosiddetto "ordine pubblico", sa infatti perfettamente come le condotte degli agenti rispondano a precisi input di carattere politico di cui sono responsabili, oltre ai questori e prefetti interessati, il ministro degli Interni e il presidente del Consiglio dei ministri.

Quali dunque le cause politiche di questi indegni comportamenti che, come rilevato in certa misura dallo stesso presidente della Repubblica Sergio Mattarella, indicano un chiaro fallimento della politica e, come denunciato da Magistratura democratica, si pongono in flagrante violazione della Costituzione repubblicana e segnatamente del suo art. 17 relativo al diritto di riunione?

A mio parere le cause sono varie. Innanzitutto pare evidente, e risulta confermato dall’andamento delle recenti elezioni sarde, che è iniziata la parabola discendente della destra. La luna di miele tra Giorgia Meloni e il popolo italiano potrebbe essere destinata a rapida e sgradevole (per lei, il suo partito e tutta la destra) conclusione. Si tratta del resto di un esito inevitabile.

Per quanto pazienti e abbastanza autolesionisti, gli italiani e le italiane si stanno accorgendo sulla propria pelle del carattere fallimentare di politiche attente solo al profitto di pochi industriali e finanzieri in media scarsamente capaci, oltre che degli interessi personali di lorsignori (solo Sgarbi si è dimesso finora, ma la lista di corrotti e profittatori è molto lunga) e che alimentano povertà, disoccupazione e smantellamento dei servizi pubblici fondamentali.

Meloni, che è animale politico esperto e accorto, mette quindi le mani al manganello, sia in senso metaforico (si vedano le varie controriforme autoritarie relative a premierato, autonomia differenziata, evirazione della magistratura, limitazione dei diritti di manifestazione e altro ancora) che in senso letterale, spingendo le sue truppe a picchiare anche quando non ce ne sarebbe bisogno.

La stretta autoritaria è del resto necessaria per continuare un progetto politico che non è solo di Meloni e del suo fragile partito, affollato da personaggi di sconfortante mediocrità e ideologia chiaramente imbevuta di nostalgie del fascismo. Si tratta dello stesso progetto, mutatis mutandis, portato avanti da Draghi e altri in precedenza, basato sullo snaturamento del dettato costituzionale per dare piena soddisfazione alla svolta autoritaria e guerrafondaia dell’Occidente che si trova in crisi rovinosa e irrecuperabile.

L’obiettivo irrinunciabile di lorsignori è dare comunque piena soddisfazione ai bisogni delle lobby dominanti (soprattutto finanza, armamenti, energia, medicinali), anche se questo significa guerra, mutamento climatico e altri disastri ambientali, fine dello Stato sociale, chiusura degli spazi pubblici e miseria crescente per settori crescenti della popolazione.

Non è certamente casuale che i pestaggi si siano verificati in occasione di manifestazioni di solidarietà colla Palestina, oggi colpita dal primo genocidio in diretta televisiva della storia.

L’appoggio del governo Meloni a questo genocidio, che mi propongo insieme ad altri avvocati di dimostrare in sede giudiziaria con un ricorso che sarà presentato quanto prima, costituisce la punta più indifendibile e oscena della sua strategia di aperto sostegno alle scelte, criminali quanto fallimentari, degli Stati Uniti che continuano a sponsorizzare un personaggio impresentabile come Netanyahu, che ha le mani lorde del sangue di oltre 30mila Palestinesi, in gran parte bambini, e che manganella allegramente anche gli israeliani che si oppongono (ancora troppo pochi) al suo regime antidemocratico.

In questi giorni del resto Giorgia Meloni ha dato prova ulteriore di sudditanza estrema nei confronti di Biden, che continuerà ancora ad occupare per pochi mesi la Casa Bianca, stipulando un patto decennale con Zelensky che ben prima della scadenza di tale patto dovrà con ogni probabilità abbandonare il governo dell’Ucraina, a meno di convincere l’Occidente, come prova a fare del resto da tempo, a scatenare la guerra nucleare contro la Russia, che sta vincendo in modo chiaro quella convenzionale.

È peraltro altresì evidente che solo una sinistra depurata definitivamente da guerra e neoliberismo potrà costituire un’alternativa a questa destra oscena, violenta e autoritaria. Ma per eliminare questi flagelli occorre dire no alla Nato e no al capitalismo, dandosi un orizzonte strategico indispensabile per ricostruire quell’unità programmatica che costituisce la base dell’alternativa necessaria e possibile, che fra l’altro costituisce l’unico rimedio efficace all’attuale frammentazione che affligge quanto rimane della sinistra.

Su questo però siamo ancora molto indietro ed è a ben vedere questa, insieme ai e forse ancora più dei manganelli, l’unica speranza della signora Meloni.

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Effetto Sora. Come adattarsi all’ondata di contenuti sintetici sempre più realistici

Sam Gregory, direttore dell’ong WITNESS che da anni usa video per documentare violazioni dei diritti umani nel mondo, ha fatto un’analisi a caldo di come una tecnologia come Sora possa avere un impatto sulla fiducia in ciò che vediamo. Si tratta del nuovo modello text-to-video di OpenAI, in grado di produrre video sintetici di grande realismo da istruzioni testuali. Anche se non ancora aperto al pubblico, OpenAI ha diffuso vari esempi di video così prodotti (li vedete qua).

Fino ad oggi, spiega Gregory in vari post sui social media, i punti di vista multipli sono stati un buon punto di partenza per valutare se un evento è realmente accaduto così come il contesto in cui è avvenuto. Inoltre, in quasi tutti gli episodi di violenza da parte dello Stato o della polizia viene contestato cosa è successo prima/dopo l’accensione di una telecamera che magari riprende un’azione o presunta reazione.

Oppure, una ripresa traballante, fatta da qualcuno con una videocamera a mano, è un “potente indicatore di credibilità emotiva”, di autenticità.

Ma ora ci troviamo di fronte a video sintetici realistici che possono adottare diversi stili, anche quello amatoriale. O ad angoli di ripresa multipli, la possibilità di creare contemporaneamente più punti di vista e angolazioni della telecamera sulla stessa scena. E la possibilità di “aggiungere video (essenzialmente out-paint per i video) avanti e indietro nel tempo da un fotogramma esistente”. [L’outpainting è una funzione, presente in generatori di immagine come DALL-E, che consente di estendere un’immagine oltre i suoi confini originali].

“L’abilità più interessante di Sora – commenta anche il ricercatore Erik Salvaggio – guardando alle specifiche tecniche, è che può rappresentare scenari multipli che si *concludono* con una data immagine. Credo che questo sarà oggetto di discussione in alcune conferenze sulla disinformazione” (…) Supponiamo di avere un video sui social che inizia dal momento in cui la polizia inizia a usare la forza in modo ingiustificato contro una persona in strada”.

Le specifiche tecniche dicono “che si possono creare senza soluzione di continuità fino a 46 secondi di video sintetico che termina nel punto in cui inizia il video della violenza. Ciò che accade in quei 46 secondi è guidato dal tuo prompt, che si tratti di un adolescente che lancia una bomba a mano contro un poliziotto sorridente o di un uomo gentile che offre fiori alla polizia arrabbiata”.

In un certo senso, commenta ancora Gregory, “i video realistici di eventi fittizi si avvicinano alle attuali modalità di condivisione di video e immagini shallowfake (ad esempio, video mal contestualizzati o leggermente modificati trasposti da una data o da un’ora a un altro luogo), in cui i dettagli esatti non contano, purché siano sufficientemente convincenti rispetto alle ipotesi”.

Uno shallowfake, come ho raccontato più volte, è un video reale che è stato manipolato con semplici strumenti di editing a fini di propaganda. Si chiama così in contrapposizione a deepfake perché non usa l’intelligenza artificiale.

Ma torniamo a Gregory. Il problema, dice, è che nei video realistici di eventi che non sono mai accaduti (come quelli prodotti da Sora e non riadattati o decontestualizzati da video reali), “mancherebbe la possibilità di cercare il riferimento – cioè quello che facciamo ora con la ricerca shallowfake, quando usiamo la ricerca inversa di un’immagine per trovare l’originale, o la funzione About this Image di Google”.

“Con l’espansione del text-to-video e del video-to-video – conclude Gregory – dobbiamo capire come rafforzare la fiducia e garantire la trasparenza dei media, approfondire le capacità di rilevamento, restringere gli usi inaccettabili e pretendere la responsabilizzazione di tutta la filiera dell’IA”.

Vorrei allacciarmi a queste considerazioni per aggiungere alcune riflessioni. Forse dovremmo rovesciare il paradigma, e invece di preoccuparci solo di quello che, nel mondo informativo, potrebbe essere sintetico/ falso/ decontestualizzato, pensando a come individuarlo e dimostrarlo (etichettarlo prima, sbugiardarlo poi), concentrarci semmai su ciò che è o vorrebbe essere autentico/ verificato/ contestualizzato.

Perché, ammesso e non concesso che riusciremo, in un modo o in un altro, a bollare e bollinare come IA gran parte dei contenuti sintetici che circoleranno (ma al momento sono quasi tutti concordi nel dire che almeno una parte sfuggirà a questa capacità di individuazione, vedi il dibattito tecnico sui watermark di cui ho scritto qua), il crollo di fiducia nell’informazione rischia di risucchiare tutto il resto, come l’acqua di un lavandino stappato, inclusi i video, le foto, gli audio, le dichiarazioni, le notizie, le informazioni autentiche.

Allora, se c’è questo rischio, bisogna investire nel verificare e contestualizzare tutto quello che viene immesso in circolo dai media o da chiunque voglia fare informazione. Ricostruire e mettere a disposizione tutta la filiera non solo dell’IA, ma dei contenuti autentici. Permettere a tutti di risalire la corrente del flusso informativo a ritroso. I lettori come salmoni, esatto.

Ogni artefatto informativo per quanto minuscolo non dovrebbe essere una monade slegata dal resto, ma dovrebbe avere una serie di connessioni che permettano di capire da dove arriva, che percorso ha fatto, assieme a chi o cosa altro stava, come è mutato, come è stato tagliato o modificato. E i lettori a quel punto dovrebbero abituarsi al fatto che se vedono 4 foto buttate così, de botto, senza senso, in un post social così come su una pagina cartacea di un giornale, senza tutto quel contorno di informazioni che possono consentire o meno di andare a testare e verificare, ecco allora non vale nemmeno la pena di fermarsi a guardarle.

Certo, tutto ciò implica, da un lato, uno sforzo aggiuntivo da parte di chi fa informazione; dall’altro, di abituarsi a essere molto più trasparenti sulle modalità con cui si lavora, e questo è qualcosa che suscita sempre molta resistenza. Ma credo che alla fine sarebbe un vantaggio per tutti.

Così, my 2 cents, come si dice sull’internet.

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I servizi segreti italiani “preoccupati” dalle mobilitazioni contro la guerra e per la Palestina

È stata presentata al Parlamento la Relazione annuale dei servizi di sicurezza sulle minacce al Paese. Come al solito la relazione è molto ricca di informazioni – e preoccupazioni – sugli scenari internazionali caratterizzati ormai da ben due guerre in corso (Ucraina e Medio Oriente) ma anche dall’esposizione politica e militare all’estero dell’Italia.

Vale pena di concentrarsi sul capitolo dedicato alle “minacce interne” sul fronte politico. Come al solito tanto spazio agli anarchici e ai gruppi della sinistra e poca roba – e assai generica – sui fascisti. Inutile soprendersi, è così da sempre.

Più avanti ci occupiamo invece di quella che i servizi segreti ritengono la “minaccia ibrida” rappresentata da quelle che vengono ritenute le ingerenze della Russia e della Cina sul nostro Paese.

*****

La principale preoccupazione e attenzione dei servizi di intelligence sul “fronte interno” è dedicata – come ogni anno da ormai tanti anni – agli anarchici e in particolari a quelli che vengono definiti “anarco-insurrezionalisti”. Particolarmente attenzionate sono state le mobilitazioni che chiedevano la fine del 41bis in occasione del lungo sciopero della fame del prigioniero politico anarchico Alfredo Cospito.
“L’Intelligence, in stretta sinergia informativa con le Forze di polizia, ha continuato a porre particolare attenzione all’attivismo anarco-insurrezionalista che, anche nel 2023, ha rappresentato, nello scenario eversivo interno, il più concreto e insidioso vettore di minaccia. Secondo quanto emerso, la metodologia operativa si è dispiegata su un piano sia “pubblico” che “clandestino”, con un ampio ventaglio d’interventi, da cortei e presidi, in alcuni casi pure al fianco di altre realtà antagoniste per innalzarne il livello di radicalità, agli atti di vandalismo e danneggiamenti, fino ad azioni, potenzialmente più pericolose, poste in essere con manufatti incendiari ed esplosivi”.
Prese di mira le mobilitazioni contro il 41 bis e in solidarietà con lo sciopero della fame di Alfredo Cospito:
“La mobilitazione a sostegno del leader detenuto al regime carcerario del 41bis della Federazione Anarchica Informale/ Fronte Rivoluzionario Internazionale (FAI/FRI), Alfredo Cospito, ha continuato a costituire il principale volano della lotta libertaria, che ha scandito le tappe del procedimento giudiziario e dello sciopero della fame di Cospito, interrotto ad aprile”.
Venendo invece ai gruppi e organizzazioni comuniste, la relazione annuale dei servizi di sicurezza insiste molto nella segnalazione delle mobilitazioni internazionaliste per la Palestina e contro la guerra in Ucraina.
“La classica visione “internazionalista delle lotte” ha contraddistinto in maniera significativa l’attivismo dei ristretti ambienti dell’oltranzismo marxista-leninista che, trainati dagli eventi bellici in Ucraina e, soprattutto, dal riaccendersi della crisi in Medio Oriente, si sono prodigati, pure in collaborazione con omologhi circuiti stranieri, in iniziative propagandistiche e mobilitative dal respiro anti-militarista, anti-imperialista e di decisa opposizione alla NATO. È in questo ambito che lo storico sostegno alla “resistenza palestinese” ha lasciato spazio anche a interpretazioni di maggiore radicalità e intransigenza che si sono spinte a giustificare l’attacco armato di Hamas contro il “colonialismo sionista”.
Lavoratori che lottano e giovani che si informano preoccupano molto gli apparati di sicurezza italiani:
“Si è confermata la strumentale attenzione nei confronti del mondo del lavoro, con riferimento tanto a controversie salariali e occupazionali d’importanti realtà produttive nazionali, quanto ai variegati settori del precariato lavorativo, spesso a prevalente composizione immigrata, ritenuti, dalla propaganda d’area, i nuovi terreni dello “scontro di classe”.
In un altro passaggio la relazione annuale dei servizi di sicurezza sottolinea che:

“Non sono mancate, inoltre, attività di proselitismo tra i circuiti più giovanili della militanza antagonista con l’intento di plasmare, in una prospettiva di lungo periodo, nuove “coscienze rivoluzionarie”, concretizzatesi, tuttavia, unicamente in opere di studio e di approfondimento della dottrina di riferimento e di vicende legate ai passati “anni di piombo”.

Le convergenze unitarie contro la guerra e nella solidarietà con il popolo palestinese preoccupano i servizi di sicurezza. Probabilmente non solo quelli italiani ma anche quelli israeliani, ucraini e dei paesi Nato:
“I diversi scenari di crisi internazionali hanno influenzato anche l’eterogeneo movimento antagonista che, partendo dal tema della guerra, ha riproposto strategie di convergenza di temi e istanze, in un rinnovato tentativo di ampliamento e di compattezza del fronte del dissenso. Gli attivisti hanno dunque cercato di serrare i ranghi facendo perno, sia a livello propagandistico che di “piazza”, soprattutto sull’antimilitarismo che, oltre a ribadire la sua consolidata valenza aggregativa e trasversale, ha trovato nuovo slancio con gli eventi mediorientali. Oltre a cortei e presidi, si è infatti assistito a iniziative di propaganda e controinformazione in chiave “antisionista”, nel più ampio quadro della campagna denominata “Boicotta, Disinvesti, Sanziona” (BDS), volta a orientare l’opinione pubblica verso forme di pressione contro Israele. Il dibattito strumentale sulle diversificate ricadute dei “conflitti imperialisti” e dell’“economia di guerra” su vari dossier sociali, come il carovita, l’immigrazione, l’emergenza abitativa e occupazionale, ha poi costituito il filo conduttore dell’agenda contestativa antagonista”.
Dalla Val di Susa alla Sicilia anche le lotte ambientaliste vissute con preoccupazione:
“Altre tematiche di ampia risonanza e di particolare sensibilità per l’area, come l’antifascismo e l’ambientalismo militante, hanno offerto l’opportunità di rinsaldare contatti e sinergie internazionali. Proprio la visione oltranzista della questione ecologica ha seguitato a qualificarsi come il versante più avanzato della protesta, con iniziative particolarmente veementi o di alto impatto mediatico. Nel senso, la campagna No TAV ha continuato a rappresentare il riferimento più insidioso, con i suoi ciclici picchi mobilitativi, contraddistinti nuovamente da scontri con le Forze dell’ordine, assalti ai cantieri, lanci di sassi e bombe carta.

Nel medesimo filone ambientalista si sono inseriti pure i rilevati segnali d’interesse antagonista verso i propositi di realizzare rigassificatori e nuove infrastrutture, come il ponte sullo stretto di Messina, che ha già fatto registrare fermenti nei circuiti dell’antagonismo locale”.
Le minacce “ibride” rappresentate da Russia e Cina

Un altro capitolo interessante e destinato a produrre effetti preoccupanti – anche in base ai diktat del presidente ucraino Zelenski – è quello dedicate alla “minaccia ibrida” individuata soprattutto nelle attività in Italia di Russia e Cina.
“Anche nel 2023 la Federazione Russa e la Repubblica Popolare Cinese si sono confermate tra i principali attori della minaccia ibrida, in grado di condurre campagne in danno dei Paesi occidentali sfruttando alcune delle caratteristiche sistemiche che connotano le nostre società, quali l’apertura dei mercati e le garanzie di libertà e indipendenza dei media”
è scritto nella relazione.

Entrando nel merito la relazione dei servizi segreti italiani sulla “minaccia ibrida della Russia” sottolinea, a loro avviso ovviamente, che:
“Nel 2023 gli apparati di informazione legati al Cremlino hanno continuato a operare all’interno del dominio dell’informazione per minare la coesione europea e la fiducia dei cittadini nelle Istituzioni sia nazionali che dell’Unione Europea e dell’Alleanza Atlantica. Dopo il blocco imposto dall’UE alle attività verso gli Stati membri dei media russi, come RT e Sputnik, e l’adozione di politiche più stringenti a contrasto della disinformazione e della propaganda di Mosca, quest’ultima ha potuto contare sull’appoggio di network mediatici di Paesi terzi per promuovere le proprie narrative ampliando, allo stesso tempo, la propria capacità di coordinamento a livello internazionale.

Le narrazioni diffuse dalle campagne disinformative russe hanno riguardato, anche nel 2023, la colpevolizzazione della NATO e dei Paesi occidentali per la guerra in Ucraina, alla quale si aggiunge, come elemento di novità, quella per la guerra tra Israele e Hamas. Su tale versante, a partire dal 7 ottobre 2023, la posizione ufficiale russa è stata caratterizzata da una forte ambiguità rispetto alla sua formale iniziale equidistanza tra le parti, cercando di attribuire la colpa dell’escalation all’Occidente, con un progressivo posizionamento a favore della posizione di Hamas.

Mosca ha subito sfruttato la situazione per evidenziare le divisioni politiche statunitensi sui finanziamenti all’Ucraina e interpretare a proprio favore le differenti posture dei partner occidentali dell’Ucraina, sostenendo che questi avrebbero abbandonato il supporto – sia politico che in termini di aiuti economici e militari – a Kiev per indirizzarlo verso Israele”.
Relativamente alla Cina, la relazione annuale dei servizi scrive che:
“Per quanto riguarda la Repubblica Popolare Cinese, grazie anche a un ventaglio di leggi nazionali che lo permettono (come ad esempio la recente legge sul controspionaggio), i principali vettori della minaccia ibrida impiegati fanno affidamento anche su alcuni elementi della diaspora cinese nell’Unione Europea. Questi ultimi vengono infatti utilizzati per: raccogliere informazioni di pregio; mettere in atto azioni di pressione economica; penetrare e interferire all’interno del mondo accademico e della ricerca; condurre operazioni cibernetiche ostili con maggiore efficacia; manipolare l’informazione per finalità di propaganda e per orientare, in modo favorevole alla Cina, l’opinione pubblica europea”.
Ancora sulla Cina, i servizi segreti italiani individuano come minaccia ibrida anche la postura diplomatica assunta da Pechino sui vari teatri di crisi e di guerra.
“Sul versante cyber, nel corso del 2023 la Cina si è confermata come uno degli attori principali della minaccia, caratterizzato da elevata sofisticazione e da un alto livello di maturità operativa. Per quanto riguarda il dominio dell’informazione, Pechino è in grado di condurre operazioni informative tese a influenzare la percezione dell’opinione pubblica all’estero in modo favorevole agli interessi della Repubblica Popolare Cinese, accreditandosi come partner affidabile e di rilievo e ricorrendo anche a noti influencer per promuovere un’immagine positiva del Paese”.
L’approccio “pacifico” della Cina preoccupa invece che avvicinare:
Durante il 2023, la postura cinese sul conflitto russo-ucraino si è attestata su un appoggio tiepido e moderato a Mosca, condividendo alcune narrative diffuse sui social, quali la responsabilità di Washington tra le motivazioni della lunga durata del conflitto e la presenza di laboratori biologici sperimentali statunitensi in Ucraina. Per quanto riguarda il conflitto tra Israele e Hamas, la Cina, analogamente a quanto fatto per il conflitto russo-ucraino, ha adottato il suo consueto approccio “pacifico” anche per porsi in strategica contrapposizione con quello “militare” degli Stati Uniti... promuovendo Pechino come un possibile mediatore tra le parti e, al contempo, attribuendo a Washington la responsabilità del conflitto in Israele”.
Fonte

28/02/2024

Voglia di vincere (1985) di Rod Daniel - Minirece

Le liste di proscrizione di Zelenskij si allargano a tutta Europa

Che ai bordi di una guerra si finisca per venirne risucchiati, è così ovvio che non serve neanche spiegarlo ancora. Ma è molto peggio quando una classe politica fatta di servi che si credono furbi si mette a brigare per ricavarne qualche sbrigativo vantaggio personale. Se poi il sistema dell’informazione si trasforma in megafono della propaganda bellica, la frittata è pronta.

Ci sono tutti questi ingredienti, e molti altri, nella triangolazione Zelenskij-Meloni-Corriere della Sera che sembra avere come scopo dichiarato quello di “silenziare i filo-putiniani in Italia”. Viene voglia di non fare la solita premessa – “Putin, scelto da Eltsin, è stato uno dei distruttori di quel poco o tanto di socialismo che c’era nell’Urss prima del crollo, dunque...” – ma purtroppo resta sempre necessaria.

Partiamo da un caso quasi unico di “giornalismo da trincea”, quello di Lorenzo Cremonesi del Corriere della Sera, che ha colto l’occasione di fare una domanda a Zelenskyj per lamentarsi del fatto che in Italia ci sono “troppe persone pro-Putin” e un gruppo di media italiani pagato dalla Russia.

Al Corriere considerano rilevanti solo i media simili a sé, dunque probabilmente stava parlando de IlFattoQuotidiano, che non solo ospita gente come Alessandro Orsini, ma quasi ogni giorno sbertuccia i “guerrieri di redazione” che cercano di spingere il paese al fronte (tanto poi ci andrà qualcun altro).

Ma quel che è accaduto subito dopo riguarda ovviamente tutta l’opposizione sociale e politica alla guerra e all’invio di armi a Kiev.

Zelenskij, infatti, è stato ben felice di sfruttare l’assist per suggerire la “soluzione finale” di questo problema che tanto assilla lui, la Nato, Cremonesi e il Corriere.

«La premier Giorgia Meloni senza dubbio sostiene l’Ucraina, l’ho appena incontrata in veste di presidente del G7 e abbiamo anche firmato l’accordo di cooperazione bilaterale. Le siamo immensamente grati. Sappiamo però che in Italia ci sono tanti filo-putiniani e in Europa anche. Stiamo preparando una loro lista, non solo riguardo all’Italia, da presentare alla Commissione europea.

Riuscirete a zittirli? Riuscirete a fare capire alle vostre opinioni pubbliche che la Russia non è solo una minaccia per l’Ucraina, ma per tutti voi? Le società europee sono pronte a questa sfida? Vedo che non lo siete ancora, voi italiani i tedeschi e gli altri»
.

La “sfida” è insomma quella di “zittire” qualsiasi opposizione alla guerra – come per Netanyahu sono “filo-Hamas” tutte le posizioni critiche della sua follia criminale – in barba alla pretesa “difesa dei valori democratici” che accomunerebbe la sua Ucraina e tutto l’Occidente neoliberista.

Va ricordato, en passant, che a Kiev sono stati posti fuorilegge ben dodici partiti, molto diversi tra loro (dagli islamici ai comunisti).

In concreto Zelensky suggerisce la chiusura dei “media ribelli”, il congelamento dei conti bancari di redattori e giornalisti schedati come “PPE” – persona politicamente esposta – e nei casi più gravi il processo per alto tradimento.

Non male per un “sincero democratico”, no? Praticamente andremmo tutti a far compagnia a Julian Assange...

Il problema vero è che nel corso dell’incontro tra questo triste attore comico prestato alla tragedia e Giorgia Meloni è stato siglato un “accordo” di cui non si conosce il contenuto.

Come per ogni “segreto”, sia pur temporaneo, è legittimo sospettare di tutto. Specie in tempi di guerra e specie quando da entrambi i contraenti il rispetto per la “democrazia” è più un paravento verbale che non un sistema di valori.

Il titolo del Corriere peraltro non lascia spazio ai dubbi: “Da voi molti fan di Putin, stiamo preparando una lista”.

Poi Meloni cosa farà? La passa a Piantedosi perché cominci ad operare nel senso indicato da un – purtroppo – capo di stato straniero? È questa la “difesa della nazione” che i presunti “sovranisti de noantri” sanno mettere in campo?

Oppure chiuderà un occhio sui movimenti dei killer dello Sbu (il servizio segreto ucraino, autore di attentati ed omicidi mirati, fin qui soprattutto nel Donbass e in Russia) che prenderanno di mira giornalisti italiani ed europei sgraditi, nonché semplici cittadini “critici” di questo paese?

Vi sembrano domande eccessivamente enfatiche? Giusto un po’. Quel che serve a far capire dove sta portando un andazzo bellicista che con “la democrazia” c’entra una cippa...

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Immagini di classe. Produzione artistica, operaismo, autonomia e femminismo

di Gioacchino Toni

Jacopo Galimberti, Immagini di classe. Operaismo, Autonomia e produzione artistica, DeriveApprodi, Bologna 2023, pp. 416, € 28,00

In oltre quattrocento pagine corredate di numerose illustrazioni, il volume Immagini di classe di Jacopo Galimberti approfondisce la produzione di alcune generazioni di artisti, architetti, designer e storici/teorici dell’arte e dell’architettura legati, più o meno direttamente, all’operaismo e all’area dell’autonomia, indagando dunque i legami tra arti visive, idee politiche e produzione di sapere.

Dopo essersi occupato in apertura di volume della grafica delle riviste “Quaderni rossi” e “classe operaia” e dell’iconografia proletaria proposta da quest’ultima attraverso disegni e vignette, Galimberti passa in rassegna la produzione del Gruppo N, collettivo artistico che, riprendendo il primo operaismo, intese ripensare il rapporto tra tecnologia, arte e lavoro, per poi dedicare un capitolo all’influenza esercitata dall’operaismo sull’architettura facendo riferimento in particolare al collettivo fiorentino Archizoom nato a metà degli anni Sessanta.

Nel volume trova spazio la ricostruzione del dibattito che attraversa “Angelus Novus” e “Contropiano” circa le avanguardie storiche, il ruolo degli intellettuali e dell’architettura moderna, vengono riprese le riflessioni a proposito del rapporto tra architettura, urbanistica e politica prodotte da Manfredo Tafuri insieme al suo gruppo di ricerca nel corso degli anni Settanta ed esaminato, a partire dalla figura di Danilo Montaldi, il rapporto tra la pratica della “conricerca” e l’universo culturale e artistico.

Ad essere passate in rassegna da Galimberti sono, inoltre, alcune produzioni realizzate con media diversi appositamente per Potere operaio e i materiali a sostegno della Campagna per il salario al lavoro domestico prodotti dal Gruppo Femminista Immagine di Varese, nato attorno alla metà degli anni Settanta.

L’ultima parte del volume è dedicata alla grafica delle riviste e delle fanzine dell’area autonoma, in particolare alla ripresa delle avanguardie storiche nelle strategie comunicative del movimento del ’77, per poi concludersi con l’analisi di alcune opere realizzate durante e dopo gli arresti del 1979 da parte di artisti legati all’operaismo e all’autonomia.

Immagini di classe intende dunque ricostruire un legame, quello tra esperienze politiche radicali e riflessione/produzione artistica, scarsamente approfondito: le ricostruzioni di quell’assalto al cielo portato dalla stagione dei movimenti, che pure non sono mancate, hanno spesso affrontato i due ambiti in maniera disgiunta.

Di particolare interesse è il capitolo dedicato alla produzione del Gruppo Femminista Immagine di Varese, fondato nel 1974 da Milli Gandini, Mariuccia Secol e Mirella Tognola, a sostegno dell’International Wages for Housework Campaign portata avanti da femministe materialiste, alcune delle quali passate dall’esperienza di Potere operaio, come Mariarosa Dalla Costa.

Galimberti analizza in apertura di capitolo il manifesto del Convegno nazionale tenutosi a Roma il 29 aprile 1978 volto a lanciare la Campagna per il salario al lavoro domestico realizzato dalle componenti del Gruppo Immagine che, riprendendo una delle questioni centrali del network internazionale femminista – ben sintetizzata dalla frase «Col capitalismo cominciò lo sfruttamento più intenso della donna come donna e la possibilità alla fine della sua liberazione» di Mariarosa Dalla Costa e Selma James (Potere femminile e sovversione sociale, 1972) – recitava: «Soldi a tutte le donne», a suggerire da un lato «fino a che punto l’identità sociale delle donne fosse irretita nell’economia di mercato» mentre allo stesso tempo il manifesto graficamente ribadiva «la necessità di sviluppare un’azione politica di massa che saldasse chi riceveva un salario e le casalinghe, il cui lavoro era invece [...] “demercificato”» (p. 246).

Betty Friedan (The Feminine Mystique, 1963) – ripresa successivamente da Leopoldina Fortunati (L’arcano della riproduzione. Casalinghe, prostitute, operai e capitale, 1981), altra ex militante di Potere operaio – aveva evidenziato come l’ideologia della “mistica femminile” avesse contribuito a privare il lavoro domestico della sua dimensione economica legittimando così l’assenza di una sua retribuzione. Il manifesto prodotto dal gruppo intendeva dare immagine a questa oscillazione tra economia e natura in un contesto come quello italiano che negli anni Sessanta e Settanta, non di rado persino all’interno di formazioni politiche radicali, tendeva a considerare il lavoro riproduttivo alla stregua di una “vocazione femminile per natura” ricompensata con “l’affetto e l’amore”.

La forma sinuosa del corteo [proposta dal manifesto del Gruppo Immagine] rimandava infatti a un motivo classico che simboleggiava la prosperità: la cornucopia, un corno, spesso associato a una figura muliebre, da cui traboccano monete o alimenti che sono il frutto “del lavoro della natura”, per così dire. Questa scelta iconografica faceva sì che il poster del gruppo riuscisse a tradurre in termini visivi quello che Fortunati aveva definito come la doppia natura del lavoro domestico e del lavoro di cura: per l’ideologia capitalista, essi erano una “naturale” fonte di ricchezza e benessere, ma dal punto di vista delle “operaie della casa”, la forza-lavoro necessaria per svolgere queste mansioni era una merce e doveva essere retribuita come tale (247).

Con una mostra personale tenuta a Roma nel 1975 dal titolo La mamma è uscita, Milli Gandini, una delle fondatrici del Gruppo Immagine, intese rispondere all’invito ad “uscire di casa” rivolto alle donne da Dalla Costa e James. Mossa dalla volontà di presentare momenti di «creatività del rifiuto del lavoro domestico», attraverso arazzi realizzati con una trama molto larga e scarsamente ricamati, Gandini intendeva palesare il rifiuto di quanto questi avevano storicamente rappresentato per le donne, ossia «tanto lavoro manuale da eseguire ripetitivamente con punti piccolissimi» («Le operaie della casa», novembre 1975 – febbraio 1976). La tecnica del punto croce veniva dunque sovvertita e trasformata in qualcosa di volutamente grossolano intendendo così rifiutare l’abnegazione ad un lavoro ripetitivo, alienante e non retribuito. Nella stessa mostra l’artista aveva voluto esporre anche utensili domestici, trasformati dal processo di ricontestualizzazione artistico in esempi di “rifiuto del lavoro” femminile.

Attraverso le sue realizzazioni Gandini ambiva inoltre a contribuire a quell’opera di controinformazione femminista portata avanti a metà degli anni Settanta dalle militanti della Campagna per il salario al lavoro domestico anche attraverso nuove forme di controinformazione visiva.

Galimberti ricostruisce inoltre le modalità con cui politica ed estetica si sono intersecate all’interno del gruppo femminista promotore della Campagna per il salario al lavoro domestico, focalizzandosi soprattutto sul discorso estetico sviluppato da militanti italiane come Laura Morato e Silvia Federici. Di quest’ultima, trasferitasi negli Stati Uniti nel 1967, lo studioso analizza le illustrazioni – in buona parte stampe del XVI e XVII secolo – scelte per il volume pubblicato in lingua inglese ad inizio del nuovo millennio Caliban and the Witch (2004) – in cui la militante aveva ripreso e ampliato un lavoro svolto con Fortunati a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta –,sottolineando come in tale apparato iconografico Federici intendesse proporre un uso innovativo delle illustrazioni nei testi di teoria politica.

Ad essere esaminato dallo studioso è anche il grande telo realizzato nel 1976 dal Gruppo Immagine e steso dietro al palco di un evento napoletano nell’ambito della Campagna per il salario al lavoro domestico, in cui erano state cucite con effetto filigrana in latino le Litanie della Beata Vergine Maria, figura modello di femminilità e maternità nell’Italia cattolica dell’epoca. A fare da controcanto al contenuto religioso era stata riportata in evidenza la scritta “Anche l’amore è lavoro domestico”, a sottolineare, così come avrà modo di argomentare Giovanna Franca Dalla Costa (Un lavoro d’amore: la violenza fisica componente essenziale del “trattamento” maschile nei confronti delle donne, 1978), come

il capitalismo [avesse] sostenuto l’ideologia dell’amore coniugale e, parallelamente, la stigmatizzazione delle sex workers proprio per imporre uno specifico modello di famiglia e legittimare, pertanto, il lavoro femminile non retribuito. Lo stupro e la violenza maschile non erano, quindi, eventi tragici e isolati, ma piuttosto misure standard che, in nome dell’ordine economico, i mariti mettevano in atto per garantirsi l’asservimento delle compagne (p. 259).

A Mariuccia Secol si devono grandi arazzi raffiguranti figure femminili astratte in cui a materiali nobili e pratiche complesse si alternano interventi poveri e grossolani al fine di criticare «l’immagine della casalinga virtuosa e compiaciuta della propria abilità nei lavori» (p. 260).

La questione della creatività femminile è stata posta la centro dell’incontro milanese Donne Arte Società tenutosi nel 1978 in un clima politico e sociale particolarmente teso. In quell’occasione le donne del Gruppo Immagine presentarono un documento – accesamente criticato da diverse partecipanti – con cui, rivedendo in maniera critica il tipo di militanza assunto negli anni precedenti, intendevano rivendicare il diritto a una pratica artistica più individuale e autoreferenziale e meno subordinata all’universo politico esistente.

Alla Biennale veneziana del 1978 intitolata Dalla natura all’arte, dall’arte alla natura, il Gruppo Immagine prospettò un riformulazione della dualità natura/arte intendendo, sostiene Galimberti, contrastare l’idea che le donne potessero “rappresentare la natura”, come a lungo sostenuto da diversi artisti maschi. Il Gruppo guardò criticamente anche all’ambito architettonico denunciando quanto la progettazione delle abitazioni avesse storicamente contribuito a limitare l’indipendenza delle donne e prospettando forme architettoniche alternative ed emancipative.

Il ritorno all’ordine che si diffuse in Italia sul finire degli anni Settanta comportò la fine tanto della Campagna per il salario al lavoro domestico quanto dello spirito militante e collettivo che aveva animato il Gruppo Immagine. Gli anni Ottanta sancirono una svolta tanto nella militanza politica quanto nella pratica artistica delle donne che condusse all’aprirsi di un nuova e differente stagione.

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Fermiamo Macron e la guerra!

Il presidente francese Macron è un autentico farabutto.

È appena sfuggito all’assalto dei contadini che l’hanno a costretto a rifugiarsi nei piani alti della fiera agricola che voleva inaugurare.

Per mesi è stato inseguito e contestata ovunque dai lavoratori in sciopero, furibondi per la sua controriforma delle delle pensioni.

Macron è l’uomo politico più odiato dal suo popolo, se oggi si votasse non arriverebbe al dieci per cento. E come tutti i peggiori mascalzoni della storia ora il presidente francese vuole riconquistare potere e prestigio con una bella guerra.

In realtà lui e tutti i suoi alleati NATO in guerra ci sono già, con la Russia. Fanno minacce e sanzioni, inviano armi, mandano soldati e specialisti sotto copertura. Ma questa è la classica ‘guerra sporca’ che l’Occidente pratica in mezzo mondo, armi e affari sono suoi, mentre le vittime sono di quei popoli che sventuratamente sono mandati in prima linea.

Ora però Macron non si accontenta più di morti ucraini e russi, vuole anche quelli francesi e magari di tutti i suoi alleati. Vuole la gloria e la grandezza francese, ma nei suoi deliri da piccolo Napoleone non ricorda neppure che proprio contro la Russia, Napoleone perse il suo impero.

Pare che al vertice NATO dove ha lanciato la sua proposta di fare una vera, dichiarata, terza guerra mondiale, Macron abbia raccolto un rifiuto generale, a partire da quello del padrone americano. Solo i sempre più reazionari e pazzi britannici pare abbiano aperto alla proposta. Persino Taiani, a nome di un governo di solito servo di tutti, ha detto no.

Però non c’è da stare tranquilli.

Intanto perché Macron può fare qualsiasi cosa, disperato come è. E soprattutto perché la guerra in Ucraina continua e USA, NATO, UE e Zelensky rifiutano ogni compromesso di pace e vogliono solo la vittoria militare sulla Russia.

Come si fa a vincere una guerra dove gli ucraini hanno sempre meno truppe da buttare nel tritacarne, e il reclutamento forzato sta creando rivolte tra la popolazione? Come si fa battere la Russia se non si è disposti a schierare i propri soldati?

Vi ricordate quando Biden diceva “no” all’invio degli aerei F-16 e Scholz rifiutava i carri armati Leopard 2? Poi li hanno mandati, eccome, molti Leopard son già stati distrutti. È che la guerra, se continua, costringe inevitabilmente all’escalation chi la fa.

Quindi l’azzardo di Macron può non essere così avventato; “alla fine da qui dovranno passare”, borbotta il presidente francese, e io sarò stato il primo a dirlo, per la gloria della Francia e soprattutto mia.

Allora anche Meloni, che ha appena copiato e firmato per il nostro sventurato paese lo stesso patto militare decennale che Macron ha stipulato con Zelensky, come sempre ubbidirà alle nuove direttive.

Dei mascalzoni che fanno i presidenti non c’è da fidarsi mai, e nemmeno dei loro deliri; può sempre succedere che i loro progetti più infami, con la complicità di tutti i loro pari, vedano la luce.

Quindi bisogna fermare Macron, ma soprattutto fermare la guerra, altrimenti quella che oggi sembra una barzelletta di cattivo gusto, domani diventerà tragica realtà.

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È il buio prima dell’alba, ma il colonialismo di insediamento israeliano è alla fine

Il professor Ilan Pappé ha parlato all’annuale Genocide Memorial Day dell’IHRC (Islamic Human Rights Commission), tenutosi a Londra il 21 gennaio 2024, sulla necessità di comprendere che il genocidio dei palestinesi a cui stiamo assistendo, per quanto brutale, è anche la fine del cosiddetto Stato ebraico. Dobbiamo essere pronti a immaginare un nuovo mondo al di là di esso.

L’idea che il sionismo sia un colonialismo di insediamento non è nuova. Gli studiosi palestinesi che negli anni ’60 lavoravano a Beirut nel Centro di Ricerca dell’OLP avevano già capito che quello che stavano affrontando in Palestina non era un progetto coloniale classico. Non inquadravano Israele solo come una colonia britannica o americana, ma lo consideravano un fenomeno che esisteva in altre parti del mondo, definito come colonialismo di insediamento. È interessante che per 20-30 anni la nozione di sionismo come colonialismo di insediamento sia scomparsa dal discorso politico e accademico. È tornata quando gli studiosi di altre parti del mondo, in particolare Sudafrica, Australia e Nord America, hanno concordato che il sionismo è un fenomeno simile al movimento degli europei che hanno creato gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e il Sudafrica. Questa idea ci aiuta a comprendere molto meglio la natura del progetto sionista in Palestina dalla fine del XIX secolo ad oggi, e ci dà un’idea di cosa aspettarci in futuro.

Credo che questa particolare idea degli anni ’90, che collegava in modo così chiaro le azioni dei coloni europei, soprattutto in luoghi come il Nord America e l’Australia, con le azioni dei coloni che arrivarono in Palestina alla fine del XIX secolo, abbia chiarito bene le intenzioni dei coloni ebrei che colonizzarono la Palestina e la natura della resistenza locale palestinese a quella colonizzazione. I coloni seguirono la logica più importante adottata dai movimenti coloniali di insediamento, ossia che per creare una comunità coloniale di successo al di fuori dell’Europa è necessario eliminare gli indigeni del Paese in cui ci si è stabiliti. Ciò significa che la resistenza indigena a questa logica è stata una lotta contro l’eliminazione e non solo di liberazione. Questo è importante quando si pensa all’operazione di Hamas e ad altre operazioni di resistenza palestinese fin dal 1948.

Gli stessi coloni, come nel caso di molti europei che arrivarono in Nord America, America Centrale o Australia, erano rifugiati e vittime di persecuzioni. Alcuni di loro erano meno sfortunati e cercavano semplicemente una vita e delle opportunità migliori. Ma la maggior parte di loro erano emarginati in Europa e cercavano di creare un’Europa in un altro luogo, una nuova Europa, invece dell’Europa che non li voleva. Nella maggior parte dei casi, hanno scelto un luogo in cui viveva già qualcun altro, i nativi. Quindi il nucleo più importante tra loro era quello dei leader e ideologi che fornivano giustificazioni religiose e culturali per la colonizzazione della terra di qualcun altro. A questo si può aggiungere la necessità di affidarsi a un Impero per iniziare la colonizzazione e mantenerla, anche se all’epoca i coloni si ribellarono all’Impero che li aveva aiutati e chiesero e ottennero l’indipendenza, salvo poi rinnovare l’alleanza con l’Impero. Il rapporto anglo-sionista che si è trasformato in un’alleanza anglo-israeliana è un esempio.

L’idea che si possa eliminare con la forza il popolo della terra che si vuole, è probabilmente più comprensibile – non giustificata – sullo sfondo dei secoli XVI, XVII e XVIII, perché andava di pari passo con la piena approvazione dell’imperialismo e del colonialismo. Era alimentato dalla comune disumanizzazione degli altri popoli non occidentali e non europei. Se si disumanizzano le persone, è più facile eliminarle. L’aspetto unico del sionismo come movimento coloniale di insediamento è che è apparso sulla scena internazionale in un momento in cui le persone di tutto il mondo avevano iniziato a ripensare il diritto di eliminare gli indigeni, di eliminare i nativi e quindi possiamo capire lo sforzo e l’energia investiti dai sionisti e successivamente dallo Stato di Israele nel cercare di coprire il vero obiettivo di un movimento coloniale di insediamento come il sionismo, che era l’eliminazione dei nativi.

Ma oggi a Gaza stanno eliminando la popolazione nativa davanti ai nostri occhi, quindi come mai hanno quasi rinunciato a 75 anni di tentativi di nascondere le loro politiche di eliminazione? Per capirlo, dobbiamo analizzare la trasformazione della natura del sionismo in Palestina nel corso degli anni.

Nelle fasi iniziali del progetto coloniale sionista, i suoi leader portavano avanti le loro politiche di eliminazione con un genuino tentativo di quadratura del cerchio, sostenendo che era possibile costruire una democrazia e allo stesso tempo eliminare la popolazione nativa. C’era un forte desiderio di appartenere alla comunità delle nazioni civilizzate e i leader presumevano, in particolare dopo l’Olocausto, che le politiche di eliminazione non avrebbero escluso Israele da tale associazione.

Per far quadrare il cerchio, la dirigenza sionista ha insistito sul fatto che le sue azioni di eliminazione contro i Palestinesi fossero una “ritorsione” o una “risposta” alle azioni palestinesi. Ma molto presto, quando questa leadership ha voluto passare ad azioni di eliminazione più sostanziali, ha abbandonato il falso pretesto della “rappresaglia” e ha smesso di giustificare le proprie azioni.

A questo proposito, esiste una correlazione tra il modo in cui si è sviluppata la pulizia etnica nel 1948 e le operazioni degli israeliani a Gaza oggi. Nel 1948, la leadership giustificava a se stessa ogni massacro commesso, compreso quello famigerato di Deir Yassin del 9 aprile, come reazione ad un’azione palestinese: poteva trattarsi del lancio di pietre contro un autobus o dell’attacco ad un insediamento ebraico, ma doveva essere presentato all’interno e all’esterno come qualcosa che non arrivava dal nulla, ma come autodifesa. Infatti, questo è il motivo per cui l’esercito israeliano si chiama ‘Forze di Difesa Israeliane’. Ma poiché si tratta di un progetto coloniale di insediamento, non può appoggiarsi sempre sulla “rappresaglia”.

Le forze sioniste iniziarono la pulizia etnica durante la Nakba nel febbraio 1948, per un mese tutte queste operazioni furono presentate come ritorsioni all’opposizione palestinese al piano di spartizione delle Nazioni Unite del novembre 1947. Il 10 marzo 1948, la leadership sionista smise di parlare di rappresaglia e adottò un piano generale per la pulizia etnica della Palestina. Dal marzo 1948 alla fine del medesimo anno, la pulizia etnica della Palestina, che portò all’espulsione di metà della popolazione palestinese, alla distruzione di metà dei villaggi e alla de-arabizzazione della maggior parte delle città, fu realizzata come parte di un piano generale sistematico e intenzionale di pulizia etnica.

Allo stesso modo, dopo l’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza nel giugno 1967, ogni volta che Israele ha voluto cambiare radicalmente la realtà o impegnarsi in un’operazione di pulizia etnica su larga scala, ha rinunciato alla necessità di una giustificazione.

Oggi stiamo assistendo a uno schema simile. All’inizio le azioni sono state presentate come ritorsione all’operazione Tufun al-Aqsa, ma ora si tratta della guerra denominata “spada di guerra”, che mira a riportare Gaza sotto il diretto controllo israeliano, ma pulendo etnicamente la sua popolazione attraverso una campagna di genocidio.

La grande domanda è: perché i politici, i giornalisti e gli accademici occidentali sono caduti nella stessa trappola in cui erano caduti nel 1948? Come possono ancora oggi credere all’idea che Israele si stia difendendo nella Striscia di Gaza? Che stia reagendo alle azioni del 7 ottobre?

O forse non stanno cadendo nella trappola. Forse sanno che ciò che Israele sta facendo a Gaza è usare il 7 ottobre come pretesto.

In ogni caso, finora, la rivendicazione di un pretesto da parte di Israele ogni volta che aggredisce i palestinesi, ha aiutato lo Stato a sostenere lo scudo dell’immunità che gli ha permesso di perseguire le sue politiche criminali senza temere alcuna reazione significativa da parte della comunità internazionale. Il pretesto ha contribuito ad accentuare l’immagine di Israele come parte del mondo democratico e occidentale, quindi al di là di qualsiasi condanna e sanzione. L’intero discorso della difesa e della ritorsione è importante per lo scudo di immunità di cui Israele gode presso i governi del Nord globale.

Ma come nel 1948, anche oggi Israele, con la sua operazione, rinuncia al pretesto, e questo è il momento in cui anche i suoi più grandi sostenitori hanno difficoltà ad appoggiare le sue politiche. L’entità della distruzione, le uccisioni di massa a Gaza, il genocidio, sono a un livello tale che gli israeliani trovano sempre più difficile persuadere persino se stessi che ciò che stanno facendo è in realtà autodifesa o reazione. Pertanto, è possibile che in futuro sempre più persone abbiano difficoltà ad accettare questa spiegazione israeliana del genocidio a Gaza.

Per la maggior parte delle persone è chiaro che sia necessario un contesto e non un pretesto. Storicamente e ideologicamente, è molto chiaro che il 7 ottobre viene utilizzato come pretesto per completare ciò che il movimento sionista non è stato in grado di completare nel 1948.

Nel 1948, il movimento coloniale di insediamento del sionismo ha utilizzato una particolare serie di circostanze storiche, di cui ho scritto in dettaglio nel mio libro La pulizia etnica della Palestina, per espellere metà della popolazione palestinese. Come detto, nel processo hanno distrutto la metà dei villaggi palestinesi, demolito la maggior parte delle città palestinesi, eppure una metà dei palestinesi è rimasta all’interno della Palestina. I palestinesi che divennero rifugiati al di fuori dei confini della Palestina continuarono la resistenza dei palestinesi, quindi l’ideale coloniale di insediamento mirato a eliminarne la presenza autoctona non fu realizzato e, in modo graduale, Israele usò tutto il suo potere dal 1948 ad oggi per continuare questo processo di eliminazione.

L’eliminazione dei nativi, dall’inizio alla fine, non comprende solo un’operazione militare, con la quale si occupa un luogo, si massacrano le persone o le si espelle. L’eliminazione deve essere giustificata o andare avanti per forza d’inerzia e il modo per farlo è la costante disumanizzazione di coloro che si intende eliminare. Non si può uccidere massicciamente o commettere genocidio su un altro essere umano se non lo si disumanizza. Quindi, la disumanizzazione dei palestinesi è un messaggio esplicito e implicito trasmesso agli ebrei israeliani attraverso il loro sistema educativo, il loro sistema di socializzazione nell’esercito, i media e il discorso politico. Questo messaggio deve essere trasmesso e mantenuto se si vuole completare l’eliminazione.

Stiamo quindi assistendo a un nuovo e crudele tentativo di completare l’eliminazione. Eppure, non è tutto senza speranza. Infatti, ironia della sorte, questa particolare distruzione disumana di Gaza mostra il fallimento del progetto coloniale sionista. Questo può sembrare assurdo, perché sto descrivendo un conflitto tra un piccolo movimento di resistenza, il movimento di liberazione palestinese, e un potente Stato con una macchina militare e un’infrastruttura ideologica che si concentra esclusivamente sulla distruzione del popolo indigeno della Palestina.

Questo movimento di liberazione non ha una forte alleanza alle spalle, mentre lo Stato che affronta gode di una potente alleanza alle spalle – dagli Stati Uniti alle multinazionali, alle imprese di sicurezza dell’industria militare, ai media e al mondo accademico mainstream – stiamo parlando di qualcosa che sembra quasi senza speranza e deprimente, perché esiste questa immunità internazionale per le politiche di eliminazione che iniziano dalle prime fasi del sionismo fino ad oggi. Sembrerà probabilmente il peggior capitolo del tentativo israeliano di portare avanti le politiche di eliminazione a un nuovo livello, in uno sforzo molto più concentrato di uccidere migliaia di persone in un breve periodo di tempo, come non hanno mai osato fare prima.

Quindi, come può essere anche un momento di speranza? Prima di tutto, questo tipo di entità politica, uno Stato, che deve mantenere la disumanizzazione dei palestinesi per giustificare la loro eliminazione, è una base molto debole se guardiamo a un futuro più lontano.

Questa debolezza strutturale era già evidente prima del 7 ottobre e parte di questa debolezza è il fatto che se si esclude il progetto di eliminazione, c’è ben poco che unisce il gruppo di persone che si definiscono come nazione ebraica in Israele.

Se si esclude la necessità di combattere ed eliminare i palestinesi, rimangono due campi ebraici in guerra, che abbiamo visto combattere nelle strade di Tel Aviv e Gerusalemme fino al 6 ottobre 2023. Enormi dimostrazioni tra ebrei laici, coloro che si definiscono tali – per lo più di origine europea – e che credono che sia possibile creare uno Stato democratico pluralista mantenendo l’occupazione e l’apartheid nei confronti dei palestinesi all’interno di Israele, si sono confrontati con un nuovo tipo di sionismo messianico che si è sviluppato negli insediamenti ebraici in Cisgiordania, quello che ho chiamato altrove lo Stato di Giudea, che è apparso improvvisamente in mezzo a noi, credendo di avere un modo per creare una sorta di teocrazia sionista senza alcuna considerazione per la democrazia, e credendo che questa sia l’unica visione per un futuro Stato ebraico.

Non c’è nulla in comune tra queste due visioni, a parte una cosa: entrambi i campi non si preoccupano dei palestinesi, entrambi i campi credono che la sopravvivenza di Israele dipenda dalla continuazione delle politiche di eliminazione nei confronti dei palestinesi. Questo non reggerà. Si disintegrerà e imploderà dall’interno, perché nel 21° secolo non si può tenere insieme uno Stato e una società sulla base del fatto che il loro senso di appartenenza comune è quello di far parte di un progetto genocida di eliminazione. Può funzionare sicuramente per alcuni, ma non può funzionare per tutti.

Abbiamo già avuto un’indicazione in tal senso prima del 7 ottobre: gli israeliani che hanno opportunità in altre parti del mondo grazie alla loro doppia nazionalità, alle loro professioni e alle loro capacità finanziarie, stanno pensando seriamente di trasferire il loro denaro e loro stessi al di fuori dello Stato di Israele. Ciò che rimarrà è una società economicamente debole, guidata da questo tipo di fusione tra sionismo messianico, razzismo e politiche di eliminazione nei confronti dei palestinesi.

Sì, all’inizio i rapporti di forza sarebbero favorevoli agli eliminatori, non alle vittime dell’eliminazione, ma tali rapporti non sono unicamente locali, bensì regionali e internazionali, e più le politiche di eliminazione sono oppressive (ed è terribile dirlo, ma è vero), meno possono essere coperte come una “risposta” o una “ritorsione” e più vengono viste come una brutale politica genocidiaria. Pertanto, è meno probabile che l’immunità di cui gode oggi Israele continui in futuro.

Quindi, penso davvero che in questo momento così buio, quello che stiamo vivendo – ed è un momento buio perché l’eliminazione dei palestinesi è passata a un nuovo livello – sia senza precedenti. In termini di discorso utilizzato da Israele e di intensità e scopo delle politiche di eliminazione, non c’è stato un periodo simile nella storia, questa è una nuova fase della brutalità contro i palestinesi. Persino la Nakba, che fu una catastrofe inimmaginabile, non è paragonabile a ciò che stiamo vedendo ora e a ciò che vedremo nei prossimi mesi. A mio avviso, siamo nei primi tre mesi di un periodo di due anni che vedrà il peggior tipo di orrori che Israele può infliggere ai palestinesi.

Ma anche in questo momento buio dovremmo capire che per cercare di salvare i progetti coloniali di insediamento in disfacimento si utilizzano sempre i mezzi peggiori. Questo è successo in Sudafrica e in Vietnam del Sud. Non lo dico come pio desiderio e non lo dico come attivista politico: lo affermo come studioso di Israele e Palestina, con tutta la sicurezza delle mie qualifiche di studioso. Sulla base di un sobrio esame professionale, sto affermando che stiamo assistendo alla fine del progetto sionista, non c’è dubbio.

Questo progetto storico è giunto alla fine ed è una fine violenta – tali progetti di solito crollano in modo violento quindi è un momento molto pericoloso per le vittime di questo progetto, e le vittime sono sempre i palestinesi insieme agli ebrei, perché anche gli ebrei sono vittime del sionismo. Quindi, il processo di crollo non è solo un momento di speranza, ma è anche l’alba che spunterà dopo il buio, ed è la luce alla fine del tunnel.

Un crollo come questo, tuttavia, produce un vuoto. Il vuoto appare all’improvviso; è come un muro che viene lentamente eroso da crepe, ma poi crolla in un breve momento. E bisogna essere pronti a questi crolli, alla scomparsa di uno Stato o alla disintegrazione di un progetto coloniale di insediamento. Abbiamo visto cosa è successo nel mondo arabo, quando il caos del vuoto non è stato riempito da alcun progetto costruttivo e alternativo; in questo caso il caos continua.

Una cosa è chiara: chi pensa all’alternativa allo Stato sionista non deve cercare in Europa o in Occidente modelli che sostituiscano lo Stato che sta crollando. Esistono modelli decisamente migliori che sono locali e sono eredità del passato recente e più lontano del Mashraq (il Mediterraneo orientale) e del mondo arabo nel suo complesso. Il lungo periodo ottomano ha tali modelli e retaggi che possono aiutarci a prendere idee dal passato per guardare al futuro.

Questi modelli possono aiutarci a costruire un tipo di società molto diverso, che rispetti le identità collettive e i diritti individuali, e che sia costruito da zero come un nuovo tipo di modello che tragga vantaggio dall’apprendimento degli errori della decolonizzazione in molte parti del mondo, compreso il mondo arabo e l’Africa. In questo modo si spera di creare un diverso tipo di entità politica che avrebbe un impatto enorme e positivo sul mondo arabo nel suo complesso.

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La Sardegna morde Meloni

La Sardegna è l’Italia, certo. Ma prendere un ceffone di questa portata è comunque un problema per i fascisti di governo.

Detta in “elettoralese” – l’orribile linguaggio derivante da una logica priva di contenuti, dove conta solo “vincere” o “eleggere” non importa per fare che cosa – il centrodestra unito è riuscito a perdere contro il centrosinistra diviso.

E ci è riuscito nonostante abbia comunque preso circa la metà dei voti espressi (che sono a loro volta la metà degli aventi diritto; il dato forse più significativo di tutti).

Non che tra centrodestra e centrosinistra, anche in Sardegna, ci siano differenze politiche particolarmente importanti.

Questioni locali a parte (quali cordate affaristiche debbono avere la prevalenza e quali accontentarsi di farsi i fatti propri), sulle questioni chiave di questo momento storico – guerra in Ucraina, genocidio in Palestina, stagnazione economica, crollo dei salari e quindi dei consumi di massa, ecc.) – regna un indistinguibile silenzio. Oppure l’adesione pedissequa ai diktat dell’establishment euro-atlantico.

Alla fin fine l’unica “novità” rilevante è quella indicata dalla stessa Alessandra Todde – la cinquestelle vincitrice grazie al “campo largo” con il PD e frattaglie varie: “Sarò il primo presidente donna dell’isola“.

Il resto è effettivamente dimenticabile e impalpabile. A cominciare dall’incertezza totale sui consiglieri e la distribuzione dei 60 seggi nel consiglio regionale, grazie ad una legge elettorale (rigorosamente redatta in “autonomia differenziata”) che sembra fatta apposta per impedire di capirci qualcosa.

Il candidato con più voti diventa infatti governatore, anche se non arriva al 50%. È inoltre previsto un premio di maggioranza: se la coalizione supera il 40%, alle liste collegate vanno il 60% dei seggi, mentre se la coalizione che si piazza per prima ottiene tra il 25 e il 40% dei voti, è previsto un premio al 55%. Nessun premio, invece, al di sotto del 25%. Infine, ma non per importanza, la legge elettorale regionale impone un incostituzionale sbarramento al 10% che esclude qualsiasi rappresentanza al di sotto di questa soglia, escludendone così migliaia di elettori.

Un gioco di bussolotti che per ora garantisce soltanto la corsa alla richiesta di riconteggio dei voti, visto che la differenza con il candidato meloniano – il sindaco di Cagliari, Truzzu – è meno di 3.000 schede.

Ma sono tutti problemi di dettaglio. Il fatto politico vero è che stavolta Giorgia Meloni ha dimostrato di non avere alcun “tocco magico”. Anzi...

È noto che era stata lei a pretendere un “riequilibrio” interno alla maggioranza, imponendo il “suo” candidato anche a costo di bruciare il governatore uscente – il peraltro pessimo Solinas – “in quota” Lega ma esponente del Partito Sardo d’Azione.

Ed è quindi ovvio che la sconfitta è tutta sua, anche se facilitata dal “fuoco amico” che ha utilizzato il “voto disgiunto” (si può votare un candidato presidente e contemporaneamente una lista che non lo appoggia) per affondare il delfino locale della “presidente del consiglio”.

Ma era altrettanto ovvio e certo che quella imposizione dettata dall’ottusità con cui si interpretano i “rapporti di forza” all’interno della maggioranza – Fratelli d’Italia poco sotto il 30%, Lega e residui berlusconiani sempre sotto il 10 – avrebbe sollevato più risentimenti del sopportabile.

Si chiude quindi malissimo la “settimana horribilis” della “straccivendola” (copyright di Vincenzo De Luca, com’è noto), che aveva già inciampato pesantemente sulle manganellate a pioggia contro studenti minorenni e palesemente pacifici (a volto scoperto, senza alcuno “strumento atto ad offendere” né protezioni difensive).

È presto per dire che qui comincia la valanga che porterà i fascisti di governo a deragliare. Di fronte hanno il nulla del centrosinistra, che – a parte lo sbandieramento di qualche diritto civile a costo zero – non ha prodotto sin qui alcuna differenza apprezzabile sui temi fondamentali (dalla guerra ai diritti sociali e sindacali).

Ma hanno davanti anche il 50% di astenuti. Una crescita del malcontento sordo e rancoroso, senza prospettive immediate (i “movimenti antagonisti” sono per ora troppo poca cosa, e con idee ancora vaghe), ma dilagante ad ogni tornata elettorale.

Si capisce dunque facilmente perché questo governo affronti l’opposizione di piazza con tanta ferocia. Teme che qualche idea “diversa” venga fatta propria da una massa delusa da tutti.

E quindi prova a vietare di pensare: non si può dire la parola “genocidio”, non si può manifestare in difesa della popolazione palestinese, non si può chiedere di fermare l’invio di armi ai nazisti ucraini, non si può chiedere un salario che consenta di vivere, non si può scioperare per ottenerlo, ecc.

Ma un potere così anelastico è fragile come il cristallo. Rischia di andare in pezzi ad ogni vibrazione.

Lo sanno. Ma non sanno fare altro che irrigidirsi ancora di più. Ed è quando cominciano a mordersi tra di loro che le vibrazioni si fanno più forti e potenzialmente invalidanti.

Aumentare le occasioni perché entrino in risonanza, scuotendo il Palazzo, è giusto e necessario. Non semplice, certo, ma si può fare.

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