di Marco Verosnese Passarella
Ci sono due modi ugualmente deleteri di intendere l'“economia”: assimilarla a una scienza naturale, come amano fare gli economisti “mainstream”; oppure, al contrario, sostenere che non è una scienza, come fanno un po’ tutti gli altri.
La verità è che queste due posizioni sono due facce della stessa medaglia. In particolare, la seconda concezione non indebolisce ma rafforza la prima, implicando che l’unico statuto scientifico possibile sia quello di scienza naturale.
Personalmente, concepisco l’economia come una scienza sociale, che indaga le mutevoli leggi di movimento delle economie capitalistiche. Penso, dunque, che vadano rigettate sia le pretese di oggettività del pensiero economico dominante sia le derive irrazionaliste della maggior parte dei suoi critici. È su questa ridefinizione epistemologica che si può costruire una critica radicale alle teorie economiche di derivazione neoclassica.
Non esistono scienze esatte, nemmeno la matematica – che non è una scienza, ma uno dei suoi linguaggi. Esistono, invece, campi scientifici in cui si può essere ragionevolmente certi di identificare relazioni durature (leggi), e altri campi in cui tali relazioni sono molto più mutevoli.
Se identifichiamo la scienza con il metodo sperimentale, essa si fonda sulla sequenza teoria, sperimentazione e osservazione. L’obiettivo è di verificare (o, meglio, non rigettare) una certa ipotesi teorica con un certo margine di errore. Questo margine, le tecniche statistiche adottate e le unità di misura sono tutti risultati di convenzioni. Ogni comunità scientifica ne discute (o almeno dovrebbe farlo) e prende decisioni in merito.
Il pensiero economico dominante punta a dimostrare, attraverso l’utilizzo di strumenti e metodi scientifici, che l’interesse materiale particolare della classe dominante corrisponde all’interesse generale. La sua critica, perciò, deve puntare anzitutto a svelare la natura ideologica e apologetica di tale operazione.
In secondo luogo, deve sostituire la narrazione dominante con un’analisi disincantata delle relazioni sociali, portando così la lotta al piano più alto della sovrastruttura, dove si producono le lenti con le quali filtriamo e modifichiamo il mondo.
Lungi dall’essere un sistema newtoniano in cui individui auto-interessati si impegnano in relazioni di scambio-baratto reciprocamente vantaggiose, il modo di produzione capitalistico si presenta come un sistema impersonale di estrazione di lavoro vivo dai salariati (e di dissipazione delle risorse naturali) finalizzato all’accumulazione di capitale.
Un sistema in cui il conflitto orizzontale tra capitali a diversa base nazionale o regionale non è meno aspro di quello verticale tra lavoratori e capitali. Si tratta di decidere da che parte stare: lavoro salariato contro capitale, scienza critica del reale contro ideologia.
Un approccio davvero scientifico ai fenomeni economici non può semplicemente relegare le teorie e i metodi alternativi nelle soffitte della scienza economica. Deve, invece, sfidarle sul piano, appunto, scientifico.
In un articolo recente, Rochon e Rossi si chiedono se dobbiamo continuare a insegnare la teoria economica di derivazione neoclassica nelle università. Dopo aver discusso le ragioni per cui l’approccio dominante è logicamente viziato e socialmente pericoloso, gli autori concludono che comunque “dobbiamo insegnarlo, ma solo per confutarlo, per rendere gli studenti consapevoli di ciò che vi è di sbagliato ed estraneo al funzionamento dei mercati”.
Nella sostanza, condivido la posizione di Rochon e Rossi. Non credo, infatti, che sia una buona idea dismettere l’insegnamento dell’approccio dominante tout court. Allo stesso tempo, però, possiamo, e anzi dobbiamo, mostrare chiaramente quali sono le ipotesi su cui i modelli di derivazione neoclassica si reggono (dunque la visione del mondo a essi sottesa) e anche cosa non funziona anche una volta che si accettino quelle ipotesi.
Un esempio è il modello IS-LM, lo strumento macroeconomico più utilizzato nei corsi introduttivi di macroeconomia, un modello che trasforma la teoria generale di Keynes in un ritaglio o caso particolare del modello di equilibrio economico generale walrasiano.
Come cerco di argomentare in un articolo a cui ho lavorato nelle ultime settimane, il modello IS-LM (nella foto d’apertura, ndr) non soltanto ha problemi seri sul piano della contabilità macroeconomica, ma, una volta che tali problemi vengano corretti, non produce più i risultati noti. Ciò accade anche nel caso si utilizzi la sua versione “emendata” con curva LM orizzontale – adottata, tra gli altri, da Olivier Blanchard nelle edizioni più recenti del suo manuale di macroeconomia.
La critica del pensiero dominante non rivendica alcuna neutralità di giudizio del pensiero economico, compresa la sua critica. Al contrario.
La pretesa di neutralità della scienza è grottesca per le scienze sociali ed è comunque ingenua se riferita alle scienze naturali. La scienza è sempre un prodotto del contesto: dello stato della tecnica, del dibattito in altri ambiti della conoscenza e, soprattutto, delle relazioni sociali esistenti.
L’unico dogma per uno scienziato è, o dovrebbe essere, che non esistono dogmi. Questo, in definitiva, è ciò che lo distingue dall’ideologo, dal prete e dal tifoso. Ed è questo atteggiamento anti-dogmatico che dovrebbe sempre accompagnare la critica del pensiero economico dominante e del suo oggetto precipuo, il modo di produzione capitalistico.
Note
1. Blanchard, O., Amighini., A., e Giavazzi, F. (2016), Macroeconomia. Una prospettiva europea, Bologna: Il Mulino, p.135.
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