La Sardegna è l’Italia, certo. Ma prendere un ceffone di questa portata è comunque un problema per i fascisti di governo.
Detta in “elettoralese” – l’orribile linguaggio derivante da una logica priva di contenuti, dove conta solo “vincere” o “eleggere” non importa per fare che cosa – il centrodestra unito è riuscito a perdere contro il centrosinistra diviso.
E ci è riuscito nonostante abbia comunque preso circa la metà dei voti espressi (che sono a loro volta la metà degli aventi diritto; il dato forse più significativo di tutti).
Non che tra centrodestra e centrosinistra, anche in Sardegna, ci siano differenze politiche particolarmente importanti.
Questioni locali a parte (quali cordate affaristiche debbono avere la prevalenza e quali accontentarsi di farsi i fatti propri), sulle questioni chiave di questo momento storico – guerra in Ucraina, genocidio in Palestina, stagnazione economica, crollo dei salari e quindi dei consumi di massa, ecc.) – regna un indistinguibile silenzio. Oppure l’adesione pedissequa ai diktat dell’establishment euro-atlantico.
Alla fin fine l’unica “novità” rilevante è quella indicata dalla stessa Alessandra Todde – la cinquestelle vincitrice grazie al “campo largo” con il PD e frattaglie varie: “Sarò il primo presidente donna dell’isola“.
Il resto è effettivamente dimenticabile e impalpabile. A cominciare dall’incertezza totale sui consiglieri e la distribuzione dei 60 seggi nel consiglio regionale, grazie ad una legge elettorale (rigorosamente redatta in “autonomia differenziata”) che sembra fatta apposta per impedire di capirci qualcosa.
Il candidato con più voti diventa infatti governatore, anche se non arriva al 50%. È inoltre previsto un premio di maggioranza: se la coalizione supera il 40%, alle liste collegate vanno il 60% dei seggi, mentre se la coalizione che si piazza per prima ottiene tra il 25 e il 40% dei voti, è previsto un premio al 55%. Nessun premio, invece, al di sotto del 25%. Infine, ma non per importanza, la legge elettorale regionale impone un incostituzionale sbarramento al 10% che esclude qualsiasi rappresentanza al di sotto di questa soglia, escludendone così migliaia di elettori.
Un gioco di bussolotti che per ora garantisce soltanto la corsa alla richiesta di riconteggio dei voti, visto che la differenza con il candidato meloniano – il sindaco di Cagliari, Truzzu – è meno di 3.000 schede.
Ma sono tutti problemi di dettaglio. Il fatto politico vero è che stavolta Giorgia Meloni ha dimostrato di non avere alcun “tocco magico”. Anzi...
È noto che era stata lei a pretendere un “riequilibrio” interno alla maggioranza, imponendo il “suo” candidato anche a costo di bruciare il governatore uscente – il peraltro pessimo Solinas – “in quota” Lega ma esponente del Partito Sardo d’Azione.
Ed è quindi ovvio che la sconfitta è tutta sua, anche se facilitata dal “fuoco amico” che ha utilizzato il “voto disgiunto” (si può votare un candidato presidente e contemporaneamente una lista che non lo appoggia) per affondare il delfino locale della “presidente del consiglio”.
Ma era altrettanto ovvio e certo che quella imposizione dettata dall’ottusità con cui si interpretano i “rapporti di forza” all’interno della maggioranza – Fratelli d’Italia poco sotto il 30%, Lega e residui berlusconiani sempre sotto il 10 – avrebbe sollevato più risentimenti del sopportabile.
Si chiude quindi malissimo la “settimana horribilis” della “straccivendola” (copyright di Vincenzo De Luca, com’è noto), che aveva già inciampato pesantemente sulle manganellate a pioggia contro studenti minorenni e palesemente pacifici (a volto scoperto, senza alcuno “strumento atto ad offendere” né protezioni difensive).
È presto per dire che qui comincia la valanga che porterà i fascisti di governo a deragliare. Di fronte hanno il nulla del centrosinistra, che – a parte lo sbandieramento di qualche diritto civile a costo zero – non ha prodotto sin qui alcuna differenza apprezzabile sui temi fondamentali (dalla guerra ai diritti sociali e sindacali).
Ma hanno davanti anche il 50% di astenuti. Una crescita del malcontento sordo e rancoroso, senza prospettive immediate (i “movimenti antagonisti” sono per ora troppo poca cosa, e con idee ancora vaghe), ma dilagante ad ogni tornata elettorale.
Si capisce dunque facilmente perché questo governo affronti l’opposizione di piazza con tanta ferocia. Teme che qualche idea “diversa” venga fatta propria da una massa delusa da tutti.
E quindi prova a vietare di pensare: non si può dire la parola “genocidio”, non si può manifestare in difesa della popolazione palestinese, non si può chiedere di fermare l’invio di armi ai nazisti ucraini, non si può chiedere un salario che consenta di vivere, non si può scioperare per ottenerlo, ecc.
Ma un potere così anelastico è fragile come il cristallo. Rischia di andare in pezzi ad ogni vibrazione.
Lo sanno. Ma non sanno fare altro che irrigidirsi ancora di più. Ed è quando cominciano a mordersi tra di loro che le vibrazioni si fanno più forti e potenzialmente invalidanti.
Aumentare le occasioni perché entrino in risonanza, scuotendo il Palazzo, è giusto e necessario. Non semplice, certo, ma si può fare.
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