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24/02/2024

La sfida di Sanders non spaventa il capitalismo

di Carlo Formenti

Leggendo il titolo del nuovo libro di Bernie Sanders, Sfidare il capitalismo (Fazi Editore), mi sono detto: vuoi vedere che l’anziano senatore populista-socialista (così si autodefinisce), emulo della tradizione di un movimento operaio otto/novecentesco che, pur non avendo mai assunto posizioni “bolsceviche”, ha espresso leader radicali come Eugene Debs, ha finalmente rotto gli indugi. Magari, dopo due campagne presidenziali in cui, dopo avere inutilmente tentato di ottenere la nomination dando l’assalto all’establishment democratico, ha finito per fungere da galoppino delle candidature “eccellenti” di Hillary Clinton e Joe Biden, si è deciso a lavorare per un’alternativa antisistemica alla diarchia repubblicano-democratica, fedele esecutrice degli interessi dell’impero a stelle e strisce.

Purtroppo ho invece dovuto constatare che, rispetto a qualche anno fa, la sua attuale posizione può essere definita, citando un noto titolo di Lenin, come un passo avanti e due (se non tre!) passi indietro. Ma procediamo con ordine. Se invece di leggere il libro seguendone l’indice, qualcuno fosse tentato di “saltare” alcuni capitoli, lasciandosi attrarre dai passaggi che affondano impietosamente il dito nelle piaghe più purulente che affliggono il corpaccione dello zio Sam, l’illusione di svolta radicale evocata dal titolo sembra giustificata. Vediamo alcuni esempi.

Dopo avere descritto l’intollerabile tasso di disuguaglianza (pari a quello record degli anni Venti) raggiunto negli ultimi decenni, Sanders denuncia la situazione agghiacciante di un sistema sanitario da incubo: il 44% degli adulti fatica a pagarsi le cure mediche (c’è gente che evita di sorridere per non mostrare i buchi di una dentatura falcidiata dall’assenza di cure dentistiche, mentre più di 60.000 persone all’anno muoiono perché non possono acquistare farmaci salvavita né farsi ricoverare); 85 milioni di americani sono privi di assicurazione, anche perché solo i dipendenti regolarmente assunti godono dell’assicurazione fornita dal datore di lavoro, (che “pesa” negativamente sulla retribuzione complessiva!); sebbene la spesa sanitaria pro capite sia il doppio che in ogni altro paese, il sistema si colloca in fondo alla classifica dei paesi più industrializzati, al punto che i tassi Usa di mortalità infantile e materna sono pari a quelli dei Paesi del Terzo Mondo; l’aspettativa di vita è scesa negli ultimi anni del 2% anche se, com’è facile prevedere, i ricchi vivono molto più a lungo degli altri cittadini.

Passiamo allo stato della democrazia (se così è ancora lecito definirla): i finanziamenti che le lobby industriali e finanziarie (e altri gruppi di pressione) possono elargire liberamente e senza limiti (dopo una controversa sentenza della Corte Suprema, intitolata Citizen United, che equipara i lasciti dei gruppi di pressione a quelli degli individui) sono ormai di entità tale da predeterminare gli esisti elettorali (nell’ultima campagna presidenziale Biden ha ricevuto 230 miliardi e Trump 135, per inciso: su questo scarto dovremo ragionare più avanti). In altre parole: o si è abbastanza ricchi per “comprarsi” una carica pubblica, oppure è possibile farsela comprare da uno o più sponsor che passeranno all’incasso quando si tratterà di votare provvedimenti che ne coinvolgono gli interessi. Uno degli effetti di questa corruzione sistematica che viene esercitata alla luce del sole (senza dovere ricorrere al sistema italico delle mazzette sottobanco) è il crescente distacco degli elettori, i quali partecipano sempre meno alla competizione politica ritenendo giustamente che il loro voto non possa in alcun modo influire sulle decisioni che li riguardano. A favorire la tendenza all’astensionismo, contribuisce anche la diffusa consapevolezza che il mito degli Stati Uniti come patria della “stampa libera” (1) che consente a tutti di farsi un’opinione “obiettiva” sui programmi e sugli obiettivi di partiti e uomini politici è oggi privo di fondamento: il 90% di tutti i media sono posseduti da otto grandi conglomerati privati che, a loro volta, sono in gran parte controllati dai tre maggiori gruppi finanziari di Wall Street. Insomma: da qualunque parte ci si giri, arrivano conferme del fatto che gli Stati Uniti sono ormai proprietà privata di un pugno di oligarchi, una situazione, rivela Sanders, che fa sì che gli americani che giudicano positivamente il sistema capitalista siano scesi sotto il 60% (percentuale che scende sotto il 50% per la fasce di età fra i 18 e in 34 anni).

Proseguiamo il giochino di estrarre certe parti del libro isolandole dal contesto generale: dopo le denunce dei mali del sistema, vediamo quali obiettivi si propone Sanders per porvi rimedio, senza accennare, per ora, alla strategia politica con cui pensa di realizzarli. Si tratta di obiettivi decisamente radicali, soprattutto nel contesto dell’ubercapitalismo (termine che Sanders usa come sinonimo di turbocapitalismo) a stelle e strisce, rispetto al quale appaiono a dir poco rivoluzionari. Il nostro propone, fra le altre cose, di varare un Medicare for All (in pratica si tratterebbe di estendere a tutti il sistema Medicare attualmente in vigore per gli over 65, realizzando in pratica una forma di assistenza sanitaria gratuita e universale); di rilanciare un movimento sindacale che decenni di repressioni inaugurati dalla guerra di Reagan contro i controllori di volo hanno ridotto al lumicino; di attuare politiche economiche finalizzate a realizzare la piena e buona occupazione, accorciando drasticamente la settimana lavorativa a parità di salario; di rifinanziare il welfare tassando i ricchi e tagliando la spesa militare; di promuovere la democrazia d’impresa anche adottando forme di proprietà diffusa (cooperative e altro). Insomma un’utopia che richiama i sogni ottocenteschi (cucinati in salsa neokeynesiana) di un Richard Owen e dei suoi esperimenti di comunità produttive autogestite. A chi l’onere di guidare la lotta per realizzare questa formidabile impresa trasformativa: a un rifondato partito socialista? Nemmeno per sogno: alle soglie della sua terza campagna elettorale, Sanders resta ostinatamente ancorato alla folle idea di cambiare dall’interno il codice genetico del Partito Democratico. Vediamo con quali argomenti.

In primo luogo va precisato che Sanders è ben consapevole del fatto che, oggi come oggi, i Democratici sono ben lontani dal condividere la sua visione politica. Ammette che quel partito commise un errore (??!!) enorme quando Clinton si schierò al fianco di Wall Street per approvare accordi di libero scambio come il Nafta; riconosce che sotto l’amministrazione Obama, pur nel momento in cui le responsabilità degli oligarchi della finanza americana nell’innescare la crisi del 2008 (la più devastante dalla grande crisi del '29) vennero a galla, neppure un solo alto dirigente di Wall Street ha rischiato l’arresto né tantomeno ha subito un procedimento giudiziario, al contrario: sulle imprese “troppo grandi per essere lasciate fallire” sono piovuti enormi quantità di denaro pubblico sottratto alle risorse che avrebbero potuto migliorare la condizione dei cittadini; riferisce, dal punto di vista di osservatore privilegiato che gli garantisce il suo status di senatore, che il problema della disuguaglianza non viene mai discusso nelle aule del Congresso e che i democratici, non meno dei Repubblicani, continuano a frenare sull'uso della politica fiscale per migliorare la situazione del Paese; sa che nessuno dei suoi “colleghi” condivide l’idea che i diritti economici dovrebbero essere considerati a tutti gli effetti diritti umani, in assenza dei quali non può esistere libertà individuale (anche se Sanders non arriva a sostenere che, proprio per questo, vengono prima dei diritti civili e dei diritti individuali osannati dalla sinistra “politicamente corretta”); sa che molti lavoratori americani si sentono traditi dal Partito Democratico, al punto che, parlando con i leader dei sindacati locali, ha scoperto che un’ampia maggioranza dei loro iscritti vota repubblicano (così come sa che questa scelta non è dettata, come sostengono certi esponenti delle sinistre radical chic, da sentimenti razzisti, sessisti, omofobi ecc.). E allora? Come giustificare la scelta di restare in quel partito, sia pure da “indipendente”?

Cominciamo con il dire che le idee di Sanders in merito a cosa dovrebbe essere un partito che fa gli interessi dei lavoratori sono talmente confuse da fargli dire che presidenti come Roosevelt, Truman, Kennedy e Johnson “si identificavano con chiarezza nel partito della classe lavoratrice”. Passi per Roosevelt, anche se le sue politiche economiche “progressiste” erano finalizzate a tamponare la Grande Crisi (che peraltro venne risolta solo grazie alla Seconda guerra mondiale) assai più che a difendere gli interessi della classe operaia (né le politiche del Terzo Reich e del regime mussoliniano furono, sotto molti aspetti, meno “avanzate” sul piano meramente economico, e un magnate fascista come Henry Ford fu particolarmente “illuminato” in tema di regime salariale), ma Truman è davvero troppo: come dimenticare che fu colui che fece sganciare le atomiche sul Giappone, che scatenò la Guerra di Corea e che, in nome della dottrina di contenimento della “minaccia comunista”, diede il via alla caccia alle streghe maccartista: tutto a favore dei lavoratori americani? (decisamente più “progressista” di lui fu il suo successore repubblicano Eisenhower, se non altro perché attuò una politica fiscale fortemente progressiva). Infine Kennedy mandò i proletari americani (soprattutto quelli più poveri e di colore) a farsi ammazzare in Vietnam per difendere gli interessi imperialistici degli Stati Uniti: un altro paladino dei lavoratori?

Quanto appena detto potrebbe far sorgere il dubbio che Sanders sia francamente anticomunista. Detto che una volta che osò esprimere un apprezzamento nei confronti di Fidel Castro fu oggetto di attacchi talmente duri che da allora ha evidentemente deciso di sgombrare preventivamente il campo dalle accuse di “antiamericanismo”, io credo che vada piuttosto classificato come esponente di un utopismo sociale tanto ingenuo quanto ambiguo. Dopo avere citato il detto del reverendo King, secondo il quale “Il regno della fratellanza non si trova nel comunismo né nel capitalismo bensì in una sintesi superiore”, Sanders ci dice infatti che “il vero cambiamento si produce solo dal basso mai dall’alto in basso”, che “è compito dei progressisti chiedere che il Partito Democratico sia l’alternativa” e che “è necessario trasformare completamente il PD partendo da basso”; infine che ciò andrebbe fatto sviluppando “un nuovo senso della morale” (non vi pare di aver già sentito qualcosa di simile?) e assumendo a modello Paesi come la Norvegia, la Svezia, la Finlandia, e la Danimarca (sulle cui storie recenti non sembra essere molto aggiornato, visto che sono piuttosto i loro governi a ispirarsi sempre più al modello americano, come conferma la loro entusiastica adesione alle strategie aggressive della NATO).

Eppure il nostro è fermamente convinto che, grazie alle campagne elettorali del 2016 e del 2020 – che definisce le due campagne presidenziali più progressiste della moderna storia americana per il fatto di essere riuscito a finanziarle con le piccole donazioni di milioni di elettori invece che con le regalie delle lobby, nonché per il fatto di essere riuscito a far circolare le proprie idee attraverso i social media e centinaia di comizi locali invece che con l’appoggio dei media mainstream –, il suo sogno di far cambiare pelle dall’interno al Partito Democratico si sia rivelato attuabile, arrivando ad affermare che “le nostre idee e il nostro movimento erano diventate il futuro del PD”. Ignoro come possa sostenere una simile tesi, visto che è costretto ad ammettere che l’establishment Democratico, quando lui ha cercato di contrattare il proprio appoggio a Biden, gli ha risposto un secco no su proposte come l’istituzione del Medicare for All, come la cancellazione del debito studentesco e l'istituzione di università pubbliche gratuite, e come l’introduzione di forti tasse progressive sui patrimoni dei super ricchi. Ha invece detto sì a una serie di altri provvedimenti, a partire dall’introduzione di un salario minimo dignitoso, ma nessuno di essi è mai stato effettivamente realizzato.

Eppure Sanders non si pente di avere interrotto la propria campagna per appoggiare Biden, anche se molti dei suoi sostenitori non erano d’accordo. E qui devo confessare che, malgrado la simpatia che provo nei confronti del personaggio, le motivazioni che adduce suonano, rispettivamente, speciosa (la prima) e opportunistica (la seconda). La prima consiste nel rilanciare il messaggio democratico che recita “noi non siamo un granché ma i repubblicani sono peggio”, messaggio, scrive Sanders, “in cui c’è più di un granello di verità”. Specioso perché, come abbiamo visto, è lo stesso Sanders a dimostrare che le politiche dei democratici non sono meno aliene agli interessi dei lavoratori di quelle dei repubblicani: i 230 miliardi che Wall Street ha dato a Biden a fronte dei 135 elargiti a Trump – vedi sopra – parlano chiaro, così come parla chiaro il fatto che gli elettori poveri abbiano voltato loro le spalle. Quanto alla presunta minaccia che Trump rappresenterebbe per la democrazia, suona falsa di fronte al fatto che lo stesso Sanders ci dice che la democrazia americana è morta da un pezzo, uccisa dalla corruzione esercitata dal denaro. Resta, ed è davvero l’unico, l’argomento relativo ai sentimenti razzisti, sessisti ed omofobi del magnate repubblicano. E tuttavia Sanders dovrebbe rendersi conto che, insistendo su quest’unico tasto, offre un assist perfetto alla propaganda repubblicane contro il “capitalismo woke” (2), propaganda che suona credibile alle orecchie di quei lavoratori che vedono come le aziende impegnate a tutelare i diritti di donne, gay, lgtbq, ecc. siano le stesse che ignorano il loro diritto a un salario e a un lavoro decenti.

Passiamo alla motivazione opportunistica. Credo che molti di coloro che mi leggono abbiano avuto modo di ascoltare qualche ex deputato o senatore comunista descrivere i propri rapporti di simpatia e amicizia nei confronti di qualche collega democristiano o addirittura di destra. Niente di male, si dirà, quando si frequentano per anni gli stessi palazzi del potere, è normale che nascano simili rapporti anche fra persone di opposte sponde ideologiche. Ma il punto è appunto questo: quando si frequentano per anni, cioè quando il comune status di politico di professione rischia di cancellare le differenze ideologiche, l’opportunismo è l’esito inevitabile. Vale anche per Sanders? Eccome, sentite come descrive il suo rapporto con Biden: anche se abbiamo visioni politiche molto diverse conosco Biden da anni e lo considero un amico e una persona assolutamente rispettabile (...) Un uomo rispettabilissimo con cui collaborerò per portare avanti le nostre idee progressiste (...) Mi piaceva come persona, era un tipo per bene (...) abbiamo sviluppato una sorta di cameratismo. Queste parole al miele spese per uno dei peggiori presidenti della storia americana, l’uomo che ci sta trascinando verso la Terza guerra mondiale, che appoggia senza se e senza ma i regimi criminali di Zelensky e Netanyahu, che appartiene alla corrente Neocons e incarna gli interessi della lobby militare-industriale, sono rivelatrici: o Sanders pensa così di giustificare una scelta che i suoi sostenitori hanno accettato obtorto collo, o non ha la minima consapevolezza dell’attuale scenario geopolitico, oppure, a voler essere cattivi, è solidale con Biden perché anche lui avverte i primi sintomi di demenza senile.

L’ultima è ovviamente una battuta. Credo che ci troviamo di fronte a un mix delle motivazioni sopra descritte, al tempo stesso ritengo che il silenzio di Sanders sui temi internazionali sia particolarmente inquietante. Nulla dice sull’imperialismo americano e sul fatto che il benessere dei lavoratori americani, finché è esistito, è stato reso possibile dalla ricchezza accumulata a spese dei lavoratori di altri Paesi (soprattutto del Terzo Mondo). Pensa sia giusto recuperare quel benessere senza sottilizzare sui mezzi (nel qual caso non sarebbe diverso da Trump)? È consapevole del fatto che, se vuole sfidare il capitalismo, dovrà fare i conti in primo luogo con il proprio Paese, e con la sua ferma determinazione a conservare a qualsiasi costo il dominio acquisito con il crollo dell’URSS? Qual è, a suo avviso, il nemico principale del suo progetto: gli oligarchi a stelle e strisce oppure le potenze emergenti come Cina e Russia che sfidano la loro egemonia? Laddove scrive “ho pensato alla bellezza del nostro paese e alla capacità del nostro movimento di realizzare tutte le sue promesse” lascia aperte le porte al dubbio che speri di restaurare il mito della “unicità” americana con il corollario dell’american way of life. Si rende conto che ciò non è possibile se non, appunto, sfidando le speranze e le aspettative degli altri popoli?

Note

(1) Forse mi è sfuggito (nel qual caso chiedo venia), ma nelle pagine in cui critica il mito della libertà di stampa, mi è parso che Sanders non citi mai la feroce persecuzione che il suo governo ha messo in atto contro Julian Assange, reo di avere documentato i crimini di guerra americani in Iraq. Se è così credo sia davvero grave.

(2) Sul capitalismo woke, come viene definito l’attivismo a sostegno delle cause politicamente corrette da parte di alcune grandi imprese americane (soprattutto del settore high tech) vedi quanto ho scritto su queste pagine.

Fonte

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