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14/02/2024

Sull’Eni a Gaza il silenzio complice del governo Meloni

Il ministro dell’Energia israeliano ha annunciato la firma di una convenzione con cui Eni e altre società internazionali e israeliane hanno ottenuto la licenza per sfruttare il giacimento di gas offshore di fronte a Gaza

La tragedia finale di Gaza è incombente con un nuovo massacro a Rafah, all’orizzonte ci sono il Sinai, i carri armati egiziani, la pulizia etnica. Ma anche noi qui abbiamo un pessima storia da raccontare. Il cosiddetto “piano Mattei” è partito molto male, con una “scivolata” incredibile.

Il 29 ottobre, già in piena guerra, il ministro dell’Energia israeliano ha annunciato la firma di una convenzione con cui Eni e altre società internazionali e israeliane hanno ottenuto la licenza per sfruttare il giacimento di gas offshore di fronte Gaza all’interno della zona marittima G al 62% palestinese.

La notizia si è avuta solo in questi giorni dopo che alcuni gruppi palestinesi per i diritti umani (Adalah, Al Mezan, Al-Haq e Pchr) hanno dato mandato allo studio legale Foley Hoag di Boston di comunicare all’Eni e alle altre società coinvolte una diffida dall’intraprendere attività in queste acque. Evocando il rischio di complicità in crimini di guerra.

Come è potuta accadere una vicenda così imbarazzante (sotto interrogazione parlamentare di Verdi e Sinistra) che tra l’altro coinvolge il governo italiano, il maggiore azionista di Eni con il 32%? Quel governo italiano che nel recente vertice a Roma ha corteggiato il Continente africano agitando il Piano Mattei come una bandiera contro il «capitalismo predatorio» e il neo-colonialismo.

Secondo analisti del settore che seguono l’attività dell’Eni, l’azienda petrolifera si era aggiudicata i blocchi di concessione del gas offshore di Gaza in luglio, tre mesi prima della guerra. Ma questo – e molto altro – non giustifica che, nel mezzo di un conflitto così devastante, Eni accettasse la formalizzazione di questa operazione con un pezzo di carta burocratico: sarebbe bastato rinviarlo al mittente con una sospensiva, per altro assai giustificata dagli eventi.

A meno che il governo israeliano, che in Italia trova sempre una sponda diplomatica ai limiti del ridicolo (se non fossimo nel mezzo di una tragedia), non abbia esercitato le solite pressioni. Ma questa è solo un’interpretazione.

Non sono un’ipotesi invece le considerazione in base al diritto internazionale che avrebbero dovuto indurre l’Eni e il nostro governo a un atteggiamento più accorto.

Ecco perché bisognava essere prudenti. Lo Stato di Palestina ha aderito alla Convenzione dell’Onu sul diritto del mare e dal 2019, in linea con la Convenzione, proietta la sua porzione di mare per 20 miglia dalla costa. Il governo israeliano ha replicato che «solo gli Stati sovrani hanno il diritto alle zone marittime, compresi i mari territoriali e le zone economiche esclusive, nonché di dichiarare i confini marittimi».

Non essendo dunque quello palestinese uno Stato riconosciuto da Israele, non ha, secondo Tel Aviv, diritto legale sulle zone marittime.

Quindi Israele fa quello che gli pare.

Ma lo stesso Israele pur non avendo relazioni diplomatiche con il Libano nell’ottobre 2022 ha firmato con la mediazione degli Stati Uniti la demarcazione delle acque di confine con Beirut, ponendo fine a una disputa sullo sfruttamento delle riserve offshore di gas.

La realtà è che il governo israeliano non ha nessuna intenzione di osservare il diritto internazionale e di dare un riconoscimento statuale ai palestinesi, come del resto abbiamo constatato ora e negli ultimi decenni Israele, in quanto Stato occupante, inoltre non ha il diritto di utilizzare le risorse naturali delle terre occupate per un proprio vantaggio economico.

Ma ha sempre perseguito una logica coloniale e di rapina. Prendiamo il caso del giacimento di petrolio più ingente, quello di Meged (Megiddo), scoperto negli anni ’80 e sfruttato dal 2010. Il giacimento è a ridosso del confine tra Israele e Cisgiordania e l’Autorità palestinese sostiene che circa l’80% si trovi nel sottosuolo dei suoi territori.

Le proposte di sfruttamento congiunto, avanzate in passato anche da esponenti del governo israeliano, non hanno mai trovato applicazione e attualmente lo Stato ebraico utilizza il giacimento senza il coinvolgimento dell’Anp.

Per quanto riguarda il gas Israele sfrutta i giacimenti offshore Leviathan e Tamar, il cui gas in parte è estratto nell’ambito di un programma con Cipro e la Grecia: dal 2020 Tel Aviv è così diventata un esportatore di gas. Ma di lasciare ai palestinesi la loro quota legittima di gas non se ne parla neppure.

Nel 1999 l’Anp concesse una licenza alla British Gas che l’anno successivo scoprì un grosso giacimento al largo delle coste di Gaza, noto come Gaza Marine. Se sfruttato adeguatamente, il giacimento, stimato 30 miliardi di metri cubi di gas, potrebbe coprire l’intero fabbisogno palestinese e consentirebbe anche esportazioni.

Ma i palestinesi non possono estrarre il gas di Gaza Marine: nel 2007, in seguito all’ascesa al potere di Hamas, Israele ha dichiarato un blocco navale intorno alla Striscia, impedendo così anche l’accesso al giacimento.

E adesso l’annuncio con cui l’Eni e altre società (l’inglese Dana Petroleum, una filiale della South Korean National Petroleum Company e l’israeliana Ratio Petroleum) sfrutteranno il gas di Gaza. Alla faccia della lotta del governo italiano «al capitalismo predatorio».

La verità è che dovremmo riconoscere lo Stato palestinese subito, invece di blaterare formule vuote e di essere complici di questo massacro.

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