Ramallah. La confisca di auto, denaro e gioielli. «Prima se trovavano qualche centinaio di shekel i soldati se li intascavano. Ora arrivano in missione. Hanno devastato la cucina: aprivano gli sportelli, prendevano un piatto alla volta e li fracassavano a terra. Hanno tagliato i cuscini dei divani e aperto i cassettoni delle serrande. Ci ripetevano di dargli soldi e gioielli. Hanno confiscato la nostra auto».
Nura racconta di una notte insonne, una casa a pezzi.
A lei però è andata bene: i soldati le hanno dato un documento con i dettagli dell’auto. A Ghassan non hanno lasciato nulla. È un detenuto di lungo corso, tra arresti diversi ha trascorso 13 anni in carcere.
«Hanno lanciato i mobili dalla finestra. Mi dicevano di dargli i soldi e l’oro, che era meglio se li mettevo sul tavolo io. Hanno preso un migliaio di shekel e la mia macchina, dicevano che l’avevo comprata con denaro del terrorismo».
E poi, Lara. Vive accanto a Ghassan. L’hanno chiusa in una stanza con le due figlie, un soldato di guardia alla porta: «Avevano i cani, hanno terrorizzato le mie figlie. Hanno preso 2mila shekel». Cinquecento euro.
Il campo profughi di Dheisheh custodisce storie simili. «Dal 7 ottobre nessuno dorme tranquillo, l’esercito ogni notte arresta e ruba. Come non bastasse non avere più lavoro».
Haitham è il fratello di un prigioniero appena rilasciato, lo ha accolto al suo ritorno dopo due mesi e mezzo di galera: «Aveva barba e capelli lunghi, vestiti logori, segni rossi sul collo. Era lì davanti a me, seduto su una sedia, non smetteva di tremare».
Anche la sua famiglia ha ricevuto una visita notturna dell’esercito. Gli ha portato via quasi 3mila shekel, 750 euro. I casi sono decine, ma un dato preciso non esiste, ci dice l’associazione per la tutela dei prigionieri politici Addameer.
Riesce a catalogare solo le denunce che giungono al suo ufficio. «In genere perquisiscono le abitazioni di persone tuttora in prigione – ci spiega Addameer – Non conducono arresti ma confiscano denaro, auto e gioielli. La giustificazione è la stessa: si tratterebbe di beni destinati o derivanti da attività terroristiche. I soldati però non si presentano con ordini della corte. Portano via quello che trovano, senza lasciare traccia scritta».
Quasi mai alle famiglie vengono consegnati documenti in cui si registra tipo e valore dei beni confiscati, rendendo impossibile reclamarli o fare appello in tribunale.
«È una pratica di lungo corso – continua Addameer – Ma se nella Seconda Intifada gli arresti di massa e i furti cominciarono un anno dopo l’inizio della sollevazione, nel 2002, oggi accade in un periodo in cui non ci sono proteste popolari né scontri armati».
Non solo in Cisgiordania, succede anche a Gerusalemme sotto altre forme. Colpisce gli ex prigionieri politici, a cui l’Autorità nazionale palestinese riconosce un compenso mensile, calcolato sugli anni trascorsi dietro le sbarre e l’anzianità: «Qui Israele ha giurisdizione diretta sulle banche – conclude Addameer – Confisca il denaro direttamente dai conti bancari e poi li chiude».
I palestinesi parlano apertamente di furto, per vie ufficiose e ufficiali. A fine dicembre in raid coordinati a Jenin, Tulkarem, Gerico, Ramallah, Hebron, Halhul, l’esercito israeliano ha fatto irruzione in sei cambiavalute legati all’Anp: decine di jeep militari, gas lacrimogeni, esplosivi per far saltare le casseforti, 21 arresti e il sequestro di 2,5 milioni di dollari. Denaro, secondo Tel Aviv, che era diretto ad Hamas in Cisgiordania.
E poi c’è Gaza. Anche qui l’appropriazione opera su più piani, istituzionale e individuale. Tre giorni fa, scrive il quotidiano israeliano Maariv, l’esercito ha confiscato 200 milioni di shekel dalla sede principale della Bank of Palestine nel quartiere al-Rimal. 50 milioni di euro.
Si cita un portavoce dell’esercito: quei fondi facevano capo all’Anp ma sarebbero stati destinati ad Hamas, dice.
«L’occupazione si ripaga da sé, anzi fa profitto: risorse naturali che ci sottraggono, tecnologie militari che esportano, denaro che ci rubano», ironizza Haitham.
Qualcosa in tasca lo mettono i soldati. Con l’offensiva via terra a Gaza, le piattaforme social sono il contenitore per narrare le incursioni in case ormai vuote e il saccheggio. Collanine in dono alla fidanzata, tappeti pregiati, bici, orologi, computer. Un soldato si è fatto intervistare da una tv israeliana mentre si caricava uno specchio in spalla. Altri si riprendono mentre saccheggiano i negozi.
Difficile stimare il valore degli averi sottratti alle famiglie costrette a fuggire senza niente addosso perché piovono le bombe o uccise nei raid.
In altri casi i furti sono avvenuti durante gli arresti in abitazioni e rifugi, raccontano testimoni a Euro-Med. C’è chi si riconosce nei video, come il musicista Hamada Nasrallah, riporta The New Arab: su TikTok ha visto la sua chitarra, un soldato la suonava sui resti di una casa rasa al suolo. Gliel’aveva regalata suo padre dopo l’offensiva israeliana del 2014.
Secondo l’israeliano Yedioth Ahronoth, i soldati avrebbero confiscato beni per 5 milioni di shekel, 1,3 milioni di euro (25 milioni secondo il ministero di Gaza), in quello che definisce un «furto sistematico» confermato da un medico militare: «Inizia con materassi, stoviglie. Continua con giocattoli, telefoni, aspirapolveri, moto... mi sono vergognato».
Successe nel 2008 con Piombo Fuso e nel 2014 con Margine Protettivo. Per i palestinesi è la continuazione di una spoliazione – di terre, oggetti della vita quotidiana, ricordi – che va avanti da sette decenni.
(I nomi sono stati cambiati per motivi di sicurezza)
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