Si presenta con una giacca nera, il berretto di ordinanza: quel nero opaco è un alone, una specie di atmosfera che lo accompagna.
Fa un certo effetto sul palco dove parecchi sfoggiano un nude look con ricami.
Non sorride, ma non ha la faccia del duro. Attacca “I p’ mme tu p’ tte”. Il testo parla di una storia d’amore che appena cominciata è già finita, con malinconia ma senza stalkeraggio.
È una litania sommessa, con dei beat elettronici fangosi. Niente di urlato. Piuttosto, un parlato confidenziale dove le parole scendono a cascata.
Nel bel mezzo del ritornello, poi: “O ciel’ c’ sta guardann’ quann’ chiov’ è pchhè s’è dispiaciut’ p’ mme e p’ tte”: il cielo ci sta guardando mentre piove, è perchè si è dispiaciuto per me e per te.
Tecnicamente, un “correlativo oggettivo”. Ma è anche una immagine infantile, candida. Il suo effetto potrebbe essere letalmente kitsch. Invece, funziona.
Attraverso quel cielo grigio che piange ho visto manifestarsi sul palco di Sanremo il paesaggio dal quale Geolier trae ispirazione e che continua a fargli da sfondo: una periferia con caseggiati a schiera, motorini che sciamano, pistole.
Chi, come me vive al centro di Napoli, quel paesaggio lo conosce, ma non lo bazzica. Solo da una ventina d’anni è venuto allo scoperto, entrato nell’immaginario di massa grazie a libri e a serie tv. Ora ha i suoi cantori, tra cui Geolier.
A Sanremo (e non solo) qualcuno non si è riuscito a raccapezzare: come mai un ragazzo così opaco per poco non è arrivato al primo posto grazie ai voti del pubblico? Cantando in napoletano, poi.
La risposta è: proprio perché canta in napoletano.
Come tutti i dialetti, il napoletano accoglie rimasugli, sporcizia, imperfezioni. Della strada, dei pensieri, della gente.
Preserva detriti e incrostazioni e li rimescola: tutta questa roba entra in chi ascolta. Una sorta di linguaggio cenestesico, corporeo.
Pure chi non capisce il napoletano sente i pezzettini di vita che vi sono rimasti impigliati. Ora, nel caso di Geolier, la sua voce pacata è un veicolo perfetto. Non distrae con urla e vibrati. Tutto scorre, come un flusso.
Prendiamo una sua canzone, “Narcos”, molto criticata sui social e non solo. “Inneggia alla camorra”, dice qualcuno. “È un‘ hit per ragazzini delle gang”, fa eco qualcun altro. Nel video è lo stesso Geolier, in piedi su un auto, a impugnare un mitra d’oro.
In “Narcos”, a parlare, in prima persona è un killer: “Chesta sera bevo troppo mentre pens a diman/nto cassetto teng a Glock, affianc ‘o conto bancario” (Stasera bevo troppo mentre penso a domani/nel cassetto c’ho la pistola accanto al conto in banca).
Guardando il video, ascoltando il testo ci si accorge che “Narcos” non inneggia a niente. Piuttosto è un monologo interiore. O addirittura una visione, un sogno, raccontato come un flusso di coscienza.
Lo seguiamo nell’accumularsi di immagini: “Vamos a la playa/con la plata nella Gucci/ me dice que soy bueno/mentre lev ‘a cinta Gucci/ trappo comm ‘a Genni/ mentre accir a nu cristian” (Vamos a la playa, con la pistola nella Gucci/ mi dice che sono carino/ mentre sfila la cinta Gucci/ trappo come Genni/ mentre uccido un uomo).
In due righe si trovano roba come un outfit griffato, una relazione, la scena che prepara un omicidio. Ma non finisce qui: “Vestut bbianc ca ciabatta co sigaro Cuban / n’aggio vist mai e cartun, sulu Lucky Luciano” (vestito di bianco con le ciabatte e col sigaro cubano/ non ho mai visto i cartoni, solo Lucky Luciano).
Descrizione velocissima di un personaggio. Fa anche ridere: un killer, con le ciabatte, vestito di bianco che non è cresciuto coi cartoni, ma con Lucky Luciano.
Ora, qualche ragazzino può identificarsi in questo killer griffato e in ciabatte? Forse sì. Ma non sarà certo il cantare questa canzone a spingere il ragazzino a fare il killer. La narrazione di una realtà non è apologia di quella realtà.
Geolier filtra, mescola e canta il pensiero e l’immaginario che allaga la sua periferia. Griffes, abiti, pistole, sentimenti, consumismo, luoghi. Tutto è inghiottito dalla corrente.
Geolier non prende posizione: lascia sgorgare il flusso. Accostando parole con maestria, provocando immagini, sensazioni. Il suo vantaggio è possedere una lingua indigena/endogena nella quale tutto può essere impastato.
Detto questo, perché le sue storie, ovvero le sue canzoni, piacciono a tanti, anche a ragazzi e a ragazze che di quella Periferia non fanno parte e che non parlano il napoletano?
Non c’è una risposta unica, ma possiamo immaginare che quelle ragazze e quei ragazzi sentono che il napoletano di Geolier sia un luogo in cui accadono cose. Pur non capendo tutto, parola per parola.
Un po’, forse, come accadeva a noi boomer quando ascoltavamo le canzoni di Dylan, dei Dire Straits, di Springsteen, senza avere a disposizione il testo in inglese. Ci lasciavamo andare a qualcosa che sentivamo buono per noi, in quei song c’era qualcosa di forte che accadeva.
Ragazzi e ragazze di Milano e Sesto San Giovanni amano la voce sommessa e ritmata di Geolier che racconta frammenti di vita. Un po’ capiscono, un po’ ci mettono del loro. In fin dei conti, ogni buon narratore lascia che gli altri completino la storia. L’importante è che il materiale di partenza sia di prima mano. Quello di Geolier lo è.
“ce cunuscetteme pe ccaso, tu ire bbella, troppo(ci siamo conosciuti per caso, tu eri bella, troppo
Faceva friddo e te rett ‘o giubbino mio, Vuitton
Me riste ‘a mano e camminaieme pe dduie metre
Poi ce fermaieme, ce vasaieme senza sentì o ggelo”
(Geolier, “X caso”)
Faceva freddo e ti ho dato il mio giubbino, Vuitton
Mi hai dato la mano, abbiamo camminato per un paio di metri
Poi ci siamo fermati, ci siamo baciati senza sentire il gelo)
Fonte
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