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31/08/2022

The beast stalker (2008) di Dante Lam - Minirece


 

I dilemmi marxisti di Paul Sweezy

L’economista statunitense ha dedicato la propria vita a comprendere il funzionamento del capitalismo e i suoi cambiamenti dai tempi di Marx. Le grandi domande economiche che ha affrontato perseguitano ancora oggi la sinistra socialista.

Paul Sweezy è stato uno degli economisti marxisti più illustri e più controversi del ventesimo secolo. Ha affrontato alcune delle questioni più vitali che chi vuole comprendere il capitalismo per poterlo superare si trova davanti. Nonostante abbia giocato un ruolo significativo nel diffondere le idee di Karl Marx, non gli è bastato fermarsi a questo e ha sviluppato un proprio schema concettuale per spiegare il modo in cui le economie capitaliste si stavano evolvendo durante i decenni del seecondo dopoguerra.

I suoi due libri più importanti, La teoria dello sviluppo capitalistico (1942) e Il capitale monopolistico (1966), quest’ultimo scritto insieme a Paul Baran, hanno generato una grande quantità di letteratura critica, e sono stati tradotti in molte lingue. La sinistra odierna è ancora alle prese con i problemi che Sweezy ha incontrato nel cercare di dare un senso al capitalismo contemporaneo, e la sua influenza continua a farsi sentire nel mondo intellettuale dell’economia politica radicale.

Il percorso di Sweezy verso il marxismo

Paul Marlor Sweezy è nato a New York City il 10 aprile 1910, figlio di un banchiere di Wall Street. È stato educato alla Phillips Exeter Academy e all’università di Harvard, dove si è laureato nel 1931, senza aver imparato assolutamente niente di Marx. Nel 1932-33, si è iscritto alla London School of Economics, dove ha studiato economia liberale sotto Friedrich von Hayek e Lionel Robbins, ma ha anche appreso idee politiche socialiste da Harold Laski.

Quando è tornato negli Stati uniti nel 1933, Sweezy si considerava marxista, anche se, come vedremo, ciò non era immediatamente evidente nelle sue primissime pubblicazioni accademiche. Tornato ad Harvard, Sweezy ha tenuto un corso sul socialismo con Edward S. Mason, e ha lavorato alla tesi di dottorato sotto la supervisione di Joseph Schumpeter. Schumpeter era molto preparato sul marxismo, anche se ne è sempre stato profondamente critico.

Nel 1938, l’università di Harvard ha pubblicato la tesi di dottorato di Sweezy su un cartello consolidato dell’industria del carbone britannica. Tra il 1934 e il 1942, Sweezy ha lavorato anche per diverse agenzie federali governative, aiutandole a implementare il New Deal di Franklin Roosevelt, prima di unirsi all’Ufficio dei Servizi Strategici (l’antesignano della Cia) per lavorare come ricercatore d’ufficio durante il coinvolgimento degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale.

Sul finire della guerra il pendolo politico statunitense si stava già spostando velocemente a destra, e Sweezy si è reso conto che se fosse tornato alla propria posizione accademica ad Harvard non gli sarebbe stata concessa la cattedra. A questo punto la sua situazione familiare privilegiata si è rivelata utile, perché gli ha permesso di dimettersi da Harvard, spostare la famiglia nel New Hampshire e lavorare come studioso e giornalista indipendente e radicale.

Con il suo amico Leo Huberman ha fondato il giornale socialista indipendente Monthly Review, che ha editato dalla sua prima uscita nel maggio 1949 fino a che non è andato in pensione nel marzo 1997. Sweezy non ha mai più ottenuto una posizione a tempo pieno all’università, anche se è stato spesso chiamato come docente a contratto. È morto a novantatré anni il 27 febbraio 2004.

Contributi iniziali

Le prime pubblicazioni accademiche di Sweezy avevano poco o nulla a che vedere con il marxismo, ma hanno dato un significativo contributo intellettuale alla letteratura sull’economia mainstream. Il suo primo articolo è stato una recensione approfondita e molto critica della Teoria della Disoccupazione di A. C. Pigou, che spiegava la disoccupazione in termini pre-keynesiani, come risultato di eccessive richieste salariali dei lavoratori.

Sweezy si è rivelato presto un keynesiano entusiasta, spingendo per un aumento della spesa pubblica, finanziata dai deficit di bilancio, in risposta alla «seconda depressione» del 1937-38. Ha anche dimostrato un caso di studio di microeconomia per la teoria della disoccupazione di John Maynard Keynes in un breve ma originale articolo pubblicato nel 1939 nel Journal of Political Economy. Un’impresa oligopolistica, sosteneva Sweezy, si trova generalmente davanti una curva della richiesta alterata e quindi anche una discontinuità verticale nella sua curva marginale delle entrate. Questo dovrebbe anche applicarsi alla sua curva marginale del prodotto (richiesta di manodopera).

Si trattava di un impressionante scritto di teoria originale dell’economia neoclassica, basato sull’idea che le vendite del prodotto di un oligopolio sarebbero crollate molto più in fretta se il prezzo fosse stato alzato piuttosto che se fosse stato ridotto. Questo si applicherebbe anche, secondo Sweezy, ai livelli di assunzione dell’azienda in caso di aumento o riduzione dei salari. A queste condizioni, tagli salariali reali non avrebbero alcun effetto sulle assunzioni. Solo una crescita della curva di domanda del prodotto potrebbe aumentare il numero dei lavoratori; ciò richiedeva negli ultimi anni Trenta del '900 l’implementazione a livello macroeconomico delle politiche keynesiane.

La teoria dello sviluppo capitalistico

Le implicazioni del declino della competizione nelle economie a capitalismo avanzato sono un elemento portante ne La Teoria dello sviluppo capitalistico, pubblicato nel 1942, che, come esposizione di teoria economica marxista, ha avuto una grandissima influenza. Il libro è diviso in quattro parti: le prime tre sono dedicate all’esposizione delle idee di Marx, mentre nella sezione finale Sweezy si concentra sulla propria analisi dello stadio monopolistico dello sviluppo capitalista.

Nella prima parte, «Valore e Plusvalore», Sweezy inizia a esplicitare la metodologia fondamentale di Marx. Poi fornisce un resoconto acuto e originale dei problemi di valore «qualitativo» e «quantitativo» distinti da Marx, dove il primo riguarda le relazioni tra i produttori e il secondo le relazioni tra i loro prodotti. Il primo solleva questioni legate al lavoro teorico e al feticismo delle merci, mentre il secondo alla determinazione dei valori di scambio relativi delle merci.

La seconda parte, «Il processo di accumulazione», affronta l’analisi marxista della produzione semplice o espansa, concentrandosi sulla creazione e sul rifornimento costante di un «esercito di riserva» di disoccupati, sulla tendenza alla caduta del saggio di profitto, e sulla trasformazione dei valori della manodopera nei prezzi della produzione. Sweezy critica il trattamento marxista sia della tendenza alla caduta del saggio di profitto sia del problema della trasformazione. Mentre la questione del valore qualitativo resta profondamente importante, suggerisce Sweezy, lo stesso non si può dire della questione quantitativa: «Il mondo reale è fatto di calcolo dei prezzi; perché non ragionare in termini di prezzo fin dall’inizio?».

Nella terza parte, «Crisi e Depressioni», Sweezy appoggia il rifiuto marxista della Legge di Say, secondo cui l’offerta complessiva crea la propria complessiva domanda e quindi una tendenza intrinseca verso la piena occupazione. Questo lo porta poi a sottolineare i problemi che i capitalisti hanno nel «prendere atto» del plusvalore contenuto nella loro merce sotto forma di profitto monetario, a causa della mancanza della domanda complessiva effettiva. Mette grande enfasi sull’analisi marxista delle crisi legate al sottoconsumo, causate (come affermato dallo stesso Marx) «dalla povertà e dal ridotto consumo delle masse». Sweezy traccia un’analisi dettagliata dei modelli di riproduzione delineati da Marx nel secondo volume del Capitale e abbozza un modello matematico formale di sottoconsumo preso dall’opera del teorico austriaco Otto Bauer.

Conclude, nella parte quarta, «Imperialismo», esaminando le prospettive per la prosperità del capitalismo nello stadio più tardo del suo sviluppo. Secondo Sweezy, il capitalismo monopolistico si caratterizza per un’aumentata concentrazione e centralizzazione del capitale, l’avvento di enormi società per azioni, e la crescita di cartelli, trust e fusioni. La domanda effettiva subisce grandi pressioni, sostiene Sweezy, perché i nuovi investimenti devono limitarsi a difendere il saggio di profitto e la crescita reale dei salari declina, rafforzando la tendenza al sottoconsumo.

C’è però anche una forte tendenza a un aumento dell’esborso statale e alla crescita di diverse forme di consumo non produttivo, quest’ultima dovuta a un grande aumento dei costi di vendita. Qui Sweezy si appoggia all’opera di Vladimir Lenin per spiegare la proliferazione del nazionalismo, del militarismo e del razzismo in quello che l’Unione Sovietica considerava essere lo stadio finale imperialista del capitalismo.

Sweezy e Baran

Sweezy ha continuato a riflettere e pubblicare su questi temi fino alla fine della propria vita. Nel mentre, è stato responsabile di un’aggiunta significativa alla letteratura anglofona sull’economia politica marxista. Si tratta della sua edizione del 1949 dei testi classici sul problema della trasformazione di Eugen von-Böhm-Bawerk, Rudolf Hilferding, e Ladislaus von Bortkiewicz. La critica del marxismo di quest’ultimo è stata estremamente influente. Sweezy ha anche pubblicato un resoconto attento e solidale del punto di vista sul sottoconsumo di Rosa Luxemburg. Nel frattempo, le sue idee hanno continuato a evolversi, sotto l’influenza di due importanti keynesiani, il polacco Michał Kalecki e l’economista austriaco Josef Seindl. Sia Kalecki che Steindl hanno analizzato i legami tra la crescita del potere dei monopoli e l’aumento dell’instabilità economica.

Tuttavia, il contributo principale di Sweezy è arrivato quasi un quarto di secolo dopo l’apparizione de La teoria dello sviluppo capitalistico, con la pubblicazione di quella che è stata certamente la sua opera più venduta, Il capitale monopolistico, nel 1966. Il suo coautore era un rifugiato della Russia stalinista, Paul Alexander Baran, giunto a Harvard nel 1939 con una lettera di raccomandazione dell’economista polacco Oskar Lange. Nell’URSS, Baran aveva studiato all’Istituto Plekhanov, e aveva quasi sicuramente acquisito il suo interesse di tutta una vita sullo stadio monopolistico del capitalismo dal suo direttore, Yevgeny Preobranzhensky. Oltre alle idee di Preobranzhensky, Baran ha aggiunto qualcosa di proprio alla ricerca su Il capitale monopolistico. Importante notare che il concetto di surplus economico – «la differenza tra quello che produce una società e il suo costo di produzione» – era suo, non di Sweezy. Sua era anche la distinzione tra surplus effettivo e surplus potenziale, che evidenziava chiaramente gli sprechi intrinsechi nel capitalismo avanzato, in quanto il surplus che veniva veramente prodotto si allontanava sempre di più dal massimo possibile. Questo elemento cruciale, che probabilmente derivava in parte dal periodo che Baran aveva speso in Germania studiando con la Scuola di Francoforte, gli ha permesso di mettere in risalto la dimensione culturale e ideologica del capitalismo, che sono analizzate nelle ultime ottanta pagine de Il capitale monopolistico.

L’attenzione di Baran per lo sfruttamento del Terzo Mondo era inoltre più mirata di quella di Sweezy. Affermava infatti che l’estrazione di surplus dalle aree arretrate del mondo aiutava sia a spiegare la passività della classe lavoratrice occidentale, comprata con una piccolissima porzione dei profitti, sia a dimostrare il potenziale rivoluzionario della classe contadina in territori coloniali ed ex-coloniali.

Il capitale monopolistico

Sweezy ha pubblicato Il capitale monopolistico due anni dopo la morte di Baran. Come si evince dal titolo, derivava molto dalla letteratura sulle grandi società per azioni contemporanee, in grado di eliminare la competitività dei prezzi e aumentare i margini di profitto. La conseguenza era una forte tendenza alla crescita del surplus come proporzione della produzione totale, intensificando il problema del sottoconsumo su cui Sweezy si concentrava dal 1942.

Nel libro segue un dibattito approfondito sui modi in cui l’aumento del surplus può essere assorbito, tra cui la crescita del consumo e delle spese di investimento dei capitalisti, l’aumento della spesa militare, la crescita della spesa civile dello Stato e una più intensa attività militare e imperialista in generale. Il modello macroeconomico de Il capitale monopolistico è essenzialmente keynesiano e si appoggia sostanzialmente su quello che è conosciuto come «keynesismo militare».

Per Sweezy e Baran le conseguenze politiche di questa analisi erano chiare: qualsiasi speranza per il mondo poggiava sulle spalle dei «popoli rivoluzionari» di nazioni come Vietnam, Cina, Cuba e Algeria – ovvero, sulle possibilità di rivoluzione fuori dalle nazioni a capitalismo avanzato. Il punto di vista di Sweezy sul socialismo era quindi cambiato in modo significativo dal 1942, quando ancora supportava caldamente il comunismo sovietico e sperava che qualcosa di simile si potesse stabilire anche negli Stati Uniti – anche se non si è mai iscritto al Partito comunista statunitense, che considerava troppo dogmatico. Sweezy supportava ora la Cina maoista invece dell’URSS, poiché credeva che Mao conservasse il fervore rivoluzionario che era stato abbandonato da Nikita Khrushchev e i suoi associati sovietici. Tuttavia, con la morte di Mao e la vittoria dei fautori della «via del capitale», prima in Cina e poi più in generale dopo la disintegrazione dell’Unione Sovietica nei primi anni Ottanta, Sweezy ha abbandonato la sua opposizione storica al riformismo e concluso la propria vita come l’aveva iniziata, come socialdemocratico di sinistra.

Durante i tre decenni dopo la pubblicazione de Il capitale monopolistico Sweezy si è reso conto che la sua analisi del settore finanziario era inadeguata. Mentre lui e Baran avevano dato per scontato che la gestione aziendale fosse pressoché immune dalle pressioni finanziarie del mercato, il sistema capitalistico si era spostato ormai in una direzione molto diversa, con le acquisizioni e la minaccia delle acquisizioni a esercitare una profonda influenza sul modo di pensare e comportarsi delle aziende. Nei suoi ultimi scritti, Sweezy ha ammesso che la sua iniziale analisi del capitale era stata unidirezionale e incompleta, perché poco concentrata sull’interazione fra i suoi aspetti reali e finanziari. Ma non è riuscito a interagire con altre correnti di teoria macroeconomica – per esempio, con l’«ipotesi di instabilità finanziaria» post-keynesiana introdotta da Hyman Minsky – o a considerare con serietà la possibilità che negli anni Settanta fosse iniziato un nuovo stadio neoliberale e competitivo dello sviluppo capitalista, indebolendo il potere dei monopoli e mettendo in dubbio la legge della crescita del surplus.

Un bilancio recettivo della notevole carriera intellettuale di Sweezy, che è durata più di sei decenni, dovrebbe quindi concludere che essa ha messo in luce molti dei dilemmi affrontati dagli economisti marxisti del ventesimo secolo. In un saggio che ho scritto con Mike Howard nel 2004, abbiamo concluso la nostra analisi dell’opera di Sweezy elencando cinque di questi dilemmi:
Qual è la causa principale delle crisi economiche: la produzione del plusvalore o la sua realizzazione? Il sistema capitalista ha conosciuto una crescita ciclica vigorosa ma instabile oppure una stagnazione? Dovrebbe essere analizzato in termini di valore della manodopera o di prezzi di mercato? È possibile che la pianificazione centrale possa sostituire completamente il mercato sotto il socialismo? Lo stato capitalista è un nemico di classe o un potenziale agente di riforma sociale?
Queste domande faticose ancora perseguitano la sinistra, e l’incapacità di Paul Sweezy di dare risposte convincenti ad alcune di esse certo non sorprende. Non c’è motivo per screditare il lavoro di una vita di un pensatore socialista eccezionale.

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Il ministero “perdona” le condotte della polizia in carcere nel marzo 2020

Ego te absolvo a peccatis tuis: potrebbe concludersi così la relazione finale presentata il 17 agosto dalla commissione ispettiva del ministero della giustizia incaricata di far luce su quanto accaduto durante e dopo le proteste dei detenuti avvenute negli istituti penitenziari nel marzo 2020, “sui comportamenti adottati dagli operatori penitenziari per ristabilire l’ordine e la sicurezza e su eventuali condotte irregolari o illegittime”.

Una commissione istituita nel luglio 2021 dall’allora capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, nominato dal ministro Bonafede e succeduto a quel Francesco Basentini che si era dimesso a causa delle polemiche suscitate dalle scarcerazioni di presunti boss per gravi ragioni di salute, nel pieno dell’epidemia Covid.

Agli inizi del 2022, però, anche Petralia si è dimesso dal suo incarico, e la relazione è arrivata sulla scrivania del nuovo capo Dap, Carlo Renoldi, accompagnata da un documento di due pagine nelle quali si elencano alcune iniziative messe in atto dal Dipartimento dopo i fatti del 2020.

Le più rilevanti consistono nel rifornimento dell’equipaggiamento in dotazione alla polizia penitenziaria per circa ventimila guanti antitaglio, ottomila cinquecento caschi antisommossa, duemila sfollagente e duemila kit antisommossa, come a sottintendere che la soluzione per il controllo e la gestione delle carceri non possa che passare per la violenza.

Lascia ancor più perplessi in questo senso l’istituzione, in alcuni provveditorati, dei cosiddetti Gruppi di intervento rapido, gli stessi che (come emerge dagli atti del processo in corso per i fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere) hanno esasperato un clima di tensione già esistente, fino a rendersi protagonisti, nel caso del penitenziario casertano, di quella che la stessa procura non ha esitato a definire come una “mattanza”.

Ventidue ispezioni in sei mesi

L’obiettivo della Commissione era quello di esaminare “da dentro” quanto accaduto durante e dopo le proteste che i detenuti avevano messo in atto, preoccupati dal clima di paura provocato dallo scoppio della pandemia e della sospensione dei colloqui in presenza decisa nei primi mesi del 2020.

Sono stati ispezionati ventidue carceri, classificati dallo stesso dipartimento come “sedi di rivolte”. Gli istituti sono stati visitati tra il settembre 2021 e il marzo 2022 e per ciascuno è stata stilata una relazione dettagliata, includendo anche i verbali delle persone sentite che, a vario titolo, sono state coinvolte nei fatti (si è scelto di fare eccezione dei detenuti, poiché, secondo quanto scritto, in molti casi coinvolti in procedimento penali pendenti).

Il clima di terrore, diffuso dai media e incrementato dalle confuse notizie che venivano da fuori, è stato individuato come una delle cause delle proteste dei detenuti, ma un ruolo viene attribuito anche alla “produzione normativa e para-normativa ‘a cascata’ dettata sull’onda dell’emergenza continua”.

In particolare, la relazione chiama in causa il d.l. 8 marzo 2020 (che avrebbe avuto “un effetto significativo sulla genesi di quasi tutte le sommosse in esame, fungendo da detonatore di altre consistenti cause di malessere che già albergavano tra la popolazione detenuta”) e le confuse circolari del Dipartimento – sostituite in breve tempo da nuove indicazioni – che hanno contribuito a creare uno stato di smarrimento generale tra tutti coloro che operavano in carcere, compresi, ovviamente, i detenuti.

Dall’esame della documentazione utilizzata dalla Commissione si evince che “tra il 7 ed il 12 marzo 7517 detenuti hanno inscenato manifestazioni di protesta collettive caratterizzate da battiture, rifiuto del vitto, lancio di oggetti ed atti vandalici che hanno interessato cinquantasette istituti penitenziari, nonché più violente rivolte caratterizzate da devastazioni delle strutture, atti di violenza nei confronti del personale penitenziario e sanitario, sequestri di persona, evasioni in massa e altro ancora”.

In soli due giorni (tra l’8 e il 10 marzo) sono decedute tredici persone; settantadue detenuti sono evasi dal carcere di Foggia (in parte rientrati e in parte riarrestati in seguito); sono stati avviati numerosi procedimenti penali a carico di detenuti coinvolti nelle proteste e sono stati calcolati – bisognerebbe valutare in che modo, considerando il degrado preesistente delle strutture – milioni di euro di danni.

Non può dirsi, allora, che il fenomeno sia stato casuale, né che si sia trattato di un’eccezione: è evidente che la gestione dell’emergenza è stata carente, improvvisata, priva di qualsiasi tipo di lettura che potesse consentire la prevenzione delle reazioni che si sono poi scatenate.

La “regia occulta”

Nella relazione si ricercano, istituto per istituto, le motivazioni che hanno spinto i detenuti a protestare. Per esempio, tra gli eventi avvenuti nel carcere di Salerno – il primo in cui ci sono state rimostranze – si fa riferimento a un “papello” consegnato dai detenuti alle autorità durante le trattative per spegnere la protesta.

Il documento appare tutt’altro che pretestuoso, tanto che la Commissione segnala come il “papello” contenga precise richieste di cautela sanitaria, a cui si aggiungono richieste di attivazione dei video-colloqui e, ancora, la richiesta di aumento del personale nelle ore notturne.

Nonostante i concreti riscontri rispetto al fatto che il documento sia stato redatto dai detenuti dopo l’inizio delle proteste (a seguito di una interlocuzione con il Garante regionale Samuele Ciambriello), si è tentato di dimostrare l’ipotesi di un disegno preordinato all’origine delle sollevazioni, salvo poi constatare che “la diffusione in tempo reale dei contenuti del ‘papello’ sugli organi di informazione [...] e all’interno degli istituti di pena, possa avere avuto l’effetto di provocare un effetto emulativo rinforzando analoghi propositi di rivolta dei detenuti più facinorosi anche negli altri istituti”.

D’altronde, le indagini sono state svolte dal Nucleo investigativo regionale della polizia penitenziaria che ha analizzato i tabulati telefonici di alcuni cellulari rinvenuti in carcere senza rinvenire nessun elemento utile ad avvalorare l’ipotesi di una “regia occulta”.

La Commissione dà piuttosto atto della situazione di totale fatiscenza e sovraffollamento degli istituti e in molti casi riferisce chiaramente che non può essere sottovalutata l’incidenza sulle proteste delle “poco decenti condizioni di vita dell’istituto e dell’elevato indice di sovraffollamento”, considerati come fattori destinati ad amplificare la paura del contagio e a influire negativamente sullo stato d’animo dei detenuti, molti dei quali fragili e con dipendenze da alcool e assunzione di droghe (una fotografia fedele di quello che accade in molti degli istituti penitenziari e che, da anni, invano, viene denunciato da più fronti).

Le condizioni del carcere di Modena sono considerate per esempio “compromesse” ben prima dell’inizio delle proteste; anche qui si dà atto di un elevatissimo numero di persone con problematiche di tossicodipendenza, e i detenuti sono 547 a fronte di una capienza massima di 361.

Per quanto riguarda i detenuti che sono stati trovati morti, ufficialmente a causa dell’ingerimento massiccio di psicofarmaci e metadone, vale per tutti lo stesso referto: “Accompagnato da agenti in PMA, in arresto cardiocircolatorio, cianotico, assenza di polso e respiro. Segni esterni traumatismo non evidenti”.

Niente di diverso per i detenuti morti durante il trasferimento o una volta giunti alla nuova destinazione.

Nel caso specifico, la Commissione sembra mantenere dubbi “per quanto riguarda l’ipotesi […] che da parte della polizia penitenziaria possano esservi state violenze in particolare ai danni di un gruppo di detenuti nella fase prodromica al trasferimento in altri istituti, mentre si trovavano radunati in un locale della caserma agenti in attesa di essere identificati e perquisiti”.

Epperò, si prende atto del fatto che in mancanza di video riprese, di verbali di denuncia della polizia penitenziaria o di referti medici, la Commissione non è in grado di esprimere una autonoma valutazione su quanto accaduto.

Tornando al tema delle presunte regie occulte, la Commissione esclude anche una possibile regia della criminalità organizzata. Per tutti gli istituti analizzati, – ovvero Napoli Poggioreale, Pavia, Padova, Cremona, Milano San Vittore (tasso di sovraffollamento del 96%), Bologna, Foggia, Matera, Roma Rebibbia N.C., Termini Imerese, Rieti (dove sono deceduti due detenuti e altri sono stati trasportati in ospedale a seguito dell’assunzione di psicofarmarci, eventi per i quali pendono dei procedimenti penali contro ignoti), Melfi (dove pende un procedimento per violenza a danno dei detenuti per il quale è stata richiesta l’archiviazione dalla procura di Potenza), Ferrara, Alessandria, Isernia, Siracusa, Palermo Pagliarelli e Trapani – le problematiche individuate all’origine delle proteste sono sempre le stesse: paura del contagio, sovraffollamento, mancanza di comunicazione con i detenuti, chiusura dei colloqui, omessa fornitura di qualsiasi tipo di strumento di prevenzione del contagio e richieste di provvedimenti di clemenza o di liberazione da parte della magistratura di sorveglianza.

Un caso isolato?

L’affannoso e infruttuoso tentativo di individuare una “regia occulta”, oltre che cause esogene alle proteste (la presenza di familiari e attivisti fuori gli istituti penitenziari nei giorni delle rivolte o le richieste da parte di associazioni per provvedimenti di liberazione anticipata), depotenzia le conclusioni della relazione.

Quest’ultima, infatti, con riferimento ai fatti di Modena e Melfi, fa trasparire dubbi rispetto al corretto operato della polizia penitenziaria, ma non si spinge oltre in ragione delle indagini ancora in corso o la mancanza di elementi documentali e probatori.

L’impossibilità di mettere in relazione la risposta scomposta e violenta degli agenti di polizia penitenziaria con la presunta esistenza di un piano preordinato palesa piuttosto la preoccupante incapacità dell’amministrazione di una lettura efficace della realtà e dei fenomeni che si sviluppano dentro e intorno al carcere.

Una deficienza che rende sterile ogni tentativo di ricostruzione a posteriori di ciò che è avvenuto in quei giorni e incapace di proporre qualsiasi minimo miglioramento dell’esistente.

Certo, è apprezzabile che si faccia riferimento alla situazione indignitosa di vita dei detenuti, e alla totale impreparazione degli istituti nella gestione dell’emergenza Covid, ma proprio per questo non può accettarsi il meccanismo autoassolutorio con cui si conclude il documento e che stride, portando alla luce tutte le loro contraddizioni, con i comportamenti e le parole della ministra Cartabia in visita in vari istituti penitenziari proprio il giorno di Ferragosto.

Infatti, come in un’excusatio non petita, la relazione si conclude con un riferimento alle condotte violente che gli agenti di polizia penitenziaria hanno tenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, definendole “eccezioni alla regola”, “casi isolati che non possono certamente scalfire la reputazione dei tanti servitori dello Stato che ogni giorno lavorano negli istituti penitenziari del nostro Paese in condizioni difficilissime, con spirito di sacrificio e senso di responsabilità istituzionale”.

Su quanto la vicenda campana (con tutta la catena di comando coinvolta, fino ai più alti livelli) possa considerarsi un caso isolato, in un contesto nazionale che ha coinvolto in pochi giorni quasi sessanta carceri e provocato tredici morti, bisognerebbe interrogarsi seriamente.

Solo in parte, infatti, potrà rispondere a questa esigenza la Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere.

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Guerra in Ucraina - Su Zaporizhzhia, un consiglio a Bonelli

Eccomi qua, mi occupo di impatto ambientale dei nuclidi radioattivi, ho in fondo all’articolo un consiglio per gli amici bonelliani.

Perché bisogna aiutarli. Qui siamo al delirio, ad una fase psichiatrica acuta di negazione della realtà come in 1984.

Questi poveri sedicenti-verdi-sinistri in quota PD vanno a protestare sotto l’ambasciata RUSSA, perché secondo loro la centrale in mano russa dai primi di marzo se la AUTOBOMBARDANO i russi stessi. Lo dice Zelensky, lo dicono gli Ucraini, notoriamente inclini a non sparare balle colossali, quindi è vero!

Fossi l’ambasciatore russo, darei a questi poveretti un bigliettino con l’indirizzo dell’ambasciata Ucraina. Passi lunghi e ben distesi, andate là che avete sbagliato indirizzo.

I verdi italiani sono sempre stati di acutezza limitata, ma mo’ si esagera.

Ripetete con me:

– La Centrale è in mano russa da cinque mesi, produceva energia elettrica in quantità, ora è spenta, ma è perfettamente in sicurezza.

– A bombardare sono gli Ucraini, e ho già detto in un mio pezzo inascoltato che – vista questa guerra – ho visto crimini peggiori. Danneggiano le prese d’acqua esterne all’impianto, le parti fuori dal contenitore di sicurezza, i tralicci elettrici, per costringere i russi a spegnerlo, e sperabilmente (per loro) a renderlo inservibile per un bel po’, ed è comprensibile, perché girano loro le scatole che i russi abbiano occupato quel ben di Dio, la più grossa centrale elettronucleare d’Europa, la tengano in funzione e meditino di “tagliar loro i fili”.

– Adesso gli ucraini hanno fior di missili grazie a noi, e quindi fanno quanto è in loro potere. Prima non potevano.

– La parte nucleare della centrale non è a rischio, nessuna delle due parti in guerra commette nessun crimine ambientale, qui.

– Poi, essendo la centrale soggetta a tutela e sorveglianza della AIEA, proprio in queste ore un gruppo di ispettori internazionali andrà sul posto per un sopralluogo: ispettori di tre nazioni “in quota Russia” e di tre nazioni “in quota Ucraina”. È una delle RARE VOLTE nelle quali i due nemici hanno trovato un accordo, PIRLONI.

– La presenza degli ispettori AIEA è anche una MISSIONE DI PACE, di interposizione non violenta. Nessuna delle due parti sparerà un colpo, da ora, essendoci gli ispettori (Quanto mi piacerebbe andare là pure io, ma ci sono centinaia di tecnici della AIEA che sanno fare il loro mestiere, e meglio di me.)

– Ma *quanto* siete ignoranti! Gli ispettori non sono una “squadra di emergenza” per “impedire che la centrale scoppi” (sono sei, poi, le centrali), o una specie di “missione ultima speranza” con le tute e le maschere antigas: si tratta di una MIRABILE iniziativa di “diplomazia tecnologica”.

Il fatto che l’autorità civile responsabile del Piano di Emergenza abbia poi fatto distribuire intorno delle pasticche di Iodio rientra appunto nei provvedimenti del piano di emergenza stesso, atti a mitigare eventuali conseguenze e quindi a RIDURRE il rischio a livelli più bassi ed accettabili. Nel raggio di alcuni chilometri, poi.

“Ma chi me sente, ma chi me sente” (cit. Rino Gaetano, Nuntereggae più)

E allora, no, no, errata corrige, piddini. Siamo in gravissimo pericolo, la va a poche ore che la nube di Germobyl spazzerà la pianura padana! Dovete stare chiusi in casa, non rischiate a far sfilate. Belli rinserrati, con i sacchi di sabbia vicino alla finestra (cit.). Inoltre, la nube radioattiva inquinerà l’aria, quindi non aprite le finestre. Meglio ancora, soluzione ultrasicura: NON respirate.

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La truffa del gas spiegata semplice semplice

Le tariffe in bolletta sono determinate dall'andamento dei mercati all'ingrosso del gas.

In questi mercati vengono sottoscritti contratti a breve termine per 1/5 dei volumi di gas consumati dai paesi europei. La parte più grande, l'80%, viene acquistata fuori da questi mercati con contratti a lungo termine. Nei contratti a lungo termine sono quasi sempre previsti argini e ammortizzatori alle variazioni eccessive dei prezzi in entrambe le direzioni.

Tradotto: un aumento del prezzo del gas all'ingrosso non implica un rincaro della stessa portata per gli acquisti del gas da parte delle compagnie energetiche con contratti a lungo termine.

Quel che sta accadendo in questo momento si chiama speculazione sui prezzi del gas, letteralmente esplosi sui mercati all'ingrosso.

Le compagnie energetiche vendono il gas a noi utenti come se lo comprassero agli attuali prezzi di mercato, ma in realtà lo acquistano dai fornitori a prezzi molto più bassi. Da qui si ricavano gli extraprofitti. ENI ha registrato nei primi sei mesi del 2022 un +600% rispetto all'anno precedente.

E questo meccanismo, ingiusto e indegno, a mettere in crisi le imprese e le famiglie. Un meccanismo che la politica deve avere il coraggio di controllare per difendere le persone da una altra devastante crisi.

Gli unici a dire la verità e a voler imporre una tassa del 90% sugli extraprofitti, non al 10 e al 25 come gli azionisti del governo draghi, si candidano con Unione Popolare.

Questi profitti vanno immediatamente restituiti alla nostra gente, ai cittadini e alle cittadine di questo paese.

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Guerra in Ucraina - Incertezze sulla “controffensiva” di Kiev, intanto saltano le teste

Lunedì il presidente ucraino ha dichiarato che le forze armate di Kiev avevano lanciato un offensiva sulla città di Kherson controllata dai russi. Nello stesso giorno ha licenziato Grigory Galagan, comandante delle forze operative speciali delle truppe ucraine e Ruslan Demchenko, primo vice segretario del Consiglio di sicurezza e difesa nazionale.

Le notizie che giungono da Kherson – di fonte russa – parlano di un fallimento dell’offensiva a causa degli attacchi di elicotteri russi sui mezzi militari ucraini in movimento e dell’intenso fuoco di artiglieria russo.

La pagina telegram russa Intel Slava Z scrive che “le forze armate ucraine hanno tentato oggi un limitato contrattacco” sul fronte di Kherson. “Le truppe e le attrezzature coinvolte sono state immediatamente massacrate dall’artiglieria e dagli attacchi aerei russi. L’armata ucraina non ha alcuna capacità offensiva significativa. Lasciare le loro posizioni difensive non fa che accelerare la loro distruzione”.

Il giornale ucraino Kyev Indipendent il 29 agosto riferisce invece le parole di Natalia Humeniuk, portavoce del Comando Operativo Sud, secondo cui l’esercito ucraino ha lanciato la sua controffensiva in “molte direzioni” nel sud. Durante un briefing, la portavoce ha dichiarato che la situazione è in continua evoluzione e che i residenti locali dovrebbero andarsene con urgenza o cercare un riparo.

“L’attesa di una grande controffensiva per liberare la regione meridionale sotto il controllo russo è cresciuta dall’inizio di luglio, quando il Ministro della Difesa Oleksii Reznikov ha dichiarato che il Presidente Volodymyr Zelensky aveva ordinato all’esercito ucraino di liberare il sud occupato, catturato nei primi giorni dell’invasione su larga scala”, scrive il giornale ucraino.

Il Gruppo operativo ucraino di Kakhovka ha inoltre dichiarato di aver utilizzato lanciarazzi HIMARS ad alta precisione forniti dagli Stati Uniti per “distruggere quasi tutti i grandi ponti” che collegano Kherson alla penisola di Crimea, da cui la Russia trasferisce armi e personale per rafforzare la sua posizione nell’area.

“Non è ancora possibile confermare l’entità dei progressi ucraini“, ha valutato l’intelligence militare britannica nella sua ultima analisi sull’andamento quotidiano della guerra.

Il bollettino dell’intelligence del ministero della Difesa britannico riferisce che “Dall’inizio del 29 agosto 2022, diverse brigate delle forze armate ucraine hanno aumentato il peso dei colpi di artiglieria nei settori in prima linea nell’Ucraina meridionale. Gli attacchi di precisione a lungo raggio ucraini continuano a interrompere il rifornimento russo. Non è ancora possibile confermare l’entità dei progressi ucraini“.

Diversamente l’esperto di sicurezza statunitense Robert Farley ha avvertito in un articolo per la rivista specializzata 19FortyFive che le forze armate ucraine rischiano una schiacciante sconfitta in un tentativo di controffensiva nell’Ucraina meridionale e nel Donbass.

Una controffensiva fallita potrebbe anche portare a un’offerta russa di cessate il fuoco a condizioni estremamente vantaggiose per Mosca, una prospettiva che Kiev preferirebbe evitare. Farley ha affermato che una sconfitta di Kiev potrebbe scoraggiare i paesi occidentali dal fornire alle forze armate ucraine nuovi lotti di armi.

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Il capitalismo autodistruttivo alla prova del gas

Sull’impazzimento del prezzo del metano consigliamo ancora una volta la lettura attenta dell’editoriale di Guido Salerno Aletta, pubblicato da TeleBorsa, e che vi abbiamo proposto già un paio di giorni fa.

Lì viene infatti “svelato” il meccanismo assurdo che trasforma un “prezzo marginale” – il più alto registrato per una singola compravendita, magari su un quantitativo limitatissimo – nel “prezzo universale” per tutte le transazioni di quella giornata. Anche per quelle che magari si erano chiuse alla metà...

Ma non basta neanche questo a rendere comprensibile perché il prezzo sia impazzito e chi ci guadagna.

Il secondo meccanismo che inchioda il prezzo dell’energia elettrica a quello del gas è una decisione – un atto politico, ossia una convenzione formale, non una “legge naturale” – che appariva ai tempi persino intelligente: tra i differenti costi di produzione dell’energia elettrica a seconda del “motore” utilizzato (dighe, centrali nucleari, eolico, fotovoltaico, centrali a carbone oppure a gasolio oppure a gas, ecc.) il costo dell’energia elettrica in bolletta “per l’utente finale” veniva ancorato a quello del gas, che allora era il più basso.

Con un modesto sovraprezzo si realizzava anche il margine che consentiva di compensare metodologie più costose, altrimenti strutturalmente in perdita e dunque fuori mercato.

Ma “fatta la legge, trovato l’inganno”. La speculazione finanziaria, da anni alla ricerca di campi di investimento più redditizi della borsa o dei titoli di stato (il quantitative easing generalizzato in Occidente, aveva reso addirittura negativo il costo del denaro e dunque dell’attività di prestito), lo ha infine trovato proprio nelle materia prime. E soprattutto in quelle energetiche, sollecitate dalle tensioni internazionali e infine dalla guerra in Ucraina.

Tra le munizioni che poteva utilizzare la speculazione aveva fra l’altro proprio la massa sconcertante di liquidità immessa sui mercati dalle banche centrali, per oltre un decennio, allo scopo – “virtuoso” – di impedire l’esplosione del sistema finanziario internazionale.

Ma anche questo non sarebbe bastato. I contratti di fornitura del gas si firmano nella realtà mesi prima (o addirittura anni) rispetto alla consegna fisica. Il che è perfettamente logico visto che il gas bisogna estrarlo, immetterlo nelle pipeline che lo portano ai clienti. Oppure bisogna liquefarlo per caricarlo su navi gasiere appositamente costruite, che ci mettono poi settimane per arrivare a destinazione. Lì poi va “rigassificato” – ossia portato dallo stato liquido a quello gassoso – e immesso nella rete di distribuzione.

Il gas meno caro è certamente quello che arriva via terra, nei gasdotti. Ed è anche quello quantitativamente più importante, visto che le navi gasiere non sono moltissime e necessariamente non possono trasportare gli stessi quantitativi.

Ma la combinazione tra guerra, sanzioni alla Russia e prezzo agganciato al contratto più alto hanno creato l’ambito perfetto per la speculazione finanziaria.

I governi sono stati costretti – o si sono autoimposti, per obbedire alla Nato e agli Usa – di ridurre le forniture dalla Russia (per l’Italia oltre il 40% del fabbisogno, per la Germania anche di più). Ma in questo modo le forniture “via tubo” si riducevano a quelle da Algeria e Libia (dove pure non mancano i problemi di controllo delle esportazioni).

Una strozzatura rispetto alle fonti di rifornimento che ha reso i contratti “marginali” – quelli sul trasportato dalle navi gasiere – il prezzo di riferimento per tutto il metano che gira per il mondo (occidentale, va ricordato; non tutti sono stati così scemi da obbedire a Washington).

E a quel punto il gioco è facilissimo. Un aumento violento del prezzo si ottiene spostando il punto di arrivo di una nave gasiera qualsiasi in base ad un’offerta – appunto – “marginale”. E quel prezzo diventa il metro di misura di tutto il resto.

Qualcuno dirà: ma così si distrugge l’economia reale di tutto l’Occidente... Dove si esercita l’autorità degli Stati?

Beh, nel neoliberismo imperante da quasi 40 anni il potere si è decisamente spostato dagli Stati-nazione alle grandi multinazionali. Se uno Stato si lamenta del prezzo troppo alto, la multinazionale fornitrice non fa altro che indirizzare la nave – anche mentre è in viaggio – verso un altro paese. E si troverà sempre, in un mercato attraversato da una “scarsità indotta” (non dovuta insomma alla mancanza nella materia prima fisica), qualcuno disposto od obbligato ad offrire un prezzo più alto.

Spingendo sempre più su il prezzo di tutto il gas, per il meccanismo della “borsa di Amsterdam”.

Si dice: ma qui le imprese saranno costrette a chiudere per le bollette troppo alte, ed anche le famiglie dovranno scegliere se accendere la luce o riscaldarsi oppure mangiare...

E che gliene frega alle imprese dell’energia? Sono imprese anche loro, certo, e ragionano esattamente come tutte le altre: badano al proprio profitto, anche al prezzo di far fallire dei “colleghi” che ricavano il proprio da un altro business.

Questo è il capitalismo. Per questo o non funziona o il suo funzionamento è distruttivo. E in certi casi persino auto-distruttivo... Per questo l’ipotesi di un price cap, fondato sul “potere dei (Paesi) consumatori” – il coniglio tirato fuori dal cappello da Mario Draghi – o non sta in piedi o richiederà un tempo di realizzazione più lungo della guerra in corso.

Ma anche questa ideuzza, involontariamente, è a sua volta un sintomo della necessità di uscire il più presto possibile dalla gabbia (anche mentale) del “ci pensa il mercato”...

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Chi e cosa è stato Gorbaciov

La morte di Gorbaciov, l’ultimo segretario del PCUS e presidente dell’Unione Sovietica, merita la dovuta attenzione.

La prima cosa da fare è sbarazzarsi di due approcci: quello glorificante che campeggia oggi in tutti i media del mondo occidentale e quello del “tradimento” che emerge in molti ambiti della compagneria.

Come tutti gli uomini che hanno avuto e portano delle responsabilità Gorbaciov è stato il prodotto di un processo storico. Per quanto le sue scelte politiche abbiano determinato la velocità di alcuni cambiamenti, se queste hanno potuto produrre quelle conseguenze, vuol dire che erano la “rivelazione” di quanto già esisteva dentro il sistema politico ed economico che era diventata l’Unione Sovietica.

Il fatto che quella esperienza si sia dissolta in pochissimi anni senza sparare un colpo e senza che si manifestasse una controtendenza in grado di rovesciare il processo in corso, ci rivela il logoramento profondo di cui Gorbaciov è stato sia conseguenza che causa.

Se a metà degli anni ’80 il PCUS elesse personaggi come Gorbaciov o Eltsin come segretari del partito (il primo a livello nazionale, il secondo a Mosca) significa che la struttura, l’ideologia, lo sviluppo produttivo dell’URSS aveva dismesso gli anticorpi necessari, se non per vincere almeno per sostenere adeguatamente lo scontro globale con il modello capitalista e liberale.

Abbiamo scritto, in quegli e in questi anni, che nel 1990 appariva evidente come il progetto gorbacioviano non fosse il rinnovamento del socialismo ma il suo affossamento. “Mentre in campo economico i membri dell’apparato del partito e dello Stato – ormai senza vincoli – si apprestavano ad appropriarsi delle imprese, il PCUS viene martellato dall’alto (Gorbaciov e i suoi dirigenti) e dal basso (Eltsin e gli oppositori interni), e i militanti più coerenti furono completamente emarginati, disorientati, subordinati” (da “Una storia anomala", volume II).

Non possiamo non sottolineare come altri dirigenti comunisti come Fidel Castro, mandarono a quel paese gli inviti di Gorbaciov ad “avviare le riforme”. Anche in questo caso la storia ha dato ragione al leader cubano.

Sul piano internazionale in Occidente si celebra l’epica gorbacioviana per il via libera alla riunificazione della Germania (sulla quale era più lungimirante Andreotti che “voleva tanto bene alla Germania da preferirne due”, ndr), eppure la capitolazione più decisiva e devastante fu il via libera dell’URSS nel 1991 alla prima guerra del Golfo da parte degli Stati Uniti contro l’Iraq.

Proprio in quella guerra gli Usa annunciarono esplicitamente “Il Nuovo Ordine Mondiale”. Ad agosto 1991, dopo un ridicolo tentativo di colpo di stato, Gorbaciov veniva umiliato pubblicamente da Eltsin ed emarginato. Pochi mesi dopo la bandiera rossa veniva ammainata definitivamente dal Cremlino e l’URSSs si dissolveva in tutti i sensi.

Dunque cosa è stato Mikhail Gorbaciov? Un traditore, un agente degli interessi occidentali o la rivelazione della crisi di una gloriosa sperimentazione storica di quello che abbiamo definito il “socialismo possibile”?

Tra le risposte consolatorie perché facili e quelle più complesse abbiamo sempre scelto le seconde. Comportano qualche mal di pancia e riflessione in più ma ci aiutano a comprendere meglio i processi storici ed anche gli uomini e donne che producono.

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30/08/2022

Volver – Tornare (2006) di Pedro Almodóvar - Minirece

Negli anni ’30 esisterà ancora il calcio italiano?

Se vuole una risposta secca alla domanda presente nel titolo possiamo dire: si. Il resto della risposta è, invece, modulato in modo differente, specie se si riavvolge il nastro degli ultimi dieci anni di calcio italiano. La crisi delle proprietà italiane di grandi squadre (Inter, Milan, Roma) all’inizio degli anni ‘10, assieme alla decadenza del complessivo sistema degli impianti, non si è risolta in modo da riportare il calcio nazionale a cosa era ancora a cavallo tra gli anni ‘90 e 2000: una industria fiorente, di qualità circondata da un mondo dilettantistico ancora in salute.

Già, perché il calcio è tante cose – PIL e coesione sociale, divertimento e formazione, grandi eventi globali e piccole categorie locali, evoluzione tecnologica e tradizioni artigianali – e la sua lunga crisi impatta sulla ricchezza nazionale come sulle radici della società.

Detto questo il calcio italiano negli anni ‘30, tra meno di otto anni, rischia di essere uno sport definitivamente declassato sul piano dello spettacolo, quindi con un gap ancora maggiore sul quello della redditività, con poche isole di eccellenza, con le grandi squadre alle prese soprattutto con la propria dimensione finanziarizzata, pochi nuovi impianti, con un sistema nazionale d’impiantistica penalizzato dall’assenza d’intervento del Pnrr. Per non parlare dei settori giovanili e dilettanti sempre più in difficoltà in una crisi, complessivamente, di settore industriale e di coesione sociale.

Inutile ricordare quanto PIL, e quante pratiche fuori dal denaro, crescono attorno al calcio dalle professionalità, alle tecnologie, ai legami territoriali e di affinità. È meglio forse ricordare che il governo Draghi, invece di potenziarlo, ha abolito il ministero dello sport, lasciando il professionismo nelle esclusive mani della finanza e del mercato dei diritti TV e il resto, sostanzialmente, al proprio destino.

Per capirsi sulle dimensioni del divario economico tra Italia ed Europa: la Lega serie A dai diritti TV incasserà fino al 2024, complessivamente 1 miliardo e mezzo l’anno. La Premier League quasi dieci volte tanto. Senza parlare della ripartizione di questi diritti, delle forme di mutualità e attenzione ai vivai che da noi sono tanto invocate quanto sconosciute. Questo gap economico nel settore più redditizio, i diritti TV che stanno subendo l’ennesima rivoluzione tecnologica (di quelle che da noi portano meno ricchezza), è un enorme campanello d’allarme sui rischi che corre il sistema calcio italiano.

Eppure, dati 2018, ancora il 12% del Pil del calcio mondiale in questi anni è stato prodotto in Italia. A quel punto quello che rischiamo è quello che avviene in altri settori dell’economia nazionale: semplicemente il Pil comincia a essere prodotto altrove.

Quello che serve è ciò che è accaduto in altri paesi – Francia, Germania, Gran Bretagna – quando si è messo mano al sistema. Un ministero dello sport che detta le linee d’indirizzo, un lavoro coordinato tra leghe, federazioni, enti locali e associazionismo calcistico. Ovviamente servono fondi, ben spesi, e un indirizzo politico preciso. Quello che fa rinascere un settore che è industria dell’intrattenimento – a livello professionistico – e coesione sociale a livello dilettantistico. Un settore ecosostenibile dal punto di vista culturale e ambientale e urbanistico perché le ristrutturazioni degli impianti sportivi orientano quelle della città. E qui torniamo alla domanda iniziale. Con questi presupposti che mancano ci sarà ancora calcio in Italia negli anni ‘30? Per ora l’unica prospettiva visibile è quella di uno sport ulteriormente impoverito.

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Israele liberi Khalil Awawdeh, in sciopero della fame da 6 mesi

Aumentano le richieste a livello internazionale per il rilascio del prigioniero palestinese Khalil Awawdeh mentre si avvicina a sei mesi di sciopero della fame contro la sua continua detenzione senza accusa da parte di Israele.

Awawdeh, 40 anni, padre di quattro figlie, è stato arrestato dall’esercito israeliano dalla sua casa di Ithna, nella Cisgiordania meridionale occupata da Israele, nel dicembre 2021 e tenuto sotto la cosiddetta “detenzione amministrativa” israeliana.

È uno dei circa 670 palestinesi nelle carceri israeliane detenuti secondo la politica israeliana, che consente la detenzione a tempo indeterminato senza processo o accusa sulla base di “prove segrete” che né i detenuti né i loro avvocati possono vedere.

Le autorità israeliane inizialmente hanno arrestato Awawdeh con l’accusa di essere un “operativo” della Jihad islamica palestinese, un’accusa che il suo avvocato ha negato, ed ha affermato che la detenzione amministrativa è necessaria per “motivi di sicurezza”. I gruppi per i diritti umani affermano che è una forma di punizione collettiva e una violazione del diritto internazionale.

La Jihad islamica aveva chiesto il rilascio di Awawdeh come parte delle condizioni di un accordo di cessate il fuoco del 7 agosto che pose fine ai tre giorni di bombardamento israeliano su Gaza, in cui furono uccisi 49 palestinesi, inclusi 17 bambini.

Tuttavia, le autorità israeliane hanno finora rifiutato di rilasciarlo e il 21 agosto la Corte Suprema israeliana ha respinto un ricorso presentato dal suo avvocato per il suo rilascio immediato. Le condizioni di Awawdeh sono critiche, ora pesa solo 38 kg.

Le immagini di un Awawdeh estremamente emaciato, condivise da sua moglie domenica, un giorno dopo aver visitato la sua stanza d’ospedale, hanno portato a crescenti richieste per il suo rilascio, anche da parte della delegazione dell’Unione europea (UE) in Palestina la quale ha chiesto che a meno che non venga accusato immediatamente, deve essere rilasciato!

In risposta alla dichiarazione dell’UE sulle condizioni di Awawdeh, diversi attivisti e operatori per i diritti umani hanno chiesto all’organismo di compiere azioni concrete verso Israele piuttosto che semplici parole.

Al Jazeera ha diffuso un tweet di Kamel Hawwash, attivista accademico e per i diritti britannico-palestinese: “Presumibilmente questo è quanto l’#UE “scioccata” si spingerà in questa materia. Quest’uomo #palestinese sta morendo perché #ApartheidIsrael... può fare tutto ciò che vuole verso gli abitanti #palestinesi e non dovrà affrontarne conseguenze”. “L’UE è così complice dei suoi crimini perché le fornisce copertura”, ha aggiunto Hawwash.

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Brancaccio - Speculatori e guerrafondai. Così restiamo prigionieri sul gas

L’aumento del prezzo del gas? “La causa principale può essere sintetizzata così: gli speculatori stanno scommettendo sui guerrafondai”. È chiaro sul punto Emiliano Brancaccio, docente di politica economica presso l’Università del Sannio e protagonista di dibattiti con alcuni tra i massimi esponenti della teoria e della politica economica internazionale, tra cui Mario Monti, Olivier Blanchard, Daron Acemoglu.

Speculatori e guerrafondai. Così restiamo prigionieri sul gas

“I professionisti della finanza – continua il professore ed intellettuale ora in libreria con Democrazia sotto assedio (Piemme) – giocano sulla previsione che i venti di guerra non si placheranno, e che il conflitto con la Russia sia destinato a durare. L’idea prevalente è che i paesi europei della NATO sono pronti a sostenere i costi della transizione necessaria per fare a meno dell’energia russa in tempi relativamente brevi”.

Cosa comporta tutto questo?

Questa politica europea, così avventurista e forzata, suscita forti aspettative di aumento dei prezzi dell’energia e quindi crea enormi occasioni di guadagno speculativo: i professionisti sui mercati si fanno prestare denaro, comprano gas, attendono che il prezzo salga, lo rivendono, restituiscono i prestiti e si tengono i guadagni netti. Il risultato è che il prezzo esplode, a livelli anche superiori rispetto a quelli causati dalla sola guerra.

Il governo Draghi spinge per un tetto europeo al prezzo del gas. Per quale motivo non si riesce ad attuare?

Perché significa agitare nuovamente lo spettro del “prezzo politico”, una forma di interventismo pubblico che va contro i dogmi liberisti ai quali sono state educate le classi dirigenti d’Europa. Lo stesso Draghi è stato per anni un ideologo delle magnifiche sorti progressive delle libere forze del mercato, speculazione inclusa. Ed è stato anche tra i sostenitori del cosiddetto “mercato libero” dell’energia, un catino del tutto inefficiente che soprattutto in Europa è completamente in balia dei giochi speculativi. Il fatto che ora proprio Draghi proponga un tetto “politico” ai prezzi, sia pure in forma blanda, è una retromarcia interessante. Ma proprio per questo è difficile considerarla del tutto credibile.

Tanti insistono sulla tassazione degli extra-profitti. Può essere questa una strada da intraprendere?

Sì, se solo si riuscisse a capire chi ha fatto extra-profitti e dove li ha messi. Al giorno d’oggi gli speculatori sono protetti da un sistema di norme opaco, costruito per impedire qualsiasi ingerenza della mano pubblica sugli affari privati. Siamo arrivati al paradosso che lo Stato deve supplicare per ottenere dati sui guadagni di capitale delle aziende di cui è esso stesso azionista.

Intanto l’inflazione ha ormai raggiunto livelli eccezionali. Le banche centrali rispondono con un aumento dei tassi d’interesse. È la strada giusta?

L’idea di controllare l’inflazione a colpi di aumenti dei tassi d’interesse è una fantasia horror dell’ortodossia economica, che non trova basi scientifiche adeguate e che fa enormi danni. La verità è che i banchieri centrali aumentano i tassi d’interesse per brutali ragioni di distribuzione del reddito tra le classi sociali: vogliono compensare i creditori delle perdite causate dall’inflazione.

Cosa bisognerebbe fare, allora?

Più che ai creditori bisognerebbe badare ai lavoratori, facendo crescere i salari in modo da compensare il boom dei prezzi. Ma questa, che era una prassi ovvia qualche decennio fa, oggi è considerata un’eresia e incontra enormi resistenze. Eppure, se i salari rimangono fermi al palo, le conseguenze saranno tremende. Stando alle stime ufficiali dell’inflazione, possiamo prevedere perdite cumulate di potere d’acquisto di salari e stipendi fino al 20 percento.

Siamo alla vigilia di nuove elezioni. E il titolo del suo ultimo libro, “Democrazia sotto assedio” (Piemme 2022), è eloquente. Il problema è riferito soprattutto alla politica economica, che resta sempre la stessa e non obbedisce alle regole democratiche...

Sì, i dati indicano che da decenni le diverse forze politiche si avvicendano alla guida dei vari paesi ma la politica economica resta sostanzialmente la stessa, ostile alle istanze del lavoro subordinato: dipendenti, precari, finti autonomi, eccetera, che complessivamente subiscono un deterioramento delle prospettive di vita. Nemmeno le cosiddette forze del “sovranismo populista” fanno eccezione: una volta al governo, tendono ad allinearsi all’ordine prevalente della politica economica. Nel mio libro riporto esempi, anche riguardo al caso italiano.

Professore, il suo pensiero ruota intorno a un aggiornamento del concetto di “rivoluzione”, come alternativa al rischio di una “catastrofe” di sistema. In che maniera dovrebbe attuarsi una tale “rivoluzione”?

Di “rivoluzione” sono tornati a parlare in tanti, persino ai vertici del FMI. Io parlo di “rivoluzione” come rivolgimento “razionale” di ciò che non è tale. Pensiamo a un vecchio insegnamento della storia del capitalismo: la miscela di guerra militare e libera speculazione finanziaria può fare la fortuna di pochi mercanti e può invece risultare devastante per le classi subalterne. Scongiurare questa combinazione perversa significa capire, tra l’altro, che nel mezzo del caos bellico il problema non è più semplicemente quello di imporre “tetti” ai prezzi o di “tassare” gli extra-profitti. Anche se attuate seriamente, queste misure suonano come la proverbiale chiusura della stalla quando i buoi sono già scappati. Piuttosto, tanto più nella bolgia della guerra, diventa necessario agire in chiave più generale.

Vale a dire?

Bisognerebbe abbandonare la folle politica liberista degli anni passati, che ha collocato i mercati finanziari al centro della determinazione di alcuni prezzi chiave, tra cui quelli dell’energia. Per dare nuovo ordine al sistema e sottrarlo alle scorribande della speculazione, questi prezzi fondamentali dovrebbero tornare sotto pianificazione pubblica. Questo sarebbe un primo, vero fatto “rivoluzionario”. Inteso, per l’appunto, come rivolgimento razionale di ciò che razionale oggi assolutamente non è.

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La scuola tra economia di guerra e Covid

Con il passare dei giorni comincia a rendersi evidente che il prossimo inverno sarà durissimo per i cittadini europei e in particolare per gli italiani, soprattutto se appartenenti alle classi popolari. Un inverno di fame e freddo.

L’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità è incontrollato mentre è chiaro che la mancanza di adeguati approvvigionamenti di gas porterà probabilmente al razionamento energetico e alla riduzione del riscaldamento in case, luoghi di lavoro, scuole. Ciò senza considerare le quasi inevitabili ricadute del disastro energetico sull’occupazione.

Ciò è tanto evidente che il governo Draghi, responsabile di un tale sfascio, dovuto alla politica di guerra e alla scarsa energia nel controllare le conseguenti speculazioni, sta ora lavorando a un decreto che tenti di regolamentare l’uso dell’energia a partire dai prossimi mesi.

Alcuni settori della vita sociale ed economica saranno esentati dalle misure di risparmio energetico ma tra queste non è compresa la scuola che, ancora una volta, non è una priorità per il governo Draghi. In pratica, le scuole dovranno adeguarsi a diminuire per almeno il 20% il loro consumo energetico.

Amministrazioni locali e singoli istituti si stanno chiedendo come poter arrivare a un tale risultato, assai difficile da conseguire. Le soluzioni che sinora sembrano le più probabili sono quelle di una drastica riduzione del riscaldamento non solo in termini di gradi centigradi, ma anche di ore di funzionamento.

Ciò significa, in pratica rinunciare o ridurre drasticamente non solo le attività facoltative pomeridiane, ma anche non sapere come svolgere le ore curricolari, per esempio negli Istituti Tecnici e Professionali dove, a causa del carico orario che arriva spesso a 36 ore, le attività didattiche si prolungano nel pomeriggio.

Un’altra soluzione, non meno dannosa, è quella di tornare alla DAD almeno per un giorno alla settimana. Un risultato davvero encomiabile per il commissario euroatlantico per l’Italia, Draghi, che al meeting di Comunione e Fatturazione ha tronfiamente rivendicato di avere riportato tutti gli studenti in aula (abolendo il Covid per decreto, ma di questo parleremo più avanti).

In effetti, per poter risparmiare energia, le scuole non hanno altra scelta che ridurre le ore di lezione o riattivare la DAD. Questo perché il patrimonio edilizio delle scuole italiane è vecchio, degradato e in uno stato di cattiva manutenzione.

Le scuole non hanno isolamento termico, (salvo quelle, ahimé, dove ancora c’è l’amianto), i caloriferi sono privi di valvole di regolazione, i serramenti sono vetusti e mal funzionanti, l’illuminazione è garantita in genere da vecchi e tremolanti tubi al neon (altro che sostituire le lampadine) e spesso non ci sono tende.

Tutto ciò anche perché, al contrario di quanto affermato prima da Azzolina e poi da Bianchi nei due anni e mezzo di pandemia nelle scuole non è stato effettuato alcun serio intervento strutturale. Una delle poche difese dal contagio che hanno studenti e personale scolastico (consigliata peraltro dal Ministero e dal’ISS) è quella di aprire spesso le finestre per l’aerazione.

Ciò provoca, evidentemente, un aumento immediato del carico di lavoro degli impianti di riscaldamento. Si poteva tentare con l’installazione di aeratori automatici, ma il ministro Bianchi ha dichiarato che sono irrilevanti per la pulizia dell’aria (e comunque, per funzionare, richiedono energia).

I progetti di diminuire il numero di alunni per classe e di assumere nuovi docenti, peraltro, sono stati sommersi da cataste di inutili banchi a rotelle, di cartacce sul docente “esperto”, dagli sprechi per l’Alta Scuola di Formazione e di chiacchiere sulle STEM, in rapida sequenza tra il governo Conte 2 e quello Draghi.

Tra l’altro, quest’anno non si hanno ancora notizie sulla continuazione della presenza dell’organico aggiuntivo per il Covid.

Tale situazione grottesca di ordini e contrordini è quella che si troveranno ad affrontare studenti, docenti e personale ATA dopo due anni di una pandemia che potrebbe ripresentarsi in forme massicce nel prossimo autunno (anche durante l’estate ci sono decine di migliaia di casi al giorno e un centinaio abbondante di decessi quotidiani), mentre le scuole sono sottoposte alle dure leggi dell’economia di guerra.

Forse, l’unica soluzione, in un sistema scolastico in cui si enfatizzano le “nuove tecnologie” sarà quella di andare a scuola con i guanti, la copertina e le mutandone di palpignana della nonna.

Di tutto questo si discute assai poco in una campagna elettorale in cui le conseguenze della guerra non sono motivo di contesa tra i partiti al governo perché questi sono tutti d’accordo sulla linea bellicista, come lo è anche, peraltro, Fratelli d’Italia.

Quando si parla di scuola, invece, lo si fa soprattutto con promesse di mirabolanti aumenti di stipendio per il personale, che accomunano tutti i partiti. Quasi un milione di voti del personale scolastico fa gola a tutti. Tuttavia, ci chiediamo, quanto siano sincere tali promesse, perché i partiti di governo trascinano un contratto scaduto da quattro anni proponendo aumenti ridicoli.

Quanto alle altre proposte per la scuola, fa sorridere di compassione Berlusconi che, forse a causa dell’età, propone la scuola a tempo pieno (e l’apertura estiva, con le strutture fatiscenti di cui abbiamo scritto), dimenticando che in Italia c’era e fu proprio la sua ministra Gelmini a decretarne la fine.

Enrico Letta lancia la proposta alla “francese” dell’obbligo dai tre ai diciotto anni, degna di considerazione, ma che lanciata all’improvviso, all’inizio della campagna elettorale e senza alcuna seria articolazione sa tanto di tentativo di recuperare un po’ consenso e pagine sui giornali.

Peraltro si ricordi che le scuole d’infanzia statali, in Italia, sono una minoranza, essendo in gran parte private, che sono la preoccupazione di Tajani che vuole aumentarne i finanziamenti.

La destra si oppone a Letta perché “chi vuole andare a lavorare presto deve poterlo fare” sottintendendo che il diploma non è per tutti e riproponendo il vecchio adagio “c’è chi è nato per studiare e chi è nato per zappare”.

Calenda e la destra si trovano d’accordo sulla valorizzazione di istituti tecnici e professionali in raccordo con le imprese (cioè al servizio delle imprese). Fratelli d’Italia vuole una scuola “meritocratica” e rigorosa e per questo propone la reintroduzione del voto numerico per i bambini di sei anni.

Insomma, un tale serraglio elettorale tutto appare tranne che attento ai problemi reali della scuola, che riaprirà nelle condizioni di cui abbiamo scritto.

Per risolvere il problema del rientro, però, arriva la segretaria della CISL scuola che chiede una task force per i provvedimenti anticovid.

Ridete pure, si chiede un intervento emergenziale per un problema che esiste da due anni e mezzo.

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Il Nordest perde colpi nei confronti delle regioni industriali tedesche

Uno studio della Fondazione Nord Est suona l’allarme sulla fine di un mito: l’agganciamento delle regioni manifatturiere del nord a quelle tedesche. Questo processo, negli anni scorsi, aveva fatto parlare del Nordest italiano come della “Baviera del Sud”, sia per l’avanzato livello di connessione con le filiere industriali tedesche, sia per i livelli di Pil e reddito che distanziavano queste regioni italiane dal resto del paese e le collocavano ai livelli dei lander tedeschi più ricchi.

Ma il mito della Baviera del Sud e dell’agganciamento alla Germania ha subito duri colpi, anche e soprattutto nel Nordest, dove il mito produttivo si è rivelato in realtà subordinazione dentro un ruolo di subfornitore alle filiere industriali tedesche

Negli ultimi vent’anni tutte le regioni italiane sono cresciute a ritmi inferiori rispetto a quelli delle altre regioni d’Europa, in particolare rispetto alle regioni di testa. Un andamento che ha accomunato anche le regioni del Nordest, che una volta venivano considerate la “locomotiva d’Italia” per la loro capacità di trainare l’economia nazionale.

Il Pil pro-capite medio europeo, si legge nel documento, è passato da 24.175 euro a 32.277, con un incremento del 33,5%. Nello stesso periodo l’area italiana con il più elevato tasso di crescita è stata Bolzano (+18,1%), mentre tutte le altre regioni sono cresciute meno del 10%.

Il confronto tra il Pil pro-capite delle regioni italiane e di quelle tedesche nel periodo 2000-2019 fornisce un panorama interessante sia per le regioni che partivano da valori più elevati sia per quelle che nel 2000 avevano valori più bassi rispetto alla media italiana.

Alcune aree della Germania, come Baviera e Baden-Wurttemberg, sono spesso state prese come modello dalle regioni del Nord Italia per la loro vocazione manifatturiera; nel 2000 la Germania aveva, come l’Italia un forte divario negli indicatori di sviluppo tra regioni avanzate (quelle dell’Ovest in Germania, quelle del Nord in Italia) e arretrate (i Lander dell’Est in Germania, le regioni del Sud in Italia).

Il distretto di Monaco di Baviera, considerato un riferimento per le regioni ad alta vocazione manifatturiera del Nord Italia, è cresciuto del 27,5%. Quello di Stoccarda, nel Baden-Wurttemberg, che partiva da valori del Pil appaiati a quelli della Lombardia e di poco superiori a quelli dell’Emilia-Romagna, ha visto crescere il Pil pro-capite da 38.890 a 50.530 Euro (+29,9%), mentre le due regioni italiane fanno registrare, rispettivamente, variazioni del 4,8% e del 3,7%.

La differenza di velocità tra regioni italiane e tedesche, specifica il documento di Fondazione Nord Est, è ancora più marcata se si effettua il confronto tra i territori che partivano, in entrambi i Paesi, da valori bassi del Pil pro-capite. Chemnitz, in Sassonia, che aveva valori del Pil pro-capite che si collocavano tra quelli della Calabria e quelli della Sicilia, tra il 2000 e il 2019 ha avuto una crescita del 48,1%, mentre le due regioni italiane fanno registrare rispettivamente un incremento del 3,7% e dell’1%.

Ma sul cosa si intenda per Nordest, nel Rapporto 2022 la stessa Fondazione afferma che la “stessa definizione geografica di Nord Est è cambiata, perché è stata ricondotta al perimetro istituzionale, che abbraccia non solo il Triveneto ma anche l’Emilia-Romagna”.

La nuova definizione è coerente con la nuova missione e con l’intento di unire le forze delle quattro regioni, anziché lasciarle disperdere a causa delle spinte centrifughe dei provincialismi di varia natura ed estensione. “Da quest’anno, quindi, allarghiamo i confini delle analisi e delle riflessioni, aggiungiamo un trattino a Nordest, che diventa quindi Nord-est. L’allargamento si esplicita anche nel coinvolgimento, come autori del Rapporto, di studiosi e analisti che lavorano nei territori emiliano-romagnoli” scrive il Rapporto 2022 della Fondazione Nordest.

Negli ultimi anni sono stati diversi i tentativi di ridefinire le aree dello sviluppo. Fondazione Nord Est ha parlato di Pentagono dello sviluppo. Altre sigle e confini sono stati proposti, come LO.V.ER (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna) o “nuovo triangolo industriale” (Milano, Bologna, Treviso).

Ma su miti e riti del modello produttivo italiano cominciano a pesare come macigni molti fattori: una produttività fondata soprattutto sui bassi salari e i bassi investimenti, la pandemia di Covid ed ora la crisi energetica con il boom dei prezzi.

In una intervista al Corriere della Sera, il presidente della Confindustria Bonomi sostiene che finora “le imprese italiane sono state abbastanza capaci e flessibili da difendersi meglio di altre, per esempio colmando i vuoti lasciati dalla Cina in lockdown”.

Ma ora – prosegue Bonomi – “nell’industria abbiamo casi di bollette decuplicate, non possiamo reggere”. Solo nei primi sette mesi del 2022 la cassa integrazione straordinaria è salita del 45 per cento rispetto a un anno fa e non abbiamo ancora visto il peggio: in autunno arriveranno nuovi rincari energetici, mentre l’inflazione dei mesi scorsi sulle materie prime continuerà a scaricarsi sui prezzi al consumo. Ci saranno seri problemi su redditi e potere d’acquisto delle famiglie. Il grido di dolore delle imprese fin qui è stato un po’ ignorato, ma ora c’è urgenza di nuovi interventi”.

Gli imprenditori – o i “prenditori” italiani – sono ormai tre anni che vengono bruscamente svegliati dai sogni in cui governi e giornalisti compiacenti li hanno cullati e lasciati cullare da anni. L’eccesso di primàzia privata nel sistema industriale, l’assenza di una politica industriale e di una industria pubblica e totale mano libera al mercato, hanno picconato in profondità un sistema produttivo rivelatosi subalterno e inutilizzabile per gli interessi collettivi del paese.

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Energia - Il criminale sistema di determinazione dei prezzi

di Guido Salerno Aletta

Che ci sia qualcosa di strano, in questi straordinari aumenti del prezzo dell'energia, elettricità e gas, lo sospettano tutti. Benzina e gasolio sono aumentati, è vero, ma molto meno delle bollette.

C'è qualcosa che non torna.

La crisi sanitaria, che ha provocato a partire dal secondo trimestre del 2020 una pesante caduta dell'attività produttiva, ha creato una discontinuità sui mercati, e molti produttori di energia elettrica o fornitori di gas all'ingrosso si sono felicitati del fatto di non avere contratti di approvvigionamento a lungo termine che li avrebbero costretti a pagare inutilmente ciò che non avrebbero potuto rivendere.

I cosiddetti giganti petroliferi, da Total ad ENI , hanno pagato cara la loro strategia di lungo termine, avendo accusato negli scorsi due anni risultati assai pesanti sotto il profilo economico. Ma ora si stanno riprendendo, alla grande: stanno recuperando ampiamente le perdite subite nel biennio scorso.

Per quanto riguarda la fornitura di energia elettrica e di gas alle famiglie ed alle imprese, c'è un Sistema assai più complesso: ci sono centinaia, se non migliaia, di produttori di elettricità da fonte solare o eolica, ed ovviamente coloro che hanno le centrali di generazione alimentate a carbone, combustibili liquidi o gas, che immettono corrente nella rete. Sul fronte della fornitura al dettaglio, decine e decine di distributori che non hanno capacità propria di produzione, ma che si approvvigionano dai fornitori.

Come succede per il prezzo dei carburanti alla pompa, anche in questo caso c'è un prezzo giornaliero, che viene determinato dall'incrocio tra domanda aggregata e offerta aggregata.

Qui sta il nodo, il meccanismo di asta e di fissazione del prezzo che incrocia domanda ed offerta.

Ciascun produttore mette in offerta la quantità di energia che è in grado di offrire al mercato indicando il prezzo a cui intende venderla. Le singole offerte di fornitura in rete di elettricità vengono messe insieme, una sull'altra, su una sorta di asse cartesiano in cui figurano in ascissa le quantità ed in ordinata i prezzi, partendo da quella con il prezzo più basso e per finire con quella avente il prezzo più alto: si arriva così ad una curva in cui è rappresentato in ascissa il volume complessivamente offerto, ed in ordinata il prezzo più elevato che deriva dall'offerta a più caro prezzo. Questa è denominata "offerta marginale".

Allo stesso modo si procede per la richiesta di energia elettrica e di gas, mettendo insieme le richieste dei soggetti distributori al dettaglio che non hanno capacità proprie di produzione, o che non si sono premuniti con contratti di fornitura a lungo termine che consentono di produrre energia o di fornire gas ai propri clienti senza passare dai meccanismi d'asta.

Arriviamo al dunque: le curve della offerta e della domanda si incrociano in un punto X, che ragguaglia le quantità, e ad un punto Y che è quello della offerta marginale, sia per quantità che per prezzo.

L'Unione Europea impone una regola inderogabile, quella dell'aggiudicazione dell'asta ad un prezzo/incasso omogeneo per tutti, compratori ed offerenti, al livello più alto, marginale: tutti coloro che hanno richiesto energia elettrica o gas devono pagare lo stesso "prezzo marginale", quello più alto; tutti coloro che hanno presentato offerte di fornitura ad un prezzo più basso di quello marginale, incasseranno comunque un pagamento commisurato al più alto "prezzo marginale". Extra costi da una parte, che si riflettono sulle bollette, extra profitti dall'altra parte.

In pratica, è il prezzo del mercato spot dell'energia, quello dell'ultimo metro cubo di gas venduto, che determina le bollette di milioni di consumatori.

Per chi avesse voglia di leggere la posizione della Commissione europea nel testo originale, trascriviamo di seguito quanto affermato nella Communication on Energy Prices del 13 ottobre 2021:
"The wholesale electricity market is where the producers of energy (power plants) sell electricity, and energy retailers buy it to deliver to their clients. It is a so-called "marginal" pricing system, which works by putting on the market power plants by the order of their price, starting with the least expensive and going until the last plant is dispatched that is needed to meet consumers' demand. It is this last plant that sets the overall price, and which is often (in the hours of higher consumer demand) a gas or coal power plant. All electricity producers are paid the same price for the same product - electricity. There is general consensus that the marginal model is the most efficient for liberalised electricity markets because generators have an interest not to bid higher than their actual operating costs. Other systems lead to more inefficient outcomes and favour speculation, to the detriment of consumers".

[Il mercato all'ingrosso dell'elettricità è il luogo in cui i produttori di energia (centrali elettriche) vendono l'elettricità e i rivenditori di energia la acquistano per consegnarla ai loro clienti. Si tratta di un sistema di prezzi cosiddetto "marginale", che funziona immettendo sul mercato le centrali elettriche in base all'ordine di prezzo, a partire dalla meno costosa fino all'ultima centrale necessaria a soddisfare la domanda dei consumatori. È quest'ultima centrale che stabilisce il prezzo complessivo e che spesso (nelle ore di maggiore richiesta da parte dei consumatori) è una centrale a gas o a carbone. Tutti i produttori di elettricità vengono pagati allo stesso prezzo per lo stesso prodotto: l'elettricità. È opinione comune che il modello marginale sia il più efficiente per i mercati liberalizzati dell'elettricità, perché i produttori hanno interesse a non fare offerte superiori ai loro costi operativi effettivi. Altri sistemi portano a risultati più inefficienti e favoriscono la speculazione, a scapito dei consumatori.]
Il paradosso è sotto gli occhi di tutti: per evitare le possibili speculazioni al rialzo da parte dei fornitori di energia elettrica e di gas all'ingrosso, facendo incassare loro il "prezzo marginale" anziché quello che hanno presentato al momento della loro offerta, tutti gli acquirenti ed i consumatori pagano il "prezzo marginale", che è quello più alto. È un delirio.

La soluzione razionale sarebbe questa: obbligare tutti i fornitori di energia elettrica e di gas, cioè le imprese che hanno contratti con la clientela al dettaglio, famiglie ed imprese, ad approvvigionarsi con contratti a lungo termine, e non con le aste quotidiane, per stabilizzare i prezzi di mercato. Almeno l'80% dei consumi medi della clientela dovrebbero essere coperti con contratti a lungo termine, lasciando alle aste solo le forniture marginali di energia.

"Solo quantità marginali possono essere contrattate a prezzi marginali": questa regola sì, avrebbe senso.

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Yemen - La Legione Straniera a presidiare il GNL francese

La battaglia dei paesi europei per l’accaparramento del gas naturale e contro le bollette stratosferiche vede Parigi in prima linea, al punto da inviare la famigerata Legione straniera in Yemen per proteggere l’impianto di gas liquefatto di Balhaf, nella provincia di Shabwa, che è di proprietà della multinazionale francese TotalEnergies SE. Secondo Abubaker Alqirbi, ex ministro degli esteri del governo yemenita riconosciuto dalle monarchie arabe e dall’Occidente, i soldati che compongono la forza militare simbolo del colonialismo francese, si troverebbero già a Shabwa. Il loro compito, ha aggiunto, è quello di garantire il proseguimento dei preparativi per esportare il gas di Balhaf verso la Francia e gli altri paesi europei intenzionati a sottrarsi alla dipendenza dall’energia russa.

Il passo conferma le difficoltà in cui manovra il presidente Macron, sostenitore accanito della produzione di energia nucleare ma che in questi ultimi mesi ha visto le centrali atomiche del suo paese rallentare per il calo del livello delle acque dei fiumi francesi, dovuto alla siccità. La Francia, nota potenza nucleare, già in passato, durante la calda e secca estate del 2003, ha dovuto frenare la produzione di energia elettrica delle proprie centrali per la scarsità di acqua. L’accademico Jeremy Rifkin, in una intervista di qualche tempo fa, spiegò che in Francia il 40% di tutta l’acqua consumata è usata nelle centrali atomiche. E calcoli fatti da specialisti rivelano che un reattore da 1000 Megawatt ha bisogno di 2 milioni e mezzo di acqua al giorno per raffreddarsi.

Senza acqua abbondante per le sue centrali, messo sotto pressione dal gas insufficiente a coprire la domanda interna, Macron ha mandato la forza mercenaria che combatte sotto il tricolore francese, a garantire che l’impianto di Balhaf ritorni pienamente operativo. Lo Yemen non è un grande esportatore di gas in tempo di pace ma ora non esporta nulla a causa della guerra civile che vede i ribelli sciiti Houthi in controllo della capitale Sanaa e di altre ampie porzioni del paese scontrarsi con le forze yemenite governative appoggiate dall’Arabia saudita, dagli Emirati e altri paesi arabi. Parigi, scrive qualche giornale arabo, appare intenzionata a rilanciare l’esportazione del gas yemenita per riportarla per lo meno al livello anteguerra, premurandosi di negoziare con le varie fazioni nemiche e i paesi della regione coinvolti in vario modo nel conflitto (ad eccezione dell’Iran).

Ostacoli ai disegni di Macron non ne mancano. L’impianto di Balhaf è stato trasformato in una base delle milizie pagate dagli Emirati che nei mesi scorsi hanno tenuto a distanza i combattenti Houthi. E le esortazioni lanciate da Mohammed Saleh bin Adyo, l’ex governatore di Shabwa, per esortare i miliziani a lasciare il sito, sono caduti tutti nel vuoto. Abu Dhabi pur essendo alleata di Riyadh (e di Parigi) persegue anche la sua agenda in Yemen e sponsorizza il Consiglio di transizione meridionale e altri gruppi separatisti che cercano di stabilire uno Stato indipendente nel sud del paese. Separatisti che si sono scontrati di recente con le truppe governative non lontano dall’impianto di Balhaf, provocando decine di vittime.

Perciò, anche per la ben addestrata Legione straniera non sarà facile tenere il controllo di una regione tanto instabile nonostante l’accordo per la cooperazione energetica firmato il mese scorso da Parigi e Abu Dhabi che prevede la produzione congiunta di gas liquefatto. Intanto va avanti in un tribunale di Parigi la causa intentata lo scorso 2 giugno da una serie di gruppi per i diritti umani contro tre industrie militari francesi. Sono accusate di complicità in crimini di guerra avendo venduto armi all’Arabia Saudita e agli Emirati, usate poi, assieme a quelle di altri paesi, per bombardare nello Yemen dove hanno fatto numerose vittime civili.

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Iraq - Sull’orlo della guerra civile

In Iraq si stanno avverando le peggiori previsioni. Migliaia di sostenitori di Al Sairun, più noti come il Movimento sadrista, sono entrati oggi nella “Zona verde” di Baghdad, l’area in cui sono situate le sedi delle istituzioni e le ambasciate straniere, dopo che il loro leader, l’influente e potente religioso sciita Moqtada al Sadr, aveva annunciato il suo “definitivo” ritiro dalla politica, in aperta e violenta polemica con le istituzioni dello Stato e le altre formazioni politiche sciite filo-iraniane (il Quadro di coordinamento) che non hanno accettato la sua pressante richiesta di andare al voto anticipato per rimuovere lo stallo politico che dura dalle elezioni dello scorso ottobre.

Ora si teme che il paese possa precipitare nella guerra civile, con uno scontro aperto tra formazioni sciite rivali, nazionaliste (Al Sairun) e filo-iraniane.

I media iracheni riferiscono che le forze di sicurezza sono impegnate a mantenere il controllo dei punti di accesso alla “Zona verde”, impiegando anche idranti per allontanare i manifestanti. Secondo i video mandati in onda dalle tv e diffusi sui social, i militanti sadristi sono riusciti ad abbattere parte dei blocchi di cemento sul perimetro del parlamento iracheno, che già avevano occupato a fine luglio. La tensione è molto alta nella capitale e si teme che ora scendano in campo i sostenitori degli altri gruppi sciiti avversari di Al Sadr, che da tempo denunciano tentativi di colpo di stato.

Moqtada al Sadr, divenuto nazionalista negli ultimi anni e fautore di una presa di distanza dall’influenza iraniana e da quella americana sull’Iraq, oltre ad annunciare il suo ritiro dalla politica – una mossa tattica e non davvero definitiva, fatta per disorientare i suoi rivali e lanciare avvertimenti al premier uscente Mustafa Kadhimi, spiegano gli analisti – ha anche ordinato la chiusura di tutte le istituzioni del proprio movimento ad eccezione dei santuari religiosi ad esso legato. “Molte persone credono che la loro leadership sia stata conferita tramite un ordine, ma invece no, è innanzitutto per grazia del mio Signore”, ha affermato Al Sadr volendo sottolineare il suo ruolo di leader religioso e non solo politico. Allo stesso tempo ha ribadito la volontà di riavvicinare alla popolazione irachena le forze politiche sciite. “Tutti sono liberi da me”, ha proclamato Al Sadr chiedendo ai suoi sostenitori di pregare per lui, nel caso muoia o venga ucciso. Poco prima Nassar al Rubaie, segretario generale del blocco sadrista, aveva invano chiesto al presidente della repubblica, Barham Salih, e al presidente della camera dei rappresentanti, Mohamed Halbousi, di deliberare lo scioglimento del Parlamento e di fissare una data per lo svolgimento di elezioni anticipate.

Al Sadr alle elezioni di ottobre 2021 aveva ottenuto 74 seggi su 329, rendendo il suo partito il gruppo parlamentare più numeroso, ma in dieci mesi non era riuscito a mettere insieme una maggioranza necessaria a formare un governo. Un fallimento dovuto al rifiuto dello stesso Al Sadr di allearsi con i partiti sciiti filo-iraniani, in particolare con l’ex premier Nouri al Maliki. Il Quadro di coordinamento sciita si oppone a nuove votazioni e chiede di formare un nuovo governo, anche senza Al Sairun. Contro questa ipotesi a fine luglio i seguaci di Al Sadr presero d’assalto il parlamento e da allora mantengono un presidio al di fuori dell’edificio dell’Assemblea legislativa nella capitale irachena. I militanti del Quadro di coordinamento hanno risposto con un contro presidio sulle recinzioni della “Zona verde” di Baghdad.

AGGIORNAMENTO ORE 19:30

È di almeno 12 morti e 270 feriti il bilancio parziale degli scontri a Baghdad e nel resto del paese. Intanto le autorità militari hanno annunciato l’estensione del coprifuoco a tutto lraq, dopo averlo proclamato a Baghdad a partire dalle 15:30 locali (le 14:30 in Italia).

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29/08/2022

One hour photo (2002) di Mark Romanek - Minirece

La lotta dei portuali di Genova contro il traffico di armi

Transito e traffico d’armi per i porti italiani, europei e non solo... ma i portuali non ci stanno e si organizzano in rete per bloccare le navi della morte. Ne parliamo con José Nivoi del CALP (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali) di Genova, che sabato 27 parteciperà al dibattito “Armiamoci e pa(r)tite: la guerra non porta nulla di buono” durante Èqualafesta 2022 a Germignaga (Varese).

Come e quando è nato il CALP (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali)?

Il Calp è nato il 15 ottobre 2011, dopo una grande manifestazione a Roma. Sul pullman di ritorno si decise di far rinascere il collettivo di lavoratori portuali, più che altro per esigenze sindacali: la struttura sindacale di allora, la CGIL, non permetteva e continua a non permettere di dialogare tra le varie realtà, se non in sporadici appuntamenti. Volevamo uscire da quella logica, discutere di problematiche di vario genere, non solo portuali, ma anche di carattere politico.

Vi muovete da tempo a Genova per denunciare il traffico di armi e impedire il passaggio di navi cariche di bombe e missili. Puoi raccontarci alcuni momenti significativi della vostra lotta?

La nostra lotta è iniziata più o meno nel 2014, quando abbiamo visto parcheggiati all’interno dell’area portuale dei grandi fuoristrada della Toyota, che poi venivano caricati su una nave diretta a Tangeri. In seguito tramite un articolo di giornale siamo venuti a sapere che quei pick-up erano stati portati a Tripoli e che da Tripoli alcuni di questi per via di malfunzionamenti – motori rotti e via dicendo – erano tornati a Genova.

A distanza di qualche mese uno di noi è arrivato con un video di Youtube dove si vedeva un pick-up con sopra montata una mitragliatrice in una zona di guerra dopo il rovesciamento del governo Gheddafi. Sparava come un pazzo ad altezza villaggi e sul parabrezza c’era ancora uno dei nostri adesivi con scritto Genova. A quel punto abbiamo cominciato a lavorare sull’aspetto delle armi nel porto.

I momenti più eclatanti sono stati il blocco effettivo con lo sciopero e le azioni del 2019, la denuncia del governo italiano, che fa transitare tranquillamente le navi saudite perché c’è un interesse sovranazionale degli Stati Uniti e la denuncia dello scontro di interessi tra Italia e Francia per mantenere il controllo dei pozzi petroliferi Eni e Total in Libia.

Nel maggio 2021 abbiamo tentato di bloccare un carico di armi destinato a Israele, in rete con i portuali di Livorno e di Napoli. La nostra azione ha creato dei problemi diplomatici tra Italia e Israele, ma anche con gli USA.

Quando si è diffusa la notizia che stavamo bloccando questo carico di missili Di Maio è andato all’ambasciata israeliana a Roma dicendo: “Non vi preoccupate, la sistemiamo noi questa vicenda. State tranquilli”. Israele infatti aveva minacciato di boicottare in toto le merci italiane se i portuali italiani non avessero smesso di boicottare le loro navi.

Grazie alle nostre mobilitazioni che hanno dato gambe al movimento pacifista, abbiamo cominciato a lavorare come rete, fino ad arrivare a gennaio 2021 al blocco deciso dal Parlamento Europeo della compravendita di circa 19.000 missili della RWM, destinati ai droni usati dall’Arabia Saudita contro gli yemeniti.

Oltre a Genova, altri porti italiani ed europei stanno portando avanti le vostre stesse azioni. Esiste una rete organizzata per scambiarsi informazioni e coordinare i blocchi dei porti?

Come sindacato USB siamo radicati a Genova, Livorno, Civitavecchia, Trieste e da poco anche Palermo, con una collaborazione informativa e di azione. Abbiamo avuto dei contatti con portuali in giro per l’Europa a Bilbao, Sagunto, Valencia, Marsiglia, Amburgo e Rotterdam e stiamo cercando di creare una rete nel tentativo di costruire uno sciopero internazionale, che non è una cosa semplice da fare.

Abbiamo avuto contatti anche con portuali americani e sudafricani e ricevuto i ringraziamenti di organizzazioni yemenite e dei palestinesi di Gaza e siamo in contatto con moltissimi gruppi pacifisti italiani, europei e mondiali. C’è un continuo dibattito su come riuscire a organizzare questa giornata internazionale.

Qual è la situazione attuale riguardo al passaggio di navi cariche di armi destinate a paesi coinvolti in conflitti, come Arabia Saudita, Israele, Libia e Turchia?

Le armi trasportate dalle navi che passano da Genova e dai porti italiani sono perlopiù compravendite estere in transito in Italia. Il percorso tipico parte dagli Stati Uniti, arriva nell’Europa del nord e poi a Genova e si dirige verso Alessandria d’Egitto, uno dei Paesi che più acquista armi, anche se non c’è un contesto di guerra come per esempio in Siria e Yemen.

Dopo Alessandria d’Egitto le navi toccano il porto di Iskerderun, Turchia, a circa 80 km dal confine con il nord della Siria. Alcune vanno in India, perché l’esercito indiano compra veicoli in dotazione all’esercito USA e a Gedda.

Questi sono i porti toccati dalla compagnia saudita Bahri; poi c’è anche l’israeliana Zim, che movimenta armamenti venduti dagli USA e dall’Europa a Israele (anche se è uno dei produttori, alcuni armamenti li compra all’estero). Sono arrivate armi anche in Libia e in generale c’è un continuo commercio nei teatri più conosciuti.

I portuali di Genova hanno una lunga storia di lotta contro il traffico di armi. Che cosa vi spinge a continuare l’impegno dei vostri padri?

Per noi è una è una questione etico-morale, oltre che di carattere sindacale e di sicurezza sul lavoro. Nel momento in cui queste navi entrano nel porto di Genova il rischio di esplosioni e contaminazioni aumenta in modo esponenziale, soprattutto pensando che a circa 200 metri si estende un quartiere popolare a popoloso come Sampierdarena.

Le autorità portuali si muovono solo quando vedono l’incidente, la prevenzione è solo sulla carta e non di fatto. Prefettura, Autorità Portuale e Capitaneria di Porto non applicano leggi come la 185, che vieta transito ed esportazioni di armi verso paesi in guerra: una palese violazione, che si aggiunge a quella dell’articolo 11 della Costituzione.

Noi denunciamo i massacri e le violazioni dei diritti umani da parte per esempio dell’Arabia Saudita. Con la scusa del libero passaggio delle merci lo Stato italiano fa passare tranquillamente queste navi. Insomma, il commercio viene prima delle vite umane.

Come dicevo prima, per noi comunque il fattore più importante è quello etico morale. Qui è un po’ una tradizione: i portuali di Genova hanno sempre praticato la solidarietà attiva per esempio ai tempi della guerra in Vietnam, o della dittatura in Cile.

Quando nelle mie ore di lavoro carico e scarico armamenti che, lo so benissimo, uccideranno migliaia di civili, tra cui centinaia di bambini, io faccio parte della filiera della produzione delle armi. Il missile che esplode è solo l’atto finale di una produzione occidentale.

Noi in questo ingranaggio non ci vogliamo stare; vogliamo uscirne, vogliamo spostare merci per il bene comune e non per alimentare i profitti di privati come Leonardo e Fincantieri.

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