di Gioacchino Toni
Ad un ventennio dalla prima edizione torna in libreria il volume di Gianni Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo (Bompiani 2022), testo denso di preziose riflessioni attorno all’universo cinematografico relativamente alla perdita del legame ontologico fra immagine e realtà e alla rottura del nesso fra visione e conoscenza, nel contesto di un fine millennio attraversato dai dibattiti sul postmoderno sul piano epistemologico, sul postfordismo sul piano sociologico e sul virtuale su quello scopico.
Pur essendo l’attuale un paesaggio comunicativo segnato da nuovi dispositivi di produzione, fruizione e condivisione degli audiovisivi, da un’immagine cinematografica che, nel suo illudere una perfetta duplicazione del reale, non provoca più la sensazione che in essa il rappresentante ceda il posto al rappresentato ma, piuttosto, l’assenza del primo e la percezione di trovarsi il secondo presente davanti agli occhi1, da testi filmici strutturalmente cambiati rispetto all’epoca in/su cui venne steso il volume, le riflessioni da esso proposte su ciò che allora si definiva “contemporaneo” e che non è evidentemente più tale oggi, restano assolutamente utili e non solo come testimonianza di un importante passaggio epocale avvenuto e, per certi versi, oltrepassato, ma anche perché del contemporaneo in cui si è immersi rappresentano l’alba.
Vale la pena dedicare alle riflessioni sviluppate da tale volume due distinti scritti; il primo incentrato sulla rottura del nesso tra visione e conoscenza ed il secondo sulla questione identitaria ed il suo rapporto con l’alterità nel cinema che testimonia la crisi del visivo.
Al fine di evitare fraintendimenti circa il ricorso al temine “contemporaneo” utilizzato nel libro di Canova per definire quanto era tale due decenni fa, all’epoca della sua prima stesura, si eviterà il più possibile di farvi ricorso, sostituendolo con una più neutra indicazione di periodo.
Le analisi presenti in L’alieno e il pipistrello – in cui, rispetto alla sua prima uscita, è stato aggiunto in coda un breve capitolo dedicato a Joker come «interprete emblematico e paradigmatico della nostra contemporaneità» (p. 7) – restano di estrema utilità visto che, come scrive l’autore nella prefazione alla nuova edizione, «il cinema è rimasto uno dei pochi sismografi emozionali e cognitivi capaci di ricordarci che il semplice gesto del guardare un’immagine non significa anche conoscere il mondo che in quell’immagine viene mostrato (o pretende di essere mostrato, o finge di esserlo)» (p. 6), inoltre, le «figure archetipe come Batman e Alien (il protettore mostruoso e il mostro protettivo) si confermano – anche a distanza di un ventennio – come imprescindibili icone dell’immaginario collettivo» (p. 6).
Il volume si apre facendo riferimento a Gattaca – La porta dell’universo (Gattaca, 1997) di Andrew Niccol, film che narra di uno scenario in cui il corpo umano si è ormai consegnato alla dittatura dell’artificio e del simulacro e «le immagini hanno perso ogni potere di certificazione della realtà» (p. 11), ma al contempo racconta anche di una insopprimibile nostalgia della vista e del desiderio in forma scopica. «In un mondo completamente desensorializzato (asettico-lucido-inodore-insapore) la vista esprime la nostalgia del corpo, il suo eterno ritorno» (p. 11).
Le tematiche trattate dal film introducono dunque alcune questioni indagate dal libro: «la crisi dell’egemonia dello sguardo nella società contemporanea, la perdita del legame ontologico fra immagine e realtà, l’avvento di un paradigma tecnologico e culturale in cui l’immagine filmica reagisce alla consapevolezza del proprio definitivo ingresso in un regime di simulazione lasciando emergere la crisi delle sue forme tradizionali e dei suoi più collaudati dispositivi di rappresentazione del visibile» (p. 12).
La sequenza di Entrapment (1999) di Jon Amiel, in cui si mostra il meticoloso allenamento con cui la protagonista, preparandosi a un furto, si esercita a muoversi facendo a meno dello sguardo, viene indicata da Canova come «sintomo di un destino epocale che sembra interessare tutto il cinema di fine millennio: la consapevolezza del progressivo declino della vista nella gerarchia degli organi di senso unita alla percezione della crescente importanza che vanno assumendo, per converso, l’udito e il tatto» (p. 52). Costruito attorno al tema dell’eclissi dello sguardo, il film non manca di esprimere «la nostalgia per la civiltà dello sguardo nel momento stesso in cui prende atto, sul piano pragmatico-funzionale, del suo declino» (p. 52) .
Il cinema degli ultimi decenni del secolo scorso, di cui si occupa il volume, tende in diversi casi a palesare come l’occhio sia divenuto un simulacro di quel che è stato e lo fa insistendo su storie in cui i personaggi si trovano a – o decidono di – fare a meno degli occhi, suggerendo il sopraggiungere di una sostanziale perdita di fiducia nella vista.
Sono diversi i film che sottolineano lo scarto che si è venuto a creare fra visione e conoscenza, dunque dell’inaffidabilità dell’immagine. La messa in discussione dello statuto di quest’ultima è già presente nel cinema di fine degli anni Cinquanta, ma quel cinema «era comunque convinto di poter sopperire con la propria tecnologia riproduttiva alle debolezze, alle fragilità o alle miopie dello sguardo umano» (p. 55), mentre invece quello di fine millennio «non ci crede più. Sa che la tecnologia, lungi dal servire a riprodurre il vero, serve sempre più spesso a simulare il falso, e non si fida. Per lo meno: non crede più che il semplice gesto del guardare un’immagine significhi anche conoscere il mondo che in quell’immagine viene mostrato» (p. 56).
Canova invita a cogliere tale scarto nella distanza che separa i protagonisti di Blow-Up (1966) di Michelangelo Antonioni e I misteri del giardino di Compton House (The Draughtsman’s Contract, 1982) di Peter Greenaway, rispettivamente un fotografo ed un disegnatore di vedute dal vero.
I due registi, consapevoli dell’incolmabile distanza che separa l’immagine dal reale, nel mettere in scena situazioni tutto sommato simili – indizi di un delitto presenti nelle riproduzioni sfuggiti ai rispettivi autori – optano per protagonisti che si pongono di fronte al rapporto tra immagini e reale in maniera decisamente diversa. Se il personaggio-fotografo, fiducioso nella possibilità che l’immagine sveli il reale, scopre l’accaduto «osservando attentamente non la realtà ma la sua riproduzione fotografica» ricorrendo all’ingrandimento per svelare quanto l’occhio umano non può cogliere, palesa la coincidenza di visione e conoscenza, nella sua ossessione riproduttiva, il disegnatore non coglie ciò che riproduce, non lo capisce, non lo conosce. Visione e riproduzione non garantiscono conoscenza.
Il cinema di fine Novecento, come può suggerire il film di Greenaway, tende a palesare «la rottura fra visione e conoscenza come una dolorosa menomazione. E talora reagisce al trauma offendendo l’occhio, cioè accanendosi proprio contro l’organo che ritiene responsabile della perdita» (p. 58). Un cinema che dunque rinuncia a vedere, che, di fronte alla rottura del nesso fra visione e conoscenza, decide di non rapportarsi più al mondo attraverso lo sguardo. Un cinema che, consapevolmente, opta per la cecità.
Il film Occhi nelle tenebre (Blink, 1994) di Michael Apted racconta di una giovane violinista che ha perso la vista da bambina a causa di una violenta punizione inflittale dalla madre per il suo ostinarsi ad imitarla allo specchio. Un trapianto di cornea permette alla protagonista di riguadagnare parzialmente la vista ma la lascia incapace di capire se il suo sguardo sia “in diretta” o “in differita”; se ciò che intravede è quanto sta accadendo o se si tratta di un residuo visivo di un fatto accaduto nel passato. La cecità della violinista deriva dunque da
una colpa di tipo narcisistico-imitativo: non vede più perché, al contempo, si è illusa di poter essere come la madre e ha contemplato un po’ troppo se stessa davanti a uno specchio. Anche il cinema ha seguito un percorso analogo: si è illuso di saper imitare la realtà, di poterla riprodurre fino a confondervisi, e si è trastullato a lungo davanti alla propria immagine riflessa, guardandosi (pp. 61-62).
L’accecamento presente in numerosi film di fine millennio, secondo Canova, potrebbe essere letto come metafora di un’autopunizione per l’eccesso di fiducia concessa dal cinema all’illusione riproduttiva/sostitutiva del reale e per l’illusione di poter mettere in scena il suo essere linguaggio senza comprometterne il funzionamento. Un non voler vedere derivato dalla caduta dei sogni di onnipotenza dello sguardo che ha finito per ripiegare nella simulazione e nella virtualità abbandonando pretese ontologiche.
La metafora dell’accecamento coinvolge tanto il rapporto del cinema con il visibile, a favore dell’acustico e del tattile, quanto con il visivo, inceppando processi a cui era solito ricorrere come produttore di senso.
La dialettica tra visibile e non visibile è stata al centro della riflessione “moderna” sul cinema in autori come André Bazin, Noël Burch e Pascal Bonitzer per i quali «l’irrappresentabile o il non visibile si danno come tali solo a uno spettatore esterno (a un interpretante) che rifletta sui dati esperienziali del proprio percepire» (p. 67). Nel cinema di fine millennio, invece, è «lo stesso film a enunciare i propri limiti e a scandagliare i territori dell’irrappresentabile, confessando apertamente la propria incapacità di renderli visibili». Si tratta di un cinema «che tematizza la non visibilità. Che racconta di mondi che non sa visualizzare. O di tecnologie ipersofisticate che servono solo a visualizzare il mondo che noi già conosciamo (e che il cinema da sempre mette in scena)» (p. 68).
Il cinema che palesa la sua crisi, sostiene Canova, risulta decisamente più interessante di quello che la esorcizzava «inseguendo la produzione della “bella forma”»; è invece nell’infrazione di quest’ultima, nella sua lacerazione che, si dice convinto l’autore del saggio, il cinema sembra suggerire «qualcosa circa il proprio destino» (p. 68).
A partire da queste premesse, lo studioso affronta la messinscena della crisi del visibile nel cinema di fine Novecento proponendo tre livelli di riflessione: la rappresentazione del limite del filmabile attraverso il film Contact (1997) di Robert Zemeckis; la rappresentazione dello scarto rispetto al già filmato nel film Psycho (1999) di Gus Van Sant; la rappresentazione del limite del virtuale nel film Matrix (1999) di Lana e Lilly Wachowski.
Si viene così ad avere una nuova esperienza del sublime che non ha a che fare né con la grandiosità incommensurabile della natura, né con la sua straordinaria potenza, bensì, nei tre esempi, rispettivamente con la scoperta dell’incommensurabilità dell’Altro (sublime gnoseologico), dell’Identico (sublime intertestuale) e del Virtuale (sublime tecnologico).
«Contact (1997) è prima di tutto un film sull’altrove. Sul bisogno di altrove. Sulla necessità di portare lo sguardo oltre i confini del visibile e del filmabile per farlo approdare ad altri tempi e ad altri spazi» (p. 69). Allo stesso tempo, continua Canova, si tratta di «un film sull’impossibilità di tutto questo, sull’inadeguatezza della nostra strumentazione (tecnologica, ma anche emotiva, percettiva, epistemologica) al fine di rendere visibile (e, quindi, di trasformare in cinema) questa necessità» (p. 69). Dunque, Contact si presenta come un «film sul non-poter-andare-oltre delle immagini. Di queste immagini, quelle che finora hanno dato vita al cinema e ai film» (p. 70), tanto da proporsi come esempio di cinema sinestetico, soprattutto acustico.
«Ancora una volta: vedere non basta. Non è sufficiente per comprendere e capire; il tema della conoscenza mediante le apparenze, che impregna di sé tutta la storia del cinema e tutto l’immaginario dell’era del visibile, è anche il tema di Contact. Che entra direttamente nella crepa epistemologica apertasi fra visione e conoscenza, e ci lavora dentro» (p. 71). Non a caso la protagonista percepisce le cose con l’udito prima che con la vista.
Psycho di Gus Van Sant sembra amare talmente tanto il suo modello di partenza da produrne la morte.
C’è una strana coincidenza fra il gesto linguistico di Van Sant e il testo che egli rimette in scena. Psyco di Hitchcock narra di un figlio che uccide la madre, conserva il suo cadavere imbalsamato, assume le sue sembianze e prende il posto di lei. Il film di Van Sant fa la stessa cosa con la sua madre-matrice: la “uccide” e prova a prendere il suo posto. Ne conserva lo scheletro (lo storyboard), ne imita la voce (le musiche di Bernard Herrmann), ne mima le apparenze e le fattezze (i titoli di testa di Saul Bass), assume sul proprio corpo i segni di riconoscimento “materni” e fa di sé il simulacro della propria “genitrice” (pp. 76-77).
Un cinema che “imbalsama se stesso” come ultima possibile prerogativa dello sguardo: «di fronte alla perfezione inattingibile del già visto e del già mostrato, cerca di esprimere la propria “sublime” ammirazione con la produzione dell’identico e con l’esplicitazione del non-filmato, ma poi si rende conto che non è incrementando il visibile che può sperare di accrescere la tensione scopica dello spettatore e che, anzi, finisce per produrre proprio l’effetto contrario» (p. 77) .
Concentrandosi su Matrix, Canova sottolinea come spesso, guardando ad esso, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un videogioco sia visivamente che narrativamente, tanto da rendere inopportuno affrontarlo ricorrendo ai canoni del cinema.
In perfetta sintonia con lo scenario della postmodernità, l’immagine di Matrix non è mai né “bella” né “vera”, tutt’al più è intensa, elegante o eccitante. Troppo piena (di segni, di pallottole, di corpi), troppo vuota (di senso?). Allo spettatore non è chiesto di “interpretare” alcunché, ma di prendersi tutto il piacere che riesce a catturare transitando dentro un gigantesco luna-park emotivo che funziona, in ogni istante, come uno stimolatore dei sensi (p. 80).
Eppure, sottolinea Canova, «Matrix è ancora cinema» a partire dai numerosi riferimenti al cinema che contiene. Lo è a modo suo, ribaltando la classica pretesa del cinema di simularsi reale, qua l’artificiosità è dichiarata, palesata.
Ma proprio qui sta il punto: per denunciare l’avvenuto dominio della simulazione, Matrix non può che essere a sua volta totalmente artificiale. Cioè finto, truccato, simulativo. E in ciò – in questa contraddizione, in questa doppiezza – sta al contempo la sua grandezza e la sua condanna. Assieme all’impressione che qui si sfiori davvero l’unica forma di sublime consentita al cinema di fronte alla visione della potenza e dell’inattingibilità delle tecnologie virtuali. Perché anche Matrix è, a suo modo, un film sulla crisi del visibile e sul tramonto dello sguardo. “Nessuno di noi può spiegare Matrix con le parole, bisogna vederla con i propri occhi” dice Morpheus a Neo. Appunto: che le parole fossero impotenti lo si sapeva già da tempo, ma il film delle sorelle Wachowski ci dice che anche lo sguardo non lo è da meno (pp. 81-82).
Dunque, il volume passa ad analizzare alcune crisi che si palesano in questo cinema di fine millennio: quella del diegetico, dell’iconico e delle forme filmiche.
A proposito della prima, lo studioso analizza in dettaglio Pulp Fiction (1994) di Quentin Tarantino, nella cui struttura diegetica si intrecciano/alternano elementi di narrazione forte, debole e persino antinarrativa, tanto da rendere «indecidibile e indecifrabile il modello diegetico a cui effettivamente si ispira» (p. 85). La metanarratività su cui è costruito il film «si dà come forma ibrida, cioè come luogo di fuoriuscita dal canone e come punto di crisi delle forme narrative precedenti» (p. 89).
Per quanto riguarda la crisi dell’iconico, lo studioso si sofferma su Face/Off – Due facce di un assassino (Face/Off, 1997) di John Woo, segnalando come i personaggi secondari, accontentandosi di osservare superficialmente la “maschera” dei due protagonisti, si limitino a credere a quello che vedono finendo per non vedere: «il modo di “guardare” e di operare identificazioni scopiche da parte dei personaggi di Face/Off rivela l’inadeguatezza di quei codici di riconoscimento iconico a cui essi stessi conferiscono la massima fiducia. Meglio: è lo sguardo di John Woo su di essi che rivela a noi spettatori la loro incapacità (o impossibilità) di riconoscere con gli occhi» (pp. 93-94).
Infine, per quanto concerne la crisi delle forme filmiche, Canova portata esempi riguardanti la soggettiva, la dissolvenza incrociata, il flashback ed il piano sequenza.
Nel primo caso lo studioso individua in Strange Days (1995) di Kathryn Bigelow «il punto di crisi e di messa in discussione più radicale dello statuto della soggettiva» (p. 102) del cinema dei decenni terminali del secolo. Il film sembra suggerire che ad eccitare «l’umanità di fine millennio – secondo l’eterotopia scopica di Kathryn Bigelow – non è lo sguardo, ma la cosa vista. È la possibilità di vedere con l’occhio del protagonista il coito e la morte: […] ciò di cui i personaggi di Strange Days sembrano aver bisogno (e nostalgia) è l’ovvia banalità del nostro sguardo originario. Di ciò che esso era (e poteva) già prima dell’invenzione dei fratelli Lumière» (pp. 103-104). Insomma, film come questo si/ci interrogano a proposito del «rapporto fra lo sguardo e il suo oggetto [della] relazione fra visione, emozione e conoscenza» (p. 106).
Per quanto riguarda l’uso “anomalo”, rispetto alla tradizione, della dissolvenza incrociata, Canova si concentra su Blackout (The Blackout, 1997) di Abel Ferrara, film che, nel suo insistito e reiterato utilizzo la annulla come figura di significazione. Blackout sembra suggerire che
in un universo scopico in cui la realtà non solo è registrabile e falsificabile, ma è quasi annullata dalla bramosia di sostituirla con i simulacri mentali e visuali ininterrottamente prodotti dai personaggi […], il rischio è che a un certo punto – come sperimenta in prima persona il protagonista del film – le immagini comincino a generarsi da sole, a prescindere dalla nostra volontà e intenzionalità, e si riproducano spontaneamente in modo impazzito, quasi in una sorta di metastasi scopica (p. 110).
Ecco allora il sopraggiungere del “blackout”, inteso come perdita del controllo sulla riproduzione tecnica del visibile, crollo definitivo dell’illusione riproduttiva dell’immagine, ma anche possibile ultima via di fuga percorribile. «È il battito di ciglia, la palpebra che si abbassa. È, ancora una volta, il rifiuto di vedere così; lo stacco nero, la nuotata verso il nulla su cui Ferrara chiude il suo film» (p. 111). La dissolvenza incrociata, anziché esibire l’avanzamento testuale del film, si propone dunque come una figura di paralisi.
Circa il flashback, trasformatasi nel corso del tempo da articolazione del racconto a nucleo tematico della storia, nel cinema che palesa le sue crisi finisce per perdere la sua funzione chiarificatrice
per configurarsi piuttosto come elemento di “oscuramento” e di complicazione. Più che un’opportunità, diventa spesso una condanna: segnala l’impossibilità di liberarsi dalle immagini del passato, che premono sul presente diegetico come una massa di ricordi mnemonico-visuali di cui i personaggi farebbero volentieri a meno. Da elemento di illuminazione diegetica, il flashback tende a diventare insomma un elemento di confusione; da figura di produzione del senso (o di messa in scena della sua pluralità e ambiguità: Welles e Kurosawa) si fa sempre più figura dell’implosione (o del collasso) di ogni senso possibile (p. 113).
Uno dei registi ad essersi spinto maggiormente in tale direzione è Abel Ferrara che infatti
fa del flashback la figura-chiave della memoria: individuale e filmica, ma anche storica, sociale e collettiva. Si veda, ad esempio, la trilogia formata da The Addiction (1995), da Fratelli (The Funeral, 1996) e dal già citato Blackout» (p. 113). Attaccare il flashback per Ferrara significa distrugge l’illusione, renderla impraticabile, obbligandoci «ad assumere il nostro atto di visione come unico oggetto ancora possibile per il nostro inappagabile desiderio di guardare (p. 116).
Per quanto concerne il piano sequenza, questo è storicamente passato dal presentarsi come forma filmica per eccellenza del realismo cinematografico a manifestarsi come manieristico segno linguistico autoriale di messa in scena e, ancora, nel cinema di fine millennio, «come artificio linguistico che sperimenta sul (e nel) suo stesso parossismo la difficoltà – se non addirittura l’incapacità – di vedere» (p. 118).
In questo caso l’esempio su cui si sofferma il volume è quello del celebre incipit di Omicidio in diretta (Snake Eyes, 1998) di Brian De Palma in cui
il piano sequenza non mostra né il fulcro diegetico della realtà, né il lavoro del linguaggio che dia un senso al racconto. Mostra, piuttosto, l’inattingibilità del primo e la sterile impotenza del secondo. Come se De Palma volesse tendere fino al limite estremo – fino al punto di rottura – le potenzialità tecniche del mezzo per dimostrare tanto il suo non saper vedere quanto, forse, anche il suo non aver più idea di cosa guardare. O lo scarto fra ciò che si è scelto di vedere (di far vedere) e ciò che sarebbe stato giusto guardare (p. 119).
Snake Eyes, dunque. Occhi di serpente. Sguardo tentatore e al tempo stesso tentato, come quello «della “macchina” che desiderò il mondo agli albori del cinema, e che oggi si ritrova drammaticamente senza mondo, legato alle figure sfigurate di quel che è stata la visione filmica da un rapporto di struggente ma disincantata nostalgia» (p. 121).
Il reale delle/nelle immagini – Serie completa
Note
1) Cfr. Andrea Rabbito, L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, Milano-Udine, 2015. Sul volume di vedano: Gioacchino Toni, Il reale delle/nelle immagini. L’onda mediale, “Carmilla”, 15 marzo 2016; Gioacchino Toni, Il reale delle/nelle immagini. Forme di resistenza all’onda mediale, in “Carmilla”, 22 marzo 2016.
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