Paul Sweezy è stato uno degli economisti marxisti più illustri e più controversi del ventesimo secolo. Ha affrontato alcune delle questioni più vitali che chi vuole comprendere il capitalismo per poterlo superare si trova davanti. Nonostante abbia giocato un ruolo significativo nel diffondere le idee di Karl Marx, non gli è bastato fermarsi a questo e ha sviluppato un proprio schema concettuale per spiegare il modo in cui le economie capitaliste si stavano evolvendo durante i decenni del seecondo dopoguerra.
I suoi due libri più importanti, La teoria dello sviluppo capitalistico (1942) e Il capitale monopolistico (1966), quest’ultimo scritto insieme a Paul Baran, hanno generato una grande quantità di letteratura critica, e sono stati tradotti in molte lingue. La sinistra odierna è ancora alle prese con i problemi che Sweezy ha incontrato nel cercare di dare un senso al capitalismo contemporaneo, e la sua influenza continua a farsi sentire nel mondo intellettuale dell’economia politica radicale.
Il percorso di Sweezy verso il marxismo
Paul Marlor Sweezy è nato a New York City il 10 aprile 1910, figlio di un banchiere di Wall Street. È stato educato alla Phillips Exeter Academy e all’università di Harvard, dove si è laureato nel 1931, senza aver imparato assolutamente niente di Marx. Nel 1932-33, si è iscritto alla London School of Economics, dove ha studiato economia liberale sotto Friedrich von Hayek e Lionel Robbins, ma ha anche appreso idee politiche socialiste da Harold Laski.
Quando è tornato negli Stati uniti nel 1933, Sweezy si considerava marxista, anche se, come vedremo, ciò non era immediatamente evidente nelle sue primissime pubblicazioni accademiche. Tornato ad Harvard, Sweezy ha tenuto un corso sul socialismo con Edward S. Mason, e ha lavorato alla tesi di dottorato sotto la supervisione di Joseph Schumpeter. Schumpeter era molto preparato sul marxismo, anche se ne è sempre stato profondamente critico.
Nel 1938, l’università di Harvard ha pubblicato la tesi di dottorato di Sweezy su un cartello consolidato dell’industria del carbone britannica. Tra il 1934 e il 1942, Sweezy ha lavorato anche per diverse agenzie federali governative, aiutandole a implementare il New Deal di Franklin Roosevelt, prima di unirsi all’Ufficio dei Servizi Strategici (l’antesignano della Cia) per lavorare come ricercatore d’ufficio durante il coinvolgimento degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale.
Sul finire della guerra il pendolo politico statunitense si stava già spostando velocemente a destra, e Sweezy si è reso conto che se fosse tornato alla propria posizione accademica ad Harvard non gli sarebbe stata concessa la cattedra. A questo punto la sua situazione familiare privilegiata si è rivelata utile, perché gli ha permesso di dimettersi da Harvard, spostare la famiglia nel New Hampshire e lavorare come studioso e giornalista indipendente e radicale.
Con il suo amico Leo Huberman ha fondato il giornale socialista indipendente Monthly Review, che ha editato dalla sua prima uscita nel maggio 1949 fino a che non è andato in pensione nel marzo 1997. Sweezy non ha mai più ottenuto una posizione a tempo pieno all’università, anche se è stato spesso chiamato come docente a contratto. È morto a novantatré anni il 27 febbraio 2004.
Contributi iniziali
Le prime pubblicazioni accademiche di Sweezy avevano poco o nulla a che vedere con il marxismo, ma hanno dato un significativo contributo intellettuale alla letteratura sull’economia mainstream. Il suo primo articolo è stato una recensione approfondita e molto critica della Teoria della Disoccupazione di A. C. Pigou, che spiegava la disoccupazione in termini pre-keynesiani, come risultato di eccessive richieste salariali dei lavoratori.
Sweezy si è rivelato presto un keynesiano entusiasta, spingendo per un aumento della spesa pubblica, finanziata dai deficit di bilancio, in risposta alla «seconda depressione» del 1937-38. Ha anche dimostrato un caso di studio di microeconomia per la teoria della disoccupazione di John Maynard Keynes in un breve ma originale articolo pubblicato nel 1939 nel Journal of Political Economy. Un’impresa oligopolistica, sosteneva Sweezy, si trova generalmente davanti una curva della richiesta alterata e quindi anche una discontinuità verticale nella sua curva marginale delle entrate. Questo dovrebbe anche applicarsi alla sua curva marginale del prodotto (richiesta di manodopera).
Si trattava di un impressionante scritto di teoria originale dell’economia neoclassica, basato sull’idea che le vendite del prodotto di un oligopolio sarebbero crollate molto più in fretta se il prezzo fosse stato alzato piuttosto che se fosse stato ridotto. Questo si applicherebbe anche, secondo Sweezy, ai livelli di assunzione dell’azienda in caso di aumento o riduzione dei salari. A queste condizioni, tagli salariali reali non avrebbero alcun effetto sulle assunzioni. Solo una crescita della curva di domanda del prodotto potrebbe aumentare il numero dei lavoratori; ciò richiedeva negli ultimi anni Trenta del '900 l’implementazione a livello macroeconomico delle politiche keynesiane.
La teoria dello sviluppo capitalistico
Le implicazioni del declino della competizione nelle economie a capitalismo avanzato sono un elemento portante ne La Teoria dello sviluppo capitalistico, pubblicato nel 1942, che, come esposizione di teoria economica marxista, ha avuto una grandissima influenza. Il libro è diviso in quattro parti: le prime tre sono dedicate all’esposizione delle idee di Marx, mentre nella sezione finale Sweezy si concentra sulla propria analisi dello stadio monopolistico dello sviluppo capitalista.
Nella prima parte, «Valore e Plusvalore», Sweezy inizia a esplicitare la metodologia fondamentale di Marx. Poi fornisce un resoconto acuto e originale dei problemi di valore «qualitativo» e «quantitativo» distinti da Marx, dove il primo riguarda le relazioni tra i produttori e il secondo le relazioni tra i loro prodotti. Il primo solleva questioni legate al lavoro teorico e al feticismo delle merci, mentre il secondo alla determinazione dei valori di scambio relativi delle merci.
La seconda parte, «Il processo di accumulazione», affronta l’analisi marxista della produzione semplice o espansa, concentrandosi sulla creazione e sul rifornimento costante di un «esercito di riserva» di disoccupati, sulla tendenza alla caduta del saggio di profitto, e sulla trasformazione dei valori della manodopera nei prezzi della produzione. Sweezy critica il trattamento marxista sia della tendenza alla caduta del saggio di profitto sia del problema della trasformazione. Mentre la questione del valore qualitativo resta profondamente importante, suggerisce Sweezy, lo stesso non si può dire della questione quantitativa: «Il mondo reale è fatto di calcolo dei prezzi; perché non ragionare in termini di prezzo fin dall’inizio?».
Nella terza parte, «Crisi e Depressioni», Sweezy appoggia il rifiuto marxista della Legge di Say, secondo cui l’offerta complessiva crea la propria complessiva domanda e quindi una tendenza intrinseca verso la piena occupazione. Questo lo porta poi a sottolineare i problemi che i capitalisti hanno nel «prendere atto» del plusvalore contenuto nella loro merce sotto forma di profitto monetario, a causa della mancanza della domanda complessiva effettiva. Mette grande enfasi sull’analisi marxista delle crisi legate al sottoconsumo, causate (come affermato dallo stesso Marx) «dalla povertà e dal ridotto consumo delle masse». Sweezy traccia un’analisi dettagliata dei modelli di riproduzione delineati da Marx nel secondo volume del Capitale e abbozza un modello matematico formale di sottoconsumo preso dall’opera del teorico austriaco Otto Bauer.
Conclude, nella parte quarta, «Imperialismo», esaminando le prospettive per la prosperità del capitalismo nello stadio più tardo del suo sviluppo. Secondo Sweezy, il capitalismo monopolistico si caratterizza per un’aumentata concentrazione e centralizzazione del capitale, l’avvento di enormi società per azioni, e la crescita di cartelli, trust e fusioni. La domanda effettiva subisce grandi pressioni, sostiene Sweezy, perché i nuovi investimenti devono limitarsi a difendere il saggio di profitto e la crescita reale dei salari declina, rafforzando la tendenza al sottoconsumo.
C’è però anche una forte tendenza a un aumento dell’esborso statale e alla crescita di diverse forme di consumo non produttivo, quest’ultima dovuta a un grande aumento dei costi di vendita. Qui Sweezy si appoggia all’opera di Vladimir Lenin per spiegare la proliferazione del nazionalismo, del militarismo e del razzismo in quello che l’Unione Sovietica considerava essere lo stadio finale imperialista del capitalismo.
Sweezy e Baran
Sweezy ha continuato a riflettere e pubblicare su questi temi fino alla fine della propria vita. Nel mentre, è stato responsabile di un’aggiunta significativa alla letteratura anglofona sull’economia politica marxista. Si tratta della sua edizione del 1949 dei testi classici sul problema della trasformazione di Eugen von-Böhm-Bawerk, Rudolf Hilferding, e Ladislaus von Bortkiewicz. La critica del marxismo di quest’ultimo è stata estremamente influente. Sweezy ha anche pubblicato un resoconto attento e solidale del punto di vista sul sottoconsumo di Rosa Luxemburg. Nel frattempo, le sue idee hanno continuato a evolversi, sotto l’influenza di due importanti keynesiani, il polacco Michał Kalecki e l’economista austriaco Josef Seindl. Sia Kalecki che Steindl hanno analizzato i legami tra la crescita del potere dei monopoli e l’aumento dell’instabilità economica.
Tuttavia, il contributo principale di Sweezy è arrivato quasi un quarto di secolo dopo l’apparizione de La teoria dello sviluppo capitalistico, con la pubblicazione di quella che è stata certamente la sua opera più venduta, Il capitale monopolistico, nel 1966. Il suo coautore era un rifugiato della Russia stalinista, Paul Alexander Baran, giunto a Harvard nel 1939 con una lettera di raccomandazione dell’economista polacco Oskar Lange. Nell’URSS, Baran aveva studiato all’Istituto Plekhanov, e aveva quasi sicuramente acquisito il suo interesse di tutta una vita sullo stadio monopolistico del capitalismo dal suo direttore, Yevgeny Preobranzhensky. Oltre alle idee di Preobranzhensky, Baran ha aggiunto qualcosa di proprio alla ricerca su Il capitale monopolistico. Importante notare che il concetto di surplus economico – «la differenza tra quello che produce una società e il suo costo di produzione» – era suo, non di Sweezy. Sua era anche la distinzione tra surplus effettivo e surplus potenziale, che evidenziava chiaramente gli sprechi intrinsechi nel capitalismo avanzato, in quanto il surplus che veniva veramente prodotto si allontanava sempre di più dal massimo possibile. Questo elemento cruciale, che probabilmente derivava in parte dal periodo che Baran aveva speso in Germania studiando con la Scuola di Francoforte, gli ha permesso di mettere in risalto la dimensione culturale e ideologica del capitalismo, che sono analizzate nelle ultime ottanta pagine de Il capitale monopolistico.
L’attenzione di Baran per lo sfruttamento del Terzo Mondo era inoltre più mirata di quella di Sweezy. Affermava infatti che l’estrazione di surplus dalle aree arretrate del mondo aiutava sia a spiegare la passività della classe lavoratrice occidentale, comprata con una piccolissima porzione dei profitti, sia a dimostrare il potenziale rivoluzionario della classe contadina in territori coloniali ed ex-coloniali.
Il capitale monopolistico
Sweezy ha pubblicato Il capitale monopolistico due anni dopo la morte di Baran. Come si evince dal titolo, derivava molto dalla letteratura sulle grandi società per azioni contemporanee, in grado di eliminare la competitività dei prezzi e aumentare i margini di profitto. La conseguenza era una forte tendenza alla crescita del surplus come proporzione della produzione totale, intensificando il problema del sottoconsumo su cui Sweezy si concentrava dal 1942.
Nel libro segue un dibattito approfondito sui modi in cui l’aumento del surplus può essere assorbito, tra cui la crescita del consumo e delle spese di investimento dei capitalisti, l’aumento della spesa militare, la crescita della spesa civile dello Stato e una più intensa attività militare e imperialista in generale. Il modello macroeconomico de Il capitale monopolistico è essenzialmente keynesiano e si appoggia sostanzialmente su quello che è conosciuto come «keynesismo militare».
Per Sweezy e Baran le conseguenze politiche di questa analisi erano chiare: qualsiasi speranza per il mondo poggiava sulle spalle dei «popoli rivoluzionari» di nazioni come Vietnam, Cina, Cuba e Algeria – ovvero, sulle possibilità di rivoluzione fuori dalle nazioni a capitalismo avanzato. Il punto di vista di Sweezy sul socialismo era quindi cambiato in modo significativo dal 1942, quando ancora supportava caldamente il comunismo sovietico e sperava che qualcosa di simile si potesse stabilire anche negli Stati Uniti – anche se non si è mai iscritto al Partito comunista statunitense, che considerava troppo dogmatico. Sweezy supportava ora la Cina maoista invece dell’URSS, poiché credeva che Mao conservasse il fervore rivoluzionario che era stato abbandonato da Nikita Khrushchev e i suoi associati sovietici. Tuttavia, con la morte di Mao e la vittoria dei fautori della «via del capitale», prima in Cina e poi più in generale dopo la disintegrazione dell’Unione Sovietica nei primi anni Ottanta, Sweezy ha abbandonato la sua opposizione storica al riformismo e concluso la propria vita come l’aveva iniziata, come socialdemocratico di sinistra.
Durante i tre decenni dopo la pubblicazione de Il capitale monopolistico Sweezy si è reso conto che la sua analisi del settore finanziario era inadeguata. Mentre lui e Baran avevano dato per scontato che la gestione aziendale fosse pressoché immune dalle pressioni finanziarie del mercato, il sistema capitalistico si era spostato ormai in una direzione molto diversa, con le acquisizioni e la minaccia delle acquisizioni a esercitare una profonda influenza sul modo di pensare e comportarsi delle aziende. Nei suoi ultimi scritti, Sweezy ha ammesso che la sua iniziale analisi del capitale era stata unidirezionale e incompleta, perché poco concentrata sull’interazione fra i suoi aspetti reali e finanziari. Ma non è riuscito a interagire con altre correnti di teoria macroeconomica – per esempio, con l’«ipotesi di instabilità finanziaria» post-keynesiana introdotta da Hyman Minsky – o a considerare con serietà la possibilità che negli anni Settanta fosse iniziato un nuovo stadio neoliberale e competitivo dello sviluppo capitalista, indebolendo il potere dei monopoli e mettendo in dubbio la legge della crescita del surplus.
Un bilancio recettivo della notevole carriera intellettuale di Sweezy, che è durata più di sei decenni, dovrebbe quindi concludere che essa ha messo in luce molti dei dilemmi affrontati dagli economisti marxisti del ventesimo secolo. In un saggio che ho scritto con Mike Howard nel 2004, abbiamo concluso la nostra analisi dell’opera di Sweezy elencando cinque di questi dilemmi:
Qual è la causa principale delle crisi economiche: la produzione del plusvalore o la sua realizzazione? Il sistema capitalista ha conosciuto una crescita ciclica vigorosa ma instabile oppure una stagnazione? Dovrebbe essere analizzato in termini di valore della manodopera o di prezzi di mercato? È possibile che la pianificazione centrale possa sostituire completamente il mercato sotto il socialismo? Lo stato capitalista è un nemico di classe o un potenziale agente di riforma sociale?Queste domande faticose ancora perseguitano la sinistra, e l’incapacità di Paul Sweezy di dare risposte convincenti ad alcune di esse certo non sorprende. Non c’è motivo per screditare il lavoro di una vita di un pensatore socialista eccezionale.
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