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25/08/2022

L’ultimo metrò

Di seguito una recensione che, oltre ad altri meriti, ha quello di chiarire la differenza abissale tra il presunto “euroscetticismo” nazionalista (sbandierato per qualche tempo dalla destra fascioleghista) e la critica comunista dell’Unione Europea.

I tratti apparentemente comuni riguardano ad esempio slogan famosi come “uscire dall’euro”, che con molta facilità possono essere smontati sia da studiosi di livello (come Riccardo Bellofiore e Francesco Garibaldo), sia da semplici scopiazzatori delle direttive di Bruxelles.

È semplice in fondo constatare che viviamo in un “sistema di relazioni” e di trattati che hanno modificato radicalmente il modo di vivere e di produrre dentro l’Unione Europea, al punto che qualsiasi uscita unilaterale – o un vero tentativo di andare in questa direzione – si tradurrebbe automaticamente in un disastro annunciato per il Paese che osasse farlo.

Chi pensa di poter recuperare nazionalisticamente una sovranità restando al tempo stesso dentro il quadro di relazioni sistemiche esistenti – sperando insomma che un atto del genere sia senza conseguenze – è semplicemente un cretino. O un truffatore in stile fascioleghista.

Ma questa constatazione se ne porta dietro un’altra: qualsiasi programma di cambiamento sociale, di uscita dal neoliberismo, è di fatto impossibile dentro il quadro e le istituzioni dell’Unione Europea. Dunque, le diverse forze sedicenti “progressiste” che accettano questo quadro di fatto smentiscono di voler cambiare seriamente alcunché nei rapporti sociali, di potere, di proprietà.

Che si possa pensare un’uscita socialista da un sistema produttivo-istituzionale improntato al neoliberismo mercantilista (“ordoliberismo”, nella teoria economica) senza immaginarne e quindi prevederne la rottura è in effetti un controsenso. Che, sul piano concreto, si è già tradotto nella “scomparsa della sinistra”.

Del resto, se vuoi conquistare consensi sociali vendendo fumo e progetti che sai essere irrealizzabili – peggio ancora: che l’intera società ritiene irrealizzabili nelle condizioni date – il tuo destino è segnato. Nessuno, tranne sparute minoranze politicizzate, ti darà il suo voto.

È la storia degli ultimi trenta anni, dalla caduta del Muro al consolidamento di una struttura istituzionale sovranazionale che ha eliminato l’idea stessa di “alternativa” al sistema dominante, consegnando al potere delle imprese multinazionali (sia produttive che finanziarie) molte delle prerogative fondanti gli Stati (rimasti necessariamente solo “nazionali” e dunque svuotati).

Una struttura che, facendo del funzionamento del “mercato” e dell’iniziativa privata il fine assoluto della vita e della Storia, ha velocemente eliminato anche “la politica”, riducendola a “una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla.”

Rompere l’Unione Europea è insomma la formulazione attuale di una necessaria rottura rivoluzionaria, non un “punto di programma” per un governo appena un po’ diverso da quelli precedenti, magari con un briciolo di attenzione in più per i ceti sociali più poveri.

E una rottura rivoluzionaria non avviene per “decisione soggettiva”, ma dentro una crisi di dimensioni tali da mettere in discussione la continuità del sistema vigente. O, come diceva qualcuno, “la rivoluzione non è un pranzo di gala“...

Per il resto, buona lettura.

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«L’ultimo metrò», di Riccardo Bellofiore e Francesco Garibaldo (Mimesis Edizioni 2022), raccoglie una serie di saggi che hanno per tema l’Europa, la crisi economica e la crisi sanitaria.

Uscire dall’euro, scrivono gli autori, non è uscire dallo SME. Chi immagina – a sinistra – che con questa mossa si conquisti la sovranità dovrebbe ricordare che nel ’92 l’uscita dallo SME fu seguita da pesanti politiche contro il lavoro, dalla distruzione del sindacato, da inflazione e austerità. In più, dicono gli autori, un’eventuale Italexit avverrebbe nel mezzo di un mutamento strutturale, di qualcosa cioè che separa due epoche diverse del capitalismo.

Non può essere il tasso di cambio, e dunque la stessa prospettiva di un’uscita dalla moneta unica, la variabile chiave di una politica economica alternativa. Tanto più che, dicono, il collasso della produttività è iniziato proprio negli anni Novanta, in corrispondenza della drastica svalutazione e della conseguente esplosione delle esportazioni.

Si tratta di prendere congedo dal keynesismo tradizionale di metà Novecento, dove le unità di base sono le nazioni che commerciano, incorrono in avanzi e disavanzi di partite correnti, e per questa via accumulano attivi e passivi finanziari. Con la fine degli Stati-nazione, crolla il modello di garanzie ereditato dal fordismo. Basta guardare alle condizioni della disoccupazione giovanile per rendersene conto.

Tutta la vecchia politica economica keynesiana è obsoleta. Dopo il Coronavirus non si tratta di tornare a crescere, ma di ridefinire alla radice il senso e i contenuti dello sviluppo. In ogni caso, dicono, pare poco plausibile vedere nell’euro o negli squilibri commerciali la causa del cambiamento epocale.

Il pantano in cui sguazziamo ha avuto origine prima dell’introduzione dell’euro. Chi pensa che un’uscita dall’euro segni la riconquista di una qualche autonomia che garantisca di per sé l’uscita dall’austerità fa modellistica accademica, e poco si cura della realtà, oppure propone un formulario radicale confinato allo Stato-nazione.

Lo schema di ragionamento macroeconomico per ISOLE e INTER-nazionale, basato su Stati-Nazione e sistemi produttivi nazionali e conseguenti squilibri commerciali è vecchio e inconcludente. Finanza e Produzione, dicono, si estendono su un quadrante TRANS-nazionale.

Ciò che si impone come campo di analisi è la matrice TransNazionale degli Stati Patrimoniali degli attori finanziari e produttivi. I flussi economici sono largamente svincolati dalle politiche nazionali. Nulla si capisce della Terza Epoca se non si tiene conto della dimensione sovranazionale.

Poiché Produzione e Finanza agiscono su un piano TransStatale, anche la Moneta e il Sovrano devono collocarsi nello stesso ambito TransNazionale o TransStatale.

Dietro la moneta, scrivono, deve esserci un sovrano, e il sovrano nell’area dell’euro non lo si è voluto. Per questo la moneta unica è un animale senza Stato, una contraddizione che fa pagare ora il suo prezzo. Le monete in ultima istanza dipendono dalle istituzioni che gli stanno alle spalle.

Colpisce, dicono, che non venga metabolizzato il fatto incontestabile che la struttura industriale europea è una: un organismo produttivo unitario, costituito da un insieme di differenti capacità produttive ma interdipendenti. La formula di una Politica Industriale Nazionale è del tutto irrealistica, accademica, inconcludente – fumo negli occhi. È tassativa una politica industriale europea, sovraordinata a quelle nazionali. Il che è oggi impossibile per l’assenza di una struttura istituzionale di tipo federale.

Allo stesso tempo, e per le stesse ragioni, è impensabile una proposta sindacale che non si consideri innestata in una matrice TRANS-nazionale, che copra aree geografiche come l’Unione Europea e la sua periferia a Est.

Solo da questo ambito TRansStatale (o TRANS-Nazionale), posti all’Altezza della Terza Epoca, si può riprendere la domanda posta a suo tempo da Robinson e ricalarla nel suo giusto contesto, fatto di ambiente, femminismo, differenza, animale, phisis, attualità e potenza, etc.

A cosa serve dunque l’occupazione?

Non serve a una mera crescita quantitativa – da keynesismo Golden Age. Ciò di cui c’è bisogno è un riorientamento di Produzione & Consumo. Una (vera e propria) social production economy (economia della produzione sociale), nella quale (attenzione!) la socialità è già immediatamente iscritta nella produzione e nella circolazione di ciò che costituisce ricchezza.

Un cambio della politica economica dell’eurozona può essere il preludio a un’architettura istituzionale più coerente, che contribuisca a uno sviluppo trainato da larghi investimenti pubblici.

Bisogna saltare dalla Domanda all’Offerta, con una Pianificazione dall’alto che prenda in considerazione 1) una diversa composizione della produzione; 2) un piano del lavoro; 3) la lotta all’improduttività e allo spreco; 4) una soggettività sociale e politica europea.

Se non ci si mette su questa lunghezza d’onda, scrivono, si rimane soggetti PASSIVI di quel Carattere di Feticcio che è il capitale: facile, a quel punto, scivolare nell’accettarne l’oggettività, nel far passare come leggi naturali, come rapporti tra cose, i rapporti sociali, e far trionfare con forza, come legge naturale regolatrice, il tempo di lavoro socialmente necessario: la forma di esigenza oggettiva e presunta naturale di un sistema autoregolantesi, la disciplina reificata in calcolo e algoritmo.

La risposta al Coronavirus, scrivono, non può essere una generica ripresa economica – sia pur sostenibile. Ma deve coincidere con una profonda trasformazione in Europa, il che richiede un Controllo sociale sulla natura dello sviluppo. È essenziale Governo Pubblico, Controllo e Indirizzo (G-PCI).

Una dimensione federale europea e una moneta unica, un’autorità fiscale TRANS-nazionale, la creazione di un sistema produttivo con una matrice settoriale completa, spalmata su tutta la geografia economica europea. Si tratta di inaugurare finalmente una stagione di coordinamento a livello dell’area.

Per me, chiude Bellofiore, è qualcosa che richiede una pianificazione dall’alto, democratica, ma dall’alto. Da un punto di vista marxiano, dice, il punto cruciale qui è che la socializzazione degli investimenti e dell’occupazione (+ i buoni disavanzi attivi) vengano inquadrati come Creazione INTENZIONALE di valori d’uso IMMEDIATAMENTE sociali.

Non siamo lontani da un’antropologia ontologica, da un umanismo marxista anni 20, da Lukács, da Heller, da Aristotele – più che da Hegel. Non siamo distanti dai Grundrisse, anche se Marx scriveva – con piglio strutturale – che non c’è bisogno di tirare fuori dal cilindro la forza sovrana, e dire, come dice Proudhon, che la moneta nasce dalla consacrazione sovrana, o che il piano è una Creazione Intenzionale, una sorta di Speech act, diremmo oggi, anche se ha scritto di api e di architetti e nel ’57 si è lasciato sedurre da una retorica troppo aristotelica.

L’uomo non è questa potenza assolutamente positiva che prescinde dal negativo, che tratta il negativo come nulla o falso e lo scarta e passa ad altro.

Comunque sia, il libro vale, e consiglio la lettura.

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